I Bresciani. Imprenditoria, professionalità, tecnologia nel caso della siderurgia bresciana (1945-1996)

Pubblichiamo il primo capitolo di una ricerca di prossima edizione per i tipi della Jaca Book di Milano, condotta per conto della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia da Giorgio Pedrocco, docente presso l’Università di Bologna. Un’indagine basata su documenti, archivi aziendali, stampa quotidiana, le testimonianze di imprenditori, industriali, pubblici amministratori ed altri testimoni privilegiati di una vicenda emblematica dello strutturarsi dell’economia italiana, in un comparto –come quello siderurgico- al centro di complessi intrecci fra finanza, saperi locali, tutela ambientale, scelte imprenditoriali.

La siderurgia lombarda tra autarchia, guerra e ricostruzione.

Nell’industria siderurgica lombarda sono coesistite, nel corso della prima metà del Novecento, due diverse tipologie di imprese. Da un lato una siderurgia relativamente moderna, una siderurgia d’integrazione((Siderurgia d’integrazione, siderurgia alpina e siderurgia costiera sono tre tipologie messe a punto dal geografo Ernesto Massi per studiare la storia dell’industria italiana del ferro in età contemporanea. Cfr. Ernesto Massi, Tipi geografico-economici nell’evoluzione della siderurgia italiana, in “Ricerche storiche”, a. VIII (1978), n.1, pp. 307-330. La siderurgia d’integrazione presenta gli impianti collocati a ridosso delle industrie manifatturiere milanesi e torinesi, la siderurgia alpina a colloca i propri impianti in quei siti dove da secoli si lavorava il ferro estratto dalle locali miniere, i cui prodotti erano alla base dei più disparati comparti dell’industria manifatturiera (trafilerie, magli per gli attrezzi edili e rurali, chioderie sino alla pregiata industria delle armi), la siderurgia costiera si è collocata in corrispondenza di attracchi marittimi, Savona, Genova, Piombino, Portoferraio, Bagnoli, favorevoli sia per l’approvvigionamento di combustibile e di materie prime sia per lo smistamento dei prodotti siderurgici nell’industria meccanica pesante.)), collocata prevalentemente in pianura e in prossimità dei maggiori centri industriali della regione, basata su acciaierie a carica solida (ghisa e rottame) ed indirizzata ad approvvigionare con i propri laminati piani e lunghi sia la crescita dell’industria meccanica  sia lo sviluppo di altre attività manifatturiere soprattutto dell’edilizia; dall’altro lato una siderurgia tradizionale, una siderurgia alpina, collocata in media ed alta quota e formatasi nel corso dei secoli grazie alla contemporanea presenza del minerale di ferro, della forza motrice idraulica e del combustibile locale, il carbone di legna; una siderurgia ancora impostata sulla produzione di attrezzi di lavoro per l’agricoltura e per l’edilizia, che trovava mercati su tutto il territorio nazionale.

Le imprese siderurgiche lombarde conobbero il loro momento di massimo splendore negli anni venti e trenta, quando con la fine della prima guerra mondiale, la siderurgia costiera , cresciuta in prevalenza grazie a commesse pubbliche lungo le coste liguri e tirreniche, subì dei duri contraccolpi in seguito alla verticale caduta degli ordinativi militari. Nel corso di pochi decenni, grazie anche alla migrazione di alcune imprese siderurgiche, come la Falck e la Redaelli, dalle valli alpine verso la cintura milanese, si venne formando un consistente tessuto di attività siderugiche moderne.

La siderurgia lombarda, pur non essendo tecnologicamente molto avanzata, seppe mettere a frutto le occasioni favorevoli offerte dal mercato regionale: l’industria meccanica e le attività edilizie divennero un sicuro e privilegiato sbocco per le grandi quantità di getti, di laminati piani e lunghi che uscivano dalle acciaierie lombarde((Per una approfondita analisi storico-tecnica della siderurgia padana negli anni venti e trenta si veda il saggio di Martino Pozzobon, L’industria padana dell’acciaio nel primo trentennio del Novecento, in Acciaio per l’industrializzazione, a cura di Franco Bonelli, Einaudi, Torino, 1982, pp. 161-216. Si veda anche una analitica scheda critica del volume che non ne condivide le considerazioni generali: Ulrich Wengenroth, Il mito del ciclo integrale: considerazioni sulla produzione dell’acciaio in Italia, in “Società e storia”, n. 30, 1985, pp. 907-927.)).

La riorganizzazione, in seguito alla crisi del 1929, della siderurgia costiera nell’ambito dell’Iri con la creazione di una specifica sezione, la Finsider, col compito di razionalizzare gli impianti appartenenti all’Ilva non mise in difficoltà la siderurgia lombarda per i ritardi con cui venne reso operativo il piano siderurgico nazionale che prevedeva secondo i suggerimenti di Oscar Sinigaglia l’apertura a Genova-Cornigliano di un impianto a ciclo integrale((L’impianto realizzato durante la seconda guerra mondiale venne smantellato dai tedeschi dopo l’otto settembre 1943.? Citare anche il volume di Hoepli di Astuti e Ranieri e Scortecci.)).

A metà del 1938 nell’area milanese tra Rogoredo, Milano, Legnano e Sesto San Giovanni erano concentrati una dozzina di stabilimenti con altrettanti forni Martin-Siemens e una cinquantina di forni elettrici, la produzione complessiva di acciaio si aggirava sulle 500.000 tonn.. Le aziende più importanti erano a Sesto San Giovanni: la Falck, la Breda  e le Acciaierie di Sesto San Giovanni, poi la Radaelli a Rogoredo, la Franco Tosi a Legnano, la Vanzetti e la Pracchi a Milano (mettere note). Nei centri limitrofi sia ad est che ad ovest, si erano sviluppate altri imprese: la Marazzi e Stramezzi a Crema, la Caleotto a Lecco, la Dalmine nel centro omonimo della provincia di Bergamo.

Accanto al manifestarsi di una spregiudicata imprenditoria, che contribuì in maniera decisiva alla realizzazione di un grande patrimonio industriale, venne creandosi, quasi dal nulla, una manodopera con elevati livelli professionali: le competenze tecniche acquisite in quei grandi laboratori di formazione che sono stati gli impianti siderurgici (dai magli delle valli alpine ai grandi complessi dell’area metropolitana milanese) hanno funzionato come un insostituibile elemento di sostegno al processo produttivo. Il rapporto fra due elementi interdipendenti, l’iniziativa imprenditoriale e la capacità tecnica delle maestranze, ha creato delle fruttuose sinergie in Lombardia per la crescita e il consolidamento del comparto siderurgico nel corso del Novecento.

Negli anni trenta la Lombardia produceva attorno al 40% dell’intera produzione nazionale di acciaio, e a guerra finita, pur essendo diminuita la produzione in valore assoluto in seguito agli eventi bellici, la quota lombarda era addirittura salita, perché gli impianti delle maggiori imprese siderurgiche lombarde erano rimasti intatti grazie anche alla loro dispersione sul territorio.

Questa situazione vantaggiosa si protrasse anche nel secondo dopoguerra, tra il 1945 e il 1949, un periodo di grandi difficoltà per la siderurgia costiera, che continuava ad essere gestita attraverso Iri e Finsider direttamente dalla mano pubblica, i cui impianti erano stati molto danneggiati dagli eventi bellici e necessitavano di consistenti interventi finanziari per la loro riattivazione. Inoltre la prevalenza di altoforni e di forni Martin-Siemens richiedeva come combustibile il carbon fossile, di non facile approvvigionamento a causa della precarietà dei commerci internazionali.

Il comparto siderurgico privato si trovava in tutt’altra situazione: in particolare, le acciaierie della Falck erano riuscite a ripartire rapidamente grazie alla disponibilità sia di una specifica materia prima, la cenere di pirite, sia di energia elettrica, fornita da centrali idroelettriche di proprietà dell’azienda. Negli anni dell’immediato dopoguerra la Falck aveva ricevuto dalle Ferrovie dello Stato commesse per rotaie e forniture di rottame che le avevano garantito un pronto e completo utilizzo degli impianti((Martino Pozzobon, La siderurgia milanese nella Ricostruzione (1945-1952). Ristrutturazioni produttive, imprenditori, classe operaia, in “Ricerche storiche”, a. VIII (1978), n. 1, pp. 277-305.)).

Radicali cambiamenti negli orientamenti della politica economica internazionale dovevano ben presto modificare profondamente questa situazione. Alla fine degli anni quaranta alcuni stati dell’Europa occidentale abbandonarono gli indirizzi protezionistici sui quali erano state impostate le politiche economiche nazionali dei decenni precedenti. La siderurgia fu uno dei primi settori a beneficiare di tale mutamento. Il 18 aprile 1951 nacque la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), un ente sovranazionale che aveva lo scopo di favorire l’ammodernamento della siderurgia europea. La Ceca eliminò rapidamente ogni copertura protezionista alle singole siderurgie nazionali della Francia, della Germania occidentale, dell’Italia e del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo promovendo un regime di bassi prezzi per i semilavorati siderurgici destinati all’industria meccanica. L’Italia, aderendo alla Ceca, si inserì in questo rapido processo di adeguamento della propria industria siderurgica e realizzò, attraverso il piano Sinigaglia, un massiccio investimento nella siderurgia pubblica((Luigi De Rosa, La siderurgia italiana dalla Ricostruzione al V Centro siderurgico, in “Ricerche storiche”, a. VIII (1978), n. 1, pp. 251-276; Ruggero Ranieri, Il piano Marshall e la ricostruzione della siderurgia a ciclo integrale, in “Passato e presente” ??.)).

