Gli Stati Uniti e il mondo dopo l’11 Settembre

Un autorevole osservatore e consulente di politica estera statunitense si chiedeva, nella primavera del 2001, a conclusione di un’impegnativa rassegna della storia delle relazioni internazionali USA: ” Che tipo di egemonia vogliamo e perchè? Quali sono le politiche che conservano al loro interno la nostra parte migliore e allo stesso tempo minimizzano i rischi e i costi associati al mantenimento di un dominio mondiale? Che senso ha il nostro ‘impero’? Quello di renderci ricchi,di proteggerci, o di costruire un mondo migliore? Qualunque sforzo per sviluppare una visione efficace sulla politica estera non deve tralasciare queste e altre tematiche.” ((W. Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America, tr. it., Milano, Garzanti, 2002, p. 374.))

Lo sforzo recente sicuramente più ambizioso e discusso di articolare la politica estera statunitense è naturalmente la cosiddetta “Dottrina Bush”. Essa forma l’oggetto centrale del presente saggio. Il quale si concentra perciò più sulle enunciazioni strategiche che sulle politiche, anche se cerca di collocare tali enunciazioni nel loro contesto e dunque non manca di far riferimento alle politiche stesse. Ma appunto l’intento principale è rileggere il dopo-11 settembre alla luce della sinora più organica formulazione della linea di relazioni internazionali USA successiva ai terribili attentati terroristici, ricostruendo la genesi e la morfologia della dottrina, evidenziandone novità, continuità, problemi e contraddizioni, e accennando infine alle possibili ricadute sul caso iracheno. Anche se non mancherà qualche riferimento al dibattito mondiale in proposito, l’attenzione è comunque qui concentrata sulla discussione interna agli Stati Uniti.((E’ appena il caso di richiamare i limiti fisiologicamente connaturati, e ai quali questo saggio evidentemente non sfugge, all’esercizio della cosiddetta “storia del presente”, cioè all’esame di vicende ancora in corso. Vedi T. Garton Ash, Storia del presente. Dalla caduta del muro alle guerre nei Balcani, Milano, Mondadori, 2001, pp. 3-16.))

1. La Dottrina Bush.

Oltre a portare il nome di colui che si può considerare con tutta probabilità “il meno colto (presidente) della storia degli Stati Uniti” ((M. C. Miller, The Bush Dyslexicon.Observations on a National Disorder, New York, Norton, II ed. aggiornata, 2002, p. 6.)) (ma che non per questo, non va preso sul serio ((E’ il giusto invito rivolto da N. Podhoretz, In praise of the Bush Doctrine, in “Commentary”, september 2002, pp. 19-28 , nell’ambito di un articolo che la acritica esaltazione delle posizioni di Bush che contiene, però, rende praticamente illeggibile.))),  la dottrina Bush ha due caratteristiche peculiari finora non adeguatamente considerate. Anzitutto si tratta del primo caso di “dottrina” elaborata in tempo di guerra. Non bisogna dimenticare infatti che gli Stati Uniti sono, secondo quanto ha ribadito più volte, dall’11 settembre, il loro presidente, una nazione in guerra.

La seconda peculiarità della Dottrina Bush è il fatto che si tratta di un dispositivo processuale, costruito gradualmente nel tempo. Le altre dottrine di politica estera magari assumevano tale nome in seguito – com’è il caso della Dottrina di Monroe,  enunciata nel 1823, ma che comincia ad essere chiamata così solo un trentennio più tardi – ma si esaurivano in una formulazione determinata, data una volta per tutte, legata a un atto ufficiale e a una datazione specifica. Invece qui abbiamo una specie di work in progress: come dicevano nella primavera del 2002 (quando cioè essa entra stabilmente nel lessico politico) ((S. Yagur, Imperious Doctrines: U.S.-Arab Relations from Dwight Eisenhower to George W. Bush, in “Diplomatic History”, fall 2002, p. 571.)), due convinti sostenitori di questa formula nella sua interpretazione più ambiziosa e aggressiva, la Dottrina Bush “si sta dispiegando, si sta svolgendo”. ((R. Kagan, W. Kristol, Remember the Bush Doctrine, in “The Weekly Standard”, 15 aprile 2002, p. 10.)) Lo ha fatto, in effetti, in quattro tappe: corrispondenti ad altrettanti momenti topici nei quali –  lungo l’anno compreso fra il settembre 2001 e quello del 2002  –  Bush jr. ha svolto, con i risultati più lusinghieri dal punto di vista del consenso nel paese, il ruolo di Comandante in Capo delle Forze Armate, esercitando la leadership sulla base dell’unico potere esclusivo esplicito del quale gode il presidente secondo il dettato costituzionale. A loro volta, le quattro tappe sono divisibili in due fasi, divise da un diverso baricentro retorico: nella prima e seconda tappa l’enfasi è eminentemente negativa, concentrata, cioè, sulla minaccia che incombe sugli Stati Uniti e sul mondo; la terza e quarta tappa ruotano invece attorno all’elaborazione esplicita della risposta, invero già in parte presente, ma che a questo punto diventa l’oggetto fondamentale della riflessione.

