Gli uomini del marmo
Prendete una carta geografica della Toscana settentrionale. C’è una specie di rettangolo; uno dei lati lunghi corrisponde alla costa fra la foce del Magra e la foce del Serchio; uno dei lati corti corrisponde al corso del fiume Serchio dalla foce, passando per Lucca, fino a Bagni di Lucca; l’altro lato lungo va da Bagni di Lucca lungo la valle del Serchio fino a Castelnuovo Garfagnana e Piazza al Serchio e prosegue per la valle dell’Aulella fino ad Aulla; l’ultimo lato, corto, va da Aulla alla foce del Magra. Racchiuso dentro questo rettangolo c’è un pezzo d’Italia straordinario per le risorse di importanza naturalistica ed economica.
Le risorse naturalistiche comprendono montagne, le Alpi Apuane, che arrivano a vette di 1500 – 2000 metri, alcune a dieci kilometri in linea d’aria dal mare, valli ricche di vegetazione, un patrimonio di grotte fra le più importanti e meno note d’Italia, sorgenti di acqua, testimonianze di antiche civiltà e civilissimi borghi medievali e castelli.
Le risorse minerarie comprendono il marmo, prima di tutto, e poi giacimenti minori di altri minerali che pure, nel passato, hanno dato vita ad attività estrattive e industriali di qualche importanza. Ma la ricchezza più grande è rappresentata dalla gente, in gran parte gente di montagna, dai lavoratori del marmo che continuano una professione e una tradizione antiche di oltre duemila anni.
Il marmo delle Alpi Apuane è costituito da calcari mesozoici, a base di carbonato di calcio. I giacimenti marmiferi della regione apuana – Carrara, valle del Lucido, Massa, Versilia, Garfagnana – sono considerati i più importanti del mondo; essi forniscono numerose e molto pregiate varietà di marmi di differente struttura e colore. I più pregiati sono i marmi bianchi, ma vi sono giacimenti di marmi colorati con vene di colore verde, turchino, giallognolo, nero, dovute a tracce di minerali metallici infiltrati nel carbonato di calcio.
Per la loro bellezza, resistenza agli agenti esterni, relativa facilità di lavorazione e lucidatura, i marmi apuani sono stati apprezzati come materiali da costruzione già dai Romani. Molti monumenti della Roma antica sono fabbricati con marmo estratto in blocchi dalle Alpi Apuane; i blocchi, anche di grandi dimensioni, venivano staccati dalla montagna con tecniche relativamente progredite, per quei tempi, poi venivano fatti scendere a valle e venivano imbarcati a Luni, un porto a pochi kilometri da Carrara, importante in epoca romana, ma da tempo insabbiato. Se ne visitano i resti che ormai si trovano ad alcuni kilometri dalla costa.
Dopo un lungo periodo di abbandono, col declino dell’impero romano e con l’abbandono del porto di Luni e lungo il medioevo, il marmo apuano ha assunto di nuovo importanza col Rinascimento ed è stato scelto come apprezzato materiale da costruzione per edifici e monumenti. Le montagne hanno ripreso vita e i blocchi hanno ricominciato a scendere dalle valli sulla marina, caricati a viva forza sui velieri e trasportati nelle zone di utilizzazione, specialmente a Roma. Nel 1700 le attività del marmo erano abbastanza importanti economicamente; le cave erano nelle mani di pochi signori del luogo, al punto che Maria Teresa stabilì degli statuti che regolavano l’estrazione del marmo, statuti che, in parte, sono in vigore ancora oggi.
Agli inizi del 1800, in periodo napoleonico, una nuova vivace borghesia locale cercò di rompere il monopolio delle famiglie dominanti e ottenne nuove norme: le cave erano di proprietà pubblica, dei Comuni, e il marmo poteva essere estratto soltanto da concessionari: chiunque poteva ottenere delle concessioni ed era tenuto soltanto a pagare ai Comuni una imposta proporzionale alla quantità di marmo estratto. Queste nuove regole dettero energico impulso all’industria del marmo. Imprenditori locali e stranieri introdussero nuove tecniche e intensificarono l’estrazione e la trasformazione, nelle segherie, del marmo in lastre, richieste in edilizia. Successivamente la natura pubblica delle cave, e il sistema delle concessioni, hanno subito l’attacco degli interessi privati. Un bell’esempio di conflitto attorno ai bene comuni !