Tale insieme di novità provocò disagi alla siderurgia lombarda che, grazie al contingentamento della produzione ed alla protezione doganale accentuata dagli indirizzi autarchici, si era trovata negli anni della sua espansione al riparo dalla concorrenza sia della siderurgia pubblica sia di quella, ben più temibile, delle imprese europee.

Negli anni cinquanta la siderurgia lombarda, pur aumentando la produzione in valore assoluto grazie all’apporto dei forni elettrici, andò perdendo di importanza rispetto al periodo tra le due guerre in quello che era stato il suo punto di forza, la produzione di acciaio comune, da cui poi traeva una vastissima gamma di semilavorati da impiegare nelle lavorazioni meccaniche. Inoltre le aziende Finsider, grazie al ciclo integrale, stavano espandendosi molto più rapidamente e stavano acquistando un peso sempre maggiore nella produzione nazionale dell’acciaio comune: il rapporto tra produzione statale e privata di acciaio, che era sempre stato paritario, nel 1957 si spostava a favore della siderurgia pubblica, con il 73% della produzione nazionale e negli anni sessanta, che segnarono una grande espansione del settore pubblico, il distacco si accentuò ulteriormente((Aldo Frumento, Onelio Turolla, I baricentri siderurgici italiani fra il 1949 e il 1971, in “Rivista Internazionale di Scienze Economiche e Commerciali”, a. XV (1968), n. 3, pp. 215-267.)).

Il declino della siderurgia lombarda non fu comunque caratterizzato da una rapida caduta verticale perché erano molti gli elementi strutturali e congiunturali che ne rallentavano la crisi.

Alcune caratteristiche normalmente considerate di grande debolezza, come la frammentazione delle imprese e la conseguente arretratezza tecnologica di fronte alla concentrazione tipica del sistema a ciclo integrale, potevano diventare punti di forza se collocate nella particolare situazione della siderurgia padana del secondo dopoguerra.

“Di una particolare rendita godono i piccolissimi e i minimi che possono più facilmente sfuggire alle varie fiscalità (di associazione, nazionali e supranazionali, sempre più pesanti in una società economica che tende a perfezionare e ad aumentare la propria organizzazione), mentre l’elasticità dei processi produttivi e la mancanza di costosi servizi generali si risolve in una automatica riduzione dei costi fissi”((Mario Fumagalli, La siderurgia padana, l’industria dell’acciaio a settentrione degli Appennini, Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck, Milano, 1961, p. IV.)).

La frammentazione storica delle imprese e la loro piccola dimensione erano infatti in grado di mettere in campo molte energie, facendo ricorso da un lato allo spirito d’iniziativa imprenditoriale e dall’altro alle capacità tecniche e professionali delle maestranze.

La scelta di prodotti finali a basso costo di lavorazione aveva consentito alle moltissime aziende del Bergamasco, del Bresciano, del Milanese e del Lecchese di sopravvivere malgrado le modeste dimensioni e le modestissime strutture aziendali, anche perché i loro prodotti trovarono uno sbocco quasi immediato nelle lavorazioni manifatturiere della regione padana.

Infine la siderurgia padana potè godere, negli anni immediatamente precedenti e successivi alla seconda guerra mondiale, di consistenti vantaggi energetici che non devono essere sottovalutati: innanzi tutto la disponibilità di elettricità a basso costo da impiegare nei processi di fusione (l’elettricità in Lombardia, fatte le debite proporzioni, ebbe lo stesso ruolo del carbone nella Ruhr((I consumi negli anni cinquanta erano di circa 4/5 miliardi di Kwh, per Falck e Dalmine si trattava di autoproduzione.))); poi, nel secondo dopoguerra, la grande disponibilità di gas metano, fu un altro importante fattore di spinta dell’industrializzazione padana di quegli anni((Fumagalli, L’industria dell’acciaio…, cit., passim.)).

Se alcune imprese erano indubbiamente in declino, c’era un fervore di micro attività, ad esempio quelle messe in campo dai cosiddetti bresciani, dediti alla produzione di tondino per cemento armato; tale produzione, pur facendo parte di un sommerso non poteva sfuggire però agli osservatori più attenti.

“Questi produttori traevano dalla propria posizione di svantaggio tecnico elementi di parziale superiorità rispetto ai maggiori e ben più organizzati ed attrezzati complessi; infatti dimensioni minime, impianti rudimentali ed antiquati, strutture aziendali ridotte alle forme più semplici, procedimenti produttivi limitati ai più piccoli segmenti, manodopera non specializzata e spesse volte avventizia erano elementi che concorsero a formare una particolare rendita legata alle piccole dimensioni d’impresa”((Andrea Bellicini, La siderurgia bresciana. Storia, aspetti geografici, problemi economici, Editoriale Viscontea, Pavia, 1987, p. 72.)).

La siderurgia bresciana alle soglie della seconda guerra mondiale.

Il nucleo più consistente della siderugia alpina  lombarda si trovava nell’alto Bresciano (val Camonica, val Trompia e val Sabbia) ed era costituito da attività produttive presenti già in età medievale e molto fiorenti in età moderna grazie alla concomitante disponibilità delle risorse allora essenziali allo sviluppo dell’industria del ferro: il combustibile, costituito da carbone di legna, la forza motrice, fornita dai corsi d’acqua alpini, e infine il minerale estratto dai locali giacimenti di ferro. La siderurgia forniva semilavorati a due attività manifatturiere da tempo presenti nel Bresciano: da un lato la tradizionale produzione di attrezzatura manuale per l’agricoltura e per l’edilizia e dall’altro la moderna e pregiata produzione di armi((E. Audibert, Notice sur l’affinage du fer par la méthode bergamasque dans les usines de Lombardie, in “Journal des mines”, IV s., t. I, Paris, 1842, pp. 613-682; Massimo Bonardi, Il ferro bresciano, note storiche e statistiche, Unione tipo-litografica bresciana, Brescia, 1889.)).

Con l’Unità d’Italia iniziò il declino della siderurgia alpina, in seguito alla liberalizzazione dei mercati, che aprì la strada alla concorrenza dei “ferri inglesi”, e investì anche la siderurgia bresciana. Nel Bresciano comunque queste attività mostrarono una notevole capacità di adattarsi alla nuova situazione e si vennero riorganizzando grazie alla disponibilità, a partire dagli anni ottanta del XIX secolo, di due nuove risorse, il rottame e l’idroelettricità. Molte ferriere accantonarono i sistemi tradizionali di lavorazione, che partivano dal minerale di ferro estratto nelle piccole miniere della valle, per dedicarsi al rimpasto del rottame, detto anche sistema del ferro pacchetto((Il sistema del ferro pacchetto si basava sulla rifusione dei rottami che “impacchettati” venivano portati al “calor rosso” e lavorati al maglio e al laminatoio; sui suoi procedimenti si trovano pochissime indicazioni teoriche ed operative nei manuali di siderurgia, essi erano quindi del tutto affidati all’empiria ed alla professionalità operaia.)) acquisendo empiriche competenze in questa specializzazione.

Successivamente, tra le due guerre mondiali, i proprietari locali di buona parte degli impianti appartenenti alla tipologia della siderurgia alpina ebbero la capacità di modernizzare le loro aziende e di farle restare sul mercato potenziando diverse specifiche specializzazioni((Massi, Tipi geografico-economici  cit., pp. 310-315.)). Le attività siderurgiche si andarono stratificando secondo alcuni distinti indirizzi che possiamo grosso modo riportare a tre distinti gruppi.

Il primo gruppo era costituito dalla tradizionale diffusa galassia di artigiani legati alla produzione di attrezzature agricole ed edili, che lavoravano ancora nei tradizionali magli mossi da grandi ruote idrauliche.

“Erano piccole officine! Quando l’ho fatta vedere ad un tedesco, l’officina del mio papà, verso la fine della guerra, questo mi ha detto, Ma questo è l’antro di Sigfrido...”

Luigi Lucchini

Questi piccoli impianti continuavano ad essere disseminati in prevalenza lungo la val Sabbia, la val Trompia e la val Camonica. In queste officine però non si usava più come materia prima il ferro estratto dal minerale dei modesti giacimenti delle Alpi bresciane, ma il rottame “riutilizzabile”, cioè il rottame di ferro adatto ad essere ulteriormente lavorato al maglio.

“Allora bisognava avere il ferro da recupero per fare i badili, era l’anima di mezzo della rotaia, un materiale resistente, perché dopo essere stato forgiato si induriva ancora di più e quindi gli attrezzi non si rovinavano… Invece col fungo della rotaia si facevano i picconi”

Luigi Lucchini

Anche dopo tale cambiamento di materia prima al centro del ciclo produttivo c’erano sempre le competenze professionali della manodopera locale.

