Girolamo Azzi e l’ecologia agraria

Girolamo Azzi

Il richiamo verso il bello crea con il suo fascino una atmosfera più luminosa nella vita.

Girolamo Azzi, 1954

Premessa

Oggi in Italia la figura di Girolamo Azzi (1885-1969) e la disciplina da lui fondata, l’Ecologia Agraria, sono quasi completamente dimenticate.

In ambito universitario si deve soprattutto a Fabio Caporali, professore di Ecologia Agraria presso l’Università della Tuscia, il merito di avere citato e brevemente discusso (Caporali, 1991; Caporali, F. Campiglia E. Mancinelli, 2010) la disciplina fondata da Azzi, “la sua Ecologia Agraria”, che studia la relazione tra la “pianta” e l’ambiente, nella prospettiva di una evoluzione di questa disciplina nella più ampia Agroecologia, intesa come la scienza che studia le relazioni tra la “realtà agraria” e il suo territorio e l’ambiente.

In generale comunque in Italia a ricordo di Girolamo Azzi rimane pochissimo: una via con il suo nome a Ponticelli, la frazione di Imola dove nacque nel 1885, e un piccolo libro pubblicato oltre vent’anni fa, in sole 500 copie, per iniziativa dell’Associazione Turistica Pro Loco di Imola, intitolato Girolamo Azzi il fondatore dell’Ecologia Agraria.

Ad oggi, in internet, non è rilevabile una voce a lui dedicata né sulla Enciclopedia Treccani né su Wikipedia.

Fino al 2007, esisteva in Italia un Ufficio Centrale di Ecologia Agraria (UCEA), istituto di ricerca agraria e di servizio agli agricoltori che fu diretto, dal 1940 al 1946, proprio da Girolamo Azzi. Questo istituto assunse, in seguito alla riforma operata dal Consiglio per la ricerca in agricoltura (CRA), il nome di Unità di Ricerca per la Climatologia e la Meteorologia applicate all’Agricoltura. Questa unità di ricerca pubblica, la cui denominazione impressiona positivamente per l’attualità del suo oggetto di ricerca, è conosciuta in ambito ministeriale l’acronimo CRA-CMA. Nel 2016, subito dopo Expo, il CRA-CMA (ex UCEA) è stato soppresso a seguito della “razionalizzazione” del settore della ricerca in agricoltura in Italia e la conseguente nascita del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, il CREA.

Nelle accademie di tutto il mondo il termine Ecologia Agraria tende oggi a essere usato come sinonimo di Agroecologia, la “nuova visione” e quindi la “nuova scienza”, che iniziò ad acquisire visibilità negli anni Ottanta nelle università americane e che intende studiare il rapporto tra agricoltura e ambiente utilizzando principi e concetti dell’Ecologia, come quello di ”eco-sistema”, assunto a paradigma epistemologico e declinato quindi nel concetto di “agro-eco-sistema”. Tale scienza mostra confini di studio variabili secondo la definizione di “ambiente” adottata (da ambiente inteso solo come ambiente naturale, ad ambiente inteso come territorio, ad ambiente inteso come contesto storico, culturale, sociale, economico, politico) fino a divenire, per sua stessa intenzione, non soltanto teoria e pratica, ma anche “movimento”.

Praticamente dimenticato in patria, è nel contesto dei primi studiosi americani di Agroecologia, come l’agronomo cileno Miguel Altieri e l’agronomo statunitense Stephen Gliessman, che il nome di Girolamo Azzi è ritornato a circolare come autore di un testo in inglese del 1956 intitolato Ecological Agriculture.

Nei manuali di Altieri e Gliessman (Altieri 1987; Gliessman, 2015), che si possono definire le bibbie dell’Agroecologia, il testo in inglese del 1956 è inserito nell’elenco dei lavori pionieristici per lo sviluppo del pensiero agro-ecologico. Questo elenco inizia con il libro del 1928 dell’agronomo statunitense Karl Klages (1898-1967) e con l’articolo del 1930 dell’agronomo russo Basil Benin, al quale viene attribuita la paternità del termine “Agro-ecology”.

Giorgio Nebbia amava ricordare la figura di Girolamo Azzi. Nel numero 4 di “altronovecento” (novembre 2000), Nebbia ci presenta Azzi facendoci subito riflettere proprio sulle parole “ecologia” ed “ecologico”, usate oggi un po’ ovunque ma delle quali in molti non conoscono origine e significato. Giorgio Nebbia racconta di avere sentito per la prima volta parlare di ecologia proprio incontrando questo anziano professore in pensione, negli anni Cinquanta a Bologna, nell’Istituto di Merceologia diretto da Walter Ciusa, di cui Giorgio Nebbia era il giovane assistente. L’istituto di Ciusa era in quegli anni diventato un luogo di ritrovo di personaggi eterodossi.

Questo scritto è il frutto dell’impulso (l’ennesimo!) di Giorgio Nebbia che qualche anno fa, nella sua casa romana, mi ha donato una delle 500 copie di quel piccolo libro su Azzi suggerendomi, davanti ad un piatto di pasta al ragù, di studiare e di scrivere di Azzi perché “merita di essere conosciuto”. Per Nebbia, Girolamo Azzi è “un pioniere dell’ecologia” a livello mondiale, la persona grazie alla quale lui stesso ha per la prima volta sentito parlare di ecologia, ma in Italia è praticamente sconosciuto.

Lo scopo di questo lavoro è per prima cosa quello di ricostruire la biografia di Girolamo Azzi e di presentare lo sviluppo del suo straordinario lavoro scientifico che lo portò molto precocemente, all’inizio degli anni Venti (!), alla fondazione di una nuova disciplina scientifica, l’Ecologia Agraria, un ramo di scienza che si occupa dello “studio dell’ambiente fisico -clima e suolo- in rapporto allo sviluppo delle piante agrarie e al loro rendimento” (Azzi, 1948, 7).

Credo che alla luce di quanto segue, Girolamo Azzi debba essere ricordato, in generale, come un pioniere dell’ecologia -“quella vera”, come scrive Nebbia- e specificatamente come “il pioniere dell’agro-ecologia del Novecento”, essendo stato lo scienziato imolese per decenni il punto di riferimento internazionale sugli studi ecologici in agricoltura, ed essendo stato il suo contributo, l’“Ecologia Agraria”, antecedente a tutti i successivi contributi al pensiero agro-ecologico del secolo scorso.

Il professore Fabio Caporali rintraccia nella figura dell’agronomo toscano Pietro Cuppari (1816-1870) un precursore dell’Agroecologia, delineando l’idea di una tradizione italiana nella “visione ecologica” delle realtà agrarie che trova il suo precursore in Cuppari con la sua “concezione organica” -di parti attive interconnesse- dell’azienda agraria e che prosegue successivamente in primis con la figura dell’agronomo modenese Alfonso Draghetti, il padre della “concezione biologica” dell’azienda agraria, di cui ho scritto nel numero 28 di “altronovecento”.

Anche l’Ecologia Agraria di Azzi si inserisce, con la sua particolare visione e metodologia, in questa tradizione agro-ecologica italiana, che sorprende tanto per la straordinarietà delle sue figure quanto per il loro successivo oblio le cui ragioni devono in qualche modo essere indagate.

Purtroppo in Italia, questa perdita di memoria storica, unita ad una visione neoliberista della ricerca pubblica in agricoltura (dove il pubblico arretra anche su questioni veramente importanti) ha determinato e sta determinandolo lo smembramento di un patrimonio scientifico, storico e culturale di valore straordinario, non solo per l’Italia. Al di là degli annunci ufficiali sulla “sostenibilità”, come quelli durante Expo, dietro le strategie di “razionalizzazione” della ricerca pubblica in agricoltura si nascondono non solo gli affari immobiliari che le cronache giudiziarie hanno messo in evidenza (affari che fisicamente devastano il nostro patrimonio storico e scientifico) ma anche decisi orientamenti politici verso una ricerca centralizzata in laboratorio, sempre più scollegata ai diversi ambienti, culture e territori, avente come obiettivo dichiarato gestire la ricerca pubblica in agricoltura come uno spin-off tecnologico, sul modello delle aziende biotecnologiche. Si finanziamo progetti come quello delle “biotecnologie sostenibili”, le cui creature sono state equiparate a OGM dalla Corte di Giustizia Europea, e si smembrano e si svendono le nostre radici veramente agro-ecologiche.

La vita e l’opera di Girolamo Azzi

Girolamo Azzi nacque a Ponticelli d’Imola nel 1885. Fin dall’età di sei anni manifestò una naturale predisposizione per le carte murali di geografia e già alle scuole elementari iniziò a formarsi in lui una “definita mentalità geografica”:

“In occasione di una visita alla scuola, dell’onorevole Andrea Costa, deputato socialista d’Imola e del Direttore didattico, Prof. Luigi Forchielli, fui sottoposto ad una serie di domande, cui risposi con sicura prontezza, completando con i miei personali rilievi, che sorpresero i visitatori i quali si congedarono ripetendo: ma questo ragazzino di geografia ne sa molto più di noi!”

