Gli impianti idroelettrici del bacino Nera – Velino e la Valle del Salto

R. MARINELLI, La bonifica reatina. Dal canale settecentesco di Pio VI alle Marmore agli impianti idroelettrici del Bacino Nera – Velino, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi 2010.

Il testo è stato recentemente pubblicato nel Quaderno n. 4, di valledelsalto.it “Antiche e recenti infrastrutture della Valle del Salto – Dal cunicolo di Montefrontino alle progettate ferrovie del Salto

I progetti

Guido Rimini, ingegnere capo dell’Amministrazione provinciale di Perugia, nel 1916 aveva dimostrato in quale modo doveva essere affrontato il problema della bonifica dell’Agro Reatino, soggetto da qualche millennio alle disastrose alluvioni, accentuatesi enormemente negli ultimi due secoli. Egli aveva elaborato un progetto del tutto originale, capovolgendo il concetto stesso di bonifica, per quanto concerneva le problematiche dell’Agro Reatino. Dall’idea di prosciugamento dei terreni alluvionati, per svuotamento, per aumento del deflusso, impossibile ad attuarsi compiutamente, se non al costo di inondare le zone a valle, compromettendo irrimediabilmente l’Agro Ternano e la stessa Bassa Valle del Tevere, all’idea del contenimento a monte delle acque di piena dei principali affluenti del Fiume Velino. In una nota di trentaquattro pagine dimostrò come sarebbe stato possibile risolvere ogni problema, mediante la costruzione di laghi artificiali lungo il corso dei fiumi Salto e Turano, bonificando di fatto il territorio reatino, mettendo definitivamente al sicuro dalle inondazioni la stessa città di Rieti, ed ottenendo un’enorme potenziale idroelettrico, in linea con le nuove disposizioni di legge sulle concessioni di acque pubbliche a fini industriali.

Il progetto fu accolto favorevolmente dal Ministero dei lavori pubblici, i cui uffici tecnici studiavano da molti anni la bonifica reatina, dall’Amministrazione provinciale di Perugia, che gli rilasciò pubblici elogi, e da diversi comuni interessati. I giornali si occuparono ripetutamente del progetto Rimini, poiché la questione delle acque interessava una larga parte dell’opinione pubblica dell’Umbria. Il Ministero dei lavori pubblici, guidato dall’onorevole Augusto Ciuffelli, aveva nominato una commissione per lo studio dell’attuazione di quel progetto, di cui fece parte lo stesso Guido Rimini. Questi, mentre la commissione studiava nei dettagli il suo progetto di bonifica reatina e di realizzazione degli impianti idroelettrici, si applicò allo studio dell’assetto definitivo delle centrali idroelettriche del bacino Nera-Velino. I risultati di quello studio, condotto sulla base della memoria per la bonifica reatina, apparvero subito «così diversi e così superiori» a quanto era stato fino ad allora attuato e proposto, riguardo all’utilizzo delle risorse idroelettriche, che nel mese di dicembre di quello stesso anno 1916, dette alle stampe una nuova versione del suo progetto, puntando decisamente all’interesse della grande industria, per la possibilità di creare grandi forze idroelettriche, utilizzando il corso del Velino e quello inferiore del Nera((G. RIMINI, Progetto per la Bonifica Reatina e per la creazione di grandi forze idrauliche, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 15 gennaio 1916; ID., Progetto per la creazione di grandi forze idro-elettriche da Velino e dal corso inferiore del Nera, Perugia, Unione tipografica cooperativa, 3 dicembre 1916.)).

Guido Rimini aveva prospettato, fin da allora, la realizzazione di poche grandi centrali, che avrebbero potuto usufruire di enormi bacini e cospicui dislivelli, capaci di produrre quantità di energia fino ad allora inimmaginabili. Era stato lui a proporre, come naturale bacino di presa per la grande derivazione ideata, il Lago di Piediluco, immettendovi direttamente il Velino. Guido Rimini pensava addirittura di collegare tra loro, direttamente, il Lago di Ripa Sottile con quello di Ventina e Piediluco, per farne un unico enorme bacino, stravolgendo completamente l’idrografia della bassa Pianura di Rieti. Quel progetto prevedeva anche la realizzazione del canale derivatore dal Lago di Piediluco a Monte Sant’Angelo – realizzato negli anni Venti – indicando anche la natura geologica dei terreni da attraversare e scavare, con grande precisione. Dall’estremità del canale e della galleria di attraversamento della montagna, era prevista la camera di carico per le condutture in acciaio della condotta forzata. Era previsto anche lo sfioratore e scaricatore delle piene, il bacino di Cuor delle Fosse e il canale di alimentazione della Cascata delle Marmore, che avrebbe dovuto restare attiva nei giorni e nelle ore, in conformità al decreto del Ministero della pubblica istruzione. Era prevista, inoltre una centrale idroelettrica a valle dello sbarramento previsto sul Fiume Turano, la cui produzione di energia elettrica avrebbe dovuto soddisfare le esigenze dell’agricoltura e dell’industria dell’Altopiano Reatino. A valle dello sbarramento previsto sul Fiume Salto non era, invece, prevista la centrale, ritenendo utile subordinale le derivazioni dai laghi ai bisogni della grande centrale di Terni. Guido Rimini aveva individuato anche le località dove, secondo lui, era possibile realizzare le poderose dighe di sbarramento dei fiumi((R. MARINELLI, La bonifica reatina. Dal canale settecentesco di Pio VI alle Marmore agli impianti idroelettrici del Bacino Nera – Velino, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi 2010.)).

Per il Salto indicò la stretta gola formata dai Balzi di Santa Lucia, a venticinque chilometri da Rieti, a quell’epoca ancora nel territorio della Provincia dell’Aquila, nel Circondario di Città Ducale. La descrizione del luogo è suggestiva: le rocce della gola sono di «calcare compattissimo e durissimo» – egli scrive – ideale, evidentemente, per sostenere una diga in cemento armato. «Il fiume vi scorre sulla nuda roccia, tra sponde altissime, pressoché a picco, dimodoché lo sbarramento potrebbe ivi costruirsi con spesa minima, avendosi un’apertura in basso di circa metri venti, che al massimo, ed a sessanta metri di altezza, si amplierebbe a centocinquanta metri». La descrizione prosegue con l’immagine della conca valliva a monte delle gole, sovrastata dall’abitato di Borgo San Pietro, fatta di terreni assolutamente impermeabili, scisti argillosi ed arenarie, che si sarebbero prestati perfettamente ad accogliere il grande invaso artificiale. Il fiume vi scorreva con ampie svolte, formando numerosi invasi naturali, di varie dimensioni, piccole paludi ed isolotti, residuo di grosse periodiche inondazioni.

Sul Fiume Turano l’ingegner Rimini proponeva la realizzazione di due distinti bacini artificiali, anch’essi utilizzabili a scopo industriale. Il primo sbarramento era previsto alla stretta gola, con roccia viva compatta, che il Turano forma proprio in corrispondenza di Rocca Sinibalda; il secondo era previsto circa cinque chilometri a monte, quasi in corrispondenza del ponte della Strada provinciale del Turano, nella Gola di Posticciola, dal nome del paese vicino. A monte delle Gole di Posticciola, dove era ideato il bacino principale del Turano, l’ingegnere descrive il fondo della valle, sovrastato da Castel di Tora e Colle di Tora, immaginato come profondo imbuto, capace di imprigionare una enorme quantità d’acqua, con terreni assolutamente impermeabili.

A chiusura delle descrizioni dei luoghi si avanza una considerazione sui terreni da sommergere, ritenuti di poco pregio, «rovinati dalle continue alluvioni, cosparsi di pochi casali colonici di prezzo assai modico». Non si fa menzione della necessità di sommergere interi paesi della Valle del Salto, come poi avverrà, perché quel progetto non lo prevedeva, proponendo dighe minori di quelle realizzate e lasciando, di conseguenza, il livello degli invasi molto al di sotto di tutti gli abitati. Il progetto proponeva altre derivazioni di acque dal Velino e il convogliamento, in galleria, di una porzione delle acque del Turano nel Fiume Farfa, attraverso il Fosso delle Mole, tra Torricella e Monteleone Sabino. L’ingegnere esprime, infine, una valutazione sui rischi sismici, che egli esclude con sicurezza, basandosi sulla qualità dei terreni e sulla sua personale conoscenza ed esperienza di lavori effettuati nelle zone indicate((Ivi; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, Fasc. 2, Progetto “Rimini” per la creazione di grandi forze idrauliche, 1916, b. 204.)).

L’idea dell’ingegner Rimini venne successivamente sviluppata nei progetti specifici elaborati dallo Studio dell’ingegner Angelo Omodeo, e all’inizio degli anni Venti del Novecento si arrivò, come si è già detto, all’avvio delle progettazioni per la realizzazione degli impianti idroelettrici tra il Lago di Piediluco e la Cascata delle Marmore. Si è sempre sostenuto che il Consorzio idroelettrico del Velino – ossia la Società Terni – non fosse interessato, inizialmente, alla realizzazione del progetto complessivo, che prevedeva in particolare la realizzazione dei bacini artificiale del Salto e del Turano, fondamentali per l’attuazione effettiva della bonifica reatina. Per anni montarono le polemiche sulla parziale attuazione di quel progetto, sulla mancanza di volontà imprenditoriale e politica, di dare soluzione al progetto, che, tra l’altro, avrebbe potuto fruttare anche sul piano economico. Tutto ciò era sicuramente vero, tuttavia va dato atto che sia la Terni, sempre attentissima alle problematiche economiche, che gli organismi ministeriali, pur con lentezza e senza darne conto alla pubblica opinione, stavano proseguendo gli studi necessari per arrivare alla progettazione delle dighe e degli impianti idroelettrici((AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, Fasc. 5, Note al Progetto “Rimini”, b. 204.)).

Da quando la Direzione generale dell’agricoltura del Ministero dell’industria e commercio, aveva avviato lo studio del regime idraulico dei fiumi Nera e Velino, nel 1892, in funzione dei progetti di bonifica e irrigazione della Piana Reatina, di tempo ne era trascorso veramente tanto. I sopralluoghi in barca sul Velino, da parte dei tecnici, erano proseguiti anche all’inizio del Novecento((AS Ri, ASC Ri, Cat. VII, Cl. II, Fasc. 3, Consorzi idraulici, Comunicazione del Ministero agricoltura, industria e commercio: studio del regime idraulico del Nera e Velino, 7 agosto 1891, b. 534; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, fascc. 10-13, Riassunto delle portate integrali dei fiumi Salto e Turano, 1916-1924, b. 211; ivi, fascc. 8 e 9, Corrispondenza tra la Società Terni e la Direzione generale di Genova, relativa alle letture idrometriche del Velino, 1925-1929, b. 211.)). Sembrava che non si dovesse mai arrivare ad una conclusione; invece, già il Regio decreto del 12 luglio del 1923 (n. 8829) aveva concesso al costituendo Consorzio idroelettrico del Velino di creare i due serbatoi regolatori sui fiumi Salto e Turano, nonché la nuova centrale di Collestatte, con la diga mobile alle Marmore, che fu subito realizzata((AS Ri, ASP Ri, Cat. VI, Acque, Deviazioni, Cl. II, Posiz. 1, Consorzio “Velino” fra la Provincia di Perugia e la Società “Terni”, b. 1677.)).

Da quel momento fu chiaro che le due vallate, confluenti in quella del Velino, sarebbero state di fatto sacrificate alla salvaguardia e allo sviluppo della Piana Reatina e all’incremento della materia prima per l’industria idroelettrica. Ogni altro progetto, che prevedesse un diverso uso dei territori della Valle del Turano e di quella del Salto, avrebbe dovuto essere abbandonato.

Tra il 1924 ed il 1927 l’Ufficio idrografico di Roma stilò, finalmente, la tanto attesa relazione idrologica, sulla base dei rilevamenti compiuti nelle stazioni di Perugia, Rieti e Roma. Tra il mese di luglio 1924 e quello di dicembre del 1925, furono predisposte anche le relazioni geologiche del professor Giorgio Dal Piaz, in ottemperanza alle richieste del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Anche in questo caso c’era stata una lunga gestazione, con sopralluoghi, per l’individuazione della zona più idonea alla realizzazione delle dighe, e diversi saggi di scavo((AS Ro., Archivio del Genio civile di Roma (AGC Ro.), Servizi generali vari, Progetto delle opere occorrenti per difendere la città di Rieti dalle inondazioni del Turano e del Velino: sistemazione idroelettrica dei fiumi Velino e Nera, invaso dei bacini del Salto e del Turano. Disegni allegati, b. 1212.)).

Riguardo la sezione della diga da realizzare sul Salto, presso le Balze di Santa Lucia, la relazione geologica fece presente che l’area «consta di calcari che poggiano su materiali marnoso = argillosi pendenti verso valle». Il piano di contatto – messo bene in evidenza dagli scavi eseguiti- risultò inclinato, in media, di una cinquantina di gradi. Gli scavi avevano dimostrato, inoltre, che, superata una zona superficiale di esiguo spessore, in cui la roccia era più o meno deteriorata dall’azione degli agenti atmosferici, all’interno i calcari si presentavano assai tenaci e compatti. Tuttavia la relazione fece presente l’opportunità di provvedere all’impermeabilizzazione della superficie calcarea fiancheggiante la sezione della diga, in modo da eliminare qualsiasi pericolo di filtrazione. Siccome i sondaggi evidenziarono che ai calcari subentravano, a breve distanza, le marne argillose a perfetta tenuta, la superficie da impermeabilizzare si riduceva a due appezzamenti triangolari fiancheggianti la sezione, ciascuno dei quali si aggirava intorno a ottomila metri quadrati.

«Riteniamo, poi, – sostiene la relazione geologica definitiva del professor Dal Piaz – che, in luogo dell’impermeabilizzazione di superficie, tornerebbe in questo caso più conveniente ed efficace, l’applicazione del metodo delle iniezioni profonde di cemento liquido, a forti pressioni, distribuite in modo da creare una specie di diaframma, in continuazione laterale degli impostamenti della diga((Ivi, Relazione geologica.))».

La relazione fa poi riferimento all’esperienza acquisita, dal 1920, su diverse dighe, realizzate sia sulle Alpi che sugli Appennini, che il professore ebbe modo di seguire in ogni fase costruttiva, per dimostrare l’eccellenza dei provvedimenti suggeriti. La carta geologica, realizzata per l’occasione, dava ragione, anche in questo caso, al progetto dell’ingegner Guido Rimini, dimostrando che l’area prescelta per la realizzazione del serbatoio risultava costituita da rocce di natura marnosa o arenaceo argillosa, e come tale in condizioni tali da dare piena garanzia di tenuta.