“Addirittura eccezionale era l’abilità professionale degli operai forgiatori, abilità che innalzava la capacità professionale al livello d’arte.

Io stesso ricordo di aver visto forgiare, partendo da spezzoni ricavati dal piatto delle rotaie, preventivamente schiacciati in dischi e quindi sovrapposti in numero di dodici, ben dodici secchi da muratore uno dentro l’altro in un’unica lavorazione”((Aldo Regé, Lo sviluppo dell’industria siderurgica nell’ultimo dopoguerra nella provincia di Brescia, in “La Metallurgia Italiana”, a. LXVII (1975), n. 12, p. 687.)).

Nei magli il sistema famigliare esplicava tutte le sue potenzialità, non solo dal punto di vista gestionale, ma anche operativo. Fra i membri della famiglia proprietaria del maglio venivano distribuiti gli incarichi direttivi, ma nello stesso tempo nessuno sfuggiva, bambini compresi, agli inderogabili impegni di lavoro nelle ferriere. Fu così che Dario Leali, adolescente, imparò i primi rudimenti della contabilità e della gestione aziendale.

“Ho cominciato a lavorare nel maglio della mia famiglia a tredici anni, si faceva la giornata: si imparava un po’ di contabilità, si facevano le paghe e c’era da sbrigare la corrispondenza perché si faceva tutto per posta. La famiglia Leali da un lato organizzava il lavoro nella fucina e dall’altro sbrigava il lavoro amministrativo.

Noi maggiormente facevamo queste vanghe che andavano nell’agricoltura, poi c’erano i badili che andavano nelle imprese edili, dopo facevamo anche i picconi per demolire i muri, poi le zappe, poi le pale, poi le forche. Il nostro mercato era da Bologna in giù, tutta la zona della costa adriatica, si arrivava sino a Chieti”

Dario Leali

Mentre Alessio Pasini ancora fanciullo apprese il valore e il peso del lavoro manuale.

“Sono nato nel 1909 e ho cominciato a lavorare a dieci anni. La scuola l’ho vista poco. Anzi quando andavo a scuola, ho fatto fino alla V elementare, nel tempo libero, invece di andare a giocare dovevo andare alla piccola officina di mio padre a verniciare le forche e a fare tutti quei lavoretti, mentre i miei amici erano in giro a giocare. Fino a 41 anni ho lavorato al maglio, facevo i badili, le vanghe, le forche, tutta quella roba lì”

Alessio Pasini

Alla fine degli anni trenta il riuso del rottame per produrre attrezzi era molto apprezzato grazie all’economia autarchica perché procurava un ingente risparmio al paese, evitando una costosa trasformazione siderurgica. La produzione non si era cristallizzata in una secolare immutabilità, ma si era adeguata alle necessità delle attività agricole: a Bienno in val Camonica i Bellicini, che poi avrebbero dato vita nell’immediato secondo dopoguerra alla Ols di Pisogne, erano riusciti a far crescere il proprio maglio specializzandosi nella produzione di attrezzi per la risicoltura.

“Prima della seconda guerra mondiale noi Bellicini a Bienno in val Camonica eravamo una delle officine un po’ più specializzate, facevamo attrezzi un po’ speciali per il Piemonte, badili, zappe per il riso… e già l’officina di mio nonno aveva 25 operai, era già una bella aziendina, con anche un po’ di lavoro amministrativo”

Maffeo Bellicini

Un secondo gruppo di aziende venne assorbito da grossi complessi siderurgici operanti a livello nazionale e ne seguì le sorti e gli indirizzi staccandosi nettamente dal contesto locale. Il fenomeno si era già avviato nei primi decenni del Novecento: lo stabilimento di Vobarno dei Migliavacca passò alla Falck nel 1906 e lo stabilimento di Darfo venne acquisito dall’Ilva che vi sperimentò i primi forni Stassano. La tendenza si accentuò nei decenni successivi quando la presenza di imprese siderurgiche nazionali si incrementò: l’Ilva incorporò un impianto a Lovere, la Dalmine uno a Costa Volpino, la Redaelli un altro a Gardone Val Trompia, mentre il controllo dell’Acciaieria e Tubificio di Brescia (A.T.B.) venne suddiviso alla pari tra la Falck e la Finsider((Mario Fumagalli, La siderurgia italiana, in Geografia dell’acciaio, a cura di Ernesto Massi, Giuffrè, Milano, 1973, vol. I, pp. 238-252.)).

Il terzo gruppo di aziende restava nelle mani di imprenditori locali che si muovevano con diversi obiettivi: dall’elevata specializzazione della Tassara di Breno, che dal 1920 produceva ghise ed acciai speciali al forno elettrico, alle più semplici produzioni della ferriera Ferretti & Martin((Sulla storia della Ori Martin si veda Lucio Maninetti, Ori Martin. Le radici del futuro, Tecnica & Grafica, Pontecchio Marconi (Bologna), 1995. Altre sommarie notizie in Massimo Tedeschi, Franco Nardini, I metalli e l’ingegno, in A.A., V.V., La Banca Credito Agrario Bresciano e un secolo di sviluppo. Uomini, vicende e imprese nella storia dell’industria bresciana, vol. II, Brescia, 1983, pp. 375-436.)) di Brescia e delle Acciaierie e Ferriere Luigi Bosio di Sarezzo gestite da Carlo Antonini. Entrambe le aziende si stavano specializzando nelle lavorazioni dei rottami ed anche nella produzione di tondino e possono essere considerate le capostipiti dei tondinari.

La Ferretti & Martin aveva anche fatto dei tentativi nella produzione di tubi senza saldatura da impiegare nei telai delle biciclette ricavati dal tondo realizzato in proprio, ma le rigide normative allora esistenti e la protesta di alcuni concorrenti spinsero il Ministero delle Corporazioni a far interrompere d’autorità l’iniziativa dell’azienda bresciana((Edoardo Borruso, Un sistema industriale “bloccato”: il Bresciano negli anni 30, in “Economia e politica industriale”, nn. 74/76, 1992, pp. 322-324.)).

“Nella ferriera si lavoravano al maglio anche i proiettili ed altro, allora si adoperava di tutto, e Oger Martin vendeva ai suoi amici e concorrenti tutti questi semilavorati. Tutto questo materiale serviva nelle vallate alpine per fare gli attrezzi agricoli, picconi, badili, zappe…”

Roberto De Miranda

Sulla stessa linea produttiva di Oger Martin si era collocato negli anni trenta Angelo Antonini((Angelo Antonini aveva sposato Maria Perotti vedova di Luigi Bosio, che aveva ereditato dal marito un maglio; nel 1927, subentrando allo scomparso nella gestione dell’impianto, Angelo Antonini mantenne il nome Luigi Bosio nella regione sociale. Cfr. Roberta Vitagliano, L’evoluzione della struttura industriale nel Bresciano nel secondo dopoguerra, tesi di laurea, Università Bocconi di Milano, Facoltà di Economia e Commercio, a. a. 1994-1995, p. 141.)) di Sarezzo, che, oltre a possedere una fucina per attrezzi agricoli, commerciava in rotaie e cerchioni provenienti dalle demolizioni ferroviarie. Antonini vendeva questi scarti già sezionati a tutte le ferriere della val Camonica e della val Sabbia che allora producevano solo attrezzi agricoli. Carlo Antonini succeduto al padre, scomparso nel 1937, l‘anno successivo ottenne l’autorizzazione ad installare un laminatoio a caldo per la produzione del tondino, un materiale che cominciava ad essere utilizzato in edilizia come anima del cemento armato((Nota sul cemento armato da fare.)). Questo laminatoio, realizzato in società con l’industriale modenese Orsi, occupava nel 1939 già una cinquantina di persone e lavorava con materiali di recupero, spesso rotaie sezionate, fatte in pezzi e trasformate in tondino.

“Il laminatoio era il classico laminatoio di allora, sette gabbie in linea, con tutto il serpentaggio manuale. Era nato così quando sono venuti su i tecnici di Modena, che probabilmente han fatto l’impianto, sette gabbie da 260 mm. di diametro; facevano tutte le misure del tondino dai 6 ai 26 mm., una bella gamma”

Natale Zanetti

Tra il 1941 e il 1942 Carlo Antonini aveva installato anche un forno elettrico, realizzando così una piccola acciaieria.

“A Brescia non c’era nessuno che l’aveva, un forno Tagliaferri che lavorava rottame di ferro, e produceva lingotti col classico sistema della colata a sorgente e faceva questi piccoli lingotti da 70 a 80 Kg. che poi venivano laminati”

Natale Zanetti

Magli, rottame, tondino…

Con la fine della guerra la galassia delle imprese siderurgiche artigianali delle Prealpi e delle Alpi bresciane riprese di slancio l’attività, perché la richiesta di attrezzi in tutti i micromercati rurali italiani divenne molto elevata, soprattutto dopo il blocco di ogni scambio avvenuto tra il 1943 e il 1945, in seguito al passaggio del fronte nel nostro paese.