Azzi, 1967, VI

Durante il Ginnasio a Imola, gli insegnanti assecondarono la naturale passione del giovane per gli studi scientifici e geografici. Al Liceo a Faenza, Azzi inoltre approfondì gli studi classici grazie ai quali si appassionò al Rinascimento, passione per la cultura dell’Italia rinascimentale che caratterizzò tutta la sua vita.

Dopo il liceo classico, Azzi si iscrisse a Scienze Naturali nell’Università di Bologna, dove si specializzò in Geografia Fisica svolgendo studi e ricerche originali che, dopo pochi anni dal conseguimento della laurea, gli permisero di conseguire la libera docenza in Geografia Fisica all’Università di Pavia.

Grazie alla conoscenza di ben sette lingue straniere, intorno al 1910, il giovanissimo Azzi venne assunto all’Istituto Internazionale di Agricoltura, l’istituto fondato a Roma a inizio Novecento con il compito di promuovere la cooperazione internazionale in agricoltura, compito che nel secondo dopoguerra fu continuato dalla FAO che anche per questo motivo ha mantenuto la sua sede nella capitale italiana.

All’Istituto Internazionale di Agricoltura, il giovane Azzi divenne redattore del bollettino mensile dell’istituto, una sorta di resoconto periodico di tutti i lavori scientifici di agricoltura pubblicati nel mondo. Pur provenendo da una formazione naturalistica, Azzi si trovò così immerso nel dibattito internazionale sulle scienze agrarie e divenne amico di illustri scienziati del tempo quali i russi P.I. Brounov (1852-1927), il fondatore della meteorologia agraria, e il grande genetista Nikolaj Ivanovic Vavilov (1887-1943), celebre per i suoi fondamentali studi sui centri di ordine delle piante agrarie.

A Roma il giovane Azzi, a seguito dell’incontro con Brounov, iniziò a frequentare il Regio Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica istituito da Vittorio Emanuele II nel 1876 presso l’antico palazzo del Collegio Romano, dove erano attivi già dal 1786 un osservatorio astronomico ed una stazione meteorologica, una tra le più antiche al mondo come serie storica di rilevamenti.

All’Ufficio Centrale di Meteorologia, all’epoca, facevano capo 250 stazioni meteorico-agrarie convenientemente distribuite su tutto il territorio nazionale, stazioni che dal 1880, ogni dieci giorni, inviavano tramite telegrafo una nota informativa sui dati metereologici (pressione, pioggia, temperatura) e sullo stato delle colture (semina, germogliazione, spigatura, maturazione, ecc…) specificando poi, al momento del raccolto, la quantità e la qualità del prodotto insieme alle cause che avevano inciso in senso negativo o positivo.

Sulla base di queste note informative l’Ufficio Centrale di Meteorologia, parte della Direzione Generale del Ministero dell‘Agricoltura, pubblicava quindi ogni dieci giorni la “Rivista Meteorico-Agraria” che dava notizie dettagliate sulla situazione metereologica e colturale in tutto il paese. Oltre a queste informazioni la Rivista ospitava dei lavori di interesse scientifico.

Proprio per la Rivista Meteorico Agraria, Girolamo Azzi nel 1912, a soli 27 anni, su incarico del Ministero, scrisse il suo primo lavoro di interesse agrario intitolato “Per l’organizzazione di un servizio di meteorologia agraria”. In questo saggio Azzi presentò i metodi del Servizio di Meteorologia Agraria dell’Impero Russo fondato e diretto dall’amico Brounov, sottolineando la necessità di condurre contemporaneamente ai rilevamenti metereologici i rilevamenti fenologici, ovvero le osservazioni riguardanti la fase dello sviluppo delle diverse piante agrarie, come per esempio la fioritura del pesco o la spigatura del grano.

Fu questo l’inizio di un lavoro scientifico straordinario che, dopo solo un decennio, portò alla fondazione dell’Ecologia Agraria, i cui elementi di base (principio, scopo e metodo) vennero definiti dal giovane Azzi nel primissimo periodo della sua carriera scientifica, quello tra il 1912 e il 1916.

Il punto di partenza dell’indagine di Azzi è “il problema meteorico-agrario”, costruito in sostanza dai danni alle colture causati da fenomeni metereologici avversi:“Le oscillazioni nel rendimento dovute alla alterne vicissitudini atmosferiche sono sempre e di gran lunga più sensibili di quelle dovute all’uso di concimi, alle lavorazioni ecc.. talché le ricerche i lavori che hanno lo scopo di attenuare i danni prodotti dall’andamento sfavorevole dei fattori metereologici meritano senz’altro la più attenta e seria considerazione”. (Azzi, 1916,42)

Il problema meteorico-agrario è chiaramente un problema antico. Annus fructificat, non tellus, (è l’annata che fa il raccolto, non la terra) sentenziava nel 286 a.C. il filosofo e botanico greco Teofrasto. In ogni cultura contadina sono presenti detti e proverbi riguardanti il rapporto tra lo sviluppo delle piante e il tempo. Ben poco si era fatto però, anche in epoche più recenti, per cercare di affrontare razionalmente questo problema. Certo, i fisici nel corso dei secoli avevano sviluppato strumenti sempre più sofisticati per lo studio e la previsione del tempo (il pluviometro, il termometro, il barometro) e i botanici, in tempi più recenti, avevano fatto salti da gigante nella conoscenza della morfologia, fisiologia e genetica delle piante. Mentre i fisici però continuavano a non considerare i fattori biologici, i biologi continuavano a non considerare i fattori meteorologici:

“Si lavora tra le due parti a traforare il monte, senza tuttavia pensare che i due tronchi di galleria debbono essere diretti in modo da incontrarsi e fondersi”

Azzi,1920, 59

Come risultato di questa divergenza nella ricerca in meteorologia agraria si era creata una matassa apparentemente inestricabile di dati su fattori fisici e su fattori biologici, di cui non si conoscevano i rapporti:

“Eccessi e deficienze di temperatura, eccessi e deficienze di pioggia, situazioni termiche e pluviometriche favorevoli; la durata relativa del giorno e della notte, l’umidità dell’aria nell’atmosfera e nel suolo, la radiazione solare, le condizioni del rilievo, le tantissime malattie e i moltissimi insetti; la composizione, il bilancio idrico e lo stato di aggregazione del suolo, variabili entro limiti estesissimi; i diversi tipi di rotazione e di lavorazione e le più svariate formule di concimazione sono altrettanti variabili che influiscono sulla entità del rendimento. […] Di tali variabili alcune agiscono positivamente, altre invece negativamente e nelle combinazioni e proporzioni le più capricciose conferendo al quadro dei rapporti bio-ambientali l’apparenza di un groviglio, di una matassa praticamente inestricabile”

Azzi, 1944, 7

Il giovane Azzi, nei bei locali dell’Ufficio Centrale di Meteorologia presso il Collegio Romano, entrò fisicamente in contatto con questo groviglio di dati, costituito dal mezzo milione di note informative che si erano lì accumulate dal 1880 in poi. Girolamo Azzi si prefisse quindi il difficile obiettivo di dipanare questa matassa per risolvere “il problema meteorico-agrario”, ovvero indagare quei confusi rapporti bio-ambientali che determinano la quantità e la qualità dei vari prodotti agricoli, con il fine sostanziale di limitare i danni delle avversità ambientali.

Il concetto che il giovane scienziato italiano pone alla base di questa complicata indagine, che poi diverrà il principio dell’Ecologia Agraria, è quello di “rendimento” delle piante agrarie inteso non come un valore assoluto, ma come il risultato della “relazione” tra la pianta e il suo ambiente (suolo e clima) .

Mentre la maggior parte degli agronomi ragionava ( e ragiona) in termini di produttività, di resa, come valore teorico intrinseco alla pianta, Azzi inizia a distinguere la produttività dalla resistenza: la produttività è la capacità della pianta di sfruttare le condizioni ambientali più favorevoli (suolo e clima ottimali); la resistenza è l’attitudine della pianta allo svilupparsi anche nelle condizioni più sfavorevoli (terreni scadenti, siccità, temperature estreme, ecc..). La somma delle resistenze è la rusticità e tra produttività intrinseca e rusticità esiste, il più delle volte, una decisa incompatibilità, nel senso che le piante più produttive sono anche quelle normalmente più suscettibili alle avversità ambientali.

Come ho detto, il rendimento è per Azzi il risultato della relazione tra lo sviluppo della pianta e le condizioni dell’ambiente (suolo e clima), e l’Ecologia Agraria deve cercare di eliminare gli attriti tra la pianta e l’ambiente, ai fini proprio dell’aumento del rendimento (in granella, fieno, tuberi, radici, ecc…):

“La macchina che produce il grano è costituita da due metà: una metà è la pianta, l’altra metà è l’ambiente e le due unità debbono ingranare completamente, collimare, come la vite alla madre, l’otturatore alla culatta del pezzo, etc..”

Azzi, 1920, 61

Per Azzi è chiaramente la pianta che deve essere adattata all’ambiente, e dato che i fattori climatici e pedologici variano nel tempo e nello spazio geografico, anche le piante dovranno variare di conseguenza. Sta qui in sostanza, nella corretta scelta delle colture e delle sementi, nel miglioramento genetico delle varietà in relazione al loro effettivo rendimento, sia quantitativo che qualitativo, nell’adeguata organizzazione temporale dei lavori colturali, la soluzione al problema meteorico-agrario. L’Ecologia Agraria di Azzi mostra fin dal principio evidenti relazioni con la Genetica e l’Economia Agraria.