Prima tappa, settembre 2001. Comprende il primo discorso di Bush, tenuto, a caldo, l’ 11 settembre stesso, e un secondo, giustamente più noto, che è quello, ormai celebre, alla nazione, di nove giorni dopo. In quest’ultimo caso per la prima volta si parla, da parte degli osservatori, anche se in modo ancora approssimativo, di Dottrina Bush. Che cosa dice Bush in queste due occasioni? In risposta al criminale attentato dei terroristi modifica radicalmente la politica estera spostandola sulla lotta al terrorismo, rispetto al quale, dice, nel primo discorso, l’11 settembre, che “Non faremo distinzioni fra i terroristi che hanno commesso questi atti e quelli che li ospitano “. Un punto, questo, che viene poi ribadito nel discorso del 20 settembre, laddove il presidente nota che “Ogni nazione che continua ad ospitare e appoggiare il terrorismo sarà ritenuta un regime ostile agli Stati Uniti “. Stati Uniti che sono, dice Bush ” una nazione in guerra “, la cui guerra al terrorismo forse non finirà con questa generazione,forse dovrà durare per decenni essendo essa una battaglia che avrà fine solo con la fine del terrorismo. “La nostra guerra al terrore – conclude il presidente – comincia con al-Qa’ida, ma non finisce lì. Non finirà sinchè ogni gruppo terrorista di respiro globale venga trovato, fermato e sconfitto.” Una battaglia aperta, dunque, e non semplicemente una battaglia americana, bensì ” la battaglia del mondo, la battaglia della civiltà; di tutti coloro che credono nel progresso e nel pluralismo, nella tolleranza , nella libertà .” ((“Washington Post”, 21 settembre 2001. Vedi inoltre W. Lafeber, The Bush Doctrine, in “Diplomatic History”, fall 2002, p. 557; B.R. Kuniholm, 9/11, the Great Game, and the Vision Thing: The Need for (and Elements of) as More Comprehensive Bush Doctrine, in “Journal of American History”, September 2002, pp. 426-438.))

Non può sfuggire come qui, beninteso sotto la fortissima e comprensibile eccitazione del momento dettata dall’evento terroristico, riecheggi un classico argomento eccezionalista, tipico del pensiero di politica estera e di politica interna statunitense; un argomento originato dal senso di un destino unico e diverso, che spinge a identificare e proiettare la causa americana come la causa del mondo intero, essendo gli americani chiamati alla missione di salvezza, che li pone su un piano separato rispetto a  tale mondo. ((La più efficace riconsiderazione critica recente di questa tendenza in politica estera sta in M. Young, The Age of Global Power, in T. Bender (a cura di), Rethinking American History in a Global Age, Berkeley, University of Californai Press, 2002, pp. 274-294.  Più in generale, T. Bonazzi, Struttura e metamorfosi della civiltà progressista, Venezia, Marsilio, 1974.))

L’ afflato eccezionalista torna, del resto, nelle seconda tappa del percorso della Dottrina Bush , cioè il Discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, che si caratterizza anch’esso per un’enfasi eminentemente negativa, di chiarimento della natura della minaccia. Per definire la quale si ricorre adesso ad accenti che provengono dall’arsenale reaganiano (il “male”, parola che ricorre ben tre volte in poche righe, nel documento), combinati a una metafora (“asse”), che, elaborando il parallelo con la seconda guerra mondiale istituito dalla stampa subito dopo gli attentati (11 settembre= Pearl Harbour) e con la preesistente equazione fra Saddam Hussein e Hitler, vuole iscrivere il progetto dell’amministrazione Bush sotto l’egida della “buona guerra” rooseveltiana e suggerire un nemico che, al contrario del soggetto terrorista, elusivo e fantasmatico, che ha colpito Twin Towers,  è coeso (“asse”) e chiaramente individuabile. Si parla infatti di “asse del male “, costituito dai “regimi che sostengono il terrore e i loro alleati terroristi”, con una esplicita indicazione degli stati coinvolti; che sono poi Nord Corea, Iran e Iraq: ovvero gli “stati canaglia”, già nel mirino, negli anni novanta, dell’amministrazione Clinton, secondo una formula chiarita da una figura di spicco dell’establishment di politica estera clintoniano, Anthony Lake.(( Text of the State of the Union Address, in “Los Angeles Times”, 29 gennaio 2001.  Su Lake e gli “stati canaglia”, N. Guyatt, Another American Century? The United States and the World after 2000, London and New York, Zed Books, 2001, pp. 122-123, che consente di vedere gli elementi di continuità fra l’età di Clinton e quella di Bush jr.))