Nella piena convinzione che le masse calcaree, comprese entro l’area del futuro serbatoio, avrebbero avuto, secondo la relazione geologica, un comportamento completamente passivo, ossia una perfetta tenuta di tutta la massa d’acqua invasata, si ritenne superfluo ed inutile, procedere al totale rivestimento del fondovalle con materiale impermeabilizzante. Se la situazione fosse stata diversa si sarebbe attuata la spalmatura di cemento su tutta la vallata, fino alla quota di massimo invaso((Ivi.)).

Il Consorzio del Velino aveva presentato un progetto di massima per lo sbarramento dei fiumi Salto e Turano, già nel 1925, nel quale si illustrava schematicamente come si sarebbe giunti alla realizzazione di due laghi artificiali. Gli sbarramenti erano previsti, rispettivamente, alle Balze di Santa Lucia, nel territorio di Petrella Salto, e alle Gole di Posticciola, nel territorio di Rocca Sinibalda. Furono previste anche due centrali, per lo sfruttamento idroelettrico, da realizzare ai piedi delle dighe, a modifica dell’idea iniziale che ne prevedeva una sola a Posticciola. L’Ufficio di Roma del Corpo Reale del Genio civile, esaminato il progetto, aveva chiesto ulteriore documentazione ed alcune varianti alla parte costruttiva, nonché al preventivo generale di spesa. Venne elaborato un nuovo progetto, stilato, in forma esecutiva, il 30 aprile del 1928, che conservava lo schema di quello precedente, avvalendosi però dei risultati degli studi dell’Ufficio idrografico di Roma, del novembre 1927, e basandosi sulla relazione geologica del professor Dal Piaz. Per la parte costruttiva e per i preventivi di spesa erano state seguite fedelmente le prescrizioni dell’Ufficio del Genio civile((Ivi, Relazione tecnica generale.)).

Il profilo delle due dighe risultò modificato, rispetto al progetto di massima; le opere di scarico delle piene furono previste completamente fuori del corpo degli sbarramenti; così pure le opere di derivazione per alimentare le rispettive centrali idroelettriche, anch’esse staccate dalle dighe. Si prevedeva, invece, di mantenere lo scarico di fondo alla base delle dighe, per provvedere più facilmente alla chiusura della galleria di deviazione a opera ultimata. Considerate le analogie di conformazione delle “strette”, ossia i siti prescelti per la realizzazione degli sbarramenti, e la quasi identica natura litologica delle due località, per la progettazione delle due dighe ci si attenne alla identica tipologia di opere, e ad analoghi dispositivi per lo scarico delle piene e per l’utilizzazione dell’acqua invasata.

Fu scelto il tipo di diga denominato a gravità, ossia strutturato per resistere alla spinta dell’acqua esclusivamente con il proprio peso. Considerate, poi, le notevoli dimensioni delle opere, le caratteristiche delle rocce che ne avrebbero costituito le spalle ed il fondo, e che ne avrebbero fornito in prevalenza il materiale murario, si rese necessario prevedere l’adozione di un completo sistema di drenaggi, sia interni allo sbarramento, che di fondo. Tutto ciò avrebbe evitato problemi di «sottopressioni nelle fondazioni e pressioni interne nella massa muraria», mantenendo nella stessa massa muraria un grado di non eccessiva umidità, offrendo la possibilità di rendersi conto, in qualsiasi momento, delle condizioni interne di temperatura e di permeabilità. Sul piano planimetrico si pensò di dare ad entrambe le dighe un andamento «ad arco di circolo, sufficiente – si riferisce nella relazione tecnica generale del 1928 – a consentire gli inevitabili movimenti di dilatazione e contrazione e pure concorrente, in misura sensibile, alla stabilità, specialmente nella impostazione contro la roccia delle sponde». Si previde di adottare la sezione triangolare, con il vertice al piano di massimo invaso, e con inclinazione adeguata, anzi «esuberante agli effetti della stabilità», e per dare spazio al complesso sistema di drenaggio studiato per le fondazioni. Come era dimostrato dai grafici e dai calcoli di stabilità, si era abbondato nel tenere conto degli sforzi massimi cui la muratura avrebbe potuto essere sottoposta, anche nelle condizioni più sfavorevoli, tra cui persino la possibilità di eventuali onde anomale. La struttura per entrambe le dighe fu prevista, fin da allora, in calcestruzzo, di cemento colato con pietrisco di cava, ottenuto da frantoi da realizzare sul posto.

«Speciale cura si avrà – riferisce la relazione tecnica dell’ingegnere Angelo Omodeo – nella costruzione del taglione di guardia, lungo tutta la fondazione del ciglio di diga verso monte. Esso verrà spinto alla profondità necessaria perché la roccia dia ogni migliore garanzia di compattezza e di tenuta: inoltre saranno praticate iniezioni di cemento fluido a pressione almeno uguale al carico d’acqua che vi corrisponde lungo tutto il paramento, a monte della diga((Ivi.))»

Il paramento a valle era previsto in pietra «grossolanamente sbozzata e disposta a mosaico», con numerose feritoie. Quello a monte doveva essere reso impermeabile con «intonaco retinato e con spalmatura di “Isol”, materia impermeabile a base di bitume». Per il tipo di materiale, con cui si sarebbe realizzata la diga, erano previsti giunti di contrazione ogni venti metri. Si trattava di fenditure praticate per tutta la diga, in direzione monte – valle, riempite di bitume e chiuse in modo da contenere l’acqua, per consentire l’assestamento del manto ed il ritiro del calcestruzzo, senza danni alla struttura. Erano, poi, previsti i cunicoli di drenaggio, per eliminare le inevitabili infiltrazioni d’acqua dal rivestimento a monte, e consentirne la raccolta e lo smaltimento costante. Come si è sempre usato per questo tipo di dighe, furono previste gallerie di ispezione, poste a piani diversi, collegate tra loro con pozzi cilindrici.

In corrispondenza dei cunicoli trasversali, sul paramento a valle, erano previste delle banchine, con leggero pendio verso le imposte, per convogliare le acque di filtrazione verso le sponde, per consentire l’accesso ai cunicoli trasversali, facilitare le ispezioni, e le eventuali manutenzioni al paramento della diga. Una galleria accessibile era prevista anche alla sommità della diga, lungo tutto il ciglio, con lo scopo di allacciare e rendere ispezionabili i condotti di drenaggio dell’ordine superiore, e di attivare la ventilazione nell’interno di tutto il sistema drenante. Il coronamento della diga doveva essere sistemato a piano stradale carrozzabile, con parapetti. Lo scarico delle piene era previsto in opere completamente indipendenti da quelle di sbarramento. Per entrambe i serbatoi dovevano essere costituiti da paratoie automatiche a contrappeso, tipo “Stauwerke”, eventualmente funzionanti anche manualmente. Lo scarico di fondo doveva, invece, essere ottenuto mediante tubazioni poste nel corpo stesso di entrambe le dighe, sistemate entro cunicoli ispezionabili. Le tubazioni dovevano essere munite di valvole a farfalla, con tre argani di manovra indipendenti, e di chiusura di riserva((Ivi.))

L’utilizzazione industriale dell’acqua invasata, e la sua restituzione ai fiumi, doveva essere conseguita immediatamente a valle degli sbarramenti, con opere di derivazione da realizzare con tubazioni metalliche collocate in galleria. La centrale idroelettrica del Turano era progettata parallelamente al corso del fiume; quella del Salto avrebbe dovuto essere collocata attraverso il fiume. In entrambe gli impianti l’accesso doveva essere ricavato dalle strade provinciali esistenti, il cui ultimo tronco, chiuso dalla diga, sarebbe stato sottratto al transito pubblico, deviato sulla nuova provinciale da realizzare a monte, e lasciato ad uso esclusivo degli impianti. Erano previsti collegamenti pedonali tra le centrali idroelettriche e gli sbarramenti. Nelle vicinanze delle dighe sarebbero state realizzate le abitazioni dei guardiani, collegate telefonicamente con i centri abitati a valle, gli alloggi per i meccanici addetti alle centrali, nonché officine per le piccole riparazioni, e magazzini. Inoltre, riferisce la relazione tecnica generale, la vigilanza sarebbe stata esercitata anche dal personale addetto alle centrali: «Oltre al telefono saranno stabilite delle segnalazioni convenzionali mediante razzi».

Sbarrata la valle del Fiume Salto alle Balze di Santa Lucia, l’acqua a monte avrebbe creato un serbatoio capace di quasi novantamila metri cubi, sommergendo la valle fino all’abitato di Sant’Ippolito, per una quota compresa tra i 508 ed i 510 metri sul livello del mare. Nella relazione tecnica si fa riferimento agli espropri di terreni e fabbricati, alla costruzione della variante della strada Avezzano – Rieti, ma non si menziona la sommersione di interi paesi, come poi è avvenuto, perché assolutamente non previsto. Con il futuro lago artificiale al massimo livello dei cinquecentodieci metri di quota, l’acqua sarebbe arrivata soltanto a lambire le case più basse di Borgo San Pietro e Fiumata, avrebbe forse tagliato in due Teglieto, ma non sarebbe arrivata alle abitazioni di Sant’Ippolito. La diga sul Fiume Salto avrebbe dovuto raggiungere un’altezza massima di sessantadue metri, ben lontana dagli oltre cento metri di quella che sarà realizzata.

«Esaminata la gola in cui si insinua il fiume alle Balze di Santa Lucia e saggiate in vari punti le rocce che ne costituiscono le sponde, non rimaneva dubbio sulla opportunità di impostare la diga immediatamente all’imbocco di essa, appoggiandone la spalla destra sul versante a monte delle Balze stesse e dirigendone il ciglio in modo da raggiungere la sponda sinistra colla minore cubatura di materiale murario.

La posizione scelta offre inoltre altri importantissimi vantaggi, e cioè di permettere una propria disposizione delle opere di scarico e di ridurre al minimo la zona di rocce calcaree esposte all’acqua, per le quali si renderà necessario provvedere ad opere di impermeabilizzazione((Ivi.))»

Con lo sbarramento della Gola di Posticciola, nella Valle del Turano, si sarebbe creato a monte un serbatoio della capacità complessiva di oltre centoquaranta milioni di metri cubi d’acqua, compresi fra le quote di 533 e 535, sul livello del mare. Seguendo le istruzioni del geologo, riferisce la relazione tecnica dei serbatoi, «confortate da ripetute visite in luogo e da estesi assaggi», per il posizionamento dello sbarramento, furono scelti i punti di maggiore consistenza delle rocce, sia per le sponde che per il fondo, costituito da consistenti stratificazioni di banchi calcarei quasi verticali, coperti da uno strato di deposito alluvionale, spesso qualche metro. A seguito poi di studi specifici, fu determinato anche il tracciato più conveniente, per minore cubatura della massa muraria. Anche la diga sul Turano avrebbe dovuto raggiungere l’altezza di sessantadue metri, anziché gli ottanta di quella poi realizzata. Era previsto fin da allora, però, lo scarico di superficie, situato in sponda destra, del tutto indipendente dalla diga, e costituito da due paratoie mobili automatiche a contrappeso, che si sarebbero aperte quando l’acqua avesse raggiunto il massimo sopralzo di piena, a quota 535,60. Durante il periodo di costruzione delle due dighe le acque dei fiumi sarebbero state deviate, per mezzo di dighe provvisorie, nelle gallerie di deviazione, capaci di contenere l’intera portata delle piene. A costruzione ultimata le gallerie sarebbero state chiuse, murate all’imbocco.

Il 12 luglio 1930 l’Ufficio del Genio civile di Roma comunicò, al Consorzio del Velino, le conclusioni alle quali era giunto il Consiglio superiore dei lavori pubblici, dopo aver esaminato il progetto esecutivo dei serbatoi sui fiumi Salto e Turano, presentati il 30 aprile 1928. Venivano imposte delle precise prescrizioni e alcune variazioni al progetto, soprattutto per garantire maggiore stabilità alle opere e una migliore impermeabilizzazione delle imposte. L’amministrazione statale imponeva anche un supplemento di indagine geologica, attraverso sopralluoghi specifici, non appena completato lo scavo per la formazione del taglione a monte, prima delle gettate. Il supplemento di indagine si rendeva necessario perché, per entrambe gli sbarramenti, i rilevamenti erano consistiti esclusivamente in saggi di scavo mediante alcune trivellazioni, ritenute insufficienti.

Altra variazione significativa, rispetto al progetto esecutivo, fu quella relativa all’abbassamento del cunicolo della prima galleria di drenaggio delle dighe – quella più superficiale – che doveva essere portata fino ad una quota tale da lasciare uno spessore murario pieno non inferiore a otto metri. Tutto ciò per ragioni «di carattere militare», per fare in modo cioè che «la parte più alta degli sbarramenti offra, nel più alto grado possibile, resistenza alle eventuali esplosioni; e pertanto non appare conveniente indebolire la sommità delle dighe con le previste gallerie d’ispezione in testa alle canne verticali di drenaggio». Riguardo poi ai risultati dei calcoli di stabilità e resistenza degli sbarramenti, in relazione al tipo di terreno, si prescriveva la massima cura nel contrastare la tendenza allo scorrimento, «a mezzo di marcata incisione dei banchi rocciosi e formazione di ampia gradonatura pendente verso valle((Ivi.))».

Il Consorzio del Velino, ossia la Società Terni, ottemperò immediatamente alle richieste, presentando, nel luglio del 1930, un supplemento di progetto al Consiglio dei lavori pubblici; il quale si riservò di prendere decisioni circa le conclusioni dello studio idrologico, per quanto riguardava le piene, ritenendo troppo limitato il periodo preso in esame. Restava quindi insoluta la questione degli invasi di attenuazione delle piene e dei relativi sistemi di scarico. Poiché la soluzione non si sarebbe potuta avere che dopo un lungo periodo di osservazioni e rilevamenti, per evitare di procrastinare eccessivamente la realizzazione delle opere, si pensò di adottare un suggerimento avanzato dall’Ufficio dighe del Ministero dei lavori pubblici: prevedere, cioè, il tipo di dighe detto “tracimanti”, che avrebbe consentito di smaltire facilmente ed in tutta sicurezza, qualsiasi tipo di piena, anche la più grande ed imprevista, evitando perdite di tempo per il necessario ulteriore supplemento di progettazione.

Tuttavia dovettero trascorrere altri sette anni perché si arrivasse alla definizione dei nuovi progetti, presentati ufficialmente nel gennaio del 1937. In questo periodo si era aperto un serrato dibattito, a livello scientifico nazionale, sulle conseguenze e sui rischi conseguenti alla realizzazione dei bacini artificiali. C’era chi ne temeva l’interramento, in alcuni casi particolari, per i trasporti di materiali alluvionali. Altri sostenevano che i nuovi laghi avrebbero modificato i diversi micro climi, riproponendo il pericolo di infezione malarica anche in zone che ne erano sempre state immuni. Tecnici e studiosi concordarono, invece, sull’opportunità di realizzare dighe a gravità, per evitare rischi di cedimenti, ma soprattutto in previsione di possibili attacchi aerei nemici, in caso di guerra, ritenuta già allora, evidentemente, molto probabile. Nonostante le discussioni, il Servizio idrografico nazionale, già nel 1931, inseriva i bacini artificiali del Salto e del Turano, tra le opere future di assoluta necessità.