E’ importante ribadire che il concetto del rendimento come il risultato della relazione tra produttività e resistenza è molto lontano da quello allora e tuttora dominante nelle scienze agrarie, nelle quali si tende a confondere l’aumento della produttività con l’aumento del rendimento e a finalizzare i lavori di selezione e costituzione varietale verso l’aumento della produttività, senza considerare le resistenze alle diverse (e oggi mutevoli) condizioni ambientali.

Visione originale e controcorrente, questa del giovane Azzi, che fu certamente favorita dalla sua provenienza non da studi di agricoltura ma di scienze naturali e di geografia fisica, nel contesto di una scienza agraria ormai orientata verso la creazione di supercrops, piante ad alta produttività adatte ad essere coltivate in ogni luogo e quindi in ogni condizione climatica e pedologica, seppur avversa, in quanto tale condizione può essere resa ideale grazie all’utilizzo di mezzi tecnici quali i macchinari a motore termico, i sistemi di irrigazione, i concimi di sintesi.

Erano questi gli anni in cui, a seguito della riscoperta di Mendel e della nascita della genetica, dello sviluppo della meccanizzazione e dei sistemi di irrigazione, dell’invenzione di processi chimici industriali per sintetizzare i fertilizzanti a base di azoto, iniziò a prendere forma la teoria e la pratica dell’ agricoltura industriale, che si prefisse fin da subito l’obiettivo del superamento dei limiti delle varietà tradizionali e dell’ambiente naturale, attraverso la costituzione di nuove creature vegetali capaci di produrre sempre di più , in condizioni ottimali, in ogni luogo. Nelle campagne arrivarono così, insieme ai nuovi mezzi tecnici, gli ibridi di mais statunitensi e le nazionali “varietà élite” di grano, e questi “nuovi tipi”, come una valanga, presero rapidamente il posto degli “ecotipi”, le multiformi varietà locali che si erano adattate nel corso di secoli di pratica agricola ai vari territori.

Azzi fu presto consapevole dei limiti di queste nuove creature e ne criticò l’irrazionale diffusione:

“Ma chi ben studi le condizioni e i modi di diffusione dei “nuovi tipi” non può non sfuggire il fatto che mentre essi in realtà in taluni luoghi rendono assai più delle razze locali, in altre restano inferiori (per effetto delle avversità ambientali), per cui sommando i più ed i meno si tende a ritornare allo stesso livello […] La irrazionale diffusione dei tipi per deficiente conoscenza delle condizioni ambientali, porta, annualmente, a perdite fortissime”

Azzi,1920, 60

Il principio del rendimento come risultato dell’interazione tra piante e fattori climatici e pedologici, insieme allo scopo dell’adattamento delle piante all’ambiente, andarono precocemente a costituire i fondamenti della visione scientifica di Azzi e della sua Ecologia Agraria. Lo sforzo analitico del giovane scienziato si concentrò quindi sulla massa di dati giacente presso l’Ufficio Centrale di Meteorologia e Geodinamica:

“Sono oltre mezzo milione di note informative , un complesso documentativo veramente imponente dal quale si sono poi estratti, quei, dico pochi in relazione alla massa totale, dati sicuri, che hanno egregiamente servito nella valutazione dei rapporti bio-atmosferici.”

Azzi, 1940, 10

Per dipanare questo groviglio di dati, Azzi, partendo dalla sua originale visione e da concetti isolati esposti da autori precedenti come Brounov, si mosse nello spazio poco esplorato esistente tra la biologia e la fisica, indagando, da un lato, le esigenze ambientali delle piante agrarie, dall’altro, i dati metereologici più rilevanti per lo sviluppo delle piante, cercando di fare poi incontrare le due indagini. Utilizzando con grandissima abilità il “rasoio di Occam”, il principio scientifico di Guglielmo di Occam che postula l’inutilità di ipotesi complesse e la necessità della semplificazione nell’indagine scientifica, Girolamo Azzi elaborò un “metodo” che vale la pena, data la sua coerenza teorica e la sua rilevanza pratica, di essere qui di seguito schematicamente presentato. Tale metodo, che rappresenta il risultato più importante dell’Ecologia Agraria per lo sviluppo delle scienze agrarie, è nella sostanza un metodo di valutazione delle sementi.

Come punto di partenza, Girolamo Azzi indagò le esigenze idriche delle varie piante di interesse agrario. Insieme all’Ufficio Centrale di Meteorologia frequentò l’Istituto di Botanica dell’Università di Roma dove condusse, sotto la guida del Prof. Romualdo Pirotta, insigne biologo e naturalista italiano, degli esperimenti sullo sviluppo e sul rendimento delle piante in condizioni idriche differenti (normale umidità, eccesso umidità, siccità).

Queste prime ricerche mostrarono che, ai fini del rendimento finale, le esigenze della pianta sono molto diverse da una fase all’altra del suo ciclo di sviluppo. Ogni pianta nel corso della propria vita vegetativa subisce delle variazioni continue ma tali variazioni non sono graduali. In intervalli brevi (fasi) la pianta viene interessata da profonde modificazioni per poi mantenersi fisiologicamente e morfologicamente inalterata per un certo periodo fino ad una nuova fase. Sulla base della divisione del ciclo vegetativo in fasi (per il grano ad esempio, germogliazione, spigatura, fioritura, maturazione) Azzi eseguì delle prove sperimentali volte a ricreare, in ogni fase di sviluppo, le diverse condizioni idriche possibili dell’ambiente (normale umidità, eccesso umidità, siccità), determinando infine il rendimento delle piante. Tali prove sperimentali portano all’individuazione di “periodi critici”, ovvero di periodi dello sviluppo della pianta nei quali eccessi o deficienze idriche incidono maggiormente sul loro rendimento.

Per il mais, ad esempio, il periodo critico per la siccità, quello in cui il rendimento della pianta è più sensibile alle deficienze idriche, è il periodo che antecede di circa un mese la fase dell’allegamento, quando dopo la fioritura inizia a formarsi il cariosside, la granella di mais. In questo periodo, che coincide con un periodo di rapido sviluppo della massa vegetale del granoturco, se la pianta subisce una deficienza idrica a causa di condizioni di siccità, il raccolto sarà certamente scarso, anche se negli altri periodi si sono avute condizioni normali.

Una volta stabilita la divisione del ciclo vegetativo in fasi e il concetto di “periodo critico” per diverse piante agrarie, il giovane Azzi riuscì a mettere mano all’enorme massa di dati dell’Ufficio Centrale di Meteorologia cercando di estrarre i più utili all’indagine dei rapporti tra rendimento della pianta e clima.

Il primo strumento teorico e partico che venne elaborato da Azzi per l’analisi dei dati dell’Ufficio Centrale di Meteorologia fu l’”isofana”, ovvero la curva che riunisce su una carta geografica i luoghi in cui una certa fase si manifesta nello stesso periodo di due settimane. Chiaramente l’isofana più rilevante ai fini del rendimento di una certa pianta è quella relativa alla fase che definisce il suo periodo critico, nel caso del mais l’allegamento.

Come mostra la figura qui in basso, Girolamo Azzi per l’Italia individuò quattro isofane del mais, che indicano i luoghi in Italia dove le piante iniziano a formare il cariosside intorno alla stessa data (15 giugno, 30 giugno, 15 luglio, 30 luglio). Queste isofane si susseguono seguendo l’asse meridiano sud-nord del paese e i rilievi appenninici e alpini.

Una volta stabilita per ogni luogo (stazione meteorico-agraria) la data di inizio della fase vegetativa di interesse, Azzi andò quindi ad analizzare i dati storici delle piogge cadute durante il periodo critico nelle diverse stazioni, potendo così calcolare per ogni luogo la probabilità della siccità nel periodo critico, che per il mais come ho ricordato è il mese prima dell’allegamento. Azzi chiamò “cartogramma del tempo” la rappresentazione su una carta geografica delle diverse frequenze, e quindi la probabilità, del fenomeno avverso nel periodo critico.

“Una rappresentazione di questo genere, dato che la siccità rappresenta il fenomeno negativo assolutamente dominante nei confronti della maiscoltura in Italia, può servire come guida per stabilire l’area da assegnare in rotazione al granoturco nelle varie zone, area che dovrà essere tanto più ridotta quanto più frequente il fenomeno avverso. Della frequenza della siccità dovrà egualmente tenersi conto […] nella scelta o creazione della varietà più adatta essendo chiaro che con l’aumentare della frequenza della siccità si dovranno adottare i tipi dotati di un grado sempre più elevato di resistenza…”

Azzi, 1948, 70

L’indagine di Azzi si completa con la determinazione sperimentale del rendimento quantitativo delle diverse varietà in condizione ambientali ottimali e avverse.