Contro questi soggetti gli Stati Uniti sono chiamati ad una guerra che ha il duplice obbiettivo di eliminare i terroristi, da un lato, e di impedire agli stati loro alleati di minacciare gli Stati Uniti e il mondo, dall’altro. E’ una battaglia per la dignità umana e la libertà (enduring freedom), condotta,si dice, “con la più ampia cooperazione mondiale ” di “amici e alleati”: dall’Europa (peraltro quasi assente dal resto del discorso), all’Asia, all’Africa, all’America Latina. Rispetto a tale situazione c’è inoltre la significativa presa d’atto delle novità di schieramento che l’ 11 settembre ha prodotto, con un “pericolo comune che cancella vecchie rivalità” e porta, al fianco degli Stati Uniti, appunto rivali del passato più recente come la Russia, la Cina e l’ India (senza contare che tra le “novità” indotte dall’11 settembre, nella coalizione stretta attorno agli USA, occorre aggiungere lo stesso Pakistan).

A questo secondo stadio dell’elaborazione della Dottrina la minaccia è dunque paradossalmente al tempo stesso precisata e allargata al punto da diventare senza confini, proiettata com’è su una sfera ancora più ampia e impegnativa di quanto previsto sinora, appunto con la formula della ” lotta contro il male ” (al quale il documento non esita a contrapporre, nelle righe finali, riflettendo la forte impronta religiosa fondamentalista di una parte consistente dell’amministrazione Bush, la vicinanza salvifica di Dio: “il male è reale e va combattuto…Dio è vicino”). Tanto che di lì a qualche mese, tre autorevoli “falchi” (due teorici e un membro di spicco dell’amministrazione), si sentono autorizzati a un notevole allargamento dell’orbita della politica estera. I due teorici interpretano il discorso sullo Stato dell’Unione come un invito esplicito al regime change, in due dei tre capisaldi dell’”asse del male” (Iraq e Iran), e magari, in prospettiva, addirittura nel “competitore strategico” cinese.((R. Kagan, W. Kristol, art. cit.  Sul rapporto programmatico con la Cina cfr. J. L. Harper, Le sfide internazionali, in “EuropaEurope”, 2001, n. 1, pp. 61-63. Sulle onde di lungo periodo del progetto di regime change, che ha nel vicepresidente Dick Cheney un punto di riferimento centrale, D. Armstrong, Dick Cheney’s Song of America, in “Harper’s Magazine”, ottobre 2002, pp. 76-83.)) Dal canto suo, la figura di punta del governo, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, in maggio arriva a invocare la ” difesa della nazione contro l’ignoto, l’incerto ,il non visto,il non atteso”. ((Cit. in F. FitzGerald, George Bush and the World, in “The New York Review of Books”, 26 settembre 2002, p. 85.)) Una frase, quest’ultima, che, con la sua enfasi sull’incertezza e sulla paura che ne deriva, tradisce la lunga militanza di chi l’ha pronunciata fra le trincee della guerra fredda. ((A.G. Grossman, Neither Dead Nor Red. Civilian Defense and American Political Development During the Early Cold War, New York and London, Routledge, 2001, pp. 42-50.))

Nemmeno un mese dopo la dichiarazione di Rumsfeld, scatta il passaggio dalla minaccia alla risposta, con la terza tappa che è quella del discorso del giugno 2002 ai cadetti di Westpoint. Dal punto di vista dei toni, la caratterizza una forte curvatura unilateralista, che riflette, del resto, sia convinzioni espresse a più riprese da Bush subito dopo l’11 settembre, sia le modalità sostanziali dell’azione in Afghanistan. Quanto ai temi, emergono due punti-chiave, anche se è il secondo a monopolizzare su di sé per il momento l’attenzione degli osservatori: l’intenzione USA di conservare la preponderanza militare (“l’America ha, e intende tenere, forze militari al di là delle sfide”) e la famosa formula dell’“azione preventiva”, ovvero della rivendicazione degli Stati Uniti del diritto di usare la forza contro ogni stato che sia visto come ostile e che compia azioni orientate all’acquisizione di armi di distruzione di massa (nucleari, biologiche, chimiche). ((Per un efficace commento a caldo, R. Falk, The New Bush Doctrine, in “The Nation”, 15 luglio 2002, pp. 9-11.)) Torneremo in seguito sulle reazioni degli osservatori a questo discorso. Per il momento preme passare alla quarta tappa, nella quale la risposta si precisa e articola nell’ambito del documento più teoricamente sofisticato fra quelli qui considerati. Si chiama Strategia di Sicurezza Nazionale ( National Security Strategy), è stato redatto dal Consigliere alla Sicurezza nazionale Condoleeza Rice ed è reso pubblico dalla Casa Bianca il 17 settembre 2002.((Full Text: Bush’s National Security Strategy, in “New York Times”,  20 settembre 2002, dal quale citiamo. Vedine anche la traduzione sia in “Liberazione”, 10 ottobre 2002, che in L. Annunziata, No. La seconda guerra irachena e i dubbi dell’Occidente, Roma, Donzelli, 2002, pp. 115-154. J. Diehl, Rice produces a brilliant synthesis, in “International Heradl Tribune”, 1 ottobre 2002 ne ha fornito una prima, informata, anche se troppo apologetica (e perciò non condivisibile da chi scrive), lettura.)) In esso si completa l’orizzonte strategico della risposta, nel momento stesso nel quale viene esplicitata la radice della minaccia. Quest’ultima è esposta all’inizio del documento: l’America – che gode “di una forza militare senza precedenti e di una grande influenza economica e politica”, avendo guidato vittoriosamente la “grande lotta” contro le “visioni totalitarie distruttive” che hanno segnato il ventesimo secolo – non è più minacciata, come può esserlo stata in passato, da aggressive potenze conquistatrici, ma piuttosto da “reti di individui che agiscono nell’ombra” e “stati fallimentari, che mancano”. E’ minacciata, cioè, da un’assenza, da un’assenza di stato,o da stati che sono falliti, stati totalitari e aggressivi come quelli definiti dall’ asse del male che aiutano i terroristi.

