I caschi gialli di Bagnoli e l’ambiente, fra dissonanze e convergenze
La storia del rapporto fra gli operai Ilva/Italsider di Bagnoli e l’ambiente è una storia problematica, spesso divisiva e forse anche per questo attualissima. Oggi, la mobilitazione di giovani e meno giovani abitanti è frequente e le forme associative sono attente a rivendicare politiche ambientali per il comprensorio occidentale di Napoli1. Ciò che spesso sfugge alla consapevolezza delle figlie o dei nipoti, dei conoscenti o degli amici più cari degli ex caschi gialli, che a volte ancora popolano le piazze, è il delicato gioco di pesi e contrappesi che traballa nella memoria e nel subconscio collettivo e può trovare sfogo in un’opinione o in uno slogan. Il ricordo e l’educazione, la ricca bibliografia e il sentito dire, la mitizzazione e la stigmatizzazione: tutto questo si affolla nella mente di chi cerca di rinegoziare un pezzo, troppo spesso tralasciato, del patrimonio culturale e politico dei caschi gialli, ovvero il ragionare ed il fare politica sull’ambiente.
Nelle pagine che seguono cercherò di interpretare alcuni passaggi-chiave di quella che è una storia che si dipana per oltre mezzo secolo e raggiunge il presente. Dato il già richiamato carattere divisivo, non dovrebbe sorprendere sapere che una parte di questa storia sia già stata raccontata in modo più o meno partigiano e che, in vario modo, questo tipo di narrazione abbia a sua volta aumentato la presa di certe dicotomie ideologiche nella vita politica locale. In specie, nel dibattito fra i movimenti operaio e ambientalista. Provenendo da una più critica e ben delineata tradizione storiografica2 e avendo rintracciato un gran numero di documenti poco noti o inediti3, spero di riuscire a restituire tutta la complessità che sta dietro e che discende da un conflitto così sentito, senza sacrificare la ricerca del massimo grado di verosimiglianza4 ricavabile dall’analisi critica delle fonti storiche.
Dal “girone dantesco” alla presa di coscienza della nocività in fabbrica: gli anni Cinquanta e Sessanta
Le radici culturali del rapporto fra i caschi gialli di Bagnoli e l’ambiente affondano in una storia che può sembrare a sé stante e che è quella del movimento sindacale per la salute e sicurezza degli ambienti di lavoro. È una storia di lotte e rivendicazioni di portata nazionale, del resto ben nota al lettore di altronovecento, e nella quale Bagnoli svolge un ruolo affatto secondario. Quindi, è una storia già rilevante di per sé, ma che è anche in grado di gettare nuova luce sul modo in cui i caschi gialli osservavano le questioni ambientali nel loro complesso.
Nel ricordo dei lavoratori5, l’allora Ilva degli anni Cinquanta appariva come “un girone dantesco”6, per le pessime condizioni igieniche, le continue escursioni termiche, i turni di dodici ore e poi stress, malattie e incidenti per i quali l’azienda era assicurata per una media di quattro morti e decine di infortunati all’anno. In altri stabilimenti italiani, per far fronte a queste problematiche, si batteva su alcuni principi introdotti dal DPR 303/56 e si iniziavano a richiedere visite mediche periodiche, oppure, come nel caso del settore chimico, si rivendicava l’introduzione di limiti massimi di concentrazione (i MAC) per le sostanze più pericolose7. Queste prime rivendicazioni non avevano il lusso di inserirsi in una riflessione unitaria e condivisa, ma potevano avere matrici differenti, come ad esempio la stesura, tra il 1954 e il 1958, dei primi “libri bianchi” da parte delle organizzazioni sindacali delle grandi fabbriche milanesi (Alfa, Breda ecc.); oppure, le inchieste parlamentari promosse, tra il 1955 e il 1957, da alcuni deputati Dc8; o ancora la “presa di coscienza” delle opportunità politiche connesse al tema della tutela della salute in fabbrica da parte della Cgil, a partire dal 19559. A Bagnoli, già nel 1954 e in seguito ad una catena di infortuni, la commissione interna di stabilimento provava a sollecitare un’inchiesta parlamentare sulle condizioni di lavoro10, senza particolare successo.
Ciò che, invece, in tutta la Penisola accomunava e al tempo stesso limitava la portata di queste prime vertenze11 erano pratiche di compensazione note al movimento operaio come meccanismi di monetizzazione del rischio. A Bagnoli, simili meccanismi erano più o meno serenamente accettati da operai spesso scarsamente professionalizzati e che sentivano forte il “privilegio” del poter lavorare all’Ilva, specialmente in un contesto come quello napoletano, “in cui negli anni Cinquanta continua[va]no a prevalere le occupazioni a nero”12. Solo nel corso dei due decenni successivi l’entrata in fabbrica iniziava ad essere percepita come un’opportunità di progresso sociale, politicizzazione e professionalizzazione, oltre ad una garanzia di stabilità economica.
Inoltre, negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta tanto la professionalizzazione operaia quanto la rivendicazione in materia di salute e sicurezza erano imbrigliati da un nuovo modello taylorista di organizzazione del lavoro, quella job evaluation sperimentata a Cornigliano a partire dai primi anni Cinquanta13 e a Bagnoli a partire dal 1961. La job evaluation, importata dagli USA, dissociava il salario dalla qualifica professionale acquisita, puntando invece sulla valutazione del singolo posto di lavoro e degli attributi psico-somatici scientificamente necessari ad occuparlo, tradotti in un punteggio utile a determinare la classe retributiva. Insomma, quella che i lavoratori definivano una paga di posto. Di certo, la job evaluation non metteva in crisi il principio della monetizzazione del rischio, anzi lo formalizzava. Produceva però una conseguenza inattesa, poiché contribuiva a immettere nelle relazioni sindacali l’attitudine a valutare la qualità del lavoro attraverso indicatori e parametri quantificabili ed inquadrabili nei saperi tecnici vigenti, ma fondati sulla soggettività del lavoratore14. Quindi, dava ai lavoratori l’occasione di accedere alle conoscenze in materia.
A Bagnoli, come in tutto il gruppo Italsider in cui traslava nel 1961 l’Ilva, l’occasione fu fornita dagli accordi del 1962-3. Fu sancita allora la definitiva introduzione della job evaluation in tutti gli stabilimenti del gruppo: di lì a poco i rappresentanti sindacali, e in specie Fiom-Cgil, realizzavano una prima categorizzazione dei diversi livelli e delle diverse classi di rischio in un Centro Siderurgico Integrale. Il livello di rischio proveniente dall’esposizione diretta o indiretta a calore, fumi, polveri, rischi meccanici ecc. era classificato per la prima volta e in base alla mansione svolta. Seppur finalizzata alla definizione di incentivi monetari, questa prima forma di categorizzazione aiutava la costruzione e condivisione delle conoscenze su salute e sicurezza15. Questo non risolveva, ovviamente, il problema infortunistico che era, anzi, destinato a ripresentarsi prepotentemente nel corso del 1963, un anno in cui si citano addirittura cento episodi di “intossicamento” a Bagnoli16.
D’altro canto, la rinnovata capacità di iniziativa della Fiom si traduceva in un momento-chiave nella costruzione del “rifiuto della monetizzazione” e di portata più che locale: in marzo 1964, un’indagine-denuncia delle pratiche di monetizzazione, condotta dalla sezione Fiom di Bagnoli, raggiungeva i vertici ministeriali delle Pp. Ss., i gruppi parlamentari socialista e comunista, l’Ispettorato del lavoro, i vertici aziendali e gli uffici nazionali delle sigle sindacali17. La visibilità della denuncia della Fiom comportava effettivamente un intervento diretto da parte della dirigenza Iri, che a sua volta portava alla chiusura di alcuni reparti considerati “particolarmente pericolosi”, alla modifica della disciplina di controllo da parte dei medici aziendali, ad alcuni accorgimenti da parte dell’Ispettorato del Lavoro, a miglioramenti del servizio di infermeria e dei servizi igienici, nonché all’introduzione di numerose pause dal lavoro18.
Si tratta di un’innegabile vittoria del movimento sindacale, che credo contribuisca a dare alla Fiom bagnolese una certa visibilità nel panorama nazionale e le permetta di accogliere le istanze emerse con la conferenza Inca-Cgil (Istituto nazionale confederale di assistenza) di Roma del maggio 1964, quindi a dare ulteriore slancio alle proprie rivendicazioni sulla prevenzione dei rischi ed alla propria critica delle pratiche di monetizzazione della salute. Nel frattempo, come è noto, su scala nazionale si intrecciavano alcune straordinarie esperienze fra le quali, appunto, quella della Inca-Cgil di Roma, che dal 1964 iniziava a elaborare una proposta in materia di prevenzione del rischio in fabbrica, nel 1965 promuoveva l’istituzione del Crd (Centro di ricerche e documentazione dei rischi e danni da lavoro19) e successivamente iniziava a delineare la strategia unitaria della federazione sindacale. Tutt’altro che isolata, poteva giovarsi della collaborazione con la Camera del lavoro torinese, attiva su questi temi già a partire dal 1960, e delle prime indagini epidemiologiche alla Fiat e alla Farmitalia che portavano alla creazione del Centro camerale contro la nocività20. Di lì a poco, nel 1967, era fondato anche il Centro per la Salute Montedison/Cgil di Castellanza, fra gli antesignani di Medicina Democratica.