I nuovi progetti, dei due serbatoi, del 1937, conservavano l’impostazione di quelli precedenti, prevedendo l’adozione di dighe tracimanti, sempre di tipo a gravità, ed apportava lievi varianti al sistema degli scarichi. In tutto questo tempo, però, era andata maturando l’idea di una diversa utilizzazione dei serbatoi, secondo la quale la funzione idraulica degli impianti avrebbe assunto una rilevanza assai maggiore, ben oltre quella troppo semplice di contenimento delle piene: raddoppiare la capacità dei bacini per consentire un enorme sfruttamento idroelettrico. Intorno alla metà degli anni Trenta l’Ufficio idrografico del Genio civile di Roma, in base ad un sufficiente periodo di osservazione, si avviava ad emettere la sua valutazione sul valore da attribuire alle piene dei fiumi Salto e Turano, e su quello degli invasi, da riservare nei costruendi serbatoi, per la regolamentazione dei corsi d’acqua((Ivi.)).

In quel periodo la politica nazionale di riarmo dava grande spazio alle industrie dell’acciaio, tra cui naturalmente la Terni, la quale, però, colse l’occasione che attendeva dall’inizio del decennio precedente, per qualificarsi definitivamente come grande industria elettrica, attraverso i suoi impianti idroelettrici, che sarebbero diventati in breve il volano dei suo nuovo sviluppo. La possibilità che la Terni ebbe di perseguire il suo programma elettrico era strettamente legato alla politica autarchica nazionale, che esaltò le potenzialità del territorio, insieme alle istanze e alle ambizioni delle imprese definite “elettro – consumatrici”, come la Terni, oppure “elettro – commerciali”, come erano quelle del Gruppo Edison. Dopo il traguardo, raggiunto negli anni Venti, la mossa compiuta dalla Terni tra il 1935 ed il 1937, risultò decisiva, consentendole di attestarsi in posizione strategica nel campo dell’industria elettrica nazionale. Ogni esitazione – annota acutamente Franco Bonelli, nel suo studio sulla storia della Terni – avrebbe sicuramente pregiudicato la possibilità, per la Società, di cogliere tutte le opportunità implicite nel programma elettrico già realizzato. Il nuovo programma di grandi costruzioni idroelettriche in Italia centrale, andò infatti a collegarsi logicamente con quello avviato negli anni Venti, a seguito del primo programma di sfruttamento intensivo del comprensorio Nera – Velino. Per la Terni tornò d’attualità il Regio decreto del 12 luglio del 1923 (n. 8829), con il quale si concedeva, al Consorzio del Velino, di creare i due serbatoi del Salto e del Turano. Questi entrarono a far parte essenziale del piano di investimenti previsti per il 1935 e per il 1937, per lo sfruttamento delle risorse idriche della zona a monte della Cascata delle Marmore: era questo il momento che la Società attendeva per realizzare le grandi opere idroelettriche. Era prevista la realizzazione di grandi centrali idroelettriche, di altri grandi impianti, per sfruttare le acque del bacino del Vomano, con un enorme serbatoio da costruire nella Piana di Campotosto, un altro minore a Provvidenza; e poi la canalizzazione e il pompaggio delle acque del Massiccio del Gran Sasso e della Laga. «Il complesso degli impianti che si idearono, per l’utilizzo delle acque di questo bacino, rispondeva alle esigenze di disporre di una capacità di elevatissime punte di potenza, combinata con la possibilità di regolare stagionalmente la produzione, in funzione di scambi con il sistema idroelettrico alpino((F. BONELLI, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, pp. 226-231. Sulla realizzazione degli impianti idrolettrici di Campotosto e della Valle del Vomano si veda: T. MONTANARI, La torbiera e la bonifica di Campotosto in relazione agli interessi d’Aquila, di Teramo e della Valle dell’Aterno, L’Aquila, Montanari, 1906;  Aa.Vv, Le dighe di ritenuta degli impianti idroelettrici italiani, a c. della Commissione Anidel per lo studio dei problemi inerenti alle dighe, Milano, Associazione nazionale imprese distributrici di energia elettrica, 1952, vol. VI, pp. 111-130; V. BATTISTA e L. NANNI, La cultura degli oggetti, L’Aquila, Consiglio regionale dell’Abruzzo, 1984, pp. 11-122; A. DE SANTIS, Le stelle del nord Abruzzo tra storia e cronaca, Teramo, Officine grafiche Edigrafital, 1989, pp. 49-58; ID., Campotosto e il suo lago, L’Aquila, Gruppo tipografico editoriale, 2000; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, fasc. 14, Note descrittive dei vari impianti idroelettrici esistenti, b. 216.))».

Il 26 settembre 1933 era stata istituita – con Regio decreto n.1231 – la Direzione generale acque e impianti idroelettrici, del Ministero dei lavori pubblici, subentrata alla Direzione generale opere idrauliche, dello stesso ministero. L’11 dicembre 1933 era stato emanato dal governo il Testo unico – n.1775 – delle leggi sulle concessioni di acque pubbliche, il quale, oltre a raccogliere le norme in materia esistenti fino a quel momento, introdusse importanti novità a favore dell’industria elettrica, tanto da essere definito «pietra angolare del monopolio elettrico italiano». Fu sancita la possibilità di costruire “in precario”, ossia sulla base di decreti provvisori, anche prima del riconoscimento delle concessioni. Si stabilì che lo Stato avrebbe contribuito, a fondo perduto, alla costruzione di serbatoi per l’invaso delle acque, con una cifra pari al sessanta per cento delle spese. Venivano, poi, cospicue sovvenzioni per le linee di trasporto da costruire entro il 1940. In realtà non è facile accertare l’esatta portata finanziaria di questi aiuti:«E’ certo comunque che il totale delle sovvenzioni, tra il 1920 e il 1943, raggiunse 1 miliardo e 30 milioni di lire, di fronte a un immobilizzo complessivo di circa 11 miliardi». I vantaggi che gli industriali ottennero, con il Testo unico del 1933, non furono solamente economici: diveniva, infatti, facoltativa la possibilità di riscatto degli impianti da parte dello Stato, prima considerata obbligatoria nei disciplinari di concessione; e tutte le concessioni in scadenza furono automaticamente prorogate all’anno 1977. Le vicende della bonifica integrale, impostata fin dall’inizio sul criterio fondamentale del riordino e della sistemazione idraulica, andarono in molti casi ad intrecciarsi con quelle dello sfruttamento idroelettrico, in modo da giustificare l’intervento dello stato nella realizzazione delle grandi opere necessarie((T. ISENBURG, Acque e Stato. Energia, bonifiche, irrigazione in Italia fra 1930 e 1950, Milano, Franco Angeli,p.16.)).

«Nel frattempo – scrive Eugenio Scalfari in un suo saggio sulla storia segreta dell’industria elettrica in Italia, del 1963 – si verificarono incredibili episodi che, giudicati oggi a tanti anni di distanza, danno un’idea del potere raggiunto in quell’epoca dagli industriali e dei criteri coi quali lo Stato fascista amministrava gli interessi pubblici. Basti ricordare che qualunque tentativo da parte di utenti e di comuni, di riunirsi in associazioni per discutere con le società elettriche i contratti di fornitura e l’ammontare delle tariffe, fu soppresso senza eccezioni. Tra il 1927 e il 1929, i prefetti sciolsero con appositi decreti i consorzi costituiti tra utenti di Lecco, Como, Intra e Novara. Nello stesso modo fu sciolta la Federazione utenti di Torino, con richiamo agli articoli 16 e 215 del Testo unico della legge di pubblica sicurezza. Nel decreto di scioglimento dell’Associazione utenti di Novara il prefetto arrivò addirittura ad argomentare che voler discutere di tariffe elettriche significava “attentare all’ordine nazionale dello Stato”((E. SCALFARI, Storia segreta dell’industria elettrica, Bari, Laterza, 1963, p.90.))».

Il primo atto del nuovo piano di sviluppo idroelettrico della Terni fu rappresentato proprio dall’avvio dei lavori di costruzione della diga sul Turano, alle Gole di Posticciola, nel 1935, sulla base dei progetti del 1928, modificati dal Consiglio superiore dei lavori pubblici nel 1930; e autorizzati, in via provvisoria, soltanto il 16 dicembre 1936, con decreto n. 7971 del Ministero dei lavori pubblici. Il decreto provvisorio posticipato veniva giustificato dall’istanza avanzata dal Consorzio del Velino, a settembre di quell’anno, nella quale si chiedeva che le opere di sbarramento sui due fiumi fossero dichiarate urgenti e indifferibili, ai sensi di legge, non tanto per la necessità di attenuare le piene, che mettevano a rischio la Piana Reatina, ma per poter adempiere in tempo alla fornitura di energia elettrica alle Ferrovie dello Stato, con cui la Terni aveva stipulato uno specifico contratto il 25 febbraio del 1935. Altra motivazione all’emissione di quel provvedimento particolare fu che la Terni aveva già iniziato, a Posticciola, i lavori per l’organizzazione del cantiere. Il progetto definitivo fu presentato il 12 maggio 1937, con sostanziali varianti ratificate il 20 giugno dell’anno successivo; ma intanto i lavori stavano comunque procedendo, con la giustificazione dell’indifferibilità e dell’urgenza((AS Ro., AGC Ro., Servizi generali vari, Progetto delle opere occorrenti per difendere la città di Rieti dalle inondazioni del Turano e del Velino: sistemazione idroelettrica dei fiumi Velino e Nera, invaso dei bacini del Salto e del Turano. Disegni allegatiRelazione tecnica generale, b. 1212; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, fasc. 1, Consorzio Velino, Progetto sbarramento Salto e Turano, 1928, b. 295; ivi, fasc. 4, Consorzio Velino, Progetto sbarramento Salto e Turano. Progetto esecutivo, b. 256.)).

Nel progetto esecutivo del 1938 la capacità del serbatoio del Turano venne portata da 140.451.000 metri cubi a 163.481.500, aumentando l’altezza di ritenuta dalla quota da metri 535,60 a 540, con una diga che da un’altezza di sessantadue metri passava a settantacinque. L’invaso avrebbe avuto una lunghezza di circa sette chilometri. La capacità di quello del Salto fu portata da 87.721.000 metri cubi a 266.512.576, aumentando l’altezza di ritenuta dalla quota da metri 510,40 a 539,25; e la diga relativa passava da un’altezza iniziale di sessantadue metri, come quella del Turano, a centoquattro. Il lago del Salto avrebbe avuto una lunghezza di circa quattordici chilometri: dai Balzi di Santa Lucia all’imbocco delle Gole di Macchiatimone, oltre l’abitato di Sant’Ippolito. Con i due laghi a questo livello sarebbe risultata sommersa una parte del paese di Colle di Tora, nella valle del Turano, e ben quattro paesi interi della valle del Salto sarebbero stati ricoperti completamente dalle acque; ma il fatto non viene rilevato dalla relazione generale, non rientrando nel novero delle questioni tecniche. Portando i bacini allo stesso livello non era più necessario, inoltre, prevedere due distinte centrali idroelettriche ai piedi delle dighe. Era infatti previsto di collegare i due serbatoi mediante una galleria, e di convogliare le acque dei due bacini, trasformati in vasi comunicanti, in una galleria forzata, fino al Velino, dove sarebbe stata posizionata un’unica centrale, situata nei pressi di Città Ducale, per la quale non si era ancora definito il sito esatto. Un canale di scarico aperto avrebbe ricondotto l’acqua dalla centrale alla confluenza del Salto nel Velino((AS Ro., AGC Ro., Servizi generali vari, Progetto delle opere occorrenti per difendere la città di Rieti dalle inondazioni del Turano e del Velino: sistemazione idroelettrica dei fiumi Velino e Nera, invaso dei bacini del Salto e del Turano. Disegni allegatiRelazione tecnica generale, b. 1212.)).

Tutte le altre soluzioni tecniche, adottate nei precedenti progetti, rimasero invariate, compresi i siti dove sarebbero state realizzate le due dighe a gravità. In conseguenza, però, della considerevole maggiore altezza, la diga sul Salto dovette essere impostata qualche decina di metri più a valle, dove, del resto, le condizioni della roccia si presentarono migliori, «anzi addirittura ottime».

Anche le acque dell’alto tronco del Velino sarebbero state utilizzate dalla centrale di Cotilia. Con apposite canalizzazioni vi sarebbero state condotte le Sorgenti di Cànetra, quelle del Peschiera – la cui maggiore quantità alimenterà l’Acquedotto “imperiale” per l’Urbe – e quelle di un invaso artificiale di piccole dimensioni, sul Fiume Ratto, con una relativa centrale idroelettrica nel territorio di Posta. La derivazione dal serbatoio del Ratto, alla quota di 552 metri, sarebbe stata realizzata mediante un canale in galleria, sulla sponda sinistra della valle, sui fianchi orientali del Monte Giano e del Monte Nuria, sormontando le Sorgenti del Peschiera, e intercettando la condotta forzata dei bacini del Salto e del Turano, a monte della Centrale idroelettrica. In questo modo sarebbe risultata agevolata la possibilità di sollevare le acque captate dal bacino del Ratto, fino ai serbatoi del Salto e del Turano, per il loro «immagazzinamento», nel caso di non immediato utilizzo. Il sollevamento era previsto mediante l’installazione di pompe, azionate dallo stesso alternatore del gruppo motore della Centrale. La possibilità di accumulare ingenti quantità d’acqua era fondamentale per la regolazione annuale ed eventualmente anche pluriennale, della produzione di energia elettrica nell’Italia centrale, considerata la forte incidenza delle vicende atmosferiche, che possono portare a variazioni notevoli da un anno all’altro, con dannosi squilibri produttivi.

Come era avvenuto, qualche anno prima, con l’acqua del medio Nera, ricondotta nel Lago di Piediluco, mediante canalizzazioni ed opere d’arte, così anche l’alto corso del Velino subirà un trattamento analogo: deviato dal suo alveo naturale, per la massima portata e per un tratto di alcune decine di chilometri, e la sua acqua sollevata nella Valle del Salto. Da Sigillo di Posta a Cànetra di Castel Sant’Angelo il fiume Velino risulterà quasi prosciugato, per lunghi periodi dell’anno. Se si aggiungono le derivazioni alle Sorgenti di Cànetra e del Peschiera, anche il corso mediano del Velino risulterà molto ridotto nella sua portata.