Se 100 è il rendimento di una varietà di mais ad alta produttività in condizioni favorevoli e 20 è il rendimento in condizioni di siccità, in Pianura Padana, dove la probabilità della siccità è del 25%, in un periodo di 10 anni, avremo 7,5 volte condizioni di pioggia favorevoli e 2.5 volte siccità, il rendimento sarà quindi:(7.5×100)+ (2.5×20)=750+50=800

Ma se la frequenza della siccità aumenta al 60%, come in alcune zone del centro Italia avremo un rendimento più basso per la varietà ad alta produttività:(4×100)+ (6×20)=400+120=520

Potrà quindi darsi il caso che esista una varietà meno produttiva ma più resistente (poniamo con un rendimento di 80 in condizioni favorevoli e 40 in condizioni avverse) con un rendimento maggiore nel decennio:(4×80)+(6×40)=320+240=560

In alcune aree del paese, come il Sud e le Isole, è meglio non coltivare il mais.

Periodo critico, isofane, cartogrammi del tempo e determinazione dei rendimenti nelle varie condizioni ambientali divennero così “le basi di un nuovo metodo per la definizione e la pratica soluzione dei problemi di meteorologia agraria” (Azzi, 1920, 52).

Nel 1916, il trentunenne Girolamo Azzi espose il metodo da lui elaborato in un articolo intitolato “Il problema meteorico-agrario” che venne pubblicato sul Bollettino del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. L’articolo fu pubblicato due anni dopo, nel 1918, nel bollettino dell’Istituto Internazionale di Agricoltura in lingua inglese, francese e spagnola.

I lavori di Azzi, per la loro coerenza teorica e per la loro rilevanza pratica, iniziarono così ad attirare l’attenzione degli studiosi dell’epoca, tra i quali Luigi Luzzatti (giurista, economista, accademico, politico, Presidente del consiglio tra il 1910 e il 1911) che volle dedicare ai lavori di Girolamo Azzi, nel marzo del 1920, una conferenza in seduta speciale a sessioni riunite presso l’Accademia Nazionale dei Lincei sotto il titolo: “Per il pane quotidiano: nuovi studi e nuovi lumi sulla Geografia e Meteorologia Agraria”.

A seguito dell’intervento di Luigi Luzzatti, l’Accademia dei Lincei nominò una commissione volta ad esaminare e valutare il lavoro di Azzi. Fecero parte di questa commissione lo stesso Luzzati, il geografo e geologo Luigi De Marchi e il botanico e naturalista Romualdo Pirotta, con cui Azzi aveva collaborato presso l’Istituto di Botanica dell’Università di Roma.

Il 4 giugno del 1920 questa commissione presentò all’Accademia dei Lincei una relazione dove si dichiarò “Questo ramo di scienza che può aspirare ad assorgere a disciplina autonoma nel campo delle scienze biologiche ha carattere e scopi puramente scientifici quando considera la pianta quale organismo che si svolge nell’ambiente ma può assumere carattere eminentemente pratico quando (seguendo le direttive dell’Azzi) considera la pianta coltivata dall’uomo per i suoi bisogni e diventa allora Ecologia Agraria”. (Azzi, 1967, VIII)

Fu questa la prima volta che venne utilizzato il termine Ecologia Agraria. Azzi fino ad allora aveva parlato di Meteorologia Agraria e di Climatologia Agraria. Il nuovo termine venne coniato dal prof. Romualdo Pirotta, per qualificare la nuova disciplina di Girolamo Azzi. L’insigne botanico e naturalista andò in pensione nel 1928 e passò gli ultimi anni della sua attività a promuovere l’Ecologia Agraria.

Facendo seguito alla valutazione della commissione dell’Accademia dei Lincei, nel 1921 il Ministero dell’Agricoltura diede vita ad un servizio di Meteorologia Agraria su basi ecologiche e, nel 1924, istituì presso l’Università di Perugia la cattedra di Ecologia Agraria, la prima nel mondo, che venne affidata proprio ad Azzi.

Grazie a Girolamo Azzi, l’Ecologia, la scienza che studia le relazioni tra organismi viventi tra di loro e l’ambiente inorganico circostante, definita per la prima volta con la parola Ökologie nel 1866 dal biologo tedesco Ernst Haeckel, fece il suo ingresso nelle università di Agraria, costituendo una nuova disciplina autonoma, l’Ecologia Agraria. È interessante notare che il principio di base dell’Ecologia Agraria, il rendimento, inteso non come valore assoluto e isolato intrinseco alla pianta, ma come il risultato della “relazione” tra la pianta e ambiente, è molto coerente con la visione di Haeckel dell’Ecologia come “economia della natura”.

Alla Prima Conferenza Internazionale sul Grano, tenutasi a Roma nella primavera del 1927 presso l’Istituito Internazionale di Agricoltura, il lavoro di Azzi intitolato Le climat du blé dans le monde fu messo come primo punto dell’ordine del giorno. In questo volume di 1200 pagine con numerosissime cartografie, Azzi delineò le basi ecologiche della coltivazione del frumento nel mondo: i climi e le diverse varietà. Dopo la presentazione di questo lavoro, tutti i partecipanti alla conferenza espressero pareri decisamente favorevoli e, su proposta di Vavilov, venne adottata all’unanimità la seguente risoluzione: “La conferenza considera il rapporto del Prof. G. Azzi, le climat du blé dans le monde, pubblicato dall’istituto Internazionale di Agricoltura, come la base degli studi sul grano dal punto di vista internazionale. Una tale opera è importantissima per la mutua comprensione e per il progresso internazionale.” (Azzi, 1967, XI)

Sulla base dei rapporti di questa conferenza, nel novembre del 1927, il Consiglio Internazionale Scientifico Agrario dell’Istituto Internazionale di Agricoltura propose la formazione di un museo internazionale per il grano e l’ordinamento di una rete internazionale di stazioni di Ecologia Agraria e di Genetica Applicata, il cui coordinamento fu affidato ad Azzi.

Nel breve intervallo di tre anni (1924-1928) l’Ecologia Agraria si affermò così a livello nazionale ed internazionale, sia a livello accademico che istituzionale. Girolamo Azzi venne ricevuto, su proposta di Guglielmo Marconi, in udienza privata da Vittorio Emanuele III.

Nel 1928 Azzi, in qualità di coordinatore della rete di stazioni di Ecologia Agraria e di Genetica dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, organizzò, in collaborazione con i suoi colleghi europei e americani, delle importanti “prove geografiche” volta a verificare i rendimenti di diverse “varietà indici” di grano (scelte opportunamente per rappresentare le varie combinazioni di produttività e resistenza) sotto le più svariate condizioni ambientali e agrotecniche, “un gigantesco laboratorio ove in un solo anno si riscontrano tutte le condizioni sotto le quali una specie stessa è coltivata, dal limite per eccesso al limite per deficienza di pioggia e di temperatura, ecc…” (Azzi, 1944, 135)

Individuate una serie di stazioni sperimentali sull’asse meridiano Nord-Sud, da Lulea in Svezia fino a Brace in Libia, passando per Oslo e Cerignola, Azzi organizzò delle prove per valutare il rendimento di ogni varietà di grano in tutta l’area di diffusione geografica della specie, in condizioni favorevoli e in condizioni “estreme” di temperatura e umidità, ovvero in località decisamente caratterizzate da un clima caldo secco (Cerignola) o da un clima freddo umido (Oslo).

“Operando così, possiamo in un solo anno ottenere ciò che non sarebbe stato possibile neppure in un secolo, insistendo con le prove in un unico punto del suindicato asse longitudinale” “Coltivando le varietà […] tutte insieme e nelle condizioni di ambiente le più svariate, da quelle cioè molto favorevoli sino a quelle limitari, ci metteremo in grado di formulare un giudizio ben più esatto e sicuro”

Azzi, 1944, 136-137

I risultati di queste prove dimostrarono che in condizioni favorevoli tutte le varietà raggiungono il massimo rendimento. Tuttavia, mentre in condizioni favorevoli a maggiore produttività corrisponde maggiore rendimento, in condizioni sfavorevoli a maggiore resistenza corrisponde maggiore rendimento. Non è vero che le piante a più elevata produttività intrinseca rendono di più in ogni condizione ambientale.

Nel 1928 venne pubblicato da UTET il primo trattato di Ecologia Agraria, tradotto rapidamente in russo, bulgaro, serbocroato, spagnolo, portoghese e francese.

A partire dal 1929 la Scuola di Ecologia Agraria, con sede presso l’Istituto di Azzi a Perugia, si affermò a livello internazionale. Azzi venne invitato a tenere corsi e conferenze in Argentina, Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Croazia, Serbia, Albania, Bulgaria, Grecia, Polonia, Portogallo, Spagna, Tunisia, Algeria, Marocco, Indocina Francese, Uruguay, Stati Uniti. Sulla base delle indicazioni di Azzi nacquero stazioni sperimentali, nuovi servizi e cattedre nei diversi paesi. Per diversi anni i governi di diverse nazioni mandarono in missione studiosi a Perugia per i corsi di specializzazione in Ecologia Agraria.

Contemporaneamente a questa intensissima attività di pubbliche relazioni internazionali, Girolamo Azzi e la sua Scuola continuarono a pubblicare numerosi lavori di ricerca, apportando all’edificio teorico e pratico dell’Ecologia Agraria nuovi concetti e strumenti analitici come gli ”equivalente meteorologici”, “il rapporto tra velocità e massa”, “le unità agro-geologiche e le serie dei suoli”, “le caratteristiche ecologiche delle piante”, l’”analisi differenziale dei rendimenti”.