In questa congiuntura, in sintesi, in Italia si iniziava a intravedere una reazione della classe operaia – sostenuta in più contesti dal concorso di saperi esperti e da figure eccezionali come Gastone Marri, Ivar Oddone e Luigi Mara – all’intensificazione del lavoro ed ai problemi relativi alle condizioni di lavoro riscontrabili negli anni del boom, fin qui osservati attraverso le sole lenti del “buon andamento” del processo produttivo.
Di questa fase di “presa di coscienza” Bagnoli rappresenta uno dei campi di prova, ma forse sarebbe più appropriato dire “di battaglia”. Nel solo 1965 muoiono cinque lavoratori, su dieci in tutto un gruppo Italsider di cui Bagnoli detiene il più “triste primato”21. Da citare quanto avviene in aprile ‘65, ovvero la morte di tre operai, e un quarto in gravissime condizioni, per una fuga di monossido di carbonio nel medesimo reparto altoforno in cui l’anno precedente erano rimasti intossicati dodici dipendenti22. In questa occasione la reazione operaia è durissima e Cgil-Cisl-Uil proclamano l’arresto totale delle produzioni del ciclo integrale23.
La stampa dà ovviamente grande peso all’evento e ciò lo rende un caso rivelatore sia delle più recenti prospettive maturate dalla rivendicazione locale, sia delle politiche di sicurezza in atto a Bagnoli a metà anni Sessanta. Emerge, ad esempio, il formalismo tipico di qualunque meccanismo di compensazione, come nella testimonianza del responsabile per l’assistenza e previdenza:
La politica antinfortunistica dell’azienda si limita alla propaganda, ai cartelloni, agli elmetti, alle segnalazioni; ignora i veri elementi di pericolo: la direzione vede l’antinfortunistica sotto l’aspetto della riparazione del danno, non dell’effettiva prevenzione. E questo è dimostrato proprio dagli infortuni, mortali e non, che si verificano con allucinante frequenza24.
La condanna è presto ricondotta ad una critica feroce dei nuovi principi tayloristi, “elegante facciata conto terzi di una realtà fatta di sudore e sangue” versati in nome del dogma della massima efficienza25. Molti operai tendono a collegare gli asfissianti turni di lavoro (dovuti ai doppi turni o a riduzioni dell’organico) al rischio di incidenti e infortuni26. Sul piano tecnico, oltre alle deficienze di sistemi d’allarme non automatizzati (per colpa dei quali ogni disattenzione può essere fatale), si tende a porre l’accento sulla negligenza della dirigenza. Riprova empirica è il fatto che gli incidenti si verifichino sempre negli stessi reparti, anche ad anni di distanza27. Anche l’immagine dei funzionari dei servizi di sicurezza, recentemente istituiti dall’azienda28, è pessima e non potrebbe essere altrimenti, dato che in questi uffici “non vi è cittadinanza per gli organismi dei lavoratori”29. Rappresentanti Fiom, infine, condannano l’indisponibilità al dialogo da parte della dirigenza: non solo le responsabilità degli infortuni sono scaricate sulle “disattenzioni” dei singoli operai, ma le proposte sindacali sulla riforma di turni e antinfortunistica, nonché sull’ammissione di rappresentanti operai negli organismi di sicurezza interna, sono costantemente ignorate.
A Bagnoli come altrove, insomma, la questione degli ambienti di lavoro inizia ad essere inserita, in modo conflittuale, in un più ampio progetto di riforma dell’organizzazione del lavoro. Un simile progetto non può prescindere, anzi deve accompagnarsi alla costante delegittimazione dei modelli imposti dal paternalismo aziendale. La traiettoria è già evidente nelle citate rivendicazioni del ‘65, ma è decisamente accelerata dalle politiche aziendali del biennio successivo, 1966-67, votate alla più pura repressione del dissenso, come premi antisciopero e continue serrate. La dirigenza mette anche in campo quella che viene percepita come una vera e propria “strategia del terrore”, facendo leva su quegli stessi fattori di rischio che iniziano ad essere contestati dai lavoratori per denunciare, ad esempio, il grave pericolo di incidenti mortali derivanti da ogni arresto “a singhiozzo” del ciclo integrale siderurgico, ovvero le piccole serie di arresti e riprese dovute agli scioperi30. Sebbene i medesimi rischi derivino dalle serrate ordinate dalla dirigenza, questa “strategia del terrore” ha una straordinaria efficacia e, per tutto il biennio 1966-67, tiene in scacco la mobilitazione operaia.
È pur vero che questo irrigidimento non farà che acuire la delegittimazione operaia del paternalismo aziendale. Non a caso, negli anni successivi Bagnoli si porrà alla testa della mobilitazione del ‘68 e dell’“autunno caldo” a Napoli: il tema della salute e sicurezza in fabbrica sarà parte integrante dell’agenda operaia e sindacale bagnolese, che potrà giovarsi della consapevolezza raggiunta negli anni immediatamente precedenti.
L’operaio nella città degli anni Sessanta
Prima di affrontare questa fase critica della storia del movimento operaio, conviene porsi tra la fabbrica e la città ed iniziare a immaginare i caratteri di questo rapporto, attraverso le opinioni di lavoratori e cittadini. L’evoluzione del rapporto fabbrica-città, e la sua percezione collettiva, non è aliena al discorso su salute e sicurezza in fabbrica, anzi, vi interagisce in più occasioni. Quindi, è necessario raccontare le due storie in parallelo, per meglio comprenderne gli intrecci e riuscire a percepire quelle che sono, forse, le più rumorose dissonanze nella storia del rapporto fra i caschi gialli e l’ambiente.
Va premesso, innanzitutto, come fino al secondo Dopoguerra la ferriera Ilva fosse in grado di convivere in modo relativamente più sereno con l’abitato di Bagnoli, nel quale era inserita, rispetto a quanto avverrà dagli anni Sessanta in poi. Sinteticamente, ciò era dovuto a tre ordini di ragioni.
In primis, il rapporto col mare era meno conflittuale: solo la creazione della colmata (tristemente nota anche ai contemporanei) dai primi anni Sessanta in poi andava a disturbare le numerose attività balneari e termali tradizionalmente presenti in zona31 (e che continueranno, più o meno abusivamente, ad essere presenti anche in seguito), perché necessaria a garantire all’Italsider una piattaforma di cemento necessaria allo stoccaggio e al trasporto marittimo delle merci. In secondo luogo, la dirigenza Ilva era riuscita fino al Dopoguerra a garantire delle “fasce di mitigazione” ai confini della fabbrica e “quasi a mediare il passaggio verso la città”32: si trattava di attività di servizio come l’orto dopolavoro, il cinematografo, il circolo canottieri, la mensa ecc., che in seguito lasciavano spazio a nuovi reparti produttivi. In terza battuta, appunto, fabbrica e città crescevano assieme, e in modo esponenziale, da un lato per le continue ristrutturazioni e ampliamenti che sfociavano nel “raddoppio” della fabbrica promosso dall’Italsider fra il 1960 e il 1964; dall’altro, per il clima di deregolamentazione edilizia – caratteristico dell’amministrazione monarchica retta da Achille Lauro negli anni del boom e immortalato da Franco Rosi con Le mani sulla città (1964) – che nel nostro caso moltiplicava lo sviluppo demografico e la presenza residenziale soprattutto nel quartiere Fuorigrotta33. Il risultato, giunti a metà anni Sessanta, era una fabbrica schiacciata sulla linea di costa, addossata sulle case e con pochissimo spazio a disposizione per espandersi ulteriormente.
L’altra premessa che va fatta, nel provare a comprendere il rapporto fra i lavoratori e il territorio, è in realtà una questione annosa: quanti, fra i caschi gialli, abitavano effettivamente in zona? Va da sé che un lavoratore che sia anche residente è potenzialmente più attento all’impatto ambientale della fabbrica. Ora, una risposta netta e in prospettiva storica non è affatto scontata, poiché i dati sono molto frammentari. Innanzitutto, il ricordo degli abitanti più anziani di Bagnoli ci dice che “i vecchi proprietari dei villini primonovecenteschi” siano stati spesso sostituiti “dagli operai e gli impiegati Italsider”34, nel corso degli anni Sessanta, ma che i soli operai non abbiano mai egemonizzato quel quartiere. Anzi, persino durante l’epoca d’oro della fabbrica, fra il 1964 e il 1973, la loro presenza si contrae dal 22 al 17%35, mentre Bagnoli conserva grossomodo inalterati i propri trentaduemila abitanti fino a fine anni Ottanta36. Bagnoli, tuttavia, è solo uno dei quartieri situati a ridosso dell’immensa cittadella Italsider. Dalle testimonianze dei cittadini, si evince che i rioni popolari Agnano, Cocchia e Cavalleggeri d’Aosta, tutti parte del quartiere Fuorigrotta, potrebbero aver accolto un numero elevato di lavoratori Italsider e delle fabbriche contermini37. Nel quartiere di Pianura, a nord di Fuorigrotta, sorge il villaggio Italsider, che ospita duecentoquaranta famiglie operaie38. Dai più lontani comuni dell’area flegrea (Pozzuoli, Bacoli, Baia, Monte di Procida) potrebbe provenire, invece, un gruppo meno nutrito di lavoratori Italsider39. Si può anche tener conto della stima secondo la quale, ai primi anni Ottanta, il 55% dei lavoratori risieda ormai in zona40, ma è pur vero che, giunti a quella data, il numero degli occupati nel siderurgico si sia quasi dimezzato41, per le ragioni di cui si discuterà in seguito.