Grazie proprio a questo sostanziale impoverimento delle acque della media e alta valle, tuttavia, si sarebbe ottenuta l’effettiva bonifica anche della Piana di San Vittorino, dopo secoli di inutili tentativi di sistemazione, cui si era tentato di giungere attraverso lavori di vario genere. La relazione generale del progetto di sbarramento e utilizzazione dei fiumi Salto e Turano, del 1938, metteva in risalto questo aspetto, sostenendo che, con le derivazioni da effettuare in diversi punti, si sarebbe ridotta sensibilmente anche la portata del Fiume Velino, nel tratto sensibile tra Antrodoco e Rieti, rendendo così il suo alveo capace di contenere le portate delle piene ordinarie. Quella relazione omette, però, di fare presente l’enorme aumento di portata del fiume dalla confluenza con il Salto, che si sarebbe procurata con l’immissione delle acque di restituzione dalla centrale di Cotilia. Tutti gli invasi sarebbero stati uniti da gallerie di collegamento, da condotte forzate sotterranee, e da canali di scarico, per una lunghezza di cinquanta chilometri. Un’opera d’avvero imponente, che modificherà, ancora una volta, il naturale corso fluente delle cose((Ivi.)).

I due serbatoi del Salto e del Turano avrebbero dovuto costituire oltre che una costante risorsa, anche una preziosa riserva di energia, che avrebbe potuto tornare utile per scopi militari e per «la difesa della Nazione». A progettare, poi, questo consistente aumento della capacità del serbatoio, riferisce la relazione tecnica generale, un grande incoraggiamento venne dal fatto che, durante i lavori per la realizzazione della diga del Turano, già precedentemente avviati, si constatò quanto sarebbe stato possibile risparmiare sul costo unitario del calcestruzzo e di altre voci previste, attraverso una adeguata organizzazione dei cantieri((Ivi.))

La cosiddetta variante, a cantieri aperti, dei progetti relativi ai tanto attesi bacini montani di contenimento, mise nuovamente in allarme i Reatini. Dopo tanti anni di attesa e di reiterate richieste perché venisse dato corso a quei progetti, esistenti da tempo, che avrebbero dovuto garantire i presupposti della bonifica dell’Agro Reatino, ora che stavano per avere inizio i lavori, sembrava che dovessero nuovamente cambiate le carte in tavola. Non di variante si trattava, ma di nuovi e ben più cospicui progetti: le dighe, previste di sessanta metri, sarebbero diventate dei giganti di ottanta e cento metri; invece di contenere le piene dei fiumi a monte si pensava di accumulare enormi masse d’acqua, destinate comunque ad essere in qualche modo scaricate a valle. Si innescò il timore, non infondato, che per evitare il rischio delle alluvioni ci si sarebbe potuti trovare sotto il costante pericolo di ben più gravi minacce. L’insicurezza dei Reatini cresceva, anche perché, oltretutto, non c’era ancora stato alcun stanziamento dei fondi previsti per la bonifica reatina. Si trattava di 8.000.000 di Lire, di cui, secondo le interpretazioni ministeriali solo il 62% sarebbe stato erogato dallo Stato, il resto era previsto a carico dei privati, che tentavano, invece, di alleggerirsi di quel carico.

Ancora una volta fu il principe Potenziani, in qualità di presidente del Consorzio speciale per la bonifica della Piana Reatina, ad aprire la nuova contesa con la Società Terni. Egli investì del problema direttamente il Capo del governo. Il 14 gennaio 1938 Mussolini dava disposizioni al responsabile della sua Segreteria particolare, Osvaldo Sebastiani, di contattare in merito il sottosegretario al Ministero dell’agricoltura e foreste, Giuseppe Tassinari: «Dire a Tassinari che bisogna provvedere alla bonifica del piano di Rieti. Non è ammissibile che alle porte di Roma vi sia ancora una plaga sotto acqua (…)». Il giorno dopo, 15 gennaio, Tassinari, dalla Direzione generale della Bonifica integrale, inviava un «Pro-memoria per il Duce», nel quale spiegava che il problema della bonifica della Piana Reatina era stato attentamente considerato dal Ministero dell’agricoltura e foreste, che aveva destinato 8.000.000 di Lire a quel comprensorio, per la sistemazione idraulica dei terreni in destra del Velino «mediante l’esecuzione di varie opere di canalizzazione e dell’impianto idrovoro di Ripasottile». C’era però da tenere presente che l’autorizzazione di spesa, disposta con il Decreto legge in corso di emanazione, poteva essere effettivamente impegnata in un periodo di quindici anni.

«Non è possibile ancora precisare – scrive Tassinari – se la dotazione di 8.000.000, destinata alla bonifica della Piana Reatina potrà essere, in tutto o solo in parte, compresa nel programma immediato, occorrendo tener conto delle numerose opere che è urgente autorizzare al più presto per la loro peculiare importanza e che V. E. ben conosce. Ad ogni modo delle esigenze di quella bonifica sarà tenuto debito conto nel formulare il programma di dettaglio per le più prossime realizzazioni((ACS, SPCG, Carteggio riservato, b. 451, f. 173.491.))».

Il mese successivo il principe Potenziani inviava una relazione al Capo del governo per illustrare le problematiche della bonifica reatina, in stretta connessione con le contese aperte dal Consorzio di bonifica contro le opere del Consorzio idroelettrico del Velino, ossia la Società Terni, realizzate a Piediluco e alle Marmore, per la Centrale di Galleto. Potenziani rammentava come il concessionario di quelle derivazioni avesse obblighi precisi, sanciti dal disciplinare allegato al Decreto reale del 14 marzo 1929, nei confronti dei proprietari delle terre soggette alle esondazioni causate dai lavori di sbarramento a valle. Faceva presente, inoltre, come il Consiglio superiore dei lavori pubblici, già nel 1933, avesse approvato il programma dei lavori di bonifica, ritenuti necessari e indispensabili, imponendo le regole di gestione dell’invaso di Piediluco, fino alla realizzazione degli impianti idrovori, a carico del Sottosegretariato alla bonifica integrale. Chiedeva, pertanto, che venisse finanziato l’intero programma di bonifica, senza dilazioni e ritardi burocratici; e che la Società Terni fosse «senza indugio costretta a pagare tutti i danni prodotti alla Piana Reatina in dipendenza della sopraelevazione del Lago di Piediluco da quota 368 a quota 369 (perché possa V.E. conoscere l’entità dei danni di che trattasi la Società “Terni” ha pagato, solamente per la parte più danneggiata della Piana nell’anno 1936, la somma di lire  749.019,00)». Chiedeva, infine, che , a norma dei disciplinari imposti alla Terni, i lavori di costruzione dei bacini montani, essenziali per la bonifica reatina, e che la Terni aveva iniziati con decreto provvisorio, venissero eseguiti «in pieno accordo con questo Consorzio di cui è chiarissimo l’interesse, sia per la sicurezza della Piana, sia per le eventuali derivazioni di acqua per uso di irrigazione((Ivi.))».

Alle relazione di Potenziani rispose il Ministro dei lavori pubblici, Giuseppe Cobolli Gigli, con un promemoria al Capo del governo del 18 febbraio 1938. Sulla prima richiesta, relativa al finanziamento della bonifica, il ministro rispose che spettava provvedere al Ministero dell’agricoltura e foreste, il quale, su sollecitazione della Confederazione fascista degli agricoltori, era stato interessato ad affrettare l’iter amministrativo, per arrivare in tempi brevi all’esecuzione dei lavori. Sui rimborsi agli agricoltori della Piana Reatina, da parte della Società Terni, per i danni causati dal rialzamento del livello del Lago di Piediluco, il ministro fece presente che, in seguito al suo personale interessamento, si era pervenuti ad un compromesso tra la Confederazione fascista degli agricoltori e quella dei lavoratori dell’agricoltura, da un lato, e la Confederazione fascista degli industriali della Società Terni, dall’altro, in forza del quale la Terni si era obbligata a indennizzare i danni derivati dal maggior invaso del lago, fino a quando si fosse reso necessario. Il ministro rammentava che per l’annata agraria del 1936 la Terni aveva assolto al suo obbligo. Sulla terza richiesta di coinvolgimento del Consorzio di bonifica della Piana Reatina sulla progettazione ed esecuzione dei lavori dei bacini montani, in corso di esecuzione da parte della Terni, il ministro Cobolli Gigli osservava che l’esame e l’approvazione dei relativi progetti spettavano al suo ministero e, pertanto, non era ammissibile un coinvolgimento del Consorzio di bonifica. Tuttavia faceva presente che, in sede di redazione del disciplinare, che dovrà regolare la concessione dei serbatoi, si sarebbero potute inserire tutte quelle clausole necessarie per garantire l’irrigazione della Piana Reatina. Un nuovo gravissimo inconveniente, però, stava per abbattersi sulla programmazione dei lavori del Consorzio di bonifica: il mancato inserimento, a febbraio del 1938, dei due miliardi di Lire previsti nella ripartizione pluriennale dei fondi per la bonifica reatina((Ivi; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, Fasc. 5, Risarcimento danni alle colture, 1926-1936, b. 30.)).

Per il principe Potenziani, non riuscendo a far valere fino in fondo il prestigio di cui godeva a livello governativo, era giunto il momento di passare alle azioni giudiziarie, per difendere gli interessi del Reatino. L’otto luglio del 1938 il Consorzio di bonifica della Piana Reatina presentò un atto di diffida al Ministero dei lavori pubblici e all’ingegnere capo dell’Ufficio del Genio civile di Rieti, perché si procedesse all’immediata sospensione dei lavori «illegalmente intrapresi dalla Terni», sui fiumi Salto, Turano e Velino, non previsti dal progetto approvato il 30 aprile 1928 e 13 luglio 1930, e realizzati dall’ingegnere Angelo Omodeo. Nella diffida si chiedeva, inoltre, che la stessa Società Terni presentasse, ai sensi di legge, i progetti di tutte le opere che stava costruendo, ordinando l’istruttoria prevista. Si invitava, infine, a fissare il termine massimo stabilito dalla legge per la presentazione di eventuali osservazioni e opposizioni al progetto stesso. Nella diffida si faceva esplicitamente riferimento al fatto che la Terni, nella costruzione delle opere idroelettriche sui fiumi Salto e Turano, non si atteneva più al progetto approvato dell’ingegner Omodeo, ma stesse dando esecuzione ad opere diverse e di carattere molto più vasto, senza che i progetti relativi fossero stati presentati per le dovute approvazioni di legge.

«(…) le nuove opere di cui il Consorzio del Velino (Soc. Terni) ha intrapreso la costruzione – si legge nella diffida – progettata ai soli fini industriali, possono turbare e modificare sostanzialmente e in modo completamente diverso da quello previsto dal precedente progetto approvato, il regime delle acque dei fiumi che attraversano la Piana Reatina e conseguentemente tutto lo stato idraulico della piana stessa, con conseguenze non prevedibili e non calcolabili sulla economia agraria di tutta la Piana, e sulla portata ed efficacia delle opere di bonifica in corso di costruzione da parte dello istante Consorzio((AS Ri, ASC Ri, Cat. VII, Lavori pubblici, Cl, VII, Acque, Fasc. 5, Lavori sul Velino, Consorzio di bonifica della Piana Reatina, Atto di opposizione progetto 20 giugno 1938 del Consorzio idroelettrico del Velino, 1939, Atto di diffida del 7  luglio 1938, b. 702.))».

Quando la diffida del Consorzio di bonifica veniva notificata all’Ufficio del Genio civile di Rieti, in data 8 luglio 1938, la Società Terni aveva già presentato, il 20 giugno, le copie della cosiddetta variante al progetto per gli invasi artificiali del 18 gennaio 1937, mutuato da quello del 1928, che prevedeva il potenziamento degli impianti idroelettrici. Il principe Potenziani non si dette per vinto, ed ottenuti i termini massimi per presentare eventuali osservazioni, a rigor di legge, il 18 febbraio 1939 il Consorzio di bonifica della Piana Reatina presentò formale Atto di opposizione al progetto del Consorzio idroelettrico del Velino del 20 giugno 1938. Il motivo risiedeva nel fatto che nel progetto in pubblicazione si prevedeva di riversare nel Fiume Velino una portata eccessiva di acqua, attraverso la condotta forzata che dai bacini artificiali avrebbe raggiunto la Centrale idroelettrica nei pressi di Città Ducale, ed il canale di scarico che avrebbe raggiunto la confluenza del Salto.

A giudizio del Consorzio di bonifica quelle portate avrebbero avuto come conseguenza un forte innalzamento del livello delle acque del Fiume Velino, a valle dello scarico della centrale; così da creare seri motivi di apprensione, per il rischio di ancor più gravi esondazioni, di quelle che si voleva scongiurare, proprio per mezzo di quei lavori. All’Atto di opposizione veniva allegata la relazione tecnica dell’ingegner Romolo Lorenzetti, redatta per conto del Consorzio di bonifica, sul progetto del Consorzio idraulico del Velino del 20 giugno 1928, dalla quale si deducevano con analisi scientifiche i rischi ed i danni che si sarebbero procurati alla Piana Reatina((Ivi.)).

In appoggio all’azione del Consorzio di bonifica della Piana Reatina si mobilitarono tutti i soggetti pubblici e privati, che si ritenevano minacciati, nelle loro attività economiche, dai lavori programmati dalla Terni. Tra le cinquanta azioni formali di opposizione, presentate in quello stesso mese di febbraio del 1939, c’erano tutte le aziende agricole dei comprensori della Piana Reatina, della Valle del Velino, di quella del Salto e del Turano. C’erano quasi tutte le relative amministrazioni comunali, tra le quali quella di Castel Sant’Angelo, che temeva per la «menomazione della bellezza panoramica del Laghetto di Cànetra».

Anche l’Amministrazione provinciale di Rieti si oppose, per ottenere la corretta esecuzione delle nuove opere stradali, dei nuovi ponti e viadotti. Dopo attento esame della domanda di concessione delle acque del Salto, del Turano e del Velino, da parte del Consorzio idroelettrico del Velino, l’Ingegnere capo dell’Amministrazione provinciale di Rieti, Tullio Mercatanti, aveva riferito al Preside, con dettagliata relazione datata 25 gennaio 1939, sulle gravi carenze dei tracciati stradali nuovi progettati dalla Società Terni per i laghi artificiali. Le pendenze della nuova strada intorno al Lago del Turano risultavano eccessive; mentre per il Lago del Salto non c’era ancora il progetto definitivo. Inoltre, secondo il progetto di massima, il tracciato di quella strada interprovinciale si sarebbe dovuta arrestare a Borgo San Pietro di Petrella Salto, interrompendo il collegamento per Avezzano. Infine la relazione Mercatanti, fatta propria dal preside, arriva alle stesse conclusioni illustrate nell’atto di opposizione di Potenziani. Egli ricorda che l’autorizzazione provvisoria di concessione, del 16 dicembre 1936, aveva consentito al Consorzio del Velino di iniziare i lavori, «spingendoli con la massima celerità, secondo le modalità del nuovo progetto, che non può essere in alcun modo considerabile una variante del precedente, di assai maggiore portata. Pertanto si chiede che l’emettendo decreto consideri la concessione ex novo, assegnandole una durata di sessanta anni, prevista dalla legge((AS Ri, ASP Ri, Cat. VI, Acque, Deviazioni, Cl. 2, Posiz. 1, Consorzio “Velino” fra la Provincia di Perugia e la Società “Terni”, b. 1677.))».