Fra il 1934 e il 1935 Girolamo Azzi si recò per alcuni mesi in Russia, su invito dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica, presieduta dall’amico Vavilov. Al ritorno In Italia Azzi ebbe un incontro con Benito Mussolini dove lo scienziato sostenne l’opportunità per l’Italia di stipulare un trattato di amicizia con l’Unione Sovietica. Come racconta l’allievo Boltadori, la reazione di Mussolini fu molto dura: “per fortuna lei non occupa questo posto! Se ne vada! Se ne vada professore!” (Baltadori e Pinnola, 1994, 13). Il segretario del Partito Fascista, a seguito di quell’incontro, ordinò ai suoi sottoposti in Umbria di “dare una lezione ad Azzi”, il quale però, avvisato, lasciò Perugia per un po’ di tempo. Dopo il rientro dall’Unione Sovietica pare che Azzi abbia avuto una lite anche con il Ministro dell’Agricoltura.

Forse a seguito di questi contrasti, nel 1935, quando gli Istituti Superiori di Agraria furono trasformati in Facoltà di Agraria, il corso di Ecologia Agraria fu soppresso e sostituito con il corso di Ecologia. L’Ecologia Agraria da materia obbligatoria fu degradata a materia complementare.

Nonostante le circostanze negative, Azzi continuò il suo lavoro in Italia e all’estero. Dal 1937 al 1947, a Perugia, affiancò all’incarico di professore ordinario di Ecologia Agraria, l’insegnamento della Genetica, uno dei primi corsi di genetica vegetale in Italia.

Nel 1944 venne pubblicato un nuovo trattato di Ecologia Agraria dove nell’introduzione Azzi scrive:

“La Ecologia Agraria […] ha raggiunto il suo compimento; senza escludere la possibilità di ulteriori necessari perfezionamenti, essa si presenta con ben definiti contorni che la separano nitidamente dalle altre discipline. Scienza speculativa nei concetti ed eminentemente pratica nelle applicazioni, l’Ecologia Agraria vuole offrire una visione organica dei rapporti bio-ambientali e porre su basi di razionalità scientifica la valutazione obiettiva del rendimento analizzandone e coordinandone tutte le componenti in modo perfetto. Mentre pertanto da una parte l’Ecologia Agraria attinge, per concezione e per metodo, alla scienza pura ed al ragionamento filosofico, dall’altra essa viene a contatto fecondo con la pratica degli agricoltori, consacrando nell’atto applicativo quella collaborazione tra pensiero e azione che tanto giova alla diffusione delle idee e delle loro realizzazioni”

Azzi, 1944, 4-5

Nel 1940 Azzi fu chiamato alla guida dell’Ufficio Centrale di Meteorologia e di Climatologia che, sotto la sua direzione, assunse il nome di Ufficio Centrale di Meteorologia e di Ecologia Agraria.

Purtroppo, nel 1923 l’Ufficio Centrale aveva subito una profonda riorganizzazione a seguito della nascita dell’Aereonautica Militare e del Servizio Meteorologico. Dall’interno dell’Ufficio Centrale di Meteorologia venne tolto l’”Ufficio Presagi” che fu assegnato all’Aeronautica Militare. Per quanto concerne le previsioni meteorologiche, gli interessi del traffico marittimo e aereo finirono con il prevalere su quelli dell’agricoltura e diverse stazioni meteorico-agrarie furono soppresse, interrompendo così quel prezioso lavoro di rilevazione meteorologica e fenologica sul quale Azzi aveva iniziato la sua indagine.

Quando Azzi prese in mano la direzione dello storico Ufficio questo era passato da un organico composto da una quarantina di persone ad un organico composto da circa dieci persone. Azzi indirizzò il lavoro di ricerca sulla Ecologia Agraria ma all’interno di una struttura pesantemente ridimensionata e privata della rete di stazioni meteorico-agrarie diffusa sul territorio italiano.

Girolamo Azzi diresse Ufficio Centrale di Meteorologia e di Ecologia Agraria fino al 1946. Dopo la guerra, continuò a coprire la cattedra a Perugia e a continuare la sua attività di divulgazione dell’Ecologia Agraria all’estero (in Venezuela, Brasile, Stati Uniti, Jugoslavia, Francia).

In questo periodo il Consiglio della Facoltà di Agraria di Perugia chiese ufficialmente al Ministero della Pubblica Istruzione di ripristinare l’Ecologia Agraria come materia obbligatoria ma la richiesta venne respinta.

All’inizio degli anni ’50 Azzi venne incaricato anche dell’insegnamento di Geografia a Perugia e la sua attività di ricerca si concentrò sullo sviluppo della geografia teorica, un nuovo ordine di studi rivolto alla formulazione di “leggi”, veri e propri assiomi semplici e comprensibili risultato di quel processo di “sintesi” che muove dal rilievo del dettaglio alla conoscenza del tutto. Questo ordine di studi si inserì in quella tensione più generale verso la coscienza del tutto, che caratterizzò quegli ambienti scientifici e filosofici insoddisfatti dal processo di specializzazione e di frammentazione della conoscenza in atto a livello scientifico e culturale. Di questi ambienti di Girolamo Azzi fu uno degli esponenti italiani più importanti, al pari del matematico Luigi Fantappié (1901-1956) che nel 1942 aveva elaborato una “teoria unitaria del mondo fisico e biologico” che introdusse i fenomeni “sintropici”, di organizzazione, in contrapposizione a quelli entropici, di disordine. Proprio nel 1942 Azzi aveva fondato a Roma il Centro di sintesi scientifica con l’obiettivo di costruire “dei collegamenti pur fra settori molto lontani di indagine e formulare leggi sempre più comprensive e semplici avvicinandosi in tal modo gradualmente alla realtà che è poi la coscienza del tutto e dovrebbe riassumersi in una legge unica che tutti i fenomeni dell’universo e tutti gli atteggiamenti del pensiero umano comprende e spiega” . (Azzi, 1954, 115)

Nel 1954 fu pubblicata una nuova edizione di Ecologia Agraria. Nel 1955 Azzi lasciò la cattedra a Perugia e nel 1956 il suo ultimo trattato venne tradotto in inglese con il titolo Agricultural Ecology, il testo citato nei classici manuali di Agroecologia.

Ormai in pensione, Azzi si trasferì a Bologna continuando la sua attività intellettuale frequentando ambienti come l’istituto di Ciusa dove, come sappiamo, Giorgio Nebbia lo incontrò. Nel 1960 gli venne conferita la medaglia d’oro dei Benemeriti della Scuola e il consiglio della facoltà di agraria di Perugia lo nominò Professore Emerito.

Morì a Bologna nel 1969 all’età di 84 anni.

Le ragioni dell’oblio

In Italia, a cinquant’anni dalla morte di Girolamo Azzi, la sua memoria e sua eredità, sono quasi completamente svanite, soprattutto a livello istituzionale.

La recente soppressione, nel 2016, del cosiddetto CRA-CMA ovvero dell’Unità di Ricerca per la Climatologia e la Meteorologia applicate all’Agricoltura, erede diretto del Regio Ufficio Centrale di Meteorologia, divenuto nel 1941 -durante la direzione di Girolamo Azzi- Ufficio Centrale di Meteorologia e Ecologia Agraria e poi, dal 1999 fino ad un decennio fa, Ufficio Centrale di Ecologia Agraria (UCEA) , sembra sugellare il definitivo disinteresse da parte delle nostre istituzioni di ricerca per la preziosissima eredità dello scienziato imolese. E questo, per quanto la cosa possa sembrare paradossale, in un momento storico in cui le problematiche studiate da Girolamo Azzi, ovvero le relazioni tra agricoltura e ambiente, stanno aumentando ovunque di interesse a causa dell’aumento demografico, del problema delle risorse, dell’inquinamento e del cambiamento climatico.

Ho ricordato che la marginalizzazione di Azzi cominciò, per divergenze politiche sulla collaborazione con la Russia, fin dai tempi del regime fascista. Del resto Azzi, che si sentiva un “uomo che pur vivendo nell’attualità, gravita appieno, con la mente e con il cuore, nella lontana atmosfera del Rinascimento” , non condivideva la cultura fascista e le scelte del regime:

“Grave fu l’errore di Benito Mussolini, quando sperò di fare rivivere l’Impero Romano: “ritorna l’impero sui colli fatali di Roma”, dimenticando che l’Italia, come Italia, fu veramente grande non all’epoca di Roma, di cui essa era soltanto una parte, ma all’epoca del Rinascimento, quando in un’armonia perfetta delle attività intellettive in tutti i settori, dal campo filosofico e scientifico sino in quello artistico, manifestò la sua capacità costruttiva, pur non essendo potente, ma grande!”

Azzi, 1954, 122

Nonostante queste divergenze, Girolamo Azzi fu comunque tenuto in grandissima considerazione da un punto di vista della ricerca scientifica dal regime fascista, tanto che nel 1940 gli venne comunque affidata la direzione dell’Ufficio Centrale di Meteorologia e di Climatologia, il cui nome fu modificato in Ufficio Centrale di Meteorologia e di Ecologia Agraria.