Detto questo, ai primi anni Sessanta, se l’operaio Ilva-Italsider è anche residente in zona, la sua percezione della montante degradazione del paesaggio è pienamente registrabile. Una testimonianza privilegiata è l’opinione di alcuni operai, nonché residenti dell’area occidentale. Nel discutere il “raddoppio” della fabbrica partito nel 1961, la voce dell’operaio e quella del cittadino si accavallano e arrivano a un punto che, se sancisce la vittoria della prima, non sopprime in toto l’ambiguità:
Ci saranno molte centinaia di nuovi posti di lavoro e questo rappresenta per noi una ragione per essere più indulgenti verso certe esigenze, che sono giuste ma sono soltanto estetiche42.
È evidente chela prospettiva occupazionale non possa essere messa in discussione. Eppure la tutela del paesaggio, pur ancorata a criteri prettamente estetici e quindi “inutili” nel quadro di valori interiorizzati dai lavoratori negli anni gloriosi del produttivismo, è inserita nel novero delle “giuste esigenze”.
Qui si nasconde la prima dissonanza nella sensibilità degli operai Italsider ai temi ambientali. Negli anni del laurismo e dell’espansione incontrollata della città, si era diffusa e consolidata nella classe operaia e nella sinistra di classe napoletana quella che mi piace definire la “retorica del paesaggio compromesso”, secondo la quale le origini di una degradazione paesistica percepita come irreversibile a Napoli andavano individuate nell’inestinguibile avanzata delle cortine edilizie. Naturalmente, sul piano politico e mediatico ciò iniziava a tradursi nella denuncia della speculazione e degli speculatori edilizi, che andrà avanti per decenni e rappresenterà un elemento identitario per la classe operaia e la sinistra di classe napoletana (e, più estesamente, campana). Nell’immediato, conta invece soffermarsi sul fatalismo delle posizioni emerse sin dai primi anni Sessanta. Se la qualità del paesaggio era stata già irreversibilmente compromessa dagli oscuri, ma potenti interessi che muovevano la speculazione edilizia, la fabbrica non poteva certo fare ulteriori danni. L’opinione di un ex operaio è forse chiarificatrice:
Visto che l’avevano deturpato l’ambiente per interessi loro, la fabbrica poteva continuare a rimanere qua senza fare danni eccessivi43.
Quindi, la “giusta” istanza di cui sopra si applicava alla sola difesa del paesaggio dai danni già perpetrati dall’espansione urbana, non all’impatto della fabbrica. Ed è qui la prima dissonanza, ovvero nel riconoscimento del degrado paesistico, purché sia estraneo a quello prodotto dalla fabbrica.
Andrebbe forse aggiunto che questa retorica fosse tradotta in vera e propria contrapposizione tra fabbrica e città dalla stampa liberale, più vicina alle posizioni aziendali44 e che ovviamente tentava di costruire pubblicamente l’accettabilità delle continue espansioni dello stabilimento. Questo registro – al pari del discorso sulle necessità occupazionali, o quello sul sottosviluppo del Meridione – era insomma anche un utile strumento di costruzione del consenso, in questo caso nei confronti dei progetti aziendali di ampliamento. Non a caso, solo a “raddoppio” ultimato, nel 1965, gli operai di Bagnoli iniziavano a riconoscere pubblicamente la nocività alla quale erano esposti gli abitanti.
C’era anche un’altra ragione di fondo, che è stata già richiamata, ovvero la catena di infortuni sul lavoro e morti bianche registratesi in quell’anno. Molto significativamente, le istanze di tutela della salute all’interno e all’esterno della fabbrica iniziavano ad essere collegate fra loro. Ad esempio, un responsabile all’assistenza e previdenza affermava:
Misure antinfortunistiche adeguate non riguardano solo i lavoratori della fabbrica, bensì anche i cittadini della zona sui quali ricadono gli effetti nocivi della polverosità dei nuovi impianti45.
Un rappresentante della Fiom provinciale tramutava la medesima opinione in appello alle istituzioni:
Ormai, di fronte a questi tragici avvenimenti non basta solo fare opera di denunzia: si tratta di intervenire nella fabbrica, ed è un intervento che spetta anche alle pubbliche autorità napoletane, in quanto la mancanza all’Italsider di adeguate attrezzature antinfortunistiche rappresenta un pericolo per gli stessi abitanti della zona46.
Qui emerge pienamente la seconda dissonanza, che coinvolge sia un orizzonte valoriale che si sta interiorizzando in questi anni, ovvero quello della prevenzione del rischio in fabbrica, sia la strumentalità dell’appropriazione del discorso sulla nocività prodotta dalla fabbrica e riversata sul territorio.
In altre parole, sembra che il problema dell’inquinamento svolga, per operai e sindacalisti, questa funzione: è ulteriore registro politico e mediatico utile a rivendicare un intervento pubblico che sia rivolto, innanzitutto, alla messa in sicurezza dei saloni della fabbrica. Non a caso, in questa occasione si rivendica, in prima battuta, una più intensa e programmata intesa con le autorità incaricate del controllo costante delle produzioni in fabbrica, quali l’Ente Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni (Enpi) e l’Ispettorato del Lavoro47. Il secondo, in questi anni sconta una carenza di mezzi e personale ed è spesso costretto ad affrontare lunghi contenziosi, prima di poter intervenire con efficacia48; il primo, responsabile delle attività di consulenza e informazione sin dal 1938, è spesso ai ferri corti con la dirigenza Italsider, al punto che nel 1972 l’azienda arriva a disdire ogni convenzione con l’ente e ad affidarsi unicamente ai propri tecnici49. Per queste ragioni, nel nostro caso, il problema dell’inefficienza delle competenze pubbliche di controllo sugli ambienti di lavoro è sia strutturale, sia contingente.
Ad ulteriore riprova della strumentalità del richiamo al problema della salute fuori dalla fabbrica, da parte dei caschi gialli e in questa congiuntura, gli organi pubblici competenti per gli ambienti di lavoro sono gli unici ad essere chiamati in causa dagli operai. Chi si dovrebbe occupare delle indagini al di fuori della fabbrica, come ad esempio il Laboratorio Provinciale d’Igiene e Profilassi o la Direzione Sanità e Igiene del Comune – che peraltro ha appena condotto la prima indagine sull’inquinamento atmosferico nell’area occidentale di Napoli50 – non è neppure preso in considerazione.
Insomma, questa congiuntura testimonia di come la cooperazione fra le rappresentanze sindacali e gli organi pubblici di controllo sia l’anello debole nella catena della tutela della salute in fabbrica, e in specie in una fabbrica del Meridione (come recentemente confermato dalla storiografia51). Gli organi pubblici di controllo costituiscono, quindi, il destinatario ultimo delle istanze operaie di questa fase e devono essere chiamati a collaborare con assoluta urgenza e con ogni mezzo politico e mediatico, come ad esempio attraverso la strumentalizzazione delle problematiche sanitarie della popolazione residente, derivanti dall’inquinamento.
Il ‘68 e l’autunno caldo: il modello sindacale per la prevenzione a Bagnoli
Si può anticipare che quanto conquistato in materia di salute e sicurezza, tra fine anni Sessanta e primi Settanta, ponga i siderurgici bagnolesi in linea con le avanguardie del movimento sindacale nazionale. Al pari, si può dire che queste conquiste diano un contributo al loro modo di concepire i problemi ambientali in toto, ponendosi come un elemento chiave della loro, pur peculiare, “primavera ecologica”52, di cui alla prossima sezione.
Pensando alla stagione di efficacissima repressione aziendale del biennio 1966-67, di cui sopra, è semplice comprendere come le conquiste sindacali in materia di salute e sicurezza siano, in questo biennio, esito della sola contrattazione collettiva nazionale. L’11 novembre del ‘66, ad esempio, il CCNL metalmeccanici prevede la creazione dei comitati antinfortunistici di stabilimento, nei quali deve essere ammessa la presenza di rappresentanti sindacali. A Bagnoli non è stata effettuata neppure “un’ora di sciopero”53.