La risposta è affidata a una complessa combinazione di messianismo wilsoniano (così com’è wilsoniano in fondo tutto il tema della minaccia) ((F.Ninkovich, The Wilsonian Century. U.S. Foreign Policy Since 1900, Chicago, University of Chicago Press, 1999.)), e di politica della forza, della potenza, della supremazia. ((Sono qui debitore nei confronti della importante lettura che ne ha dato F. Romero, La National Security Strategy di George W. Bush, in corso di pubblicazione in “ItalianiEuropei”. Ringrazio l’amico e collega Romero per avermi messo a disposizione il testo prima della sua uscita. Alle conversazioni con Romero e con Mario Del Pero su questo e altri punti devo numerose preziose indicazioni. )) Gli Stati Uniti, si dice, usano e useranno la forza attuale senza eguali per preservare e creare un equilibrio di potenza (formula che ricorre ben tre volte) che difenda e sviluppi le forze della libertà. Ovvero l’unico modello sostenibile – da notare che a questo punto il modello è diventato unico – di successo nazionale: un modello basato su libertà,democrazia e libertà d’impresa, da esportare ovunque. Dopo averlo difeso, naturalmente, dalla nuova minaccia del terrorismo e degli “stati canaglia” (torna qui la necessità-missione di “liberarsi dal male”) con la cooperazione eccezionale di tutte le potenze, secondo un sistema di accordi e di coalizioni flessibili – il che riflette posizioni che Bush aveva già manifestato nel pre-11 settembre e contiene ora, però, un esplicito riferimento soprattutto alla Russia –  e con il sostegno degli organi internazionali e dei principali centri di potere internazionali (ribadito il riferimento in questo caso alla NATO). Ma anche in questo documento, che pure ha una forte componente di dichiarato multilateralismo (la cooperazione, gli organismi internazionali, il rapporto con tutte le principali potenze), non manca, quasi in conclusione, il richiamo, tipico dell’amministrazione Bush jr., della ferma intenzione USA,se necessario, ad agire da soli.

2. Continuità e novità.

Forse la lettura più incisiva, a caldo, di quest’ultimo documento, l’ha fornita un’autorevole voce dell’establishment, Business Week. Per il quale la nuova strategia significa essenzialmente tre cose: primo, gli Stati Uniti “sono liberi di prendere le iniziative preventive verso i terroristi e verso gli stati che abbiano le armi di distruzione di massa”; secondo, “a nessun paese o coalizioni di paesi sarà mai permesso di sfidare la superiorità militare degli Stati Uniti”; terzo, “misure unilaterali sono migliori dei trattati e delle organizzazioni internazionali nel prevenire la diffusione delle armi nucleari”. ((B. Nussbaum, Foreign Policy: Bush Is Half Right, in “Business Week”, 7 ottobre 2002, pp. 45-47. Il corsivo è mio.))