In uno dei nostri ultimi scambi, nel dicembre del 2018 Giorgio Nebbia mi scriveva: “Azzi diresse l’Ufficio Centrale fin al 1946. Fu epurato?”. Effettivamente la marginalizzazione istituzionale di Azzi sembra iniziare dopo la fine della seconda guerra mondiale quando in Italia come negli altri paesi europei, nel contesto delle gravi crisi alimentari che seguirono il periodo bellico, le istituzioni politiche, economiche, accademiche e religiose promossero la riconversione dell’agricoltura italiana verso il modello industriale che si era forgiato nel periodo tra le due guerre mondiali nelle pianure del Midwest degli Stati Uniti, e aveva trovato nei semi ibridi di mais, sui quali era sorta l’industria delle sementi, il suo formidabile strumento di diffusione.

Alla fine della seconda guerra mondiale, nel contesto più generale del piano Marshall, l’Italia divenne il centro di diffusione del mais ibrido in Europa e del modello di agricoltura industriale che si era diffuso qualche decennio prima nella Corn Belt. La Stazione sperimentale di maiscoltura di Bergamo, con sede a Curno, che era nata nel 1920 come istituto con interesse più locale che nazionale (come quello a Rieti sul grano, a Rovigo sulle bietole, a Vercelli sul riso), divenne fin dal 1946 il luogo strategico dal quale diffondere il mais ibrido su larga scala in Italia e avviare in tal modo quel processo di “convergenza tecnologica ” che dal livello agricolo si sarebbe poi trasposto al livello alimentare, sociale e valoriale.

Da “frutto di grande utilità per l’uomo frugale” -questa la scritta che in latino albergava sul logo della Stazione sperimentale di maiscoltura (Frugi uberrima frux)- il mais divenne così il veicolo della industrializzazione dell’agricoltura italiana e della trasformazione del modello alimentare italiano che da una dieta prevalentemente a base vegetale passò, nei decenni successivi, ad essere basato su una dieta a base animale, a sua volta fondata sul mais come mangime animale.

La convergenza verso il modello agricolo e alimentare americano, caratterizzato dall’aumento della produzione e dei consumi di cibo, fu visto dalle forze politiche moderate e conservatrici come la risposta alle crescenti preoccupazioni per i rischi di instabilità di un’Italia impoverita e devastata dalla guerra. Anche le gerarchie vaticane promossero questa profonda trasformazione del sistema agro-alimentare all’interno della strategia di difesa dal comunismo.

Dall’inizio degli anni Cinquanta nelle campagne italiane ed europee, come qualche decennio prima era avvenuto delle campagne dell’Iowa, si diffusero come una valanga gli ibridi di mais, l’irrigazione artificiale, i trattori, i fertilizzanti di sintesi. Sia le piante agrarie (grazie al miglioramento genetico orientato soltanto alla massima produttività) sia l’ambiente (grazie ai nuovi e potenti mezzi tecnici acquistati sul mercato) potevano essere plasmati a vantaggio esclusivo dell’uomo, aumentando i volumi di cibo prodotto e venduto. La “rivoluzione verde” , con le sue varietà ad alta resa e l’industrializzazione dell’agricoltura, sancì il successo di una visione agraria decisamente in contrasto con l’Ecologia Agraria di Azzi, caratterizzata dall’ideale di un processo di paziente adattamento delle piante e delle loro varietà ad un ambiente che, per ragioni economiche prima ancora che ecologiche, deve essere alterato il meno possibile. Il fine era il medesimo, l’aumento del rendimento, ma le visioni completamente distanti e, fatto ancora più significativo, gli orientamenti pratici contrastanti.

Si legge in tutto l’avventura scientifica di Azzi la preoccupazione “bioeconomica” per la perdita irreversibile delle varietà locali, gli ecotipi, a seguito dell’enorme successo commerciale delle sementi ibride:

“Tutte queste pregevoli sorta locali vengono scomparendo sotto la valanga degli ibridi. E non so dire con quanta gioia, dopo avere atteso per lungo tempo invano, abbia ricevuto verso la fine del 1950 una piccola quantità della varietà “Coccitta” che ritenevo ormai scomparsa. Ad ogni modo , dato e non concesso che nella totalità dei luoghi di origine queste varietà diano un prodotto inferiore agli ibridi, esse debbono egualmente venire conservate come insostituibili documento storici […]. Sono queste varietà locali che riassumono e integrano nel loro materiale ereditario […] la storia dei rapporti tra la pianta e l’ambiente, sin dalle prime origini. Non possiamo permettere vadano distrutte tante belle architetture naturali che una volta perdute non saremo in grado di ricostruire mai più. Non si deve del resto dimenticare che i genetisti più intelligenti hanno sempre impostato le loro ibridazioni su una coppia di parenti l’uno dei quali molto produttivo seppure anche esotico, l’altro rappresentato da una sorta locale che porta seco i caratteri di resistenza e di particolare capacità di adattamento alle condizioni peculiari dell’ambiente. E’ così che l’ibrido viene agganciato all’ambiente!”

Azzi, 1953, 111

È qui evidente la vicinanza di Azzi a Vavilov e quindi dell’Ecologia Agraria alla Genetica e al lavoro di costituzione varietale. Sulla genetica e sul concetto stesso di rendimento, come sulla visione dell’agricoltura, della ricerca sperimentale e del servizio agli agricoltori, la lotta fu impari e Girolamo Azzi venne di fatto marginalizzato. “Confesso tuttavia che qualche volta provo un senso di isolamento che opprime!((Atti del convegno meridionale di ecologia agraria)), disse Azzi nel 1955 a Salerno, nel primo Convegno Meridionale di Ecologia Agraria.

Dopo la morte di Azzi, l’Ufficio di Meteorologia e di Ecologia Agraria continuò la sua isolata esistenza sulle linee impostate da Azzi ma progressivamente i temi propri dell’Ecologia Agraria (rilevamento fenologico, analisi dei rendimenti, prove geografiche, valutazione delle sementi) scomparvero dal campo d’indagine dell’Ufficio di Ecologia Agraria che, nonostante il nome, tornò ad occuparsi prevalentemente di Meteorologia Agraria.

Il problema della riscoperta di Girolamo Azzi all’interno dell’Agroecologia

Dimenticato per diversi decenni dalle università e dalle istituzioni italiane, il nome di Girolamo Azzi ricomparve in un testo del 1987 intitolato Agroecology, curato da Miguel A. Altieri, professore di Entomologia dell’Università di Berkeley, testo che venne tradotto in italiano nel 1991 con il titolo Agroecologia Prospettive scientifiche per una nuova agricoltura.

Questo libro venne presentato in Italia come “la bibbia e il manuale della nuova agricoltura”, quella ecologica, alternativa all’agricoltura industriale. Fin dai primi anni Settanta, l’ecologia aveva rotto i rigidi confini della disciplina scientifica per divenire in diversi ambienti accademici eterodossi il nuovo paradigma, contrapposto a quello meccanicistico dominante, verso il quale avrebbero dovuto tendere tutte le varie attività umane, agricoltura compresa. In alcuni ambienti come quello delle università californiane, negli anni della contro-cultura, l’azienda agricola tornò ad essere vista in una prospettiva organica, come “agroecosistema” interconnesso sia all’ambiente naturale che al tessuto sociale, in sintesi al territorio. L’Agroecologia, culturalmente rappresentò il distacco dall’epistemologia meccanicistica e dalla conseguente visione dell’azienda agricola come una fabbrica; politicamente fu la riaffermazione del valore (ambientale, economico e sociale) delle agricolture contadine e tradizionali e la loro resistenza ai processi di industrializzazione; scientificamente si prefisse di analizzare le relazioni ecologiche nei diversi sistemi agricoli al fine della progettazione di sistemi agricoli “sostenibili” inseriti nelle diverse culture e ne diversi territori .

Nella prima parte libro del 1987 Altieri afferma:

“Il merito per lo sviluppo iniziale dell’agroecologia nell’ambito delle scienze ufficiali va attribuito a Klages (1928), che suggerì di prestare attenzione ai fattori fisiologici e agronomici che avevano influenzato la distribuzione e l’adattamento di specifiche essenze colturali, per comprenderne le complesse relazioni fra la coltura e il suo ambiente”

Altieri, 1991, 13

Di Girolamo Azzi, Altieri cita solo il testo in inglese del 1956 intitolato Agricultural Ecology. Chiaramente Altieri, all’epoca dello scritto, non era a conoscenza della relazione del 1920 dell’Accademia dei Lincei, dell’istituzione nel 1924 della prima cattedra di Ecologia Agraria a Perugia e della pubblicazione, nel 1928, del primo trattato di Ecologia Agraria di Azzi, tradotto rapidamente in russo, bulgaro, serbocroato, spagnolo, portoghese e francese, ma mai tradotto in inglese.