Si formarono vere imprese multinazionali e si trovano nella zona apuana ancora nomi – Henraux, Walton, Delgas, Dervillé, Chevalier, Denham – che ricordano imprenditori e tecnici calati dall’Inghilterra, dal Belgio, dalla Francia, nel corso del 1800.
Fino agli inizi del 1800 i blocchi venivano staccati dalla montagna introducendo dei cunei nelle fessure che la montagna presenta sempre; a forza di braccia e di martello si ottenevano dei pezzi di dimensioni irregolari trasformati poi, sempre a forza di braccia e di scalpello, in blocchi di dimensioni più regolari. All’inizio si recuperava, come blocchi commerciali, solo il 5 o il 10 per cento del marmo staccato dalla montagna: queste cifre danno una idea dell’entità del lavoro umano necessario, ma anche dello spreco di materiale e dell’enorme quantità di detriti.
Intorno al 1850 è stata introdotta la tecnica del filo elicoidale; un filo di ferro intrecciato a tre capi a spirale, teso fra adatte pulegge e tenuto in moto continuamente, si inseriva nelle fessure della montagna staccando dei blocchi con pareti già abbastanza squadrate. L’azione abrasiva del filo elicoidale veniva aumentata versando continuamente nel solco una miscela di sabbia e acqua. I blocchi irregolari venivano fatti scivolare nei piazzali della cava e ridotti, sempre col filo elicoidale, in blocchi delle dimensioni volute. Da una parte diminuiva il lavoro bruto di martello e scalpello, ma la maggiore velocità di produzione ricadeva ancora sugli operai delle cave e, nel complesso, faceva aumentare, anziché diminuire, la fatica e il pericolo.
In certi casi il distacco dei blocchi era ottenuto facendo esplodere delle mine; al fianco dei blocchi di grandi dimensioni, quelli di valore economico, si formavano anche così enormi quantità di detriti che venivano scaricati ai piedi della cava, giù dalla montagna.
Ma il lavoro pericoloso e faticoso non finiva qui; i blocchi del peso di molte tonnellate dovevano essere trasportati a valle, superando dislivelli di centinaia di metri. La primissima tecnica di trasporto consisteva nel “buttare giù”, letteralmente, i blocchi dal piazzale della cava lungo i pendii, con perdite enormi del materiale utile. Successivamente, per secoli, fino a pochi decenni fa, i blocchi venivano trasportati a valle col metodo della lizzatura.
Immaginate delle strade scavate nei fianchi della montagna con pendenze anche superiori al 30 per cento. I blocchi venivano legati con corde e posti su assi di legno, simili alle traversine ferroviarie. Queste assi erano insaponate per facilitare lo scorrimento dei blocchi. Gli operai che tenevano fermo il blocco, tendendo le corde, cominciavano a “mollare” la corda per fare scendere il blocco che scivolava lentamente sulle traversine in pendenza. Quando la traversina di dietro si rendeva libera, un operaio la prendeva e correva a metterla davanti al blocco in discesa, e questo si ripeteva per kilometri. Ad ogni svolta della strada di lizza era fissato nel terreno un grosso palo, detto piro, intorno a cui veniva avvolta e fatta scorrere la corda. Il blocco cambiava così direzione e affrontava un altro tratto della pericolosa discesa. Bastava che una corda si rompesse, o che un operaio non fosse abbastanza svelto nel togliere e spostare le traversine, o che il blocco scivolasse, per provocare morti e incidenti e mutilazioni.
Un paio di volte all’anno a Carrara, per i turisti, viene ripetuto questo “spettacolo”, ma difficilmente i turisti riescono a immaginare quanto doloroso e crudele fosse questa tecnica, quanto sangue è costato il marmo che adorna tanti monumenti delle nostre città.