Piuttosto, la questione antinfortunistica – legata alla critica della job evaluation – prende le mosse dall’Italsider di Cornigliano54. La questione si estende, di lì, a tutto il gruppo Italsider, grazie all’azione delle cellule locali del Pci e in specie nel corso del “mese operaio”55. Altro impulso è dato dalla Fiom nazionale, col convegno di Desenzano del novembre ‘67: qui si discutono con la Commissione medica torinese i fattori di rischio delle produzioni siderurgiche ed il rifiuto della monetizzazione56. Non sorprende, quindi, osservare un più deciso ingresso del tema anche nella piattaforma sindacale dell’Italsider di Bagnoli, dalla fine di quel 1967 in poi. Bagnoli partecipa, anzi, con il 90% delle maestranze alla mobilitazione di fine anno contro un ulteriore aumento dei ritmi di lavoro e per il miglioramento della salute fisica e psicologica sul lavoro57.
Da parte sua, l’azienda si dice pronta “ad applicare la norma contrattuale relativa all’inclusione di rappresentanti dei lavoratori designati dai sindacati nei Comitati antinfortunistici di stabilimento”, ma di fatto non fa che posticipare il dialogo58. Il malcontento continua a crescere, così come la politicizzazione e la sindacalizzazione delle maestranze: del resto, a Bagnoli il tasso di adesione dei lavoratori alla Cgil e al Pci era già altissimo a fine anni Cinquanta59, ma è alla fine dei Sessanta che la Cgil e la Fiom comprendono come Bagnoli costituisca un passaggio obbligato per mettere in moto il movimento sindacale nelle fabbriche del Sud60.
Nel giugno del ‘68 i caschi gialli, radicalizzati dall’intensificazione dei ritmi di lavoro61 e da una nuova catena di infortuni62, bloccano la produzione e si riversano nelle strade, interrompendo i collegamenti ferroviari e scontrandosi con la polizia.Le richieste degli operai bagnolesi rivelano tensioni accumulatesi negli anni precedenti. Si richiede una trasformazione delle strutture organizzative e la democratizzazione dei meccanismi decisionali, certo, ma si rivendica anche il rifiuto della delega ai tecnici e medici di stabilimento ed il controllo diretto sulle questioni dell’ambiente di lavoro e della salute63.
Sullo sfondo c’è ovviamente una storia molto più ampia, alla quale non si può far altro che accennare. A partire dagli ultimi anni del decennio Sessanta medici e professionisti, provenienti dalle citate esperienze dell’Inca-Cgil romana e della Commissione medica della Camera del lavoro torinese, incontrano e sostengono la contestazione operaia e sindacale dell’ideologia taylorista e fordista, in specie nella grande industria64, andando a costruire gli strumenti conoscitivi e gestionali necessari a quella che è stata definita la “rivoluzione copernicana”65 nella lotta per la salute in fabbrica, ovvero il modello sindacale per la prevenzione.
Oltre alla “prevenzione” del rischio in fabbrica, le parole d’ordine di questa stagione si traducono nel rifiuto di ogni monetizzazione del rischio e nella compartecipazione fra saperi esperti ed esperienze soggettive degli operai per la definizione e gestione dei rischi (la “non delega” e la “validazione consensuale”). L’unità di base, nell’individuazione dei fattori nocivi in fabbrica, è rintracciata nei gruppi di operai esposti ai medesimi rischi e alla medesima fase o ciclo della lavorazione (il “gruppo omogeneo”): l’assioma di fondo è la collettivizzazione e la condivisione delle responsabilità e dei saperi.
All’atto pratico, il modello sindacale per la prevenzione si fonda sull’individuazione di quattro gruppi di fattori nocivi, esplicitamente indicati al movimento sindacale nazionale sin dalle prime due edizioni della dispensa Fiom “L’ambiente di lavoro”, del 1967 e del 196966, in: fattori sensoriali, atmosferici, muscolari (di breve termine) e logoranti (ovvero, psico-fisici e di lungo termine). A loro volta, i fattori nocivi dei quattro gruppi sono ulteriormente sotto-articolati in caso di correlazione con malattie aspecifiche, malattie professionali e/o infortuni.
Per quanto riguarda le politiche si può anticipare come, in prospettiva storica, gli strumenti di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori vadano a privilegiare prescrizioni di natura organizzativa, piuttosto che l’utilizzo puro e semplice della strumentazione tecnica: è questa, con ogni probabilità, una conseguenza delle ideologie diffusesi nella fase trionfante della “stagione dei movimenti”, in specie la disillusione verso l’“amore per la macchina” o “ubriacatura” o “eros tecnologico”, che era invece imperante negli anni del boom67. In altri termini, inizia a maturare una critica nei confronti della neutralità della tecnica.
Ciò non toglie che le singole vertenze sindacali possano spesso rivendicare l’installazione di, ad esempio, impianti di depolverazione interna, sistemi automatizzati di sicurezza o, più banalmente, una più efficace manutenzione degli impianti. Ma di certo il modello sindacale di prevenzione non può prescindere da una diversa organizzazione del lavoro, quindi prevedere, in primis, l’applicazione dei principi della non delega e della validazione consensuale attraverso l’utilizzo di strumenti di osservazione spontanea, ovvero pratiche di monitoraggio condotte dai singoli operai e validate da tecnici e medici. Di qui prendono corpo i libretti di rischio individuale e i libretti sanitari, utili a registrare, rispettivamente, la storia dell’esposizione dell’operaio di uno specifico gruppo omogeneo ai fattori di nocività e lo storico di malattie ed infortuni. È necessario costruire anche strumenti collettivi di analisi, ovvero il registro dei dati ambientali, contenente indicazioni sui fattori nocivi a livello di reparto ed uno storico delle misure necessarie a contenerli entro i limiti di concentrazione (MAC); ed il registro dei dati biostatistici, compilato, invece, dai singoli gruppi omogenei e dedicato alle informazioni sanitarie concernenti i disturbi percepiti dai lavoratori, gli infortuni, le malattie e le cause ipotizzate68.
Fatte queste premesse si può ritornare al caso bagnolese, poiché il modello sindacale di prevenzione inizia effettivamente a penetrare i saloni dell’Italsider e a imporsi nelle piattaforme rivendicative dal 1968. Anzi, nel ‘68 su questo fronte la vittoria è netta, perlomeno sulla carta.In seguito alle mobilitazioni di cui sopra,con accordo del 7 luglio 1968 si sancisce a Bagnoli l’impegno da parte dell’azienda nell’esaminare i problemi dell’ambiente di lavoro e col concorso di istituti specializzati, aprendo così a quel nuovo modello di prevenzione, monitoraggio e controllo della nocività in fabbrica la cui prima fase operativa si è detta essere, appunto, la raccolta di dati sanitari individuali ed ambientali/biostatistici collettivi. Va quindi sottolineato come l’accordo bagnolese del 7 luglio 1968 sia considerato, tanto dagli osservatori coevi quanto dalla più aggiornata storiografia69, un punto di svolta nell’evoluzione delle rivendicazioni sugli ambienti di lavoro, con conseguenze percepibili, perlomeno, nella siderurgia meridionale. Basti ricordare come l’accordo per Taranto, del 20 luglio 1968, sia l’esatta copia di quello bagnolese70.
Nei mesi successivi, la Cgil concentra a Napoli i propri sforzi, incaricandosi della stesura del nuovo modello di analisi, stimolando la compartecipazione dei singoli gruppi omogenei alle indagini71 e diffondendo le nuove metodologie grazie ad un corso di formazione, tenuto a Napoli nel dicembre 1968, dedicato ai membri dei Comitati antinfortunistici delle aziende siderurgiche e condotto, tra gli altri, da Gastone Marri.
Conviene citare alcuni momenti salienti dello scambio di conoscenze avvenuto in questa occasione, poiché utile a situare la “presa di coscienza” dei caschi gialli e a comprendere la contrattazione di un nuovo orizzonte valoriale su salute e sicurezza. Se l’obiettivo politico contingente è la decostruzione tanto del paternalismo aziendale quanto della job evaluation, i nuovi valori in via di contrattazione hanno a che fare col rifiuto delle pratiche di monetizzazione e con la critica della neutralità della tecnica. Quell’“amore per la macchina” che aveva garantito parvenza d’oggettività allo sviluppo tecnologico degli anni Sessanta è ora messo in discussione attraverso il discorso sui limiti dell’innovazione tecnologica, ovvero l’aumento dei rischi inattesi e la possibile strumentalizzazione della neutralità della tecnica, da parte delle aziende e così da delegittimare le nuove metodologie di prevenzione partorite dal movimento sindacale. Prendendo spunto dall’esempio della Montedison di Castellanza72, anche i limiti massimi di concentrazione (MAC) diventano oggetto di critiche analoghe.
Il punto è nel confermare la legittimità della linea della “non delega”, ovvero della compartecipazione operaia alla validazione degli strumenti conoscitivi, la cui costruzione deve, ora, essere contrattata con le istituzioni pubbliche. Non a caso, molti dei presenti si soffermano su questo tratto specifico della vita amministrativa del Sud Italia, ovvero la sostanziale e percepita inefficienza degli enti sanitari73, che ancora ostacola l’applicazione delle conquiste bagnolesi del luglio 1968.