Ma non meno utile è evidentemente interrogarsi, con uno sguardo più ampio, sulle novità e sulle continuità che il documento e la Dottrina Bush presentano rispetto alle tradizioni della politica estera statunitense. Partiamo dalle novità. Sul piano strategico esse sono costituite evidentemente dai due cardini della guerra al terrorismo come chiave della politica estera e della linea di azione preventiva (su cui torneremo in forma critica fra breve). Sul piano ideologico di nuovo c’è soprattutto la citata commistione, in forma inedita ed esplicita, di due elementi come il messianismo e la politica della forza, finora presenti separatamente, o associati, ma solo in forma implicita. Nuovo è anche per un Repubblicano come Bush jr. il recupero del legato wilsoniano, sia pure in una versione decisamente “muscolare”, priva di ogni connotazione di “patriottismo” cosmopolita, secondo un impulso visionario comunque inedito nell’ambito del Grand Old Party del secondo dopoguerra, con la parziale eccezione del solo Ronald Reagan (al quale comunque Bush jr. ha mostrato di volersi ispirare sin dagli esordi col recupero del progetto dello “scudo spaziale”).((Di “nuovo wilsonismo”, frutto di “un’implicita alleanza” fra “liberal internazionalisti…e conservatori unilateralisti” invero parlava già, nella primavera 2001, W. Pfaff, The Question of Hegemony, in “Foreign Affiars”, marzo-aprile 2001, pp. 221-232, riferendosi a elaborazioni dei “falchi” Robert Kagan e William Kristol. Su Bush jr. e lo “scudo spaziale” F. Fasce, Ritorno al futuro? La Casa Bianca di Bush II, in “EuropaEurope”, 2001,n. 1, pp. 52-57.))

Infine, passando rapidamente al piano delle politiche, vi spiccano soprattutto due elementi nuovi: la presenza e il progetto di presenza in Asia centrale e il mutamento tattico rispetto alla Russia, all’India e al Pakistan.((Lafeber, op. cit.))

Per quanto riguarda invece le continuità, quelle di lunghissimo periodo, vale a dire l’eccezionalismo e l’unilateralismo, le abbiamo ampiamente sottolineate; ma non è inutile rimarcare ancora una volta la forza e l’intensità inaudite con le quali sono state in questo caso rielaborate.((A proposito dell’unilateralismo quale elemento costante della politica estera USA dalle origini va ricordato in particolare il lavoro di M. Dunne,  U.S. Foreign relations in the twentieth century: from world power to global hegemony, in “International Affairs”, 2000, n. 1, pp. 25-40.)) Altrettanto evidente è la filiazione dall’esperienza della Guerra fredda, che si esprime, da un lato, nella visione, del mondo e delle relazioni internazionali, dualistico-manichea, e, dall’altro, nel concetto di “preponderance of power” attorno al quale, secondo alcuni studiosi, ruota tutta l’elaborazione del vittorioso scontro bipolare con l’Unione Sovietica. ((M. Leffler, A Preponderance of Power. National Security, the Truman Administration and the Cold War, Stanford, Stanford University Press, 1992.)) Mentre nel concetto di “failing states” e della necessità-missione dell’intervento USA non pare inappropriato scorgere echi del cosiddetto Corollario Roosevelt alla Dottrina di Monroe, là dove Theodore Roosevelt diceva, all’inizio del secolo scorso, che, nel caso di stati incapaci di reggersi in maniera democratica, avrebbero provveduto gli Stati Uniti. Con la profonda differenza, beninteso, che il Corollario era riferito al solo emisfero occidentale, mentre il progetto di Bush jr. viene proiettato in una visione globale, con una connotazione di “sicurezza totale” che riecheggia, ma, in una chiave di dichiarata crociata messianico-interventista e di “moralismo unilateralista”, il Franklin Delano Roosevelt della seconda guerra mondiale. ((M. Hirsch, Bush and the World, in “Foreign Affairs”, settembre-ottobre 2002, p. 26.))

3. Problemi e contraddizioni.

Com’era prevedibile, date la sua complessità e ambizione, la Dottrina Bush non ha mancato di sollevare innumerevoli discussioni sui problemi e sulle contraddizioni che la materiano. Li possiamo raggruppare sotto tre categorie: di natura valoriale, attinenti, cioè, al rapporto tra i valori sottesi alla nuova strategia e quelli condivisi dalla comunità politica internazionale; di ordine logico-strategico e infine relativi alla fattibilità e plausibilità operativa. ((Come nel resto dell’articolo, abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle correnti prevalenti, fra gli studiosi, nell’attuale dibattito sulla questione.))

Una prima, decisiva critica valoriale proviene dal mondo del diritto internazionale e ha trovato la sua formulazione più chiara in un saggio di Michael Byers. Quest’ultimo mostra con grande ricchezza di argomenti come l’idea di un’azione “preventiva” sovverta quasi due secoli di progressiva costruzione di limiti giuridici al ricorso alla forza nella soluzione delle dispute internazionali; una costruzione che, partendo dal riconoscimento della necessità di “autodifesa” emerso in un incidente, apparentemente minore, in realtà con profonde conseguenze giuridiche, fra gli Stati Uniti e il Canada britannico, avvenuto nel 1837, e passando attraverso il periodo fra le due guerre mondiali, è approdata alla dichiarazione della Carta dell’ONU, con l’invito a tutti gli stati a evitare la minaccia o l’uso della forza. Viceversa l’attuazione del principio del “preemptive strike”, conclude Byers, “ci porterebbe lontano dal sistema dell’ONU, verso un mondo anarchico dominato dal potere bruto, da alleanze mutevoli e da disperati tentativi di stati vulnerabili di acquisire la capacità di deterrenza”. ((M. Byers, Jumping the Gun, in “London Review of Books”, 25 luglio 2002.))