“Nel 1945 le officine riaprono e i Lucchini a Casto ricominciano a fare mannaie, i Leali a Odolo coi Pasini ricominciano a fare forconi e a Bienno i Bellicini ricominciano a fare i loro secchi per muratori e così via. Un prodotto povero per un mercato locale, dove però c’è già un germe imprenditoriale, hanno già i loro rappresentanti, tengono una loro piccola contabilità, cominciano ad avere un’organizzazione d’officina con le specializzazioni, la divisione del lavoro e una gerarchia del mestiere. Si entra facendo un determinato lavoro poi c’è una specializzazione e il cuore è il master cioè l’uomo che sa muovere con maggior abilità il pezzo di ferro sotto questo maglio. E’ un’abilità individuale, ma richiede la capacità della squadra, la capacità di dare la velocità, l’aria alla forgia, l’utilizzazione delle acque. La capacità di sfruttare le piccole tecnologie con una cultura collettiva perché l’acqua è di tutti, le officine sono poste una dietro l’altra, con quella cultura propria dei contadini della montagna lombarda e della montagna bresciana”

Ugo Calzoni

Durante il periodo della Ricostruzione,- un momento molto dinamico della storia italiana, dove le nuove condizioni economiche crearono occasioni di mobilità sociale-, si è assistito ad un imprevedibile rilancio della siderurgia “minore”((Da questo momento l’aggettivo minore accompagnerà sempre qualsiasi tentativo di interpretazione del fenomeno siderurgico bresciano. Tecnici, economisti, geografi, sindacalisti e infine storici hanno usato invariabilmente questo termine che chiaramente esprime una visione “minore” della vicenda della siderurgia bresciana nella seconda metà del Novecento.)) bresciana, che era riuscita innanzi tutto a sopravvivere e poi anche a svilupparsi “adattandosi alle nuove condizioni con radicali mutamenti”.

La novità era costituita dal mercato del rottame, letteralmente invaso da una gran quantità di materiale di scarto: le rotaie delle ferrovie bombardate, le demolizioni navali, i campi Arar (Azienda rilievo alienazione residuati) lasciati dagli Alleati, dove il ferro era abbondante e la grande industria non era in grado di riutilizzarlo, se non come rottame.

Di contro c’era la grande domanda della Ricostruzione: l’industria edilizia, che doveva far fronte rapidamente al grande fabbisogno di abitazioni e di infrastrutture distrutte durante gli ultimi anni della guerra, richiedeva il tondino, l’anima di ferro da mettere nel cemento armato per le case, i ponti e le costruzioni in genere; la grande impresa siderurgica non era attrezzata e a volte era anche poco interessata a fare fronte a tutta questa domanda.

Quindi, con la fine della seconda guerra mondiale, entrarono in gioco alcuni nuovi fattori: le “anormali” necessità da parte del mercato edilizio di tondino per cemento armato e la disponibilità di una gran quantità di rottame costituito da residuati bellici.

“Per i rottami appena finita la guerra c’era un pò di tutto ed era rottame bellissimo: c’era lo scheggiame, i cingoli da carro armato, era il rottame più bello che ci fosse, arrivavan su dal Nordafrica, c’era una quantità enorme di quella roba lì, e poi c’eran tutti i recuperi di proiettili, c’era il Mondini che qui a Verona aveva lo scaricamento”

Natale Zanetti

Furono alcuni “piccoli” industriali, molto attenti alle opportunità che venivano dall’offerta del rottame e dalla domanda di tondino, a chiedersi, Perché la rotaia deve finire in un forno di Sesto San Giovanni? La rotaia è un prodotto a cui si può dare valore aggiunto, e a capire che molte tipologie di rottame (rotaie, strisce di lamiere navali, proiettili…) avevano un potenziale valore aggiunto non solo per la loro composizione, ma anche per la loro forma. Bastava una semplice operazione di rilaminazione con impianti molto rudimentali per trasformare il rottame in tondino. Rottame e tondino vennero così collegati tra loro da questi “piccoli” industriali siderurgici che valutarono il rischio di andarsi a collocare in un segmento della siderurgia da molti considerato poco redditizio ed aleatorio, scommettendo sulla scelta del tondino e sulla continuità del parco rottame ereditato dalla seconda guerra mondiale.

“Lavoravano tutti rilaminando, hanno rilaminato di tutto: comperavano delle billette o dei materiali di recupero tipo travi e strisce di lamiere grosse che tagliavano, le portavano al calor rosso e le laminavano. La specializzazione era quella di rilaminare con delle gabbie((Le gabbie sono impianti di laminazione costituiti da una coppia di cilindri che ruotano in senso opposto.)) molto rudimentali. I pezzi incandescenti passavano tre o quattro volte fra i cilindri delle gabbie; si lavorava a mano e quindi c’erano da una parte e dall’altra della gabbia degli operai che con delle pinze prendevano il pezzo di ferro incandescente e lo rimettevano dentro”

Costante Guerrini

Il riscaldo dei rottami che era stato centrale all’inizio del Novecento col sistema del “ferro pacchetto”, ridiventò altrettanto importante anche a metà del secolo. In questo secondo momento il rilancio divenne subito molto redditizio e molto rapido, grazie soprattutto all’insostituibile apporto della professionalità degli operai addetti alla laminazione, che utilizzavano le rotaie provenienti dalla demolizione delle strade ferrate e le lamiere delle navi tagliate a strisce, secondo una loro particolare ed esclusiva tecnologia che, attraverso il riscaldo del rottame alla temperatura di laminazione, permetteva di ottenere direttamente tondo per cemento armato.

I primi treni di laminazione vennero sistemati dentro le antiche officine, si toglieva il maglio e si mettevano le due gabbie e si lavorava, “come nei quadri dell’Ottocento tedesco e inglese”, facendo passare questo pezzo di rotaia incandescente da una parte e dall’altra dei cilindri della gabbia.

Sebbene i primi laminatoi avessero incrementato la produzione, era richiesta una grande quantità di lavoro in tutte le fasi del ciclo. Il rottame riutilizzabile doveva essere tagliato, tramite fiamme ad acetilene, in strisce che venivano poi ricompattate. I pacchetti così formati dovevano essere riscaldati vicino al punto di fusione e battuti col vecchio maglio idraulico. A questo punto il pacchetto incandescente poteva scorrere tra i cilindri del laminatoio.

Il compattamento del rottame in singole barre di acciaio era completo quando il metallo veniva compresso fra i cilindri delle gabbie. I passaggi successivi riducevano lo spessore della barra e le davano lunghezza e forma. Ad ogni passaggio l’operaio serpentatore doveva afferrare il metallo incandescente con le pinze all’uscita dai cilindri  e con grande sforzo farlo ruotare attorno al suo corpo, infilandolo tra i cilindri della gabbia successiva dove sarebbe stato ulteriormente assottigliato ed allungato. Si trattava di un lavoro tanto rischioso, quanto faticoso.

“La qualifica prevalente era quella di serpentatore, si trattava di un lavoro molto pericoloso, erano dei giocolieri. L’uomo era fermo, lì in mezzo, con un grosso palo di ferro che faceva da schermo, ma la verga girava attorno a loro. Noi fortunatamente non abbiamo mai avuto dei grossi incidenti”

Roberto De Miranda

In questa prima fase, si trattava sostanzialmente di un ritorno alle origini la cui motivazione andava soprattutto cercata nel fattore umano: da un lato la passione per “l’arte della ferrarezza” diffusa nelle vallate del Bresciano, per cui l’imprenditore era spinto naturalmente verso queste attività; dall’altro le particolari tradizioni professionali, che di generazione in generazione predisponevano la manodopera a questo tipo di lavorazione, erano un dato incontrovertibile, ed erano assenti in altre zone della provincia.

Nel Bresciano, inoltre, con la fine della seconda guerra mondiale, erano state chiuse molte fabbriche di armi e di munizioni che avevano avuto un ruolo di rilievo nell’economia provinciale a ridosso e durante il conflitto. Tali chiusure provocarono disoccupazione, e lasciarono inutilizzato una grande quantità di materiale metallico; entrambi questi fattori favorirono ulteriormente l’iniziale crescita della locale industria del tondino.

“Già abituati a produrre una vasta gamma di prodotti dai rottami, i Bresciani, modificarono le loro ferriere, per fare il tondino per cemento armato in risposta alla massiccia domanda di materiale da costruzione durante la Ricostruzione dell’Italia settentrionale. I prezzi inflazionati e i bassi costi del materiale e del lavoro resero immediatamente l’industria lucrosa nonostante la tecnologia antiquata. I risparmi così realizzati furono in seguito reinvestiti per modernizzare gli impianti. (..) Nelle piccolissime fabbriche furono installati con grande rapidità dei laminatoi per le barre e il tondino, la maggior parte delle macchine venivano dall’estero, specialmente dagli Stati Uniti, e quasi tutte erano pesantemente usurate e di modello obsoleto”((Paul Getz Levenson, The metalworkers’ union and a the steel industry in Brescia, since 1945, Harvard College, 1979, p. 22.))