A proposito della nuova strada del Salto prese parte all’opposizione al nuovo progetto della Terni anche la Società anonima cicolana, concessionaria del servizio pubblico di linea, per il trasporto dei passeggeri e delle merci, da Rieti ad Avezzano, che, dopo l’esame del progetto di sistemazione stradale in relazione alla realizzazione del bacino artificiale del Salto, presentò le sue obiezioni all’Ufficio del Genio civile di Rieti. Le rimostranze della Società Cicolana erano le stesse dell’Amministrazione provinciale di Rieti, con un’accentuazione particolare non solo al collegamento tra Rieti ed Avezzano, ma anche a quello tra le due sponde della Valle del Salto, con problemi di grave isolamento di vaste aree tra l’Abruzzo e la Sabina((Ivi; Archivio storico del Comune di Petrella Salto (ASC PS.), Post., S. XIV, Fasc. 21/9, Comunicazione della Soc. anonima cicolana all’Ufficio del Genio civile di Rieti, 3 febbr. 1939, b. 378.)).

A quei progetti si opposero anche la Confederazione fascista degli agricoltori, l’Istituto nazionale di genetica per la cerealicoltura, l’Azienda comunale di Rieti di elettricità ed acque. Nella lista degli oppositori al nuovo progetto della Terni entrarono anche coloro che dalla bonifica integrale della Piana Reatina temevano di avere un danno sostanziale e un minimo godimento dei benefici complessivi, ossia i tre titolari delle fornaci per laterizi alle porte di Rieti, alimentate, per deposito di melletta, dalle acque del Velino e del Turano: la Ditta Ionio D’Orazi, fuori Porta Aringo; quella di Teresa Martini, sulla Via Salaria, fuori Porta Romana; e quella dei Fratelli Fronzetti, nella stessa area, tra la Via Salaria e la Via Tancia. Tra gli oppositori c’erano anche molti di coloro che avrebbero sicuramente perduto la propria attività, il proprio esercizio commerciale, legati ai paesi da sommergere: e c’era pure chi temeva di perdere la propria concessione per il pastificio, per il mulino, per la conceria, per l’irrigazione degli orti((AS Ri, ASP Ri, Cat. VI, Acque, Deviazioni, Cl. 2, Posiz. 1, Consorzio “Velino” fra la Provincia di Perugia e la Società “Terni”, b. 1677.)). Nonostante le ostilità ai progetti, manifestate ufficialmente, i lavori procedettero alacremente.

A scanso di qualsiasi rischio giudiziario futuro, la Società Terni, considerati i ricorsi, le diffide, le opposizioni e le azioni legali, contro il suo operato, riguardo al bacino del Velino, già nel 1937 aveva promosso la costituzione della Società Elettrica alto Velino, con un capitale di cinquanta milioni di lire e sede legale a Genova, che, al momento opportuno, avrebbe potuto partecipare all’impresa di realizzazione dei bacini montani, entrando a sua volta a far parte, a pieno titolo, del Consorzio idroelettrico del Velino. La nuova società – figlia della Terni – era chiamata, eventualmente, a realizzare e gestire esclusivamente i bacini artificiali a monte della Piana Reatina, che nel 1928 erano stati distinti dal complesso delle opere da realizzare, secondo il decreto di concessione di derivazione delle acque pubbliche del 1923. A febbraio del 1938, con i lavori delle dighe in corso, il Consiglio di amministrazione del Consorzio del Velino deliberò la sostituzione della Società Elettrica alto Velino alla Terni, Società per l’industria e l’elettricità, in tutti i diritti ed obblighi provenienti dall’atto costitutivo del consorzio stesso, «limitatamente ai bacini del Salto e del Turano e relative opere, per la utilizzazione delle acque a monte della Piana Reatina((AS Tr., ASoTe., Serbatoi sul Salto e sul Turano, Fasc. 1, b. 74.))».

Le opposizioni non procurarono alcuna sospensione ai lavori, che procedettero regolarmente, e nel dopoguerra risulteranno tutte respinte dal Ministero dei lavori pubblici, oppure interpretate come suggerimenti, di cui tenere conto nel disciplinare di gestione degli impianti. Alla Terni verrà, invece, riconosciuta, nel dopoguerra, l’ammissibilità delle richieste avanzate tra il 1938 ed il 1939, per l’esonero parziale del pagamento del canone di concessione delle derivazioni, per l’ottenimento del contributo governativo alla spesa di costruzione dei serbatoi, e quelli, previsti dalla legge, per l’irrigazione. Nelle domande della Terni, si sottolineava, infatti, che i serbatoi sul Salto e sul Turano, erano da considerarsi opere di interesse generale, che avrebbero contribuito ad aumentare e migliorare la produzione di energia elettrica in Italia centrale, e a reggimentare le acque, apportando un beneficio alla situazione idraulica di tutta la vallata((AS Ri, ASP Ri, Cat. VI, Acque, Deviazioni, Cl. 2, Posiz. 1, Consorzio “Velino” fra la Provincia di Perugia e la Società “Terni”, b. 1677.)).

In base al Testo unico di leggi sulle acque e sugli impianti elettrici, dell’11 aprile 1936, era previsto che il contributo governativo, per ogni serbatoio, realizzato secondo il progetto esecutivo approvato dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, non potesse superare il trenta per cento dell’importo complessivo, aumentato del dieci per cento, relativamente alle spese di studi, compilazione dei progetti e di carattere amministrativo. Il contributo governativo poteva , però, essere elevato fino al sessanta per cento nel caso in cui la costruzione dell’invaso avesse reso in tutto o in parte inutile l’esecuzione di opere idrauliche di bonifica «o di altra categoria da eseguirsi o sussidiarsi dallo Stato», oppure avesse giovato all’irrigazione e all’azionamento di impianti idrovori necessari per la bonificazione di vasti territori. Si comprende, pertanto, quale fu la leva sulla quale il Consorzio di bonifica della Piana Reatina, e per esso il suo presidente, poté fare pressione per ottenere garanzie precise sul corretto uso degli impianti idroelettrici((MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI, DIREZIONE GENERALE DELLE ACQUE E DEGLI IMPIANTI ELETTRICI, Testo unico di leggi sulle acque e sugli impianti elettrici. Istruzioni ministeriali, in «Bollettino ufficiale» (1936), 11 aprile, n. 11, pp. 36-37.)).

Il progetto iniziale delle due dighe fu ideato, come detto, dall’ingegnere Angelo Omodeo, reso esecutivo dagli ingegneri Canio Bochicchio e Giorgio Castelli. I consulenti, per la parte geologica, furono i professori Giorgio Dal Piaz e Leo Maddalena. La direzione locale dei lavori fu affidata agli ingegneri Francesco Bronzini e Giovanni Martinelli, entrambi della società Terni, che eseguì le opere in amministrazione diretta. Le parti meccaniche delle dighe furono fornite dalla Società Franco Tosi di San Giorgio di Biassono, in Provincia di Milano; il cemento dalle Cementerie di Spoleto, della Società Terni, dagli stabilimenti di Civitavecchia e Pontassieve, della Italcementi((Aa.Vv, Le dighe di ritenuta degli impianti idroelettrici italiani, a c. della Commissione Anidel per lo studio dei problemi inerenti alle dighe, vol. VI, pp. 131-148.)).

I cantieri per la realizzazione degli impianti

I lavori per la realizzazione dei bacini del Salto e del Turano iniziarono nella seconda metà del 1936, entrando in pieno sviluppo l’anno successivo. I lavori si svolsero con un certo sfasamento nei tempi di realizzazione, in modo da utilizzare – soprattutto per le due dighe – la medesima attrezzatura di cantiere e le stesse maestranze. Fu iniziata per prima la diga sul Fiume Turano, alle Gole di Posticciola, nei pressi dell’abitato omonimo, nel territorio del Comune di Rocca Sinibalda. La diga del Turano risulterà ultimata nel 1938, mentre quella del Salto nel 1939((AS Ri, ASPre Ri, Ufficio di Gabinetto, Cat. 14, Ministero dei lavori pubblici, Bacini idroelettrici sul Salto e sul Turano, 1929-1961, b.19.)).

Data la mole delle opere da costruire e la conseguente vastità dei cantieri, nonché l’asprezza dei luoghi dove andavano realizzati gli sbarramenti, si rese necessario predisporre preventivamente una complessa organizzazione dei cantieri, con le installazioni necessarie per l’attuazione dei programmi nei tempi stabiliti. Fu assicurato il vitto e l’alloggio, a grandi masse di operai, agli impiegati e ai dirigenti. Furono apprestati grandi impianti per gli scavi, per la frantumazione e vagliatura del materiale di cava e di fiume; approntati impianti per la preparazione e distribuzione del calcestruzzo, con l’impiego di tanti motori elettrici, di decine di argani, frantoi per la sabbia, betoniere, locomotive per il traino di centinaia di vagonetti, necessari per il trasporto del materiale, collocati su diversi chilometri di binarietti.

Si costruirono baraccamenti in legno e muratura, per le officine e i laboratori, dove si effettuavano anche le manutenzioni e le riparazioni delle macchine. C’erano i locali per le cucine, i refettori, i servizi igienici, gli spacci per i generi alimentari, i macelli, i magazzini, l’Ufficio postale, le sale ricreative per il dopolavoro, le infermerie. A Caporìo, nel territorio di Città Ducale, nei pressi delle Sorgenti del Peschiera e delle Terme di Cotilia, sulle sponde del Rio che serviva una serie di antichi mulini, fu attivato il cantiere per la costruzione della Centrale idroelettrica, da realizzate in grotta artificiale. Lì fu stabilita la sede della direzione dei lavori, e realizzato il villaggio operaio, con nove baracche per gli operai, costruite in legno e muratura, di forma quadrangolare e rettangolare, tetto a doppio spiovente di eternit, pavimenti in cemento lisciato ed ampie finestre. Al villaggio di Caporìo, furono realizzati anche diversi edifici stabili in muratura: la palazzina a due piani per ospitare gli uffici della direzione; gli edifici in muratura a due piani con porticato, di forma rettangolare molto allungata, per i servizi, che formavano una sorta di esedra intorno al piazzale, chiuso a meridione dalla Cappellina di S. Barbara, anch’essa in muratura. L’intitolazione della Cappella alla patrona dei minatori, fu voluta in ossequio a coloro che sarebbero stati i principali artefici dei cinquanta chilometri di gallerie per gli impianti idroelettrici e per quelle dell’Acquedotto imperiale del Peschiera, che avrebbe rifornito la capitale, il cui avvio dei lavori fu previsto per il mese di gennaio del 1938((Ivi ; AS Tr., ASo Tr., Centrali e impianti idroelettrici, fasc. 3, Baracche di legno adibite a ricovero degli operai, b. 103.)). Ogni 4 dicembre, giorno dedicato ai festeggiamenti di santa Barbara, si fermavano i cantieri. La giornata era regolarmente retribuita, ma tutti gli operai erano invitati a partecipare alla cerimonia religiosa al villaggio operaio di Caporìo. Presso la Cappella di S. Barbara, proprietà della Terni, gestita dai Frati cappuccini del Convento di San Mauro a Rieti, si svolgeva la cerimonia religiosa: dopo la messa c’era la solenne processione, con l’effige della santa, che dalla Cappella raggiungeva prima la Centrale idroelettrica, poi l’abitato di Caporìo e tornava alla chiesa. La festa di Santa Barbara a Caporìo si è svolta fino all’inizio degli anni Settanta. Dopo diversi anni di decadimento è stata riproposta da uno specifico comitato, in concomitanza con il passaggio della Cappella alla Curia vescovile di Rieti, ed affidata alla Parrocchia di Città Ducale((APM Ri, Tit. III, Cl. V, Etnografia – archivio sonoro, biografie, 1978-2009, notizie fornite da mons. Antonio Conte, Parroco di Città Ducale e da Oreste Dante di Calcariola di Città Ducale.)). La devozione dei minatori verso la Santa era molto forte a quell’epoca, specie tra i Bergamaschi, che costituivano il nucleo principale degli operai specializzati: «O santa Barbara, o santa Barberina / dei minatori sei la regina», cantavano in coro quel giorno, durante la cerimonia religiosa. A lei si affidavano chiedendo la grazia d’essere preservati dal «mal de la mina», la silicosi, e di tenere lontani i tanti pericoli ai quali erano esposti: esplosioni mal controllate, crolli, deragliamento dei vagoncini durante il trasporto dei detriti, guasti improvvisi alle macchine((Cfr. L. RAVASIO, Santa Barbara regina dei minatori, in «L’Eco di Bergamo», 1° dic. 2002, p. 29.)).

La creazione dei due laghi avrebbe portato alla realizzazione di oltre cinquanta chilometri di nuove strade, i cui lavori erano già avviati, per il raccordo di quelle preesistenti a valle e a monte delle dighe, e per il collegamento delle sponde opposte. Sarà necessario realizzare un numero considerevole di opere d’arte: piccoli ponti, ponti di media grandezza e i due grandi viadotti di attraversamento degli invasi, a Fiumata di Petrella Salto, per il Lago del Salto, e a Castel di Tora, per il Lago del Turano. La costruzione delle nuove strade della Valle del Salto era stata affidata alla Ditta Fratelli Scanzani di Rieti; quelle della Valle del Turano alla Ditta Attilio Floridi, anch’essa di Rieti. Quasi in contemporanea sarebbero stati ricostruiti i quattro interi paesi del Cicolano, che il Lago del salto avrebbe sommerso completamente((AS Ri, Archivio storico della Prefettura di Rieti, Ufficio di Gabinetto, Cat. 14, Ministero dei lavori pubblici, Bacini idroelettrici sul Salto e sul Turano, 1929-1961, b.19.)).

«Tutta la Sabina, possiamo affermare con sicurezza, – scriveva la stampa dell’epoca – è un cantiere in opera, per il proprio avvenire sempre più fulgido. Là si gettano ponti, si deviano corsi di fiumi, si incanalano le loro acque; più in giù si scava, si mina, si trivella, per formare laghi artificiali che daranno la forza motrice alla madre Roma; su tutto il territorio si allacciano abitati con comode strade, si dotano i villaggi più isolati con acquedotti di ottima e abbondante acqua potabile, sono sorti stabilimenti industriali, come la Supertessile, la Montecatini, l’O.R.L.A. (…) e l’aeroporto militare, realizzato in poco più di un anno. Qui meritano speciale menzione le grandiose opere di bonifica, le strade, gli acquedotti e le dighe che sono in corso di lavorazione((M. G. BATTAGLIA, L’avvenire della Sabina, in R. PROVVEDITORATO AGLI STUDI PER LA PROVINCIA DI RIETI, La Sabina e il Fascismo, Roma, Istituto grafico tiberino editore, (1939), pp. 62-66.))».