Purtroppo questo errore ha continuato a ripetersi nel corso del tempo ed è rintracciabile anche nella più recente edizione (2015) del voluminoso trattato di Stephen R. Gliessman dell’Università della California intitolato Agroecology The Ecology of Sustainable Food Systems, la nuova bibbia dell’Agroecologia. Nella sezione speciale dedicata alla storia dell’agroecologia, anche Gliessman pone all’inizio dell’elenco dei lavori importanti per la disciplina con il lavoro di Klages del 1928 e posiziona Azzi al sesto posto, sempre con la traduzione inglese del testo del 1954, pubblicato l’anno prima del suo pensionamento. In seconda posizione compare l’articolo di B. Bensin del 1930 intitolato “Possibilities for international cooperation in agroecological investigation”, al cui autore viene attribuita la paternità del termine “agroecology”. (Gliessman, 2015, 29). Anche su Wikipedia, alla voce italiana “agroecologia”, nell’elenco delle pubblicazioni principali, il nome di Azzi compare solo al terzo posto in ordine cronologico con il testo in inglese del 1956.

Il Prof. Androkli Baltadori, l’allievo di Azzi che ha coperto la cattedra di Ecologia Agraria a Perugia dopo il pensionamento di Azzi, nel piccolo libro del 1994 Girolamo Azzi il fondatore dell’Ecologia Agraria, al termine della biografia del maestro lamenta il rapporto tra l’Ecologia Agraria e l’Agroecologia, così come questa si era formata in ambiente americano:

“Ora per l’Ecologia Agraria si presentano altri problemi legati alla pubblicazione di testi con lo stesso nome che possono creare confusione. Com’è noto, la parola Ecologia è diventata di moda ed è usata a proposito e, purtroppo, anche a sproposito, confondendola molto spesso con il problema dell’inquinamento, che viene incluso nella cosiddetta Ecologia globale. Ma quello che a me non fa certamente piacere, è la denominazione di Ecologia Agraria di certi libri (vedi per esempio, la Agroecology di Carroll,1990, …Agricultural Ecology di J.Tivy, 1990) che non hanno nulla da fare con la nostra Ecologia Agraria, coniata e voluta dalla più alta istituzione scientifica e culturale d’Italia, e che Girolamo Azzi e la Sua Scuola hanno formato e completato negli ultimi settant’anni. Credo di avere esposto, anche se in modo succinto, i principi fondamentali della nostra Ecologia Agraria, che, ripeto, non sono gli stessi dell’ecologia generale Spero che almeno gli studiosi italiani sapranno fare una netta distinzione fra queste due impostazioni.”

Baltadori e Pinnola, 1994, 20

Baltadori chiaramente non gradisce la pretesa di inserire Azzi in un percorso teso ad oltrepassare i confini della disciplina scientifica, e quindi dell’analisi e della pratica sperimentale, per divenire anche movimento politico e sociale legato, in ultima istanza, al movimento ecologista.

È vero comunque che Girolamo Azzi può essere correttamente inserito (ma per primo nell’elenco dei precursori dell’Agroecologia) nella cronistoria degli studi delle relazioni tra l’agricoltura e il suo ambiente. L’Ecologia Agraria studia la pianta in rapporto al clima e al suolo, e considera, nella valutazione del rendimento, il contesto agrotecnico sconfinando nella Genetica e nell’Economia Agraria. L’Agroecologia intende studiare l’azienda agricola, e oggi tutto il sistema agro-alimentare, in rapporto all’ambiente e al tessuto storico e sociale, sconfinando nell’Antropologia, nella Sociologia e nella Politica.

L’Ecologia Agraria, del resto, pur presentandosi come disciplina scientifica con “definiti contorni” porta con sé una prospettiva economica e politica ben chiara, rivolta alla valutazione critica delle sementi commerciali, alla conservazione degli ecotipi e alla organizzazione di una rete di stazioni sperimentali pubbliche e di un servizio di Ecologia Agraria agli agricoltori.

La stessa prospettiva economico e politica si ritrova del resto nello scritto di Basil Bensin, al quale, come sopra ho ricordato, è attribuita da Altieri la paternità del termine “Agroecology”:“Il problema reale è come assicurare che l’agricoltore possa ottenere corrette informazioni […] per regolare l’acquisto di fertilizzanti, macchine e sementi, in modo da ridurre il rischio per l’agricoltore. È chiaro che solo un lavoro di sperimentazione agraria ben organizzato da speciali istituzioni potrebbe essere di assistenza all’agricoltore”. (Bensin, 1930, 278)

L’articolo di Bensin venne pubblicato nel 1930 sul bollettino dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, l’importante bollettino scientifico diretto Azzi fin dal 1912. Bensin nell’articolo non cita Azzi, probabilmente dando per scontato il riferimento a colui che, soltanto tre anni prima, durante la Prima Conferenza Internazionale sul Grano era emerso come la figura di riferimento mondiale per l’Ecologia Agraria e al quale era stato affidato il coordinamento della rete internazionale di stazioni di Ecologia Agraria e di Genetica Applicata.

La rappresentazione della relazione tra l’Agroecologia e le altre scienze che compare nell’articolo di Bensin ricalca nella sostanza l’impostazione di Girolamo Azzi. (Bensin, 1930, 280)

Come ho già affermato, alla luce di questa ricostruzione storica, credo che Girolamo Azzi dovrebbe essere correttamente ricordato anche come il primo pioniere dell’Agroecologia del Novecento.

Il consiglio di Boltadori di non confondere l’Ecologia Agraria e l’Agroecologia è comprensibile in quel contesto storico, quello degli anni Ottanta e Novanta, caratterizzato dal continuo allargamento dei confini di indagine e degli scopi dell’Agroecologia: dalla pianta all’azienda agricola, dai territori al sistema alimentare; da scienza a pratica a movimento. Certamente l’Ecologia Agraria deve essere distinta come disciplina scientifica con confini analitici definiti, ma sono evidenti le interrelazioni profonde con il paradigma ecologico e quindi con l’Agroecologia come scienza, di cui evidentemente non solo fa parte in quanto disciplina specifica ma ne rappresenta una sorta di atto di nascita.

Anche altre scienze, come l’Economia, sono nate come scuole di pensiero a partire da un primo risultato analitico per poi evolvere in altre direzioni. Penso ad esempio al Tableau économique elaborato da François Quesnay (1694-1774), che delimitando dei confini d’indagine e dimostrando la riproducibilità di un sistema economico basato proprio sulla circolazione del rendimento agrario, il Produit Net, libera l’economia dalle altre scienze sociali in quanto oggetto di studio dimostrandone l’autonomia, facendo nascere la prima scuola del pensiero economico classico, la Fisiocrazia.

Rimane lo stupore di non trovare nella voluminosa manualistica internazionale dell’Agroecology, al di là dei limitati e purtroppo errati riferimenti storici, una sia pur minima presentazione del lavoro di Azzi e, cosa ancora più grave, una effettiva interiorizzazione dei concetti e degli strumenti dell’Ecologia Agraria come l’idea di un sistema pubblico di rilevamento dei dati meteorologici e fenologici a servizio di contadini e agricoltori. Nella recente Agroecologia del resto è dominante il tema dei “movimenti dal basso”, tipicamente sudamericano, ed è debole la prospettiva politica “dall’alto”, più istituzionale, caratteristica dell’Ecologia Agraria.

Resta poi aperta l’importate questione epistemologica legata all’accettazione, e quindi alla comprensione, negli ambienti contro-culturali delle università californiane del periodo, , di una disciplina, quella di Azzi, istituzionale, quantitativa” e orientata al rendimento, all’apparenza simile alla scienza agronomica dominante, la cui autorità era messa in discussione da questi giovani agro-ecologisti. In Girolamo Azzi abbondano le analogie con la meccanica e le lodi della cultura rinascimentale il cui frutto più splendido, nella scienza, è proprio la meccanica, il paradigma da cambiare.

Forse anche su questo punto la storia del pensiero economico può aiutare con autori quali Joseph Schumpeter e Nicholas Georgescu-Roegen e la loro visione di una conoscenza basata sia sullo sforso analitico, quantitativo, “aritmomorfico”, sia sull’analisi storico e qualitativa.

Pur comprendendo il contesto e le ragioni di Boltadori, credo che una volta chiariti i confini (non netti…) dell’analisi di Azzi, l’inserimento della “sua Ecologia Agraria” all’interno dell’ Agroecologia più generale, come suggerisce il prof. Fabio Caporali, sia un fatto estremamente positivo, che apre a nuove interpretazioni storiche e a nuove prospettive future. È vero del resto che l’Agroecologia deve dare all’Ecologia Agraria di Girolamo Azzi l’importanza che le spetta. Le cose stanno cambiando, a partire dall’Italia, con i lavori di studiosi italiani come Stefano Bocchi e Marta Maggi che nella loro “breve storia dell’agroecologia” citano fin da subito il libro di Azzi del 1928 (Bocchi, Maggi, 2014).

L’Agroecologia, sorta ai margini dell’ortodossia accademica nel contesto del movimento ecologista degli anni Settanta, sta acquisendo negli ultimi anni una sempre maggiore importanza a livello accademico e istituzionale. La FAO ha individuato proprio nelle pratiche agro-ecologiche uno strumento fondamentale per mitigare gli impatti ecologici e sociali dell’agricoltura, nella prospettiva dell’aumento demografico e del riscaldamento climatico. In questo rinnovato conteso, penso che i lavori di Girolamo Azzi e della Scuola di Ecologia Agraria non siano soltanto da ricordare, come in alcuni casi sta avvenendo, ma, data la loro valenza pratica e l’importanza e attualità delle problematiche indagate, siano da ristudiare e da riapplicare.