In base ai rilievi sui prezzi del rottame e del tondino, elaborati dall’ing. Giacomo Fantinelli, è possibile individuare un periodo di circa tre anni tra il 1946 e il 1948 in cui il rapporto tra prezzo del tondino e prezzo del rottame è stato estremamente favorevole per i neo-industriali: a fronte del prezzo del rottame attorno alle 18/20 lire al Kg. c’era un prezzo del tondino attorno alle 110/120 lire al Kg., un rapporto uno a sei mai più raggiunto nella storia di questo prodotto; alle soglie degli anni cinquanta il rapporto è diventato meno favorevole, ma è rimasto comunque sempre molto remunerativo((Andrea Bellicini, La siderurgia bresciana. Storia, aspetti geografici, problemi economici, Editoriale Viscontea, Pavia, 1987, pp. 175-201.)).

La domanda di ferro per le costruzioni edili era particolarmente forte in Italia, più forte che in altri paesi con circa lo stesso numero di abitanti e con un prodotto nazionale lordo superiore. Questo derivava dalle caratteristiche dell’edilizia italiana già prima della seconda guerra mondiale. Le imprese costruttrici italiane erano particolarmente abili nell’uso del cemento armato e per un periodo di tempo molto lungo hanno usato solo questo sistema, mentre in altri paesi erano le strutture portanti in acciaio a prevalere nei moderni sistemi edilizi((Mario Fumagalli, I Bresciani. Un problema di geografia economica, in “Metal Buletin Monthly”, september 1978, pp. 9-34.)).

Due generazioni di tondinari

Per la storia della tecnologia non è facile stabilire chi per primo abbia messo a punto questo particolare processo di fabbricazione del tondino per cemento armato a partire dai rottami, perché tale tipo di fabbricazione fa parte della storia sotterranea dell’industria siderurgica italiana, di cui si trovano poche tracce nella pubblicistica economica e tecnica di quegli anni; i bresciani emersero solo più tardi quando la loro attività da sommersa e povera divenne un redditizio sistema produttivo.

Approfondendo le testimonianze raccolte, possiamo individuare alcuni momenti iniziali. Innanzi tutto va sottolineato il ruolo svolto dai due capostipiti, Carlo Antonini e Oger Martin, che per strade diverse già prima della seconda guerra mondiale erano arrivati a produrre il tondino a partire dal riscaldo dei rottami; ma allora il mercato del tondino “non tirava” e le rigide regolamentazioni del mercato autarchico non consentivano a delle piccole imprese di espandersi facilmente. Essi, a guerra finita, intuirono la potenzialità del mercato del tondino e vi indirizzarono tutte le loro forze produttive. Ad essi si affiancarono pochi altri industriali: un ramo dei Bellicini di Bienno, Quinto Stefana a Nave e i Rumi di Seriate in provincia di Bergamo.

Oger Martin, grazie alle sue origini, aveva avuto già prima della guerra dei contatti con la siderurgia di recupero europea, dove si stava utilizzando la tecnica della fabbricazione del tondino a partire dalle rotaie e quindi gli fu facile applicarla su larga scala nell’immediato secondo dopoguerra.

“Oger Martin aveva già visto all’opera in Francia dei piccoli laminatoi, che impiegavano rottame. In modo particolare si adoperavano le rotaie dismesse che si tagliavano e venivano laminate a caldo. Per le rotaie c’era un sistema particolare di taglio, infatti se noi consideriamo la sezione di una rotaia essa è costituita, superiormente, da un fungo, da un montante centrale e dalle due alette di base; si tagliava il fungo che era la parte più pesante, si tagliava la parte centrale che era anch’essa abbastanza consistente e poi si tagliavano le due alettine e questi quattro pezzi si laminavano e venivano fuori dei tondini per cemento armato di quattro diametri differenti 6, 8, 10 e 12 mm. al massimo. Per tagliare le rotaie si adoperavano i magli ad acqua: si riscaldavano i pezzi di rotaia in piccoli forni, che andavano a legna, allora non c’era ancora il metano, e poi sotto i magli si dividevano le rotaie in quattro parti. Un lavoro pesante, un lavoro artigianale”

Roberto De Miranda

Oger Martin ripartì nella primavera del 1946; nel frattempo il suo socio Lorenzo Ferretti si era ritirato e l’azienda assunse la ragione sociale Ori Martin, con un laminatoio per produrre tondo per cemento armato, composto da una sola gabbia a tre cilindri con la quale si lavoravano i pezzi di rotaie ricavati dal maglio.

“Nei primi mesi del 1946, appena finita la guerra, Oger Martin riprese la laminazione, all’inizio era solo laminazione. Sotto la direzione di un capotreno si è ricominciato a produrre il primo tondino per il cemento armato e questo è stato l’inizio, la vera ripresa dell’Ori Martin.

La vendita del tondino è partita proprio da qui avevamo un agente a Roma, un agente a Pescara, un agente nella zona di Milano. Nel 1946 operavamo solo noi e le Acciaierie e Ferriere Luigi Bosio di Sarezzo, poi negli anni successivi sono cominciate a venire le ferriere di Nave, di Odolo…”

Roberto De Miranda

All’Ori Martin in poco tempo, tra il 1947 e il 1952, il laminatoio aumentava di dimensione, il numero delle gabbie passava a tre e poi a cinque. Nel 1950 venne introdotto, sul modello delle Acciaierie e Ferriere Luigi Bosio e con grande anticipo rispetto agli altri impianti per la produzione di tondino, un piccolo forno elettrico da 3 tonn.((Maninetti, Ori Martin cit., pp. 33-37.)).

L’altro capostipite dei tondinari fu senz’altro Carlo Antonini che si occupò direttamente della raccolta del rottame organizzando anche il recupero di navi affondate durante la guerra((Francesco Carpani Glisenti ricorda come Carlo Antonini comperasse rottami di ferro nel mar Jonio, andasse a recuperarli con i sommozzatori, poi li portasse a Sarezzo, dove li tagliava e produceva il tondino. Aldo Sorlini, Tra casa e fabbrica, con concretezza ed entusiasmo, in “Atlante bresciano”, n. 48, autunno 1996, pp. 36-38.)); nella sua fabbrica di Sarezzo l’acciaieria e il laminatoio lavoravano su tre turni, ed arrivarono ad occupare alla fine degli anni quaranta quasi 300 persone nella trasformazione del rottame in tondino e nei lavori di fucinatura e fonderia. La Bosio non produceva quindi solo tondino, ma anche altri profilati lunghi, nonché getti in acciaio e pezzi fucinati e stampati, utilizzando ancora dieci tradizionali magli a caduta. Inoltre, con grande anticipo rispetto agli altri tondinari, Carlo Antonini disponeva di due forni elettrici (della capacità di 5 e 2 tonn. di acciaio per colata), che, una volta normalizzatasi l’erogazione di energia elettrica, gli consentivano di utilizzare tutto il rottame disponibile e di intervenire sulla qualità dell’acciaio, migliorandola((Assider, Repertorio delle aziende siderurgiche italiane. 1949, Milano, 1949, pp. 241-242.)).

“C’era un forno da 5 tonn., poi ne è stato messo un altro [pure da 5 tonn.] sempre Tagliaferri, ma era già la seconda generazione aveva la volta apribile, girevole, e si caricava il rottame dall’alto tramite le ceste, mentre nel primo bisognava infornare a mano il rottame attraverso la porta, poi ci voleva del rottame molto sezionato, tagliato piccolo, perché bisognava mettersi davanti alla porta e uno di quì e uno di là con la pala a buttar dentro il rottame in due, tre o quattro riprese, quando la massa in fusione diventava liquida, bisognava aggiungere dell’altro rottame”

Natale Zanetti

Il tondino prodotto col sistema del rolling packets era infatti di qualità eterogenea, poiché diversi tipi e gradi di acciaio erano mescolati indiscriminatamente, e spesso erano assai male amalgamati fra loro. Per questo negli anni quaranta e nei primi anni cinquanta un certo numero di imprese edili avrebbe rifiutato il tondino bresciano((Secondo l’ing.Giacomo Fantinelli la bassa qualità era solo una diceria, ma secondo Levenson negli anni quaranta e nei primi cinquanta un certo numero di ditte di costruzioni rifiutò il tondino bresciano.)).

Nel 1946 a Pisogne nacque in un vecchio mulino la Ols (Officina Laminatoi Sebini) per iniziativa di Giacomo e Andrea Bellicini, proprietari di un maglio a Bienno, e di altri due soci di Pisogne, Bruno Zanardini e Tullio Bianchi. I primi macchinari erano stati fabbricati nel maglio di Bienno da un operaio molto esperto che riuscì a realizzare delle gabbie e il primo forno a nafta.

“La prima produzione mi pare fosse sui 30/40 q.li di tondo al giorno, con un impianto costituito da una gabbia mossa ad energia elettrica, il forno era un forno a nafta piccolissimo e il materiale che usavamo allora era materiale di recupero: codini di porco, recinzioni del tempo di guerra e lamiere, che poi noi con delle trance tagliavamo a fette. Erano le famose strisce, tanto che parte della corazzata Impero, in disarmo a Venezia, l’abbiamo demolita noi e tutte le lamiere sono state trasformate in tondino. Ricordo che sono andato a Venezia con mio padre a controllare che il materiale ricavato dalla demolizione venisse selezionato in base all’impiego che se ne sarebbe fatto al laminatoio. Per i forni di riscaldo usavamo la nafta, ma in realtà era un olio duro, che allora costava pochissimo, sembrava quasi catrame e bruciava e scaldava…”

Maffeo Bellicini

Anche alla Ols sotto la pressione del mercato edilizio gli impianti si erano rapidamente ed “armonicamente” allargati, più gabbie, forni di riscaldo più grandi e maggiore produzione giornaliera. Per i Bellicini l’obiettivo era quello di diventare un’azienda grande come la Rumi, della quale per un po’ di tempo rimasero subfornitori.