Al di là della retorica si dovevano costruire d’avvero opere di grandi dimensioni, che avrebbero modificato completamente il paesaggio di intere vallate, attraverso la costruzione di dighe da trecento e trecentocinquanta mila metri cubi: quella del Turano avrebbe raggiunto l’altezza di circa ottanta metri, con una larghezza alla base di circa cinquanta metri; quella del Salto, con i suoi 104 metri di altezza, sarebbe risultata la più alta d’Europa. Per indicarne la mole basti ricordare che avrebbe avuto, alla base, uno spessore di 97 metri. Per delineare l’entità degli interventi è utile riferire alcuni dati. A impianti ultimati risulteranno scavati oltre due milioni di metri cubi di materiali, per le fondazioni e l’impostamento delle dighe, per l’ingrottamento della centrale di Cotilia, per le gallerie ed il canale di scarico, per la realizzazione delle strade e la ricostruzione dei paesi sommersi. Risulteranno, poi, impiegati più di un milione di metri cubi di calcestruzzi, per la costruzione delle dighe e di tutti gli impianti. Saranno impiegati più di un milione di metri cubi di ghiaie, pietrisco e sabbia, estratti e lavorati sul posto; più di due milioni di quintali di cemento; centomila quintali di ferro e acciaio; e ottomila quintali di esplosivo. Per la realizzazione della diga del Turano sarà impiegato, mediamente, un numero di tremila operai, e quattromila per quella del Salto; mille per la centrale idroelettrica di Cotilia; ed altrettanti per le gallerie; per un totale di sei milioni e duecentomila giornate lavorative in tre anni((AS Ri, Archivio storico della Prefettura di Rieti, Ufficio di Gabinetto, Cat. 14, Ministero dei lavori pubblici, Bacini idroelettrici sul Salto e sul TuranoRelazione al Prefetto,1929-1961, b.19.)).

«Come si sa, – scrive ancora la stampa locale – la “Terni” realizza il magnifico progetto di dotare Roma e tutta l’Italia meridionale, fino alla Sicilia, della forza motrice necessaria a garantire le più moderne e grandiose esigenze industriali ed a riscattare la nostra Nazione Imperialistica dalla schiavitù del carbone minerale straniero((M. G. BATTAGLIA, L’avvenire della Sabina, cit..))».

Le grandi opere dell’alto Velino avevano lo scopo di costituire un sistema idroelettrico capace di rendere più uniforme l’esercizio degli impianti già esistenti nel bacino Nera – Velino, i quali, insieme a quello che si doveva realizzare sul bacino del Vomano, avrebbe dato vita a un grandioso complesso di opere per il migliore sfruttamento di tutti gli impianti idroelettrici dell’Italia centrale. Fino a quel momento solo una piccola parte delle portate massime dei fiumi Velino, Salto e Turano, venivano utilizzate, attraverso la grande centrale di Galleto e l’invaso di Piediluco. Una grande quantità di energia veniva perduta, con le conseguenze delle gravi inondazioni causate nella Piana Reatina. Mentre nei periodi di magra si verificava un notevole decremento nella produzione idroelettrica. I nuovi invasi avrebbero messo a disposizione un’ulteriore quantità di energia totale annua pari a più di mezzo miliardo di Kilowatt ore.

Dall’invaso del Salto, comunicante con quello del Turano, mediante galleria sotterranea, sarebbe stata allacciata la condotta forzata, lunga circa dodici chilometri, per la Centrale idroelettrica di Cotilia, per la quale si scelse come sito il piede della Montagna di Ponzano, sulla sponda sinistra del Velino, di fronte all’abitato di Caporìo, sulla strada per Capradosso e Petrella Salto. La Centrale di Cotilia sarebbe stata quasi completamente sotterranea, coperta da una struttura a volta in cemento armato, e da un terrapieno si circa quindici metri di spessore; in modo da resistere a qualsiasi tipo di attacco aereo. I trasformatori sarebbero stati sistemati in gallerie, scavate sul fianco della montagna, a ridosso della centrale, mentre le apparecchiature delle linee ad alta tensione sarebbero state disposte all’aperto sul terrapieno di protezione della centrale stessa. La potenza installata sarà di circa centocinquantamila cavalli vapore, divisa in due gruppi principali, costituiti ciascuno da un alternatore – motore trifase, una turbina “Francis”, da una pompa centrifuga sullo stesso asse, e da due gruppi secondari, costituiti ciascuno da un alternatore e da una turbina((AS Ri, Archivio storico della Prefettura di Rieti, Ufficio di Gabinetto, Cat. 14, Ministero dei lavori pubblici, Bacini idroelettrici sul Salto e sul TuranoRelazione al Prefetto,1929-1961, b.19.)). Continuava intanto a crescere il numero dei cantieri in allestimento.

Il gran numero di operai impiegati si spiega con il fatto che molti lavori erano ancora eseguiti con pala e piccone, però la realizzazione di opere dell’imponenza di questi impianti idroelettrici, in tempi tanto ristretti, non sarebbe mai stata possibile se già a quell’epoca lo sviluppo tecnico dell’attrezzatura dei cantieri non avesse fatto enormi passi in avanti, rispetto ai due decenni precedenti. «Soltanto perfezionatissimi macchinari, studiati e messi a punto da tecnici specialisti, con l’impiego di tutte le risorse dell’ingegneria, – scrivono le riviste nazionali dell’epoca – hanno reso possibile la creazione di opere così imponenti, come le grandi dighe per i laghi artificiali che, nelle alte vallate alpine immagazzinano le varie centinaia di milioni di metri cubi di acqua per le nostre centrali idroelettriche((B. CHIESA, Impianti di cantiere, in «Le vie d’Italia», 1935, XLI, 1, pp. 33-48.))».

Alla realizzazione delle condotte forzate collaborarono anche le Officine meccaniche e fonderie F.lli Catini di Rieti, che erano in grado di lavorare grandi lamiere d’acciaio e di realizzare particolari tecnici di alta precisione. Le Officine Catini stabiliranno un proficuo rapporto con la Società Terni, partecipando alla costruzione di altri impianti((AS Tr., ASo Tr., Consorzio Velino, Progetto sbarramento Salto e Turano, Progetto esecutivo, b. 256, fasc. 4; ivi, Miscellanea, b. 269, fasc. 34.)).

Nei cantieri delle dighe del Salto e del Turano, tornarono in azione le scavatrici meccaniche a cucchiaio, allora considerate grandi macchine, in funzione da un paio di decenni, e utilizzate nello scavo del Canale di Santa Susanna, allacciante le acque a nord della Piana Reatina, prossimo all’inaugurazione. Il trasporto del materiale scavato venne effettuato con vagonetti ribaltabili, detti Decauville, che trasportavano circa due metri cubi ciascuno e correvano su binarietti leggeri a scartamento di sessanta, settanta centimetri. I trenini, formati da venti, trenta vagonetti, venivano trainati da locomotive, con motore Diesel, funzionanti a nafta e della potenza di venti, trenta cavalli vapore. Successivamente subentrarono le locomotive con motore elettrico, utilizzate soprattutto nelle gallerie, dove prima si usavano i muli, oppure si trainavano a mano. Sul posto si svolgeva il ciclo di produzione completo del calcestruzzo, necessario per la creazione degli sbarramenti e per la costruzione della centrale idroelettrica. I materiali inerti furono ricavati in parte dalle zone alluvionali di fondo valle, a monte degli sbarramenti, e in parte dalle cave aperte in zona.

Nella Valle del Turano oltre ad utilizzare le cave fu scavato anche il letto del fiume, con due scavatori a cucchiaio e uno a benna strisciante. Il materiale ricavato veniva trasportato nei depositi con una teleferica e con i vagonetti Decauville. Prima dell’inizio delle gettate di calcestruzzo, nei depositi di cantiere della diga del Turano, la prima ad essere posta in opera, erano stati accumulati 120.000 metri cubi di inerti. Per il calcestruzzo di tipo plastico fu utilizzato cemento Portland, del tipo a resistenza su malta normale a 28 giorni, di 450 chilogrammi su centimetro quadrato. Durante le gettate della diga del Turano, furono prelevati 687 campioni, detti “provini”, e sottoposti appunto a prove di rottura a compressione, e di permeabilità: 191 presso il Laboratorio sperimentale dell’Istituto di scienza delle costruzioni dell’Università di Roma, per le prove di compressione; 52 presso l’Istituto sperimentale delle Ferrovie dello Stato, per quelle di permeabilità; e i rimanenti 444 presso il Laboratorio di cantiere. Le verifiche statiche, eseguite a fine lavori, con i sistemi allora consueti, per le dighe a gravità, riscontreranno lo sforzo massimo di compressione, a serbatoio pieno, di 15,3 chilogrammi su centimetro quadrato, per il serbatoio del Turano, e di 23,7, per quello del Salto, ampiamente entro i parametri previsti((Aa.Vv, Le dighe di ritenuta degli impianti idroelettrici italiani, a c. della Commissione Anidel per lo studio dei problemi inerenti alle dighe, Milano, Associazione nazionale imprese distributrici di energia elettrica, 1952, vol. VI, pp. 131-148.)).

Nelle cave si otteneva con le mine il materiale che avrebbe formato il corpo delle dighe: pietrisco e sabbia, ricavati frantumando rocce di qualità adatta. Con il sistema dei “fornelli” il materiale veniva calato, con apposite tramogge, dalla cava in sottostanti voragini e gallerie, aperte all’esterno, caricato nei vagonetti, e trasportato nei frantoi, per essere vagliato, lavato, triturato in varie dimensioni, e passato direttamente negli impianti per il confezionamento e la distribuzione del calcestruzzo. C’era un impianto per ciascuna sponda della valle, dotati entrambi di silos specifici. Il trasporto, dal magazzino principale, avveniva mediante pompe speciali, denominate Fuller, con dosatori a bilancia. Ogni impianto era attrezzato con cinque o sei betoniere da 750 litri. La posa in opera del calcestruzzo veniva effettuata, per entrambe le dighe, con due gru teleferiche, modello Blondins, a piloni fissi, di cinquemila chilogrammi di portata, mediante benne a fondo apribile, tubazioni e vagonetti, le cui vie di corsa mobili erano appoggiate, di volta in volta, sul calcestruzzo già in opera. Si arrivò ad una produzione massima giornaliera di 1.800 metri cubi, e ad una produzione media di circa mille metri cubi, colato in casseforme di legno e di ferro, con lavorazione continua su tre turni in tutte le stagioni((B. CHIESA, Impianti di cantiere, in «Le vie d’Italia», cit.; APM Ri, Tit. III, Cl. V, Etnografia – archivio sonoro, biografie, 1978-2009, intervista ad Eugenio Carmesini di Grotti di Città Ducale, 27. 2. 2002.))

Avvedute e sapienti direttive presiedevano all’organizzazione di un cantiere così complesso, sia sul piano tecnico che della disciplina delle maestranze, costituite da tanti operai di diverse qualifiche e provenienti solo in parte dalle vallate del Reatino. Il numero degli operai forestieri, impiegati in ciascuno dei cantieri delle dighe, variò da un numero di 1.300 a 1.400, ossia poco meno della metà del totale delle maestranze impiegate. Essi componevano la schiera dei minatori e degli operai specializzati: meccanici, gruisti, carpentieri, capi mastri. Il grosso delle maestranze locali era costituito da manovali, e in piccola parte dai livelli più bassi del corpo impiegatizio. Si crearono problemi di socializzazione tra i diversi gruppi, con episodi di intolleranza che sono entrati nel patrimonio della memoria orale dei luoghi, legati anche alla difficile situazione logistica che si andò a creare nei paesi più direttamente coinvolti nell’organizzazione dei cantieri((AS Ri, Archivio storico della Prefettura di Rieti, Ufficio di Gabinetto, Cat. 14, Ministero dei lavori pubblici, Bacini idroelettrici sul Salto e sul TuranoRelazione al Prefetto,1929-1961, b. 19; P. CATI, L’Acquedotto romano del Peschiera, cit..)).

Qualcuno dei vecchi operai dei cantieri degli impianti idroelettrici e dell’acquedotto del Peschiera, nelle interviste raccolte tra il 1982 e il 2003, ha voluto sottolineare quanto erano mutate le condizioni generali del lavoro, negli anni Trenta, rispetto ai decenni precedenti, sia in agricoltura, che nell’industria e nell’edilizia: «Mussolini ha messo le tasse alli signuri… Ha fatto l’assicurazioni, la Cassa mutua, la Previdenza sociale, che prima nun c’era gnente… La pensione… E poi ne dicono male…»((APM Ri, Tit. III, Cl. V, Etnografia – archivio sonoro, biografie, 1978-2009, intervista ad Oreste Dante di Calcariola di Città Ducale, 12. 2. 2002.)). In effetti la storiografia ufficiale ha riconosciuto il sostanziale progresso compiuto, sul piano sociale, dall’organizzazione del lavoro in Italia, negli anni Trenta((Sull’argomento si veda: R. DE FELICE, Mussolini il duce, II. Lo Stato totalitario (1936-1940), cit., pp. 196-212;A. DE BERNARDI, Il fascismo e le sue interpretazioni, in Il fascismo. Dizionario di storia, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, a c. di A. De Bernardi e S. Guarracino, Milano, Mondadori, 1998, pp.1-136; F. CORDOVA, Verso lo Stato totalitario. Sindacato, società e fascismo, Soveria Mannelli (Cz.), Rubettino, 2005.)).

Vincenzo Scaccia, classe 1922, originario di Castel di Tora, per oltre trent’anni ingegnere capo dell’Amministrazione provinciale di Rieti, aveva ricordi molto precisi dei lavori per gli impianti idroelettrici, essendo entrato al cantiere della diga alle Gole di Posticciola all’età di quattordici anni, il 7 settembre 1936. Egli conservava il ricordo, riferitogli dai suoi genitori, dei tecnici che effettuarono i saggi di scavo nelle Gole di Posticciola, in previsione della realizzazione della grande opera di sbarramento.

All’Ufficio Manodopera del cantiere della diga sul Turano, alle Gole di Posticciola, il ragazzo Vincenzo Scaccia iniziò la sua carriera. Lì ogni giorno, ricorda Scaccia, tra quelli che venivano licenziati e quelli che erano assunti, c’era un flusso continuo di trenta, quaranta persone, e la contabilità si teneva a mano, senza l’ausilio di macchine. L’operaio semplice era chiamato “Terrazziere”, un termine prettamente legato ai lavori agricoli di terrazzamenti per la coltivazione in montagna, molto comune, a quell’epoca, in tutto l’Appennino centrale. Questi operai lavoravano con pala, badile e carriola, ed erano molto abili, in genere, proprio nel livellare il terreno a mezza costa, comunque in posizioni scomode e difficili, realizzando, all’occorrenza, canali di scolo delle acque e sistemi artigianali di drenaggio delle acque. Poi c’erano i muratori e gli aiutanti muratori, c’erano anche molti manovali, ma la maggior parte delle maestranze erano carpentieri e minatori. Vincenzo Scaccia ha seguito direttamente, fin dall’inizio, come si sono sviluppati i lavori di costruzione delle due dighe: quella del Turano, prima, e del Salto successivamente.