A riprova che le problematiche affrontate da Azzi stiano acquisendo sempre maggiore interesse, basti pensare alla recente istituzione negli Stati Uniti di una rete di osservatori, collegati a gruppi locali, che su tutto il territorio nazionale prende informazioni sulla fenologia di piante e animali. Si chiama USA National Phenology Network e collega cittadini, scienziati, agenzie governative, organizzazioni no profit, insegnati, studenti di tutte le età per monitorare gli impatti del cambiamento climatico su piante e animali negli Stati Uniti. In Italia, dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento, è esistito un’organizzazione pubblica (con un ufficio centrale e centinaia di stazioni) organizzato per collettare e gestire le informazioni meteorologiche e fenologiche in un’ottica di servizio agli agricoltori.

La chiusura del CRA-CMA: oblio della storia o orientamenti della ricerca pubblica in Italia?

Nonostante tutto quanto ho sopra esposto, con la recente decisione di chiudere il CRA-CMA, l’ex Ufficio Centrale di Ecologia Agraria, a livello istituzionale in Italia, sembra praticamente svanita non soltanto la memoria di Girolamo Azzi ma anche la sua eredità scientifica.

La decisione di chiudere il CRA-CMA trova la sua origine nella “legge di stabilità” del 2015 (dicembre 2014), all’epoca del Governo di Matteo Renzi e dell’avvio dell’Expo di Milano, dove “al fine di razionalizzare il settore della ricerca e della sperimentazione nel settore agroalimentare e di sostenere gli spin off tecnologici, nonché al fine di razionalizzare e contenere la spesa pubblica” (comma 381) fu deciso di incorporare l’Istituto nazionale di economia agraria (INEA) nel Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA), trasformano questo ultimo nel Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA).

Con la nascita del CREA, venne nominato un commissario straordinario per l’ente, al quale venne affidato il compito di predisporre un “piano triennale” finalizzato

“all’accorpamento, alla riduzione e alla razionalizzazione delle strutture e delle attività degli enti, prevedendo un numero limitato di centri per la ricerca e la sperimentazione, a livello almeno interregionale, su cui concentrare le risorse della ricerca […] con la riduzione delle attuali articolazioni territoriali pari almeno il 50 per cento, nonché alla riduzione delle spese correnti pari almeno il 10 per cento, rispetto ai livelli attuali”.

Il 2 gennaio del 2015 il Ministro dell’Agricoltura, On. Maurizio Martina, nominò il Dott. Salvatore Parlato, di formazione economico finanziaria((http://sito.entecra.it/portale/public/documenti/cv_parlato.pdf)), Commissario Straordinario per la riorganizzazione e definizione del piano triennale della ricerca.

Nel giugno del 2015, nel periodo di avvio di Expo, il nuovo commissario individuò con decreto nell’immobile in Via Po a Roma la sede centrale del nuovo ente((Individuazione immobile sede centrale via Po))e, dopo solo una settimana, decretò la restituzione al demanio pubblico dell’immobile storico presso il palazzo del Collegio Romano, dove aveva sede il CRA-CMA

Alla decisione di chiusura della storica sede del CRA-CMA fecero seguito lettere, appelli e petizioni((Trasferimento della sede del CRA))((Lo storico osservatorio meteriologico del Collegio Romano a rischio chiusura))((Chiusura CMA)) per evitare il trasferimento, lo smembramento, la dispersione di un patrimonio storico, scientifico e culturale incredibile, composto dal preziosismo archivio cartaceo, dall’importante biblioteca, dall’antico osservatorio meteorologico e dalla collezione di strumenti sismici e meteorologici. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali proseguì però nel suo piano di “razionalizzazione” della ricerca in agricoltura.

Il 2015 vide quindi, con l’Expo di Milano, la riorganizzazione delle quasi 50 unità di ricerca dell’ex-CRA((CRA Istituti)) nei nuovi 12 centri di ricerca del CREA((Centri di ricerca CREA)). Seguendo la sorte di altri Uffici di Ricerca, In questo processo di riorganizzazione trovò la propria fine l’Unità di Ricerca per la climatologia e la meteorologia applicate all’agricoltura, le cui competenze sono confluite nel Centro di Ricerca Agricoltura Ambiente in Via della Navicella a Roma.

La decisione della restituzione al demanio della sede dell’ex CRA-CMA fu attuata nella primavera del 2016((La meteorologia romana cade a pezzi)), e ha comportato il trasferimento del personale nella sede di Via della Navicella a Roma. Oltre al personale, è stato qui trasferito anche lo storico archivio meteorologico composto da 3300 faldoni che documentano 40 milioni di misurazioni fatte sul meteo di tutta Italia (ex colonie incluse) e la preziosissima collezione di strumenti di sismologia e meteorologia. La biblioteca dell’ufficio, che è la più importante biblioteca nazionale di geofisica (in particolare di sismologia e meteorologia) è rimasta invece nella sede storica del Collegio Romano, insieme a diverso materiale cartaceo di ricerca non ancora catalogato.

A fine 2015, nella “legge di stabilità del 2016”, venne finanziato con 21 milioni di euro un piano triennale di ricerca per lo sviluppo delle “biotecnologie sostenibili”. Si tratta di risorse considerevoli che, per la prima volta dopo molti anni, nel contesto generale di tagli alla spesa pubblica, sono state destinate alla ricerca in agricoltura. Il piano pubblicizzato con soddisfazione dal Ministro Maurizio Martina ha come obiettivo il miglioramento genetico delle colture tradizionali italiane (vite, olivo, pomodoro, pesco, albicocco, agrumi, frumento, melanzana, melo, ciliegio, pioppo) attraverso le cosiddette nuove biotecnologie di modificazione del genoma quali la “cisgenesi” e il ”genome editing”.

Nel 2018 la Corte di Giustizia Europea, con un’apposita sentenza ha però equiparato i prodotti ottenuti dalle nuove biotecnologie agli OGM((Sui nuovi e vecchi OGM si rimanda a Passato presente e futuro degli organismi geneticamente modificati)). Lo scompiglio creato dalla sentenza della Corte Europea all’interno degli uffici del CREA è stato inferiore soltanto alla notizia degli arresti dei vertici dell’ente come misura cautelare all’interno di un’inchiesta -tuttora in corso- per le presunte gravi irregolarità nella gestione del patrimonio immobiliare dell’ente.

Tra i pochi che seguirono la vicenda immobiliare del CRA-CMA, criticando la decisione di restituire al demanio la sua storica sede, qualcuno ha parlato di indifferenza generale((Chiude nel silenzio la stazione meteo del collegio romano)). Effettivamente stupisce la mancanza di considerazione per questo preziosissimo patrimonio storico, scientifico e culturale.

Purtroppo l’ex Ufficio Centrale di Ecologia Agraria sembra condividere la stessa triste destino con l’ex Stazione Agraria Sperimentale di Modena, a lungo prestigiosa sede operativa del CRA, per decenni diretta da Alfonso Draghetti, uno dei padri dell’Agricoltura Biologica e dell’Agroecologia in Italia, di cui ho scritto nel numero 28 di “altronovecento”. La Stazione di Modena è stata chiusa nel 2006, in seguito ad una riorganizzazione voluta dall’allora Ministro delle Politiche Agricole e Forestali, On. Gianni Alemanno, e il prestigioso immobile che conteneva la biblioteca di agricoltura più storica del paese è stato messo più volte in vendita tramite aste regolarmente andate a vuoto. La biblioteca è stata trasferita a Roma in cartoni e i suoi libri sono stati successivamente divisi ed inviati a biblioteche diverse. Si è persa così l’unitarietà e l’organicità di questa storica biblioteca a suo tempo organizzata dallo stesso Draghetti.

Oltre alla miopia delle politiche di “spending review”, e alle presunte gravi irregolarità nella gestione immobiliare dell’ente, per comprendere queste vicissitudini che stanno smembrando i luoghi, le eredità e quindi e la memoria dei precursori del pensiero agro-ecologico del Novecento (Girolamo Azzi e Alfonso Draghetti), credo che si debba anche interrogare sulla visione generale che ha orientato negli ultimi anni le decisioni dei vertici governativi, ministeriali e del CREA in merito agli indirizzi di ricerca in agricoltura.

Nonostante un contesto globale in cui le problematiche trattate dalla nostra tradizione agro-ecologica (il clima e il suolo) stanno inevitabilmente acquisendo di centralità, in Italia si sta dissipando questa preziosa eredità, facendo prevalere la visione della ricerca pubblica come “spin-off tecnologico”, del tutto simile a quella delle aziende biotecnologiche nate della commercializzazione delle creature della biologia molecolare. Nonostante la sbandierata “sostenibilità”, quella delle biotecnologie o meglio degli OGM, per la nostra tradizione agro-ecologica gli orientamenti della ricerca pubblica in Italia dopo Expo sono stati un vero fallimento.

Riferimenti Bibliografici

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