Nel breve termine, le rimostranze dei caschi gialli su questi ostacoli sono frequenti74 ma non producono che vuote rassicurazioni dell’azienda sull’avvio delle indagini ambientali, sul ricorso ad enti esterni specializzati e sull’esame condiviso delle misure necessarie75. Eppure, sono da rilevare anche le tattiche dilatorie dell’azienda, che in più occasioni manifesta una silenziosa ostilità. Da un lato, l’azienda continua a far leva sulla “pericolosità” di ogni interruzione al ciclo continuo dello stabilimento, che risulterebbe frammentato dalle continue indagini biostatistiche ed ambientali ai singoli impianti. Dall’altro, la dirigenza sceglie semplicemente di assentarsi dal confronto su questi temi con le parti sindacali. Operai, sindacati e media della sinistra operaia non possono che leggere simili atteggiamenti come esplicite “provocazioni e mortificazioni del ruolo del sindacato”76.
La mancata applicazione dell’accordo di luglio 1968 su libretti e registri diventa, anzi, un elemento di ulteriore inasprimento del durissimo conflitto tra operai ed azienda77, cui si può assistere nel corso dell’autunno caldo del 1969. In ottobre, tremila caschi gialli si mettono alla guida di un corteo di quarantatremila metalmeccanici78, che sfila per le strade di Napoli chiedendo a gran voce un nuovo contratto collettivo nazionale. In questa occasione, si rivendica anche un nuovo sistema di turnazione nei reparti più nocivi dello stabilimento di Bangoli, come ad esempio la cokeria. Poche settimane più tardi, il neo-istituito Consiglio di Fabbrica Italsider e la dirigenza del Pci napoletano portano alcuni esponenti della direzione centrale a Napoli, per discutere del CCNL metalmeccanici. Vi si ribadisce, tra le altre cose, la necessità della partecipazione operaia al controllo delle fabbriche, come misura indispensabile all’ottenimento di migliori condizioni di lavoro e alla difesa della salute dei lavoratori79.
A dispetto del forte clima di tensione che culmina nella strage di Piazza Fontana, le trattative per il nuovo CCNL vanno avanti fino all’8 gennaio 1970, quando il nuovo CCNL metalmeccanici garantisce, fra le tante conquiste, il riconoscimento del diritto di assemblea e dell’attività sindacale in azienda. Ciò vale, ovviamente, anche per la contrattazione sugli ambienti di lavoro. Per inciso, sotto questo aspetto, il CCNL metalmeccanici del 1970 anticipa alcuni principi-chiave della legge 300 del 20 maggio 1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori,in specie l’articolo 980 e l’articolo 12 che prevede la presenza dei patronati sindacali all’interno degli stabilimenti. L’altra grande conquista è l’“inquadramento unico”, ovvero il superamento delle differenze di retribuzione fra operai, impiegati e categorie speciali e la ridefinizione complessiva delle prospettive di carriera dei lavoratori. L’inquadramento unico serve, però, anche a valutare diversamente i parametri di qualità del lavoro, attraverso un nuovo sistema di calcolo dei rischi, fondato su “classi di ponderazione” da applicare ai singoli gruppi omogenei81. Quindi, è di fatto inscindibile dalla questione salute e sicurezza.
Tornando a Napoli, giunti ai primi del 1970 la vulgata mediatica ha già fatto della grande stagione di mobilitazione cittadina un elemento-chiave del mito dell’autunno caldo. Il “salto di qualità compiuto in città con le battaglie sindacali degli ultimi due anni” ha fatto di Napoli una “capitale operaia”, “un punto di forza nella spinta al rinnovamento del Mezzogiorno”. Bagnoli è, naturalmente, in prima linea: grande merito dei caschi gialli è stata la capacità di reggere l’urto della controffensiva aziendale, le minacce di licenziamento, le serrate, per almeno un triennio. L’Italsider ha così “dimostrato che la classe lavoratrice napoletana è in grado di vincere anche le battaglie più difficili” ed è diventata un simbolo del peso e del valore degli operai napoletani nel movimento operaio82.
Neppure il prestigio appena conquistato, tuttavia, garantisce una più agevole applicazione delle conquiste del luglio 1968 su registri e libretti. L’ostacolo principale resta la conduzione continuativa delle indagini sanitarie e biostatistiche, quindi il coinvolgimento degli esperti e degli enti pubblici. Ciò non toglie che i caschi gialli siano in grado di avviare delle iniziative autonome, perché ormai ben informati del modello sindacale per la prevenzione e ben inseriti nel dibattito nazionale. Dalla metà del 1970, ad esempio, il CdF Italsider inizia a diffondere fra gli operai un modello di libretto sanitario individuale. Vi si descrive anche la funzione dei registri biostatistici ed ambientali83. Si tratta semplicemente di un modello, utile se non altro ad informare i lavoratori delle nuove metodologie. Al momento, ovviamente, non ci sono ancora dati disponibili, per il mancato avvio delle indagini sanitarie e biostatistiche. Eppure, il lavoro di informazione svolto grazie a dispositivi come questo serve anche a rendere i lavoratori edotti degli “strumenti operativi”, ovvero delle organizzazioni operaie addette alla difesa della salute e degli ambienti in fabbrica, che sono individuati nel gruppo omogeneo e nei suoi rappresentanti eletti nel Consiglio di Fabbrica.
In teoria, l’altro consesso utile a questo scopo potrebbe essere il Consiglio di Zona, un comitato territoriale organizzato per quartiere, nel quale veder rappresentati tutti i lavoratori di una determinata categoria professionale, o persino tutte le categorie dei lavoratori (Comitati Unitari di Zona). Qui avverrebbe la diffusione e lo scambio di informazioni e metodi di intervento, non solo fra i lavoratori delle fabbriche, ma fra gruppi di cittadini, tecnici, professionisti, studenti ecc. Sulla carta, i CdZ e i CUdZ possono occuparsi di temi collegati ai trasporti, alle abitazioni e all’inquinamento, quindi analizzare in termini critici il rapporto tra fabbrica e territorio84. Nella storia dell’Italsider di Bagnoli e di Napoli ovest, tuttavia, non c’è traccia dell’attività di simili consessi.
I caschi gialli e la primavera ecologica dei primi anni Settanta: la presa della “retorica dell’assedio”
Il discorso sui Consigli di Zona ci permette di approcciare uno dei temi-chiave di questo contributo, ovvero la reazione dei caschi gialli di Bagnoli all’emersione delle idee ecologiche.
Non è questa la sede per ripercorrere il processo globale, nazionale e persino locale di emersione delle idee ecologiche, se non in pillole. Conviene solo richiamare la grande portata delle idee di Rachel Carson, di Barry Commoner e Nicolau Georgescu-Rogen; oppure la diffusa reazione mediatica e istituzionale, in Occidente, ai primi esperimenti nucleari, alla radioattività e al problema dello smog negli anni Sessanta; o ancora il rapporto del MIT e la Conferenza Onu di Stoccolma del 1972 sui limiti dello sviluppo e, in Italia, la prima relazione della Eni-Tecneco sullo stato dell’ambiente, del 1973. Una catena di idee, esperienze ed eventi che in vario modo iniziano a penetrare il dibattito politico e ad animare l’azione delle organizzazioni “proto-ambientaliste”, anche in Italia. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, associazioni culturali e votate alla protezione della natura, come Italia Nostra (fondata nel 1955) e la sezione italiana del WWF (animata nel 1966 da esponenti di IN), si radicano sui territori e sviluppano una marcata sensibilità alle nuove dimensioni del problema ambientale. Partendo da tensioni protezionistiche e paesaggistiche85, approdano ad un quotidiano contrasto agli intensi processi di cementificazione e industrializzazione86, tanto rilevanti nel nostro caso.
Nel corso degli anni Sessanta, a Napoli, sono pure individuabili dei momenti in cui l’abusivismo e l’inquinamento veicolare e industriale diventano argomento di discussione pubblica e riescono ad imporsi nel discorso mediatico, o persino nell’agenda politica dei decisori, ma per trovare una cornice unitaria nelle lotte ambientaliste occorre attendere qualche anno. È tra fine anni Sessanta e i primi Settanta che Italia Nostra Napoli e il WWF Campania, affiancati da un raggruppamento locale (il Comitato per la Difesa dell’Ambiente), vanno a costituire il primo nucleo di una rete ambientalista alla quale si affiancano spesso enti di ricerca, magistratura inquirente e partiti politici di centro-sinistra (su tutti il Pri). All’atto pratico, la lotta ambientalista è portata avanti dall’impegno quotidiano di professionisti e intellettuali quali Antonio Iannello87, Lello Capaldo88 e le sorelle Elena e Alda Croce89, rispettivamente alla guida delle tre associazioni sopra citate e nel corso degli anni Settanta e dei primi Ottanta.
Gli obiettivi prediletti dell’azione rivendicativa della rete ambientalista napoletana sono i tanti episodi di speculazione edilizia e la ingombrante presenza della grande industria di base e inquinante in città. L’Italsider – al pari dell’adiacente Cementir, nell’area industriale occidentale, e della Mobil Oil, nell’area orientale – non può non essere il bersaglio di forti critiche da parte degli ambientalisti, poiché ormai incistata in un sempre più caotico tessuto urbano, nel quale inizia a diventare evidente il suo impatto nocivo.