Quando, nel 1938, la diga del Turano risultò sostanzialmente terminata, e la Terni trasferì gran parte del cantiere nella Valle del Salto, dove furono iniziati i lavori di costruzione dell’altra diga, lui rimase al cantiere delle Gole di Posticciola, allo stesso Ufficio Manodopera. In quel cantieri rimasero in pochi, soprattutto i minatori, ancora addetti all’ultimazione della galleria di collegamento tra i due invasi. Il giovanissimo Scaccia, era diventato capo ufficio, essendo rimasti solo tre impiegati, addetti esclusivamente ai conteggi per le buste paga. Il ricambio degli operai era però continuo, perché non tutti reggevano gli alti ritmi di lavoro:«chi non rendeva lo mandavano via».

Le paghe però erano adeguate: un operaio prendeva una lira e venticinque centesimi l’ora. Si trattava di una buona remunerazione, riferisce Vincenzo Scaccia: «perché in quelle zone quando uno andava a lavorare in campagna, “a opera” si diceva, gli davano quattro Lire, cinque Lire, invece qui ne prendeva dieci… Otto ore… Otto ore dure. Chi non rendeva la Terni lo cacciava…». Il cinque di ogni mese si faceva la paga agli operai. Il cinque a mattina l’ufficio doveva essere pronto a pagare. Il turno che staccava prendeva i soldi; per lo più erano minatori, o comunque operai addetti alle gallerie. Si facevano tre turni, lavorando anche la notte, alla luce artificiale di potenti impianti fotoelettrici. Otto ore di lavoro e sedici di riposo: dalle sei alle quattordici; dalle quattordici alle dieci; dalle dieci alle sei. A quell’ora l’ufficio doveva cominciare a pagare. Si pagava in contanti. Si preparava la busta, dove fuori c’era scritto l’orario, il numero delle ore, le ritenute che si facevano. I soldi venivano messi in quella busta e consegnati agli operai, che firmavano per ricevuta. In media si facevano circa tremila buste paga.

L’operaio “terrazziere”, nel 1936 aveva una paga di una lira e venticinque centesimi l’ora; il carpentiere e il minatore prendevano oltre due lire. Poi c’erano gli apprendisti, utilizzati spesso come acquaioli, addetti al rifocillamento degli operai: percepivano cinque lire al giorno. Gli impiegati, addetti agli uffici avevano uno stipendio che variava da trecento a quattrocento lire mensili; i capi ufficio arrivavano a cinquecento. Lo stipendio dei geometri era di mille, mille e trecento lire mensili. Quello dei dirigenti partiva da duemila, duemila e cinquecento. Nel 1937 e nel 1938 ci furono aumenti di retribuzione del 10, e nel 1940 del 20 per cento. I minatori arrivarono a percepire tre lire e cinquanta centesimi l’ora.

Molti lavori, specie quelli per la realizzazione dei manti di rivestimento esterno delle dighe, saranno affidati a gruppi di operai specializzati, pagati con contratti di cottimo, per accelerare al massimo il completamento delle opere. Questo modo di lavorare, in situazioni precarie e di alto rischio, con tempi di consegna molto stretti, orari prolungati, assembramenti di manodopera, nonostante l’organizzazione del cantiere, ridurrà al minimo, in molti casi, le misure di prevenzione, e risulterà una delle cause principali di gravi incidenti((Ivi; cfr. M. PELLI, Dentro le montagne. Cantieri idroelettrici, condizione operaia e attività sindacale in Trentino negli anni Cinquanta del Novecento, Trento, Museo storico onlus, 2004, pp. 44-45.)).

Quando il cantiere di Posticciola era in piena attività c’era una media di duemila operai al giorno, e poi altrettanti ai Balzi di Santa Lucia, per la diga del Salto. Molti erano della zona, e quelli addetti alle mansioni più faticose venivano sostituiti continuamente. Altri venivano dall’Abruzzo aquilano. Quelli specializzati erano quasi tutti del Bergamasco. La maggior parte dei forestieri prendeva alloggio nei paesi circonvicini. Paesi di cento, duecento abitanti arrivarono a ospitare seicento, settecento persone. Gli affitti dei locali da abitazione divenne una voce economica importante, prima sconosciuta.

L’incremento finanziario dovuto ai salari aveva prodotto delle attività commerciali effimere nelle due vallate del Salto e del Turano. Spacci, negozi, locande, trattorie, osterie. A Posticciola c’era un locale dove si ballava tutto il giorno e la notte. Perché gli operai che smontavano dai turni, dopo qualche ora di riposo, avevano voglia di divertirsi. Arrivava continuamente gente forestiera. Per le strade transitavano autocarri, motociclette e un numero considerevole di automobili, per quell’epoca, ricorda sempre Vincenzo Scaccia.

I baraccamenti dei cantieri stavano vicini alle dighe in costruzione. C’erano le strutture di servizio, gli alloggi per gli operai residenti, ma anche gli appartamentini legno e muratura, per i dirigenti e le loro famiglie. Per ogni cantiere c’erano cinque ingegneri e dieci geometri, altamente specializzati. I cantieri erano sorvegliati dal personale della Terni, e dai Carabinieri di Rocca Sinibalda e di Petrella Salto, che facevano frequenti ispezioni. La zona più sorvegliata era la polveriera, dove veniva conservato tutto il materiale esplosivo necessario soprattutto per lo scavo delle gallerie. Gli ispettori dell’Ufficio del Genio civile di Rieti verificavano la qualità del calcestruzzo, e l’andamento complessivo dei lavori. Il Medico condotto controllava lo stato delle infermerie, le cure somministrate ai pazienti. Il direttore generale dei lavori era l’ingegnere Giovanni Martinelli, che si stabilì a Rieti con la famiglia. Altri dirigenti andarono a vivere a Rocca Sinibalda e a Borgo San Pietro di Petrella Salto. Ma la vita di tutti, anche fuori dell’orario di lavoro, si svolgeva al cantiere e nella “cittadella” autosufficiente delle baracche((Ivi.)).

Il lavoro di costruzione delle dighe fu a ciclo produttivo continuo, senza interruzioni. Si lavorava di giorno e di notte, alla luce artificiale, con turnazioni di squadre. I lavori per la realizzazione delle gallerie di tutto l’impianto idroelettrico risultarono di grande impegno, soprattutto per il rispetto dei tempi di consegna. Quelli per la galleria di collegamento tra i due bacini artificiali, lunga nove chilometri, di quattro metri di diametro, iniziarono subito, dalla parte delle Gole di Posticciola, all’apertura del cantiere di quella diga, e proseguirono da ambo i lati, con l’apertura del cantiere alle Balze di Santa Lucia, nella Valle del Salto. Però il grosso del lavoro fu fatto dal versante di Posticciola. In quella galleria fu trovato sempre calcare molto compatto, che consentì di procedere nell’escavazione con regolarità, e di effettuare il rivestimento delle pareti per lo spessore di tre metri di cemento armato, in tempi sfalsati.

La perforazione della galleria, per le condotte forzate tra il Bacino del Salto e la Centrale idroelettrica di Caporìo, fu molto più laboriosa. Non solo per la maggiore lunghezza, e per la necessità di “finestre”, ossia aperture intermedie di ispezione, ma soprattutto per il tipo di terreno. Furono trovate, infatti, ampie zone argillose, e grosse polle sorgive andate disperse, che crearono enormi difficoltà per avanzare anche di un solo metro. Bisognava armare lo scavo con tavole e pali di legno molto robusti, e mano a mano che si procedeva provvedere a rivestire in calcestruzzo armato la galleria, per mezzo di apposite centinature, per le quali era necessario altro legname. Poi si smantellava l’armatura e si procedeva con molta cautela. Fu necessario utilizzate migliaia di metri cubi di legname, fornito dalle ditte boschive della zona. Particolarmente impegnativo risultò il tratto relativo al cantiere posizionato alla “finestra” sotto il villaggio di San Martino di Petrella Salto. Il legname, in quel caso, fu fornito dalla Ditta Tosoni, alla “Doganella” di Concerviano. Anche il legname per le impalcature e le centinature delle due dighe, fu fornito, in parte, da ditte del posto. Nello scavo della galleria di collegamento del Lago del Salto con la centrale di Caporìo i minatori facevano turni di sole due ore, e venivano pagati come ne avessero fatte otto, ricorda Vincenzo Scaccia, perché le condizioni di lavoro erano quasi impossibili((Ivi, intervista a Vincenzo Scaccia, 5. 6. 2003.)).

Altri cantieri per la realizzazione di quella galleria furono aperti alla “finestra” di ispezione nei pressi del paese di Offeio di Petrella Salto, a quella sotto il villaggio di San Martino, dove fu realizzata la diramazione per le Sorgenti del Peschiera e l’alta Valle del Velino. Un altro cantiere, per questa galleria di diciassette chilometri, fu aperto alla “finestra” di ispezione sotto Micciani, un altro sopra Antrodoco, al Fosso di Rapelle, un altro ancora alla “finestra” realizzata sopra l’Abbazia di S. Quirico, sul fianco occidentale del Monte Giano. Altri cantieri, infine, furono necessari per la captazione delle Sorgenti di Cànetra, fino alla Centrale idroelettrica di Caporìo, attraverso canali e gallerie, lungo la Piana di San Vittorino((Gli impianti idroelettrici ENEL sui fiumi Nera e Velino, Roma, Compartimento dell’Ente nazionale energia elettrica (1965).)).

I carpentieri che provvedevano ad armare le gallerie in terreni argillosi o comunque franosi, erano chiamati “Marciavanti”. Essi mettendo in opera tavole e pali, predisposti in precedenza dagli “Imboscatori”, per puntellare le volte e consentire ai minatori di proseguire nello scavo, in relativa sicurezza. A quel punto intervenivano i “Paratori”, che bucavano in profondità la roccia con i martelli pneumatici, chiamati ancora con la vecchia dicitura di “fioretti”, per la lunga punta di perforazione, che li faceva assimilare a quel tipo di spade. Queste macchine, azionate ancora a mano, erano la diretta evoluzione della perforatrice meccanica “Sommeiller”, che prendeva il nome dal suo ideatore, l’ingegnere francese (naturalizzato italiano), Germain Sommeiller, con la quale era stato risolto il problema della perforazione della Galleria del Fréjus, nella seconda metà del XIX secolo((APM Ri, Tit. III, Cl. V, Etnografia – archivio sonoro, biografie, 1978-2009.)).

Minatori, carpentieri ed operai erano assistiti dagli apprendisti, che venivano chiamati da tutti “Bocia”, ossia ragazzini, in dialetto veneto: entravano in cantiere a quattordici anni ed erano impiegati in tutte le faccende minute, cominciando anche ad apprendere le tecniche di lavoro. Per prima cosa portavano le botticelle d’acqua, per rifocillare gli operai e in particolare i minatori; e in questo caso prendevano anche l’epiteto di “Acquaroli”, acquaioli. Correvano da un capo all’altro del cantiere; cercati da tutti per trasportare piccoli carichi, per recuperare utensili, per portare notizie, ordini e comunicazioni ai capi reparto, e viceversa. Venivano impiegati anche nei lavori in galleria, per portare i detonatori per le cariche esplosive ai “Fuochisti”, che le predisponevano nel punto dell’”avanzamento”. Erano i “monelli”, gli ultimi rappresentanti di un mondo che ha sempre utilizzato fanciulli e ragazzi, come forza lavoro, anche all’interno della famiglia contadina; non necessariamente per lavori particolarmente pesanti, ma per quelle faccende minute che di fatto coinvolgevano i giovanissimi nelle attività produttive di sussistenza. I “monelli”, fino alla metà del secolo scorso, sono stati considerati forza operativa abituale, nel lavoro dei campi, nella pastorizia, nelle attività artigianali, nelle piccole imprese commerciali e nell’edilizia. I “Bocia”, “monelli” allenati alle faccende del lavoro, erano le “mascotte” dei cantieri, il modello stesso dell’organizzazione del lavoro, della disciplina, dell’obbedienza, del rispetto delle regole, dell’efficienza e dell’abnegazione: il vero “balilla”((Ivi; cfr., B. FERRI, I monelli. Migrazioni stagionali di braccianti dalla conca di Sulmona nello Stato Pontificio nel XIX secolo, L’Aquila, Japadre editore, 1995; M. MINESSO, Donne, minori e il riformismo di primo Novecento, in Aa.Vv, La cultura delle riforme tra Otto e Novecento. Atti del convegno di studi di Firenze, 24-25 ott. 2002, a c. di M. degl’Innocenti, Manduria, P. Lacaita, 2003, pp. 212-229; F. DE BONI, Il lavoro minorile tra presente e passato, Padova, Università degli Studi, Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli “Cittadinanza europea e diritti umani”, A.A. 2003-2004.)).

Al “Bocia” è dedicato il monumentino che orna ancora la fontana in abbandono, posta all’ingresso del vecchio villaggio operaio di Caporìo, utilizzato dagli operai del cantiere della Centrale idroelettrica di “Cotilia”, e da quelli delle gallerie di derivazione e di presa dell’Acquedotto imperiale del Peschiera. Era lì che si svolgevano tutte la manifestazioni ufficiali e le celebrazioni per i festeggiamenti in onore di santa Barbara, patrona dei minatori. Il “Bocia”, è raffigurato, nella statua di pietra alta un paio di metri, in abbigliamento da “monello”: berretta, camicia con il collo alla collegiale, le maniche rimboccate, calzoni alla zuava e scarpe grosse; immortalato nelle sue funzioni di acquaiolo, con la botticella dell’acqua sulle spalle, da cui, originariamente, zampillava l’acqua della fontana.