Per accorciare il trasporto lungo le vie di lizza, alla fine del 1800 fu costruita una ardita ferrovia che collegava il porto di Marina di Carrara, nel frattempo costruito per imbarcare i marmi, con le cave di alta montagna. Si trattava di un’opera di ingegneria citata nei trattati di tecnica ferroviaria: ironicamente la ferrovia marmifera è stata smantellata agli inizi degli anni sessanta del Novecento e la sede stradale è ora utilizzata per i trasporti con camion, in condizioni spesso di grande pericolo.
Alla fine del 1800 e’ stata anche costruita, nelle Alpi Apuane, la più grande teleferica del mondo, capace di trasportare a valle blocchi di marmo del peso fino a 5 tonnellate; quest’opera è stata distrutta dai tedeschi durante la guerra e mai ricostruita. Ma comunque la lizzatura è stata per decenni la tecnica per il trasporto dei blocchi dalle cave ai piazzali di carico della ferrovia marmifera.
I veri giganti in questa battaglia per estrarre marmo dalle montagne non sono stati e non sono gli imprenditori o gli ingegneri, ma i cavatori, esposti ad uno dei lavori più faticosi e pericolosi che si possano immaginare. All’alba gli operai dovevano affrontare lunghe marce, in molti casi di molte ore, per salire alle cave; qui il lavoro durava almeno otto ore e gli operai erano avvolti nel gelo d’inverno; il caldo estivo era amplificato e reso ancora più insopportabile dal riverbero del marmo. Una indagine del Ministero dell’industria, condotta nel 1892, descriveva il gran numero di incidenti delle cave: “Gran parte delle vittime delle cave devono scriversi a cattivi sistemi di lavorazione, alla mancanza o poca idoneità del personale dirigente o ad attività di lucro che spingevano i coltivatori a trascurare, per economia, le precauzioni necessarie a tutelare la vita degli operai”.
A questo durissimo lavoro corrispondevano salari di pura sopravvivenza. Più che in altre parti d’Italia, la storia dell’industrializzazione è stata qui, nella zona del marmo, segnata dalla ricchezza dei proprietari di cave e segherie – si racconta ancora di industriali che nei primi anni del ‘900 avevano le automobili con le portiere dalle maniglie d’oro – e dal sangue dei lavoratori che ha segnato i blocchi e le strade di trasporto del marmo. Non c’è da meravigliarsi se proprio in queste valli sono nati i primi movimenti di ribellione operaia, i movimenti socialisti, comunisti e anarchici.
Un lavoro che ancora oggi è pagato con un pesante tributo di sangue, anche se è più facile raggiungere la cave e se il trasporto è effettuato con camion. Ancora oggi nelle valli del marmo si vedono i volti dei cavatori bruciati dal sole e dal freddo; le facce impassibili dei guidatori delle ruspe che spostano i detriti sull’orlo di strade sospese sullo strapiombo o dei camionisti che trasportano blocchi del peso di molte tonnellate su strade dalle incredibili pendenze. Sono i volti spesso di lavoratori non più giovani, figli e nipoti di cavatori, legati alla montagna e al marmo dal salario, ma anche da forme di amore e di rapporto naturale, con la pietra che spostano e dominano.
La cava “si coltiva”, come il campo, e il lavoro in cava, come quello nei campi, avviene all’aria aperta, attento alle piogge, alla neve e al sole, presuppone conoscenze che pongono il lavoratore, consciamente o inconsciamente, in gara con le forze della natura.
L’estrazione del marmo ha aspetti misteriosi e magici, ancora oggi. Il profano – e lo è anche il naturalista o il merceologo – si trova di fronte ad una parete di marmo che sembra omogenea e continua. Ma solo poche persone sanno “leggere” quella parete e sanno dire se è possibile trarne dei blocchi commerciabili, di quale dimensione, se da tali blocchi sarà possibile ricavare lastre del tipo e formato richiesto nelle costruzioni. Ad un esame più attento la parete appare attraversata da sottili vene, fessure, disomogeneità che il tecnico – ma forse sarebbe bene dire l’artista e il geologo del marmo – riconosce per indicare dove la montagna va attaccata per staccare il blocco, per ridurre al minimo gli scarti.