Infatti, gli anni fra i Sessanta e i Settanta, a Napoli come altrove, rappresentano anche il primo momento in cui si producono con sistematicità le rilevazioni sullo stato dell’ambiente. Si è già citata la pioneristica indagine atmosferica del 1964, ma i veri antesignani delle indagini ambientali a Napoli sono i consulenti che si occupano delle perizie d’ufficio nell’ambito dei processi civili intentati da alcuni proprietari di stabilimenti balneari e termali contro l’Italsider di Bagnoli90. Da queste perizie, pubblicate nei primi anni Settanta, emergono con chiarezza le illegalità perpetrate dall’Italsider, che sfora molti dei limiti posti dalle prime regolamentazioni sull’inquinamento atmosferico e idrico91. Vedremo, in seguito, le numerose conferme prodotte negli anni immediatamente successivi, ma per ora conta dire che queste indagini diano un fondamento scientifico alle rivendicazioni degli ambientalisti napoletani.
Da parte sua, nei primi anni Settanta, l’operaio Italsider non può assolutamente ammettere la veridicità di queste indagini, oppure condividere queste denunce. Le motivazioni sono complesse e conviene schematizzarle in due ordini di fattori, che per inciso spiegano anche il perché argomenti come quelli ambientali, che sono troppo spesso invisibili nelle singole traiettorie industriali del Novecento, siano invece così diffusamente ripetute da risultare quotidianamente sotto il naso dei lavoratori e degli abitanti di Bagnoli.
Il primo ordine di fattori è un intreccio fra prospettive di sviluppo territoriale e dinamiche politiche, del resto ben noto alla storiografia92. Un riesame non può che aggiungere qualche utile dettaglio al quadro esistente.
Sin dagli anni Sessanta si prospetta un trasferimento delle industrie di base, come l’Italsider, nell’hinterland campano. Nel corso degli anni l’ipotesi di una delocalizzazione, che urbanisticamente parlando mira a “decongestionare” la sovrappopolata fascia costiera napoletana, incontra la strategia dei poli di sviluppo, o Aree di Sviluppo Industriale (Asi), varata dalla Cassa per il Mezzogiorno. In poche parole, si pensa di spostare l’industria di base dal capoluogo, così da favorire l’industrializzazione e l’urbanizzazione delle aree interne regionali, ma ovviamente un progetto di questa portata non può che scatenare conflittualità. Nei primi anni Sessanta, ad esempio, l’idea è sostenuta da urbanisti e architetti come Luigi Piccinato, sulla base di ipotesi Svimez risalenti persino agli anni Quaranta93, ed ottiene l’assenso di ordini professionali e residenti: i primi sono preoccupati della scarsa competitività di Bagnoli; gli altri, dei prevedibili danni al paesaggio e alla salute che deriverebbero dalla permanenza in loco del siderurgico94. Ad ogni modo, il gruppo di potere napoletano, con alla testa Achille Lauro, riesce in questa fase a mantenere la grande industria in città, complice anche il fatto che questa prima ipotesi di delocalizzazione sia abbastanza velleitaria.
Tutto cambia nel momento in cui è approvato il nuovo Piano Regolatore Generale della città di Napoli, nel 1972. Il Piano definitivo è il frutto di un’intensa revisione operata dal Ministero dei Lavori Pubblici, Ministero col quale hanno modo di dialogare molti esponenti della rivendicazione ambientalista napoletana. Su tutti Antonio Iannello, coinvolto in prima persona nelle indagini di verifica95. Sotto questo ed altri aspetti, si può affermare che le prospettive di Piano abbiano una tensione squisitamente ambientalista. Nel nostro caso, il Piano crea una minaccia concreta: non impone il trasferimento dell’industria “nociva e di base” dal circuito municipale, piuttosto la condanna all’obsolescenza tecnologica, poiché le impedisce di ampliarsi in loco. Nel frattempo, assegna la costa alle attività turistiche e la maggior parte del proprio circuito a nuove attività manifatturiere, meno inquinanti96. Quindi, se prima del 1972 non vi era che la parvenza di una minaccia, ora il rischio di perdere effettivamente l’Italsider, col suo presidio operaio e i suoi oltre settemila posti di lavoro (più indotto) assume caratteri più concreti.
Eppure, i caschi gialli percepivano questa minaccia come reale già negli anni Sessanta. Il discorso che facevano, alimentato dall’azienda e dalla stampa, era indissolubilmente connesso alla denuncia della speculazione edilizia ed alla “retorica del paesaggio compromesso” di cui si è detto precedenza. In poche parole, per gli operai di Bagnoli i fautori della delocalizzazione e gli speculatori edilizi erano due facce della stessa medaglia97. Qui si rileva una terza dissonanza, affine alla precedente: sebbene i caschi gialli condividessero la denuncia alla speculazione edilizia, i difensori del paesaggio e i cittadini attenti alle conseguenze sanitarie dell’industria – solo perché favorevoli alle ipotesi di delocalizzazione – erano da loro accostati agli oscuri interessi speculativi dei quali il sindaco monarchico Lauro era individuato come il principale benefattore.
Un simile collegamento discendeva non tanto dalla presupposizione del bias dell’elitismo, come in altri casi98 e per mezzo della quale pure saranno stigmatizzati, in seguito, esponenti dell’ambientalismo cittadino come Elena Croce99. Piuttosto, quel collegamento nasceva dal fatto che, dai primi anni Sessanta100 (e fino a fine anni Settanta), il principale quotidiano cittadino, il Roma di proprietà di Achille Lauro, sceglieva di dare ampio spazio alle posizioni dei fautori della delocalizzazione, quindi anche alla contestazione che diventerà ambientalista. Per quanto detto sopra sugli sforzi di Lauro nel mantenere a Napoli la grande industria, è assai probabile che la giunta monarchica tentasse di strumentalizzare le prospettive di delocalizzazione, quindi anche le posizioni dei primi protezionisti, così da lasciare uno spiraglio alle mire delle grandi imprese edili. Ad ogni modo, anche di qui (al di là delle divergenze ideologiche di fondo) discendeva l’asprezza del lungo conflitto mediatico fra il Roma, da un lato, e l’Unità e l’Avanti, dall’altro, che andrà avanti fino a fine anni Settanta e alimenterà quotidianamente il divario lavoro-ambiente.
Sullo sfondo, nei primi anni Sessanta i quotidiani del Pci e del Psi portavano avanti anche un discorso mediatico di più ampia portata, che faceva leva sulla diffusione della cultura operaista e sul valore delle recenti politiche industrialiste per il Mezzogiorno: sulla base di questo discorso, l’emergente presenza operaia a Bagnoli poteva risultare scomoda a molti fra coloro che andavano a riempire le fila dei fautori della delocalizzazione, come ad esempio i sostenitori delle ragioni dell’industria turistica. In effetti, e a differenza del legame coi gruppi di interesse edili – che storicamente è del tutto infondato – le prime istanze di tutela paesistica potevano collegarsi alla difesa dell’industria termale-balneare locale101, che si è detta essere particolarmente fiorente fino ai primi anni Sessanta.
Il risultato complessivo era la costruzione della “retorica dell’assedio”, come riproduzione di un discorso ideologico e mediatico che faceva leva su di un senso di accerchiamento, un sentimento di fragilità, precarietà e minaccia costante all’occupazione e al presidio democratico costituito dall’Italsider. Ciò non toglie che, in realtà, nei primi anni Sessanta i siderurgici fossero in costante espansione, così come la fabbrica stessa, e che l’accostamento fra protezionisti e speculatori edilizi fosse un costrutto mediatico del tutto infondato. Quindi, si può dire che le radici del divide lavoro-ambiente a Bagnoli affondino nella costruzione ideologica e mediatica di un’incompatibilità reciproca fra operai e difensori dell’ambiente.
Giunti ai primi anni Settanta ed alla più concreta minaccia posta dal PRG del 1972, la “retorica dell’assedio” non può che esasperare i toni di uno scontro che è già in essere da anni. Dato che la delocalizzazione diventa il perno della piattaforma ambientalista del quinquennio successivo, quel già diffuso sentimento di precarietà lavorativa si traduce ora in una posizione netta, “l’Italsider non si tocca”. Questo slogan, urlato in ogni assembramento dei caschi gialli, diventa il principale ostacolo ad ogni forma di dialogo con gli ambientalisti. Eppure, nei primi anni Settanta le occasioni non mancano, come si vedrà a breve.
L’igienismo e la Riforma Sanitaria di fronte all’ambientalismo scientifico dei primi anni Settanta
Prima occorre parlare della diffusione delle idee – il secondo ordine di fattori di cui sopra – in seno al movimento operaio, poiché l’incompatibilità politica e ideologica e l’eterogeneità tra i fini degli ambientalisti e dei caschi gialli di Bagnoli si traducono inizialmente in una certa reticenza di questi ultimi persino nell’utilizzare il termine “ecologia”. D’altro canto, il difficile dibattitosull’ecologia in seno al movimento operaio nazionale dei primi anni Settanta è un argomento molto caro alla storiografia odierna, quindi conviene soffermarvisi. Se il 1968 e l’autunno caldo restano “totalmente estranei” alla questione ecologica, negli anni immediatamente successivi il movimento operaio inizia a “convergere”102 su questi temi a partire dalle più recenti elaborazioni della questione degli ambienti di lavoro e dal dibattito sulla Riforma Sanitaria.