La Metallurgica Rumi di Seriate, posta alla periferia orientale di Bergamo, ma ben collegata con Lovere e la val Camonica attraverso la statale n. 42 lungo la Val Cavallina, si collocò rapidamente nel mercato del tondino. La Rumi, pur essendo collocata fuori della provincia di Brescia, si mosse con una strategia bresciana e si caratterizzò per la capacità di trasformare i proiettili, allora rottamati in grande quantità.

“Alla Rumi appena finita la guerra avevano imparato bene a laminare i proiettili interi, operazione non semplice, non solo… erano anche riusciti a fare la saldatura di due proiettili, dalle due bocche e a laminarli per intero, così aumentavano di peso. I proiettili erano da 70/80 mm. e tiravan fuori il tondino. Ci si può immaginare che tipo di tondino poteva venir fuori, perché il proiettile era piuttosto duro come materiale.

Erano un po’ gelosi…, non avevamo mai potuto vedere…”

Natale Zanetti

La Metallurgica Rumi  promosse senz’altro la diffusione dei tondinari attraverso una rete di subfornitori non solo nella contigua val Camonica, ma anche nelle estreme propaggini della val Sabbia, alla Lucchini di Casto, allora agli inizi della propria attività. Questi industriali, rendendosi poi indipendenti, contribuirono ad avviare nell’area bresciana la produzione di massa del tondino.

“Nei primi anni [dal 1946 al 1950, NdA] la Ols lavorava in trasformazione perché non avevamo disponibilità… e abbiam cominciato a vendere qualche cosa direttamente, però eravamo subfornitori della Metallurgica Rumi

Maffeo Bellicini

“Ho cominciato ad andare a tagliare le rotaie il primo aprile del 1951, allora in Lucchini a Casto eravamo in 25 (..). Io lavoravo in fucina a tagliare le rotaie al maglio, arrivavano le rotaie da Brescia, a 6 metri, a 10 metri, dopo c’era una pressa che le segnava e le spaccava. Le rotaie si tagliavano a 1 metro e 80 perché il fornellino era piccolo, era solo 1 metro e ottanta per due metri. (..) In quel primo periodo la fabbrica di Casto lavorava per la Metallurgica Rumi, Lucchini era legato alla Rumi, ha fatto tanto lavoro per la Rumi

Arrigo Pilotti

A Nave, un paese della cintura bresciana, subito dopo la guerra, la diffusione della produzione di tondino ebbe una doppia matrice.

Il paese era contiguo alla zona di San Bartolomeo alla periferia nord di Brescia, dov’era ed è tuttora la Ori Martin, che reclutava proprio a Nave molti operai. Essi divennero i veicoli della diffusione delle tecnologie del tondino e finirono col trasferirsi nelle aziende siderurgiche che stavano sorgendo in quel comune.

“Questa richiesta [di tondino] è stata afferrata, è stata capita. Allora alla Ori il 90% della manodopera era di Nave, 200 e più persone erano di Nave, di sera queste persone andavano al bar e parlavano di questo tondino, le orecchie buone hanno sentito, nell’arco di uno, due anni sono nate le ferriere di Nave per iniziativa di Fenotti, di Comini e di Stefana.

Queste aziende si sono sviluppate prendendo di qui sei, otto uomini; in ogni loro squadra c’erano due o tre uomini della Ori che qui avevano imparato a fare il mestiere. Offrivano salari maggiori, si lavorava più vicino casa”

Roberto De Miranda

A questa derivazione dalla vicina Ori Martin va aggiunta una causa interna: infatti anche a Nave, pur se in misura minore rispetto ad altri paesi del Bresciano, erano ancora presenti alcune tradizionali lavorazioni del ferro col maglio che facilitarono la nascita e lo sviluppo di impianti per la rilaminatura del rottame. É stato il caso di Quinto Stefana, che, già nel 1946, innestò la produzione di tondino, allestendo un laminatoio((Archivio Fondazione Micheletti, fondo siderurgia, fasc. Stefana, Cronologia F.lli Stefana, datt., 1995.)), sulle precedenti lavorazioni di fucinatura del ferro e di produzione di attrezzi agricoli((Umberto Perini, I fratelli Stefana di Nave nella tradizione siderurgica bresciana, in AA. VV., La pieve della mitria, Grafo, Brescia, 1982, pp. V-XIII.)).

“Nel secondo dopoguerra, quando sono cominciati ad essere disponibili per la lavorazione tutta una serie di rottami si è cominciato a pensare di lavorare questi rottami metallici partendo da quelli che erano delle specie di semiprodotti già laminati, le rotaie ferroviarie, la rotaie del tram. Queste venivano un’altra volta riscaldate e a questo punto han cominciato le prime esperienze di laminazione e qui a Nave gli impianti sono partiti anche per la F.lli Stefana con il solo laminatoio senza acciaierie.

Si portavano le rotaie al calor rosso in quello che ancor oggi si chiama forno di riscaldo e queste, una volta rese più plasmabili, venivano fatte passare nelle gabbie di laminazione.

Il forno a riscaldo era concettualmente lo stesso di quello esistente oggi, sono cambiati i combustibili non più il gasolio o il carbone, ma il metano, mentre i laminatoi, posso fare delle ipotesi, erano stati fatti costruire sulle esperienze viste in altre realtà produttive o addirittura acquistati all’estero, ma non erano certamente originari di Nave”

Claudio Ottaviano

L’avvio di Quinto Stefana non rimase senza effetti sul tessuto produttivo di Nave, un grappolo di rilaminatori si mosse sulle sue orme e già al censimento del 1951, a Nave, operavano quattro aziende di rilaminazione che occupavano 213 persone. Oltre all’azienda di Quinto Stefana, che nel 1949 aveva assunto la ragione sociale Stefana F.lli ed occupava 46 operai, apparvero gli impianti di Girolamo Stefana collegato a Quinto con 94 operai, della neonata società Fenotti((Pietro Fenotti è stato uno dei pochi tondinari non proveniente dal mondo del maglio, era infatti un commerciante di legname per tradizione famigliare (i suoi possedevano boschi tra Nave e Serle) e cominciò l’attività subito dopo la guerra con la Ferriera del Garza. Cfr. Massimo Muchetti, Sempre fedele al primo amore: il tondo per cemento armato, in “Brescia oggi” del 6 marzo 1984.)) & Stefana con 35 operai e infine Nicola Busseni che trasformò il suo maglio in un impianto per la rilaminazione arrivando ad occupare 38 operai((Luigi Casagrande, “Dino”, Gli infortuni nelle aziende sidermetallurgiche di Nave, Brescia, 1955-1981, ciclostilato della Camera del Lavoro di Brescia, 1981.)).

All’inizio degli anni cinquanta si manifestò una forte spinta, proveniente dalle aree dei magli, verso la produzione del tondino di cui c’erano state alcune anticipazioni a Nave e a Pisogne. Si trattava di zone dove già si lavorava il ferro ed operavano una miriade di piccole aziende artigianali a struttura plurifamigliare per la fabbricazione di attrezzi agricoli ed edili. In questi laboratori si faceva già una specie di tondino, il cordoncino per i manici delle secchie, non più a mano, ma con il maglio grazie ad una piccola innovazione tecnologica, inserendo alla testa del maglio, al posto del battente che spianava, uno stampo a forma di “testa d’asino” che permetteva così di fabbricare anche il primo tondo per cemento armato. Nei primi tempi da queste officine usciva il tondo per cemento armato fatto al maglio, pochi metri all’ora, qualche decina di metri al giorno, qualche centinaio di metri alla settimana. Il tondo così prodotto si vendeva con facilità perché il mercato lo richiedeva.

“Lo spirito di emulazione e di scambio inconscio sia della tecnologia che è simile per tutti, sia soprattutto della capacità di vivere insieme questi cambiamenti, perché c’è il mercato del ferro in piazza dove si comprano le rotaie, c’è il mercato del ferro dove si vende il sabato e la domenica e si comprende che questo è un nuovo settore, snobbato dai grandi e che invece attira la testa di questi artigiani”

Ugo Calzoni

La tecnologia del maglio non era in grado di dare una adeguata risposta alle enormi richieste del mercato del tondino ed ancor meno riusciva ad assorbire la disponibilità del rottame qualificato, rotaie, strisce di lamiere navali, presente a bassi prezzi sul mercato.