Non meno significative sono le obiezioni sollevate da quegli osservatori, anzitutto statunitensi, che sottolineano come, vista la posta altissima che, proprio dal punto di vista valoriale, la Dottrina Bush stabilisce, in realtà gli Stati Uniti non sono in grado di soddisfare tale posta perché non sono in condizioni di dare lezioni di virtù al mondo. In primo luogo perché hanno un passato di scheletri nell’armadio, cioè di rapporti imbarazzanti con regimi dittatoriali e autoritari, che in certi casi (vedi proprio il caso Iraq) riguardano addirittura anche lo stesso “asse del male”, e un presente che riguarda lo scomodo alleato saudita. ((G. Byford, The Wrong War, in “Foreign Affairs”, luglio-agosto 2002, pp. 34-42; O.G. Afoaku, U.S. foreign policy and authoritarian regimes: Change and continuity in international clientelism, in “Journal of Third World Studies”, fall 2002, pp. 13-40.)) In secondo luogo perché, si dice da più parti, la battaglia per l’enduring freedom contrabbanda per interessi umanitari e universali quelli che sono invece, legittimi, ma affatto miopi e ristretti, interessi petroliferi statunitensi e relative preoccupazioni di Washington sulla lealtà del medesimo alleato saudita. In terzo luogo perché vicende come Enron e WorldCom (e le ancora non chiarite responsabilità, in tali vicende, dei vertici politici del paese, a partire da Cheney e forse dallo stesso Bush jr.) gettano un’inquietante luce di discredito sul presunto “unico modello sostenibile”, in nome del quale viene condotta la crociata contro terroristi e “rogue states”. Prova ne sia la preoccupazione diffusa, negli ambienti imprenditoriali e politici statunitensi, per la delegittimazione che gli scandali borsistici USA hanno provocato nei confronti del modello americano nei paesi in via di sviluppo.((R.N. Bellah, The new American empire, in “Commonweal”, 25 ottobre 2002, pp. 12-14; “International Herald Tribune”, 8 luglio 2002.))

I problemi logico-strategici (di linea, obiettivi e congruenza mezzi – fini) sono stati sollevati anzitutto da alcuni veterani, di varia obbedienza ideologica, dell’analisi della politica estera USA sulle due sponde dell’Atlantico: da George Kennan, a Pierre Hassner, a Stanley Hoffmann. Secondo Kennan, la dottrina Bush è “un grande errore in linea di principio”, perché, nel suo afflato universalistico e religioso, propone una pericolosa asimmetria tra gli Stati Uniti e il mondo. Tema, questo,  poi ripreso da Stanley Hoffmann, che ha sollevato la questione della possibilità stessa di fare politica estera (e sostenerla nel tempo) solo affidandosi a una lotta al terrorismo. Col risultato di rischiare costantemente di precipitare nel paradigma riduzionista dello “scontro di civiltà” (e viceversa di sottovalutare, aggiunge Hoffmann, lo scontro, concretissimo, fra le diverse “globalizzazioni” attualmente in corso sul piano economico, politico e culturale, e le loro drammatiche conseguenze per la popolazione del pianeta). Mentre Hassner ha plausibilmente puntato l’indice sul fatto che la “guerra preventiva” fa esplodere ed esaspera  quel “dilemma della sicurezza” per “sfuggire al quale”, dice lo studioso francese, “tutto il sistema internazionale dopo Hobbes” si è organizzato. Con l’attacco preventivo, osserva Hassner, si esalta l’ “hubris nel senso più classico”, con effetti di pericolosa destabilizzazione, potenzialmente devastanti, sul piano degli equilibri internazionali (e, aggiunge lo studioso francese, di possibile grave limitazione delle libertà fondamentali anche all’interno degli Stati Uniti). Altri hanno aggiunto che in effetti la nuova linea USA mette addirittura in discussione deliberatamente la “stabilità” stessa come “valore”. ((B. Cumings, Making the world safe from evil, in “The Nation”, 28 ottobre 2002, pp. 27-30; S. Hoffmann, America Alone in the World, in “American Prospect”, 23 settembre 2002 e Idem, Clash of Globalizations, in “Foreign Affairs”, luglio-agosto 2002, pp. 104-115;  L’action preventive est-elle une stratégie adaptée?Le contradictions de l’empire americain. Entretien avec Pierre Hassner, in « Esprit », agosto-setembre 2002, pp.  72-86 ; P. Hassner, La guerre sdans régles, in « Le Nouvel Observateur », 10-16 ottobre 2002, pp. 126-128 ; G. J. Ikenberry, America’s Imperial Ambition, in « Foreign Affairs », settembre-ottobre 2002, p. 55 ; J. Harris, The Us military in the era of globalisation, in “Race and Class”, 2002, n. 1, p. 10.))