Partiamo dalla seconda. Sin dal congresso Cgil di Livorno, nel giugno 1969, si ipotizza l’assegnazione delle competenze in materia di medicina e igiene del lavoro alle Unità Sanitarie Locali (USL), cellule del futuro Servizio Sanitario Nazionale (SSN) da istituirsi in ambito comunale. Le USL dovrebbero costituire anche il trait d’union fra gli ambienti di lavoro e gli “ambienti di vita”, ovvero i territori impegnati dalle fabbriche, poiché potrebbero fornire il personale medico, i saperi, i servizi e gli strumenti utili ad applicare gli stessi paradigmi delle politiche di prevenzione per gli ambienti di lavoro alle politiche per il territorio103. Al contempo, naturalmente, le USL aiuterebbero a costruire un canale diretto fra la singola fabbrica e gli enti sanitari, che fin qui si sono detti essere l’anello debole della strategia sindacale di prevenzione in fabbrica, in specie nel Mezzogiorno.
Quindi, non sorprende che i caschi gialli dell’Italsider di Bagnoli partecipino subito e con convinzione al discorso sulla Riforma Sanitaria, con argomenti di questo tipo:
Le lotte della classe operaia sulle questioni dell’ambiente di lavoro rappresentano il punto di riferimento e la condizione attraverso la quale è stato possibile creare lo spazio per l’intervento dei tecnici e degli Enti locali e degli altri Enti competenti in materia di igiene e sicurezza. In questo senso la Riforma Sanitaria è già cominciata. Infatti, se la definizione e la rimozione del rischio è il problema centrale della lotta contro la malattia, esso è anche il problema centrale della medicina preventiva da attuare nei confronti dei cittadini (applicando lo stesso metodo alla ricerca dei rischi extra-lavorativi)104.
Detto in altri termini, c’è sicuramente una ragione strumentale di fondo, che si presenta in continuità coi primi richiami all’inquinamento fatti nel corso degli anni Sessanta (e di cui sopra), se i caschi gialli iniziano a pensare di trasferire le metodologie di prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza “all’esterno” della fabbrica, ma questa tensione è di più ampia portata.
Non deve, peraltro, sorprendere il fatto che nel 1969 il movimento operaio si soffermi sulle sole conseguenze igienico-sanitarie – la “lotta contro la malattia” e la “medicina preventiva” di cui sopra – nel ragionare sull’impatto della fabbrica su di un territorio. Di certo non si può affermare che le emergenti idee ecologiche si impongano da un momento all’altro sulle ben più solide lenti del paradigma igienista, peraltro convalidate dalla diffusione della metodologia sindacale di prevenzione.
Le idee, esperienze ed eventi del triennio 1971-1973 in Italia permettono di problematizzare in modo differente il discorso operaio, sindacale e della sinistra di classe sull’ecologia.
Due passaggi-chiave nel discorso sull’ecologia sono rappresentati dal convegno Pci Uomo natura e società e dalla pubblicazione del n. 28 dei “Quaderni di rassegna sindacale”, dedicato ad “ambiente di lavoro e riforma sanitaria”. Entrambi gli eventi sono del 1971. Il convegno organizzato dall’Istituto Gramsci, costola del Pci, nel novembre ‘71, è stato letto da Giorgio Nebbia – che vi partecipò come “figura ponte” col protezionismo di Italia Nostra e del Wwwf – come un passaggio essenziale alla sensibilizzazione della sinistra operaia, in quanto momento di rilettura in chiave ecologica del marxismo105. La storiografia odierna tende a rileggerlo come un confuso tentativo di assimilare la questione ecologica in un’ottica di classe106, comunque in grado di “aprire una parentesi” di discussione sull’ecologia che durerà perlomeno fino al 1977 quando, a causa del sostegno del Pci alla questione nucleare, neppure la nuova dottrina dell’austerità berlingueriana e la rinnovata attenzione alla fabbrica nel territorio riusciranno a ricucire lo strappo con l’associazionismo ambientalista e con la sinistra extra-parlamentare107. Su tutto questo si ritornerà in seguito, ma nel frattempo occorre ritornare al 1971 e rimarcare l’atteggiamento “ironico e condiscendente”, a sua volta mistificazione della “forte preoccupazione difensiva” che pervade il convegno Pci del 1971108.
Se il convegno è, insomma, un sintomo della più ampia “reazione” del movimento operaio all’emersione delle idee ecologiche e al radicamento delle associazioni protezioniste109, il n. 28 dei “Quaderni di rassegna sindacale” rappresenta la più immediata controffensiva. Il numero anticipa il convegno di alcuni mesi, poiché è pubblicato agli inizi del 1971, e accoglie un gran numero di contributi rilevantissimi ai nostri fini. Su tutti, forse, l’intervento di non altri che Gastone Marri, a detta del quale “la condizione operaia … ha dato pieno significato alla parola ecologia”. Se le condizioni di lavoro dell’operaio rivelano costantemente nuovi fattori di nocività per la salute umana, gli sviluppi del movimento sindacale hanno già dato vita sia ad una presa di coscienza, sia alle pratiche (la “non delega”, la “validazione consensuale”) necessarie a risolvere concretamente i problemi ambientali, anche all’esterno della fabbrica110.
Si può citare anche la posizione di Aldo Tespidi (Cgil), a detta del quale:
È molto importante portare [la lotta per l’ambiente di lavoro] all’esterno, ma all’esterno la lotta ci va se siamo riusciti a determinare all’interno della fabbrica una presa di coscienza che porti i lavoratori a lottare prima di tutto per la sanità dell’ambiente di lavoro111.
Oppure, ancora, l’opinione di Sergio Garavini (allora segretario nazionale della federazione dei tessili, la Filtea-Cgil):
Ecologia è diventata una parola di moda. Però è fin troppo facile prendersela con l’inquinamento dei laghi e dei fiumi … queste sono tutte cose a monte delle quali sta l’ambiente di lavoro e se si parte da qui tutto diventa anche più concreto, anche la questione degli scarichi industriali, perché la prima cosa che si deve cambiare è l’ambiente interno della fabbrica112.
La “controffensiva” di cui sopra è, insomma, tutta qui: nell’assimilare l’emergente questione ecologica alla piattaforma sindacale su salute e sicurezza in fabbrica e quindi risolverla, scientificamente, nell’igienismo; socialmente, nell’operaismo; economicamente, nell’industrialismo. La tutela della salute esce, così, dalla fabbrica, senza però metterne in discussione la centralità – sociale, politica e persino materiale – nel territorio113. Le problematiche ambientali di un territorio sono condensate nella fabbrica, discendono dalla fabbrica, si risolvono all’interno della fabbrica: politicamente, il solo movimento sindacale può guidare la mobilitazione sociale necessaria a preservare la salute e la sicurezza di operai e cittadini. Di “matrici” o “limiti allo sviluppo” non c’è ancora traccia, in un discorso sindacale tutto incentrato sulla “condizione operaia”.
È una differenza che va sottolineata esplicitamente poiché, se l’origine delle problematiche ambientali dei territori è ricercata dal movimento operaio all’interno delle fabbriche e confinata, perlopiù, alla sola materia sanitaria, non sorprende osservare come le tematiche ecologiche siano spesso affrontate in maniera a-problematica, sul piano scientifico, come ben segnalato da Giovanni Berlinguer nel 1973114. Ciò non toglie che, sul piano politico, il movimento operaio sia ora in grado di affiancare o di opporre all’associazionismo protezionista-ambientalista una propria narrazione sull’ambiente, che sia orientata dal citato “paradigma operaista”, che sia fondata sulla metodologia di prevenzione dei rischi in fabbrica e che sia legittimata dai primi successi della “stagione dei movimenti”115.
In conclusione va anche ricordato che, nell’orizzonte culturale della sinistra di classe, l’interiorizzazione delle idee ecologiche sia tutt’altro che un processo univoco. Come è noto, personalità come Laura Conti, Giorgio Nebbia e Giovanni Berlinguer contribuiscono fortemente agli sviluppi dell’ambientalismo scientifico, elaborando originali critiche ai modi di produzione capitalistici, al sistema politico vigente e al modo di fare scienza in nome dello sviluppo. Nel nostro caso, invece, il peso della tradizione igienista e del nuovo modello sindacale di prevenzione, ma soprattutto la radicalizzazione del conflitto con gli ambientalisti impediscono ai caschi gialli di Bagnoli di operare una convergenza su questi temi.