“Per produrre tondino prima è stato utilizzato il maglio a testa d’asino e io ho visto farlo. Siccome qui a Bienno facevano le secchie da muratore e occorreva fare anche il manico c’era uno stampo speciale che praticamente riusciva a fare un metro, un metro e mezzo di tondino per fare questo manico. Però si è capito subito che il tondino doveva essere laminato, così era una cosa impossibile, anche perché non c’era la lunghezza”

Maffeo Bellicini

“La prima impresa [edile] che ho servito era a Mantova, doveva fare una cantina, ma allora non c’era il laminatoio e sotto il maglio non si potevano tirare verghe fino a quattro metri, allora dopo le saldavo per raggiungere la lunghezza richiesta. Ho impiegato un mese a fare i cento quintali necessari, adesso si fa quasi in un minuto secondo. Allora non c’era la saldatrice elettrica e per saldare occorreva mettere le verghe nel fuoco, farle bollire e poi portare al maglio le due parti incandescenti, c’erano quelle che si attaccavano bene e quelle così così. Per saldare si adoperava el sales [una roccia macinata] che serviva per facilitare la saldatura. Comunque la cantina è stata in piedi lo stesso”

Alessio Pasini

Su sollecitazione dei primi industriali come Antonini, Rumi e Martin, che avevano necessità di allargare le proprie capacità produttive, o per pura imitazione per i rapidi guadagni che la produzione di tondino consentiva di spuntare, partirono altri impianti di laminazione, spesso costituiti da una o due gabbie.

“Pochi riuscivano a fare una gamma così ampia perchè tutti quelli che sono nati sono nati per cominciare, uno era costretto a fare un tondo da 6 mm. e un tondo da 8 mm. per poi magari cederlo a chi già produceva altri diametri maggiori”

Natale Zanetti

Non si deve però pensare ad un facile automatismo e ad un agevole trasferimento di tecnologie e di competenze. La fortunata metamorfosi di Alessio Pasini di Odolo in val Sabbia, che “fino a 41 anni aveva lavorato al maglio, facendo i badili, le vanghe, le forche, tutta quella roba lì” e dopo trentanni di quel lavoro decise di mettersi a fare il tondino costituendo con una trentina di soci la Ilfo (Industrie laminatoi ferrosi odolesi), ebbe un percorso di avvio piuttosto sofferto: prima la raccolta dei capitali (poco meno di cinquanta milioni), poi il reperimento di macchinari e infine l’ingaggio di operai esperti. Furono questi i passaggi più significativi dei primi anni di carriera imprenditoriale del “commendatore”. In un breve tempo, tra il 1949 e il 1950, si decise non solo il destino di un investimento, ma anche la possibilità per la val Sabbia di rimanere o di scomparire dalla scena industriale.

“Facevo un quintale al giorno di tondino al maglio in 8 anche 9 ore. E vedevo che c’erano dei buoni margini, si guadagnava bene. Allora lì è nata l’idea del laminatoio. Il laminatoio l’ho visto per la prima volta a Nave. Ero amico di Quinto Stefana e a Sarezzo di Carlo Antonini. Il laminatoio l’abbiamo fatto fare qui in giro a Concesio da Bertoli.

Ho tribulato a mettere insieme i soci per l’Ilfo perché non c’erano i soldi, chi ha messo cinquecentomila lire, chi un milione, ma quelli che avevano i soldi non li hanno tirati fuori. Dopo un po’ di qui, un po’ di lì… ho messo insieme cinque gabbie e dei motori usati della potenza di 300 cavalli, li ho fatti lavorare per 500. Ne ho passate!

Anche alcuni operai erano soci, sono stati qui quarantanni a lavorare con me, sono venuti da ragazzini e sono rimasti qui fino alla pensione. Erano operai che prima lavoravano al maglio e poi sono venuti a lavorare in fabbrica, han visto che se in un giorno, invece di fare un quintale di tondo al maglio, se ne facevano cento al laminatoio, si guadagnava.

Gli operai hanno imparato qui a laminare il tondo, nessuno qui sapeva niente della laminazione con le gabbie. All’inizio avevo il Cigolini di Sarezzo, ma erano guai se andavamo avanti con lui. Invece di fare il tondo facevamo… gli scarti di laminazione. Dopo abbiamo trovato questo Tomasi dalla Falck di Bolzano, che è stato bravo, ci ha tirati fuori subito. Mi ha aiutato molto per i consigli generali l’ing. Giacomo Fantinelli della Acciaierie e Ferriere Luigi Bosio di Sarezzo, tecnicamente mi ha aiutato molto”

Alessio Pasini

Se per Alessio Pasini i fattori di avvio furono da un lato l’emulazione e dall’altro la spinta del mercato che gli aveva dimostrato la convenienza a passare dalle zappe al tondo, per altri fabbri odolesi la spinta a mettersi nel tondino venne da altre aziende che, per far fronte alle richieste del mercato, avevano la necessità di appoggiarsi a dei rilaminatori per la subfornitura di particolari diametri del tondino. Continuò così a manifestarsi, anche per tutti gli anni cinquanta, una sorta di rapporto simbiotico tra aziende che facevano parte della monocoltura del tondino. Quando le prime imprese di tondino delle valli alpine si affermarono, coinvolsero per gemmazione i rilaminatori sorti successivamente.

Le frequenti disparità di dimensioni fra le aziende portarono spesso allo stabilirsi di subappalti delle aziende maggiori alle più piccole per la produzione del meno redditizio tondino di piccolo diametro. In tempi di mercato favorevole le grandi aziende si concentravano sulla produzione di tondino di diametro maggiore, che era pagato meglio e richiedeva minori passaggi nei laminatoi e quindi minor lavoro. Gli opifici più piccoli, dove prevaleva la pura manualità, si specializzarono nella fabbricazione del tondino di diametro piccolo, proprio perché richiedeva più passaggi tra i cilindri dei laminatoi. Questa divisione del lavoro fra le aziende fu spesso seguita da un aiuto alle aziende più piccole per modernizzare i loro impianti, sia attraverso alcune forme di partnership sia attraverso crediti garantiti((F. Vito, G. Mazzocchi e L. Frey, Studio sulla situazione economica e sull’occupazione delle imprese siderurgiche nelle provincie di Brescia e di Udine, Ceca, Lussemburgo, 1961, p. 92.)).

In quest’operazione di decentramento produttivo era presente anche l’Ori Martin  che coinvolse i fratelli Dario e Nicola Leali, allora agli inizi della loro attività di tondinari.

“Dal 1950 al 1954, continuando sempre la nostra attività [di produttori di strumenti agricoli ed edili], siamo partiti con un piccolo laminatoio, col quale trasformavamo i piccoli diametri (6, 8, 10 mm.) e qualche cosa vendevamo anche a nome proprio.

In questa prima fase si lavorava conto terzi per industrie già operanti come l’Ori Martin o c’erano alcuni commercianti che prendevano il materiale, ce lo facevano lavorare, ce lo facevano portare in magazzino e con una rete di subforniture completavano la loro gamma di prodotti, che era necessaria per le vendite”

Dario Leali

Anche la ferriera Valsabbia di Odolo, attualmente una delle più importanti sul mercato nazionale ed internazionale, avviò le proprie vendite basandosi sulle aziende di Nave e di Odolo che erano sorte in precedenza.

“Per vendere in questi anni ci si appoggiava sui laminatoi che in questo brevissimo periodo si erano affermati, perché i primi laminatoi erano partiti tempestivamente; questi industriali avevano la necessità di coprire certe piazze, certe zone e allora acquistavano dai piccoli laminatoi. Noi che eravamo arrivati dopo, fornivamo le ferriere: un po’ a Stefana, un po’ a Fenotti & Stefana, un po’ alla Ilfo e così via. Poi gradualmente uno si faceva lo spazio”

Gian Battista Brunori

Il coinvolgimento non riguardò solo la subfornitura del prodotto finito, come il tondino di piccolo diametro, ma anche l’intervento a monte del processo di laminazione per realizzare la preparazione dei rottami, rendendone più agevole la lavorazione. Carlo Pasini, un’altra figura importante del panorama siderurgico bresciano, prima di immettersi nella produzione di tondino, nel 1960 con la Prolafer, affiancò nel maglio famigliare alla produzione degli attrezzi agricoli la produzione di strisce di lamiere che preparava con rudimentali taglierine. Queste strisce venivano portate nei laminatoi dove venivano trasformate in tondino((Testimonianza di Giuseppe Pasini, figlio di Carlo, raccolta da Giorgio Pedrocco il 10 aprile 1997.)).

Le qualità dell’imprenditoria

Un ulteriore elemento di novità che va considerato riguarda la specifica imprenditorialità dei neo-industriali o meglio delle loro famiglie perché all’interno di queste venivano distribuite competenze tecniche, intraprendenze commerciali e versatilità gestionali.

Qual era il profilo di questo ceto industriale? Attraverso quali percorsi i tondinari si erano impadroniti del mercato della fornitura di ferramenta all’edilizia? Come erano erano arrivati anche alla vendita diretta del tondino per cemento armato alle imprese edili?

“Alle origini del lavoro del tondinaro c’è stata l’emulazione, se andiamo a vedere le zone sono tutte le stesse: Odolo c’è stato un periodo che aveva 10 aziende perché lo zio, la mamma, il nonno, il nipote… tutti avevano messo su una piccola azienda. Pisogne è stato un fenomeno simile, adesso non c’è più niente, ma Pisogne aveva quattro ferriere, dopo son venute le acciaierie, così pure Nave, poi qualcuno si è spostato al piano.