L’accenno agli effetti destabilizzanti nel sistema internazionale ci introduce alle perplessità e alle critiche avanzate sul terreno concreto della fattibilità e plausibilità operativa. Qui più che mai le polemiche si sono concentrate e ancora proseguono, appuntandosi su tre argomenti principali, rispetto ai quali i sostenitori della Dottrina, pur avendo fatto segnare alcuni indubbi punti a loro favore nella prassi, come vedremo, rispetto alla questione irachena, non paiono ancora aver dato risposte complessive adeguate. Un primo argomento concerne la vaghezza e contraddittorietà dei piani relativi alla “guerra al terrorismo” e il fatto che essa, come del resto gli esiti finora conseguiti dall’azione contro bin Laden mostrano, non sembra capace di andare alla radice dei problemi sottesi al fenomeno. Sicchè anche un osservatore tendenzialmente favorevole alla Dottrina come lo storico Bruce Kuniholm richiama con forza il fatto che “contenere l’aggressione richiede una dinamica positiva capace di dare alla gente (delle aree coinvolte) speranza perché riconosce i loro bisogni tanto quanto i nostri”. Senza dimenticare, aggiungono altri studiosi, le palesi divisioni interne all’amministrazione Bush, che, come l’andamento zig-zagante sulla questione nordcoreana ha mostrato, non garantiscono una coerenza e continuità d’azione all’altezza degli obiettivi definiti dalla Dottrina.((Kuniholm, op. cit., p. 438.)) Un secondo argomento concerne le conseguenze economiche e sociali per gli Stati Uniti della overextension prevista dal progetto: ovvero una prevedibile riaffermazione delle componenti più retrive del complesso militare-industriale, in linea certo con l’ultraliberismo selettivo bushiano, ma che, stando ai risultati sinora conseguiti dall’amministrazione sul piano economico seguendo proprio questa linea (la peggior performance dai tempi di Herbert Hoover), non promette niente di buono per il futuro del paese sul medio e lungo periodo. ((J.K. Galbraith, The Unbearable Costs of Empire, in “American Prospect”, 18 novembre 2002.))Infine, c’è la questione –  sollevata da un ampio e variegato fronte, che va da Business Week ai teorici liberal delle relazioni internazionali –  delle minacce alla nozione e alla realtà della sovranità nazionale che la Dottrina pone, postulando una “sovranità condizionata”, e delle gravi e imprevedibili risposte che ne possono provenire da quanti si sentono minacciati.((Nussbaum, art. cit., p. 128; Ikenberry, op. cit., p. 53-54.))

In questo modo siamo già passati, insensibilmente, sul terreno più scivoloso, per gli storici, dell’attualità più immediata e dell’applicazione della nuova linea USA al caso iracheno. Si tratta di eventi troppo vicini e rispetto ai quali la documentazione è ancora evidentemente troppo ambigua e lacunosa per poterne trattare con la dovuta profondità analitica. Limitiamoci dunque a un paio di osservazioni, non senza aver ribadito la convinzione, che condividiamo con tutti i democratici, che il regime di Saddam Hussein, come notava recentemente Timothy Garton Ash, è una nefasta dittatura, che ha invaso due volte i propri vicini e violato sedici risoluzioni ONU nell’arco di dodici anni; una dittatura della quale è sperabile gli iracheni e il mondo riescano a liberarsi il prima possibile. ((T. Garton Ash, In defence of the fence, in “The Guardian”, 6 febbraio 2003. Su Saddam e il suo regime vedi la sintesi di Marcella Emiliani in questo stesso fascicolo.)) La prima osservazione è che, anche stando alle cronache più recenti –  cioè alla presentazione, dinanzi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, da parte del Segretario di Stato Colin Powell, delle “prove” che, secondo il governo USA, giustificano una linea dura contro il regime dittatoriale di Saddam Hussein sino all’eventuale ricorso alla forza –  non si può non convenire con quanto Federico Romero scriveva un mese e mezzo fa, affermando che “l’amministrazione Bush ha imposto la questione Iraq nei termini che essa voleva, ha costruito un solido consenso interno alla propria politica pur lasciandosi mano libera sui termini della sua applicazione, ha portato l’ONU a riprendere le ispezioni in Iraq in termini così draconiani da mettere apertamente in discussione la natura e la permanenza del regime”. Né si può discutere il fatto che, prosegue Romero, l’iniziativa di Bush è caduta in un vuoto di “visioni alternative che affrontino i problemi del Medio Oriente, del terrorismo globale e della sicurezza internazionale in termini credibili”.((Romero, art. cit. Rispetto alle osservazioni di Romero credo che vada semmai verificata la consistenza reale del consenso interno alla politica Bush.)) Non c’è bisogno di sottoscrivere i ruvidi ricami teorici di un “falco” come Robert Kagan sull’inane “pacifismo” europeo contrapposto alla “forza” statunitense per riconoscere come oggi “la vecchia Europa si trovi dinanzi l’ingrata scelta fra l’irrilevanza in un ordine globale dominato dagli Stati Uniti e la complicità in una guerra guidata dagli Stati Uniti”. ((S. Chesterman, To be irrelevant or to go alone, in “International Herald Tribune”, 7 febbraio 2003. Vedi anche J. Steele, The new vassals, in “Guardian”, 7 febbraio 2003.  Su Kagan, vedi R. Kagan, Puissance et faiblesse, in “Commentaire », autunno0 2002, pp. 534-535.))