Quel “monello”, con lo stesso abbigliamento, e le identiche fattezze, è raffigurato anche nel gruppo monumentale, della medesima impostazione stilistica, collocato di fronte all’edificio che servì da infermeria, negli stabilimenti delle cave di lignite di Morgnano di Spoleto. In quel monumento il ragazzo versa l’acqua del bariletto, che ha sulle spalle, nel gamellino di un minatore sorridente, raffigurato a torso nudo, con la berretta, gli stivaloni e il manico del piccone appoggiato sulla spalla. I due monumenti, ispirati, secondo i canoni dell’epoca, alle illustrazioni degli epigoni di Mario Sironi, ebbero entrambi, come committente la Società Terni, che proprio in quegli anni aveva rilevato le Miniere di lignite di Spoleto, utilizzandone le maestranze più qualificate per i cantieri degli impianti idroelettrici. Altre miniere della Società Terni stavano nella zona di Amiterno, in provincia dell’Aquila((G. ARMELLINI, Le immagini del fascismo nelle arti figurative, Milano, Fabbri, 1980, pp. 136-158; A. GASPERINI, Le miniere di lignite di Spoleto 1880-1960: l’organizzazione del lavoro, i rapporti economico sociali, la tecnologia, Spoleto, Ente Rocca, 1980; SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO DANTE ALIGHIERI, Da un incubo a un sogno [Le miniere di Spoleto], a c. di E. Beddini, Spoleto, Del Gallo editore, 2007, p. 16; AS Tr., ASo Tr.,  Miniere, Fasc. 28, Miniera di ferro di Amiterno, b. 96.)).

Quando in cantiere capitava un incidente grave suonava la sirena e si sospendevano i lavori. Accorreva gente dai paesi vicini, per avere notizie dei familiari e sapere comunque cosa era accaduto. C’era l’assistenza sanitaria, ed anche quella religiosa, da parte dei parroci dei paesi vicini ai cantieri. Al termine della costruzione degli impianti si contarono dieci morti sul lavoro, al cantiere della diga di Posticciola, e quindici a quello della diga ai Balzi di Santa Lucia. Vincenzo Scaccia ricorda che un operaio morì investito da un masso, franato in galleria. Un altro investito da un carrello. Qualcun altro per cariche esplose in ritardo. Anche nelle cave capitarono incidenti, sia per crolli, che per carrelli rovesciati, ma anche per le manovre che si compivano per andare a mettere le cariche esplosive, scendendo lungo le pareti legati alle funi, in stile alpinistico. Gli incidenti più frequenti non avvenivano, però, in galleria, ma sulle impalcature in legno: qualche balaustra cedeva; qualche carpentiere azzardava manovre pericolose((APM Ri, Tit. III, Cl. V, Etnografia – archivio sonoro, biografie, 1978-2009, intervista a Quinto Mattioli, 15. 8. 1982.)).

Gli incidenti sul lavoro, ai cantieri degli impianti idroelettrici, fornivano materiale di immediata utilizzazione, entrato in modo prorompente a pieno titolo nell’epica dei cantastorie, che circolavano nei villaggi operai, per raccontare fatti strazianti, secondo la tradizione del canto epico lirico, e distribuire santini a chi smontava dai turni di lavoro, in cambio di un’offerta. Per questo motivo erano detti anche “Santari”. Portavano con loro dei pannelli sulla schiena, con appesi i fogli delle storie che narravano, e le raffigurazioni dei santi, ai quali gli operai erano più devoti: l’effige della Madonna delle Grazie, quella di sant’Antonio da Padova, di santa Lucia, ed altre. Gaspare Liberali, classe 1902, nei suoi ricordi sui lavori per la diga del Salto – riferiti nell’intervista del 1984 – apre la narrazione declamando il canto, imparato male a memoria, del minatore toscano rimasto cieco in un incidente accaduto nel cantiere della diga, che periodicamente veniva al villaggio operaio, a raccontare la sua storia tristissima, come un “santaro”, per poi raccogliere le offerte degli ex compagni di lavoro. Liberali fu testimone anche di un incidente in galleria, dove morirono alcune persone, per lo scoppio ritardato di una mina. Lui rimase illeso per essere rimasto indietro, con la squadra degli spalatori((Ivi, intervista a Gaspare Liberali, 14. 8. 1982.)).

Molti manovali preferivano andare a lavorare nelle gallerie, anche se per loro, che non erano minatori, la paga era di poco superiore, perché, nonostante le condizioni disagiate, si sentivano meno oppressi dalla disciplina di cantiere, che era ferrea, sul modello militare((Ivi.)).

La maggior parte delle maestranze risiedette nei cantieri, tranne quelli che poterono essere ospitati nei paesi raggiungibili a piedi o in bicicletta. Come si è già detto, i forestieri erano poco meno della metà del totale delle maestranze impiegate per ogni cantiere. Si trattava, per lo più, di operai specializzati, provenienti dal Friuli, dal Veneto, dal Trentino, in particolare da Mezzocorona, dal Sud Tirolo, dalla Lombardia, soprattutto Bergamaschi. Molti provenivano pure dall’Abruzzo aquilano, dalle Marche e dall’Umbria. In ogni casa dei paesi più vicini ai cantieri c’era gente forestiera. Per i cantieri della diga del Salto e delle gallerie di collegamento con la centrale idroelettrica di Cotilia, ci si stabilì a Borgo San Pietro, Offeio e San Martino di Petrella Salto; a Poggio Vittiano e Rocca Vittiana, nel Comune di Varco Sabino. Per la diga del Turano a Posticciola di Rocca Sinibalda, a Colle di Tora e Castel di Tora. Per i cantieri della Centrale idroelettrica e per l’Acquedotto del Peschiera, a Caporìo, a Micciani, a Grotti, nel Comune di Città Ducale, e a Vasche di Castel Sant’Angelo((Ivi, intervista a Gaspare Liberali, 14. 8. 1982.)).

La disciplina nei cantieri era mantenuta, con rigore, dall’organizzazione gerarchica della Società Terni, ma la sorveglianza, intesa come ordine pubblico, era garantita dalla presenza quasi costantemente delle pattuglie dei carabinieri. Anche le risse e i fatti di sangue, capitati tra gli operai al cantiere oppure nelle baraccopoli o nei paesi, entrarono nel mito della tradizione epico lirica dei cantastorie e dei “santari”, come avveniva per gli incidenti, i più gravi infortuni sul lavoro. Oggi le chiameremmo leggende metropolitane, a quell’epoca erano storie, in genere fantastiche, narrate come vere, divenute, per molti, più vere dei fatti realmente accaduti.

Nell’organizzazione dei cantieri edili, specialmente nei grandi cantieri, come quelli delle dighe, un ruolo importante era assegnato ai sindacati, che avevano anche il compito, formalmente, di curare l’assistenza, l’istruzione e l’educazione dei propri rappresentati. Il sindacato era uno degli strumenti della propaganda fascista tra i lavoratori, svolgendo la funzione – si diceva – di avvicinare il popolo allo Stato e lo Stato al popolo. Oltre a fornire assistenza nell’applicazione dei contratti di categoria, secondo i criteri definiti a livello nazionale, il sindacato verificava l’applicazione delle norme riguardo la previdenza sociale, e organizzava capillarmente, come una grande mobilitazione ricreativa nazionale, l’Opera nazionale dopolavoro. Il “Dopolavoro” doveva riconciliare l’operaio con lo stabilimento, ricreare un equilibrio possibile tra il lavoro spersonalizzante e le capacità creative di ognuno. Si organizzavano attività sportive, gruppi sportivi, gite organizzate, feste, conferenze, concorsi canori, rassegne di tradizioni e canti popolari; ma soprattutto spettacoli, sia cinematografici che teatrali.

A Rieti negli anni Venti e Trenta furono create ben quattro compagnie filodrammatiche: quella dell’Opera nazionale dopolavoro provinciale; la filodrammatica aziendale della Supertessile; la filodrammatica delle Officine reatina lavorazioni aeronautiche; e quella del Gruppo universitario fascista. Nei cantieri degli impianti idroelettrici era organizzato il Dopolavoro aziendale, con numerose sezioni, e iniziative inserite nei programmi dell’Opera nazione dopolavoro. Nei cantieri delle dighe esisteva anche il teatrino aziendale, dove gli operai organizzavano feste e spettacoli di vario genere, realizzati autonomamente e con il supporto della compagnia filodrammatica aziendale((Aa.Vv, L’Opera nazionale dopolavoro, Roma, Società editrice Di Novissima, 1936; E. CAROTENUTO, Dal dopolavoro italiano all’ENAL (passando per l’Opera nazionale dopolavoro fascista), Marcogliano (Av.), Grappone, 2002; M. CHIERICHINI, Vita fascista nella provincia di Rieti, in R. PROVVEDITORATO AGLI STUDI PER LA PROVINCIA DI RIETI, La Sabina e il Fascismo, cit., pp. 129-137; Terni, Società per l’industria e l’elettricità, 1884-1934, pp. 207-231.)).

Nell’immediato dopoguerra e almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, le condizioni di lavoro degli operai dei cantieri idroelettrici, specialmente dei minatori, rimarranno sostanzialmente identiche; se non addirittura peggiori per alcuni aspetti; soprattutto sul piano retributivo, dell’assistenza e della prevenzione degli incidenti. Mattia Pelli, nella sua inchiesta sulla condizione operaia nei cantieri idroelettrici e sull’attività sindacale, in Trentino, negli anni Cinquanta del Novecento, riferisce, ad esempio, che molti minatori di origine contadina erano poco propensi a rivolgersi al sindacato, se non nei periodi in cui si trovavano forzatamente a riposo per il maltempo in inverno: «Un retaggio – egli sostiene – del vecchio sindacalismo fascista (…)». Forse subentrerà anche una certa sfiducia nei confronti del nuovo sindacato, che tra il 1950 ed il 1951, nemmeno a sigle unite, CGIL e CISL, riuscirà ad ottenere la stessa indennità di galleria – a compensazione dei rischi e dei disagi di quel lavoro – prevista nel contratto del 1942, a otto anni dal crollo del regime fascista, durante il quale si era perseguito l’obbiettivo della modernizzazione del mondo del lavoro((M. PELLI, Dentro le montagne. Cantieri idroelettrici, condizione operaia e attività sindacale in Trentino negli anni Cinquanta del Novecento, cit., pp.59-62.)).

A questo proposito è importante rimarcare che, con il Regio decreto n.1765, del 17 agosto 1935, si erano date le disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, che imponevano la costituzione dell’Istituto nazionale degli infortuni. Il Decreto includeva nei provvedimenti i lavoratori dei bacini montani, delle cave, gli addetti alle bonifiche idrauliche, alla fabbricazione del cemento, gli edili, i minatori. Quelle norme comprendevano, inoltre, gli apprendisti, i lavoratori retribuiti a cottimo. Contemplava l’assistenza ai grandi invalidi, l’assistenza legale e sanitaria agli infortunati, le cure mediche e chirurgiche, l’indennità giornaliera. Nonostante il significativo progresso sul piano normativo, nell’immediato dopoguerra gli incidenti sul lavoro tenderanno ad aumentare, soprattutto a causa del sempre più elevato numero dei contratti a cottimo, specie nel settore dei bacini montani, che mettevano in concorrenza tra loro gli operai stessi((ISTITUTO NAZIONALE FASCISTA PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, DIREZIONE GENERALE DI ROMA, L’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Leggi, Regi decreti, Regolamento, con note e indice analitico alfabetico, Roma, Stabilimento tipografico A. Filippucci, 1937; C. GIORGI, La previdenza del regime. Storia dell’Inps durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 2004; G. DE MELIS, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1988; S. SEPE, Amministrazione e storia. Problemi della evoluzione degli apparati statali dall’Unità ai nostri giorni, Rimini, Maggioli editore, 1995.)). Fino al 1957, quando saranno introdotte le prime innovazioni tecnologiche, che daranno anche maggiori garanzie di sicurezza agli operai, si lavorerà nello stesso modo che nei decenni precedenti.

Il 13 dicembre del 1939 il Ministro dei lavori pubblici, Adelchi Serena, aveva presenziato alla cerimonia inaugurale delle dighe del Salto e del Turano. Era giunto a Posticciola in automobile da Roma. Aveva visitato la diga sul Fiume Turano, accolto dal Presidente della Terni, dalle autorità provinciali, acclamato dalle maestranze e dalla folla, arrivata dai paesi vicini. Il ministro era poi salito sul trenino a scartamento ridotto per i carrelli Decauville, opportunamente predisposto con vagoncini chiusi, rifiniti in legno, ed aveva percorso i nove chilometri della galleria che unisce i due invasi artificiali, raggiungendo il cantiere della Valle del Salto, nuovamente accolto da altre maestranze plaudenti e dalle acclamazioni della gente venuta dai paesi del Cicolano. Aveva risalito a piedi i cento metri della diga, e dopo un breve discorso, aveva attivato contemporaneamente i meccanismi di chiusura delle paratie stagne dei due sbarramenti, premendo il pulsante dell’interruttore generale. In questo modo era stato dato avvio alla sommersione delle due vallate, e alla formazione dei due grandi invasi paralleli. Anche questa manifestazione era stata ripresa dai cineoperatori dell’Istituto Luce, e trasmessa nei cinegiornali nazionali, illustrando, nel commento giornalistico, la grandiosità delle opere((ASILU, Giornale Luce, Posticciola – Borgo S. Pietro. L’Italia al lavoro (…) Le dighe a gravità sul Fiume Turano e Salto, realizzate dalla Società Terni, sono inaugurate dal Ministro Serena, dal Prefetto, dal Federale, dal Presidente della Terni, 13.12. 1939, B1636.)).

Con la realizzazione dei bacini artificiali del Salto e del Turano risulterà più agevole l’insediamento e la colonizzazione dei terreni della Piana di Rieti. Si svilupperanno i piccoli centri abitati ai limiti degli antichi acquitrini, e gli abitanti della Piana, soprattutto quelli che conservano una qualche memoria del passato, esprimono ancora oggi la loro soddisfazione per tutto quello che la bonifica ha comportato. Ma come sostiene Graham Swift, ne Il paese dell’acqua, non sempre è desiderabile che la terra sia bonificata, alluvioni a parte. Non lo era, Probabilmente, per tutti coloro che hanno sempre vissuto d’acqua, che non hanno mai avuto bisogno di terra ferma sotto i piedi: pescatori, allevatori di gamberi, cacciatori di palude, tagliatori di canne, produttori di canapa, di materiali fatti di giunco, fabbricanti di laterizi, barcaioli. Forse era desiderabile per coloro che dovevano costruire le proprie umide dimore temporanee, in quelle ostinate paludi, che camminavano sui trampoli durante le alluvioni, che vivevano come topi d’acqua((G. SWIFT, Il paese dell’acqua, cit., pp. 19-21.)). Certamente ne trarrà giovamento non solo l’agricoltura, ma il commercio e l’industria, la mobilità delle persone e la vita sociale in genere.

Se per bonificare una terra è però necessario alluvionarne perennemente delle altre, si perde di vista il paradigma di riferimento: ciò che si guadagna in un versante si perde nell’altro. Chi faceva il pescatore, il barcaiolo e il fornaciaio, nella Piana Reatina, diventerà contadino, mezzadro, impiegato o operaio sulla terra asciutta. Chi era bracciante, colono o carrettiere nelle terre allagate di proposito, proverà, senza successo, a diventare pescatore e barcaiolo, si inventerà un altro mestiere, oppure farà fagotto e se ne andrà altrove((R. MARINELLI, La bonifica reatina, cit..)).