Sono tutti personaggi che hanno cominciato anche loro a lavorare manualmente che però avevano, come si usa dire, una marcia in più nella testa e han cercato di farla funzionare”

Costante Guerrini

Tra i vari percorsi seguiti dagli industriali nella propria formazione non poteva mancare quello più classico del tirocinio in fabbrica: dalla condizione di operaio a quella di imprenditore. Alcuni soggetti, particolarmente volenterosi e determinati, riuscivano a mettere a frutto un momento, una condizione particolarmente favorevole. É stato il caso di Gian Battista Brunori, che, entrato giovanissimo alla Ilfo, vi ha fatto la “gavetta”, passando da operaio a capotreno*. Poi già negli anni cinquanta si era messo in proprio con pochi capitali raccolti da alcuni amici, fiduciosi nelle sue capacità tecniche e gestionali e sicuri della continuità del mercato del tondino((Le famiglie dei finanziatori originari (i Bailo, i Cerqui, i Comelli e gli Oliva) sono ancor oggi in possesso dei titoli azionari dell’acciaieria Valsabbia. Cfr. Guido Fontanelli, Nel salottino di Compart, in “Panorama”, a. XXXIII, n. 27, 11 luglio 1996.)).

“Nel 1950, a diciannove anni, ho incominciato il mio lavoro come operaio alla Ilfo. Vi sono rimasto fino al 1954. In quella realtà mi sono fatto, lentamente, un poco di strada: sono passato da operaio a capotreno, facendo esperienza ogni giorno, con pazienza e tenacia. Ero giovane, ma avevo una volontà, ferma e determinata, e con la volontà, prima o poi, la riuscita non può mancare.

Nel 1954 sono riuscito a riunire intorno a me sei soci ed abbiamo creato la Ferriera Valsabbia. Erano degli amici e mi hanno dato fiducia, Se ti impegni  tecnicamente e commercialmente, noi siamo con te!

Questa azienda è proprio una mia creatura, gli altri soci non si sono mai interessati della gestione e mi hanno sempre dato la massima libertà di azione e di decisione. Così, piano piano, la Ferriera Valsabbia è diventata un’acciaieria e nel contempo una grande realtà produttiva. Certo all’inizio è stata dura: io avevo solo delle competenze tecniche, che mi ero guadagnato sul campo, ma molte erano le cose che avrei ancora dovuto imparare…”

Gian Battista Brunori

Per altri il passaggio dall’artigianato all’industria è avvenuto in forza delle competenze tecniche esistenti all’interno del gruppo famigliare, solitamente appartenenti ai figli. Fu il caso dei Gnutti di Sarezzo, dove il giovane Pietro Gnutti, diplomandosi perito meccanico presso l’Istituto Castelli di Brescia, ebbe modo non solo di pilotare negli anni cinquanta la trasformazione del maglio paterno in fabbrica di tondino, ma anche di occuparsi direttamente della realizzazione delle macchine per il laminatoio.

“Nel 1951 nel maglio di mio padre abbiamo costruito questo primo laminatoio, di una piccola misura, con materiali di recupero. Per costruire questo laminatoio, io devo dire la verità, non ho inventato niente, perché ho comperato i disegni da un certo signor (…), che era all’Ilva di Lovere; là c’erano dei laminatoi, questo signore era stato un vecchio laminatore e aveva dei disegni e me li ha ceduti e noi abbiamo costruito su questi disegni il primo laminatoio, nella vecchia fucina di mio padre. Per realizzare il primo laminatoio avevamo qualche specie di macchina utensile, perché abbiamo costruito con dei mezzi che oggi se dovessi dire che ho costruito il mio primo laminatoio in quelle condizioni lì, non mi credono mica; però l’abbiamo fatto e l’abbiamo fatto funzionare fino al 1966″

Pietro Gnutti

Dopo la llfo a Odolo si era formata la Iro (Industrie Riunite Odolesi) dove, seguendo il modello societario della Ilfo, si erano associati tutti quelli che avevano un maglio con una presa d’acqua. La forza motrice venne unificata per azionare il loro primo laminatoio con una turbina idraulica. Erano sistemati in “una specie di catacomba”, fecero le prime produzioni lì, dopo comprarono un terreno e costruirono la nuova acciaieria. Nei primi anni cinquanta i laminatoi erano il risultato di interventi di artigiani locali, in questo caso fu Pietro Gnutti a realizzare l’originario laminatoio idraulico della Iro con gli stessi sistemi fortunosi con cui aveva realizzato quello del padre.

“Questo primo laminatoio della Iro era più o meno delle dimensioni del mio; in parte l’ho fatto io, in parte qualche cosa è stata trovata, sa com’è, da qualche museo di laminazione, infatti, subito dopo la guerra si trovavano fortunosamente parti di impianti, era roba sempre della Orsi di Modena che c’era in giro perché di laminatoi nessuno sapeva a quel tempo gran che”

Pietro Gnutti

Luigi Lucchini era figlio di un master di Casto che lo aveva fatto studiare e lo aveva mandato all’Università; ma la seconda guerra mondiale ricacciò il giovane studente di lingue dell’Università Cattolica di Milano tra i monti della val Sabbia, dove l’osservazione del lavoro paterno, lo spinse immediatamente dopo la fine della guerra, ad avviare un’attività commerciale per fornire i sette magli di Casto di rottame.

“Sono andato alla ricerca di rotaie vecchie, bombardate… col camioncino, venti… trenta quintali mica tanti di più. Si portavano lì e mio padre ne comperava due, tre… cinque quintali mica tanti di più”

Luigi Lucchini

Parallelamente all’attività commerciale Luigi Lucchini migliorò “piano piano” le tradizionali lavorazioni del maglio paterno, da una jeep abbandonata in un campo dell’Arar ricavò un gruppo elettrogeno della potenza di 4 Hp e così il maglio venne illuminato. Per preriscaldare i rottami, prima che venissero tagliati, costruì un piccolo forno usando delle pietre che si trovavano a Collio e che contenevano delle sostanze refrattarie.

“Vedevo che mio padre prendeva questo pezzo di ferro, lo forgiava, venivano fuori i badili e i picconi, un altro faceva le zappe e le forche… e io ci ho messo un qualcosa di più che non la capacità di fare il master, ma la capacità di produrre qualche cosa con maggior valore aggiunto direi adesso che mi sono istruito in queste cose.

E questo qui è stato l’inizio.”

Luigi Lucchini

La maggioranza cominciò la propria attività come semplice artigiano, abituato ad avere l’autorità assoluta nella propria officina. Secondo Levenson, quest’atteggiamento diventava anacronistico quando la manodopera non era più composta da famigliari e da vicini e i prodotti non erano più dei semplici attrezzi agricoli. Comunque i primi tondinari furono molto riluttanti a privarsi dei grandi vantaggi, specialmente della flessibilità nella produzione, che ottenevano con questo tipo di organizzazione del lavoro. Essi nella gestione della manodopera cercarono di trasferire il tradizionale sistema gerarchico del maglio al laminatoio. I rapporti diretti e personali del laboratorio artigiano diedero forma ad una sorta di paternalismo che ha permeato per decenni i rapporti sociali all’interno delle fabbriche di tondino.

“[…] the artinasal backgrounds of the owners are visibile today in their dogmatically paternalistic management and labor relations, even though their original shops have grown into substantial industrial enterprises”((Paul Getz Levenson, The metalworkers’ cit., p. 19.)).

Inoltre, anche sul piano finanziario, si mossero secondo questa tradizione, autofinanziando i propri investimenti, usando il meno possibile il credito bancario((Vito et alii, Studio sulla situazione economica  cit., p. 92.)). I miglioramenti apportati alle vecchie attrezzature esistenti contribuirono fortemente a mantenere bassa l’intensità di capitale delle acciaierie bresciane.

Ancora recentemente si potevano ritrovare le radici artigianali dei bresciani nella loro stretta supervisione personale del processo produttivo. La loro riluttanza a cedere una qualsiasi di queste responsabilità agli ingegneri è spesso citata come una ragione importante per la loro mancata diversificazione verso prodotti di più elevata qualità del tondino((Levenson, The metalworkers’ cit., p. 29.)).

Non tutti i tondinari della seconda generazione, quella degli anni cinquanta, arrivarono dal mondo dei magli e della produzione di attrezzi agricoli; alcuni, come Oddino Pietra ed Emilio Riva o anche Luigi Lucchini, erano entrati in siderurgia dalla porta di servizio come commercianti di rottame e si convertirono alla produzione di tondino per gli alti profitti che potevano venir realizzati con un piccolo investimento iniziale. Costoro, che spesso, come nel caso di Luigi Lucchini, avevano legami famigliari con le tradizionali officine di fabbro, secondo Levenson, erano imprenditori considerevolmente più dinamici: utilizzavano con molta tranquillità le locali fonti di credito e spesso mantenevano stretti legami con le banche locali provocando il grosso della spinta innovativa che si è manifestata nella siderurgia bresciana introducendo sia nuove tecnologie sia più vaste gamme di prodotti((Ibidem, pp. 23-24.)).