Detto questo, mi risulta difficile, però, e veniamo così alla seconda osservazione, non riproporre, visto che sul piano teorico mi pare conservino in notevole misura la loro validità, le obiezioni che proprio sul caso iracheno sono emerse, fra gli osservatori americani, riguardo alla Dottrina Bush. Dalla questione delle famose “pistole fumanti”, che neppure la presentazione di Powell pare aver risolto((K. Vanden Heuvel, Powell Fails to Make Case, in “The Nation”, 6 febbraio 2003; I.H. Daalder, J.M.Lindasy, Forward Thinking, in “American Prospect”, 7 febbraio 2003. )). A quella di un possibile “contenimento” attraverso ispezioni sempre più rigorose e costanti proposto da studiosi realisti come John J. Mearsheimer o da filosofi liberal come Micahel Walzer((J. J. Mearsheimer, S.M. Walt, Can Saddam Be Contained? History Says Yes, inedito, 12 novembre 2002 (ne devo copia a Mario Del Pero, che ringrazio); M. Walzer, Più ispettori e permanenti, in “Corriere della Sera”, 31 gennaio 2003.  Walzer, però, sembra non considerare la complessità della questione delle sanzioni, che ripropone in modo acritico.)). A quella di “quale guerra” (al terrore? a un regime?), con quali mezzi e con quali conseguenze, sollevata da osservatori diversi come l’ex comandante NATO Wesley K. Clark, l’autorevole opinionista E.J. Dionne e i tanti che si sono interrogati sulle drammatiche conseguenze del conflitto per la popolazione irachena e sull’incerto assetto futuro dell’Iraq e della regione.((D. Ignatius, A General’s Doubts e E.J. Dionne jr., But Which War? in “Washington Post”, 31 gennaio 2003; J. Fallows, The Fifty-First State?, in “Atlantic Monthly”, novembre 2002, pp. 53-64.)) A quella, di natura più generale, sollevata da Stanley Hoffmann contro lo “wilsonismo con gli stivali” e contro la “sempre più incensatoria immagine di sé” che l’azione unilaterale USA nell’area incarna, a suo giudizio,  in  quanto espressione della Dottrina Bush.((S. Hoffman, The High and the Mighty, in “American Prospect”, 23 novembre 2002.))

È impossibile evidentemente prescindere dallo stato di fatto –  ovvero dal problema che il regime di Saddam pone alla comunità internazionale, dalla debolezza degli interlocutori internazionali degli Stati Uniti, dai pericoli reali e dalla reazione emotiva che l’11 settembre ha prodotto in questi ultimi e nel mondo. Ma neppure possiamo dimenticare o sottovalutare le componenti mitologiche e ideologiche della Dottrina Bush, l’impulso egemonico che essa contiene, gli interessi che nasconde. Dopo l’11 settembre qualcuno suggerì di rileggere le pagine d’apertura, che parevano profetiche, del Melville di Moby Dick, là dove si parla di “Sanguinosa battaglia in Afghanistan”. L’America della Dottrina Bush ci spinge a procedere nella lettura del capolavoro di Melville almeno sino al capitolo 128. Là dove, cioè, Ahab, sordo a ogni impulso che non sia quello della sua caccia ossessiva, rifiuta di ascoltare le richieste d’aiuto di Gardiner, capitano di una nave in difficoltà, alla disperata ricerca del figlio dodicenne caduto in mare. “Capitano Gardiner – dice Ahab – …anche ora, sto perdendo tempo. Addio, addio”.((H. Melville, Opere, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Mondatori, 1991, vol. II, p. 1485. Vedi inoltre J. Harding, Call Me Ahab, in “London Review of Books”, 31 ottobre 2002, p. 10.)) Il senso del tragico, è vero, non si addice ai nostri tempi, smagati, postmoderni e muscolari. Ma…