Questi empirici geologi non si sono formati a nessuna scuola, ma si tramandano sensibilità e attenzioni di generazione in generazione, anche perché un errore di valutazione può costare la vita a un operaio e ai suoi compagni. Il lavoro in cava richiede solidarietà e coordinamento fra lavoratori uniti nel pericolo e nel destino. Un lavoro così diverso da quello della fabbrica di città, un lavoro – questo del marmo – anche oggi duro e pericoloso, nonostante le innovazioni tecniche, perché lo spirito di speculazione prevale ancora, esponendo i cavatori a rischi che, con modesti investimenti, potrebbero essere evitati.
A Carrara esiste una famosa Accademia artistica, ma non esiste una Università del marmo, o un centro di ricerche scientifiche su questo materiale da costruzione; alcune iniziative locali hanno più carattere promozionale delle vendite che di sviluppo della scienza e della cultura del marmo. Ne conseguono ritardi e un declino del marmo apuano.
Gli imprenditori trovano più conveniente importare blocchi di granito e segarli in lastre e piastrelle, scontrandosi con una dura concorrenza internazionale, invece di valorizzare il marmo, una materia che è stata e in parte è ancora quasi monopolio italiano e toscano. Le speculazioni e i ritardi culturali a poco a poco erodono l’occupazione nel settore del marmo e addirittura non utilizzano neanche certe proprietà peculiari del marmo. Il marmo, per esempio, è il materiale da costruzione meno radioattivo; l’impiego del marmo all’interno degli edifici consente di tenere bassa nelle stanze la concentrazione atmosferica del gas radioattivo radon che viene liberato, invece, dai cementi, dai graniti, da molti materiali da costruzione. Adesso che in tutto il mondo sta crescendo l’attenzione per l’inquinamento dovuto al radon all’interno degli edifici, il marmo potrebbe trovare nuovi campi di applicazione e nuovi mercati.
Una ripresa del marmo presuppone, peraltro, una rinnovata attenzione per le condizioni di lavoro della gente delle cave e per la natura. Una svolta, insomma, culturale, di cui non si vede segno negli imprenditori e negli amministratori; ancora una volta la classe dirigente è più arretrata rispetto al coraggio e alla lungimiranza dei cavatori.
Non c’è dubbio che l’escavazione del marmo arreca delle ferite alla montagna, ma alcune delle nocività ambientali potrebbero essere evitate. Nella fase di estrazione del marmo si formano grandi quantità di residui: del pezzo di montagna staccata dalle mine e dalle seghe vale la pena di portare a valle soltanto blocchi di dimensioni standard; le scorie delle operazioni di rifinitura grossolana dei blocchi, i blocchi di dimensioni non economiche, tutto questo resta sul monte, anzi viene scaricato e gettato giù dalla cava. Queste discariche di detriti si chiamano in gergo “ravaneti” e si riconoscono, anche da lontano, in quanto appaiono come grandi superfici bianche triangolari, con la base ai piedi della cava e il vertice che si allunga verso la valle, dopo aver distrutto la vegetazione, causa di frane e di alterazione del corso dei fiumi. Soltanto di recente questi detriti di marmo sono stati usati per trarne del carbonato di calcio usato in alcune industrie.
I torrenti delle valli apuane diventano i ricettacoli degli altri residui pulverulenti che si formano durante la segagione del marmo, fatta oggi con lame di ferro raffreddate ad acqua, come in passato, o con lame diamantate, molto più veloci. Dal 30 al 50 per cento del blocco va perduto sotto forma di polvere fine che prende il nome di “marmettola” e che nessuno sa come smaltire e utilizzare, se non buttandola nei fiumi o in mucchi fangosi in discariche all’aria aperta. Da qui la protesta ecologica: essa dovrebbe spingere le autorità e gli imprenditori ad affrontare i problemi della zona apuana con ricerche scientifiche, nuove iniziative.
E’ questa la condizione per ridare competitività al frutto del lavoro della gente del marmo, per riportare ricchezza alle valli apuane, per indurre una nuova generazione a “coltivare” una risorsa naturale così unica come il marmo.