1973: la radicalizzazione dello scontro con gli ambientalisti
Ora, conviene verificare quanto detto nelle due sezioni precedenti, restringendo l’ambito dell’analisi a Bagnoli. La cesura periodizzante è il 1973. Dopo l’approvazione del nuovo Piano Regolatore, e nell’arco di pochi mesi, l’escalation del dibattito fra lavoratori e ambientalisti scava un divario difficilmente sanabile e che negli anni diverrà un elemento identitario nel gruppo dei caschi gialli di Bagnoli, pur a dispetto di alcune chiare occasioni di dialogo.
Due traiettorie fanno da sfondo a questo processo. La prima è una stagione di lotte per l’occupazione, lo sviluppo economico e la qualità della vita, che accomuna un gran numero di territori della regione campana e attraversa il triennio 1972-74. Come altrove in questi anni116, la “vertenza Campania” assume ampia portata, rafforzando i legami fra il Pci, le federazioni sindacali e il movimento studentesco. Nel nostro caso, è rilevante per due motivi: in primis, perché permette di portare avanti il tema della qualità della vita urbana, riaccendendo le tensioni già innescate dal primo dibattito sulla Riforma Sanitaria. Per inciso, di qui Diego Alhaique ha definito questa mobilitazione una “precorritrice del legame tra rivendicazioni tradizionali e rivendicazioni ambientali”117, nel movimento operaio meridionale. L’altra ragione per la quale la “vertenza Campania” è rilevante ai nostri fini è data dal ruolo svolto dai caschi gialli – che in questa occasione consolidano il prestigio guadagnato durante l’autunno caldo118 – e più in generale da Bagnoli, dove il Pci organizza efficacemente la rivendicazione per un miglior “ambiente di vita”. Va ricordato, ad esempio, l’operato una cellula prevalentemente femminile della sezione Pci di Bagnoli che, nel giugno 1973, mobilita migliaia di cittadini nella richiesta di nuovi servizi infrastrutturali e sanitari per il quartiere119.
L’altra traiettoria da richiamare è quella dell’epidemia di colera, scoppiata alla fine dell’estate del 1973 e che in pochi mesi provoca la morte di quindici cittadini. Al di là delle cause immediate, il colera rivela tutta la fragilità e l’inadeguatezza delle infrastrutture e dei servizi sanitari in città, sovraccaricati dal sovraffollamento e dal caos edilizio prodottosi nei due decenni trascorsi. Le risposte sono molteplici e non è questa la sede per ricordarle tutte, ma voglio soffermarmi su quelle che emergono dal basso, poiché la nascita di numerosi consigli di quartiere e la diffusione di lotte popolari ed altre forme di discussione dal basso contribuiscono alla diffusa politicizzazione delle questioni ambientali in città, e in specie del tema del rischio igienico-sanitario. Sul piano sociale, si tratta di un enorme movimento d’opinione che coinvolge i cittadini, la sinistra operaia, gli ambientalisti, i saperi esperti e le amministrazioni locali ed avrà una certa fortuna, sia nell’immediato, sia nel lungo termine, nel risolvere alcune problematiche urbane120.
Da parte sua, oltre a spalleggiare questo movimento di opinione, rivendicando ad esempio opere di “edilizia popolare, ospedaliera e scolastica” e “altre opere pubbliche (fogne, depuratori ecc…)”121, il movimento operaio chiede garanzie, indennità, cassintegrazioni e avviamenti professionali, in un contesto occupazionale reso più fragile dall’emergenza colerica. Va detto che la crisi occupazionale di questa congiuntura, certo amplificata dall’evento colera, non coinvolga l’industria ma i settori tradizionali dell’economia cittadina, ovvero pesca, turismo, piccolo artigianato e commercio. Ciò non toglie che, in una città con trecentomila disoccupati122, qualunque ostacolo ad un bacino occupazionale, nonché presidio democratico, come l’Italsider lancerebbe un segnale politicamente rischioso: è questo il messaggio che la federazione provinciale Cgil-Cisl-Uil affida ad un volantino diffusissimo in città, in settembre 1973, e indirizzato alla giunta comunale di centro-sinistra, ai cittadini ed alle associazioni ambientaliste.
In altri termini, i caschi gialli stanno iniziando a fare proprio il discorso sulla qualità della vita e sui rischi sanitari in città, saldandolo alle istanze di tutela occupazionale. Oltre alla presa del discorso nazionale su questi temi, in seno al movimento operaio, conta l’esigenza di reagire a quella che è la prima, vera offensiva ambientalista. Il mese precedente, l’Italsider aveva tentato un “colpo di mano”. Per aggirare i vincoli del nuovo Piano Regolatore e realizzare il tanto agognato nuovo reparto laminazione, l’azienda aveva prima presentato uno schema di variante, poi aveva tentato di mettere la pubblica amministrazione di fronte al fatto compiuto, realizzando abusivamente i primi lavori. Allertati da Italia Nostra, la magistratura e il Comune avevano ordinato, poche settimane prima della diffusione del volantino di cui sopra, la sospensione dei lavori abusivi123.
Questa prima vittoria degli ambientalisti e questa prima battuta d’arresto della, fin qui inarrestabile, espansione della fabbrica hanno un impatto politico profondissimo. Di qui in poi prendono avvio le più radicali forme di ostracismo – da parte dei caschi gialli e, per esteso, di una larga parte del movimento operaio e della sinistra di classe napoletana – nei confronti degli intellettuali e ambientalisti napoletani, che in alcune occasioni si traducono nell’apposizione dello stigma dell’elitismo, come nel caso di Elena Croce124; in altre, come capitato ad Antonio Iannello, persino nell’aggressione fisica125.
I canali di comunicazione fra i due “universi” politici si chiudono immediatamente. Ancora in estate 1973, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (Flm) provinciale riconosceva il ruolo positivo svolto dalle denunce di Italia Nostra, nel descrivere il degrado urbano e i rischi sanitari della zona di Bagnoli, oltre alla sua capacità di stimolare un intervento della pubblica amministrazione126. Si tratta, cronologicamente, dell’ultimo indizio di una convergenza mancata. Dopodiché, in seguito alla denuncia ambientalista dell’ampliamento abusivo, Italia Nostra entrava prepotentemente nel novero di quei “gruppi politici ed economici che puntano all’emarginazione delle industrie”127, ovvero gli “assedianti” dell’Italsider di Bagnoli.
Andrebbe anche aggiunto che Italia Nostra Napoli, e in specie Antonio Iannello, abbia piena consapevolezza della creazione di questo divario. Quando, in ottobre 1973, Iannello è eletto presidente della sezione napoletana, stravolge l’agenda dell’associazione sulla questione Italsider. La parola d’ordine non è più la “delocalizzazione”, ma la “riconversione” a manifatturiero prevista dal Piano Regolatore. Tutta l’area a caldo (ovvero gli altoforni, la cokeria e l’acciaieria) andrebbe sì delocalizzata nell’hinterland, in un’Area di Sviluppo Industriale, ma andrebbe compensata da più intense attività di laminazione a Bagnoli. In questo modo, sia la percentuale di occupati, sia il presidio democratico costituito – anche a suo dire – dai caschi gialli ne avrebbero giovato sia su scala locale, sia su scala regionale128. Inutile dire che la rimozione dell’area a caldo avrebbe anche rivoluzionato il rapporto con l’ambiente e il territorio napoletano, dato che la sola laminazione avrebbe avuto un impatto ambientale incomparabilmente inferiore. Certo, ci sarebbe da evidenziare il fatto che la delocalizzazione dell’area a caldo avrebbe devastato un altro ecosistema, con ogni probabilità a ridosso del fiume Volturno: ma se in questo momento Iannello dà priorità all’allontanamento delle industrie nocive da Napoli è perché anch’egli partecipa di una mentalità ancora fortemente igienista e difficilmente emancipabile dai successi delle politiche industrialiste e meridionaliste dei decenni trascorsi. Quindi, può imporre senza troppe remore l’assoluta priorità dell’allontanamento dell’industria di base da Napoli.
Ad ogni modo, tutta l’innovatività della linea tratteggiata da Iannello per Bagnoli è nel dare maggior peso alle conseguenze politiche, occupazionali ed ambientali della riconversione a manifatturiero. Il fatto che questa proposta non sia mai stata adeguatamente esaminata, né dal movimento operaio in quegli anni, né dalla storiografia che in vario modo ha recuperato la vulgata operaia129, testimonia di un’altra convergenza mancata. Peraltro, in prospettiva storica, quando, fra il 1976 e il 1977, gli esperti del Comitato Tecnico Consultivo per la siderurgia, chiamato ad esprimersi sulla sempre più grave crisi dello stabilimento di Bagnoli, dovranno fornire un’opinione sulle ipotesi di delocalizzazione nell’hinterland campano, certo affermeranno che ogni progetto di trasferimento sia ormai da scartare per i costi eccessivi, ma che “sarebbe apparsa agevole … negli anni Sessanta”130, invalidando l’opinione contraria a lungo sostenuta dai caschi gialli. Al pari, tra il 1976 e il 1977 si produrrà il primo, e pur minimalista, progetto di riconversione a manifatturiero del ciclo integrale siderurgico di Bagnoli, in un’iniziativa congiunta con l’Alfa Romeo131, ma non sarà che la prima di una serie di alternative manifatturiere sempre rifiutate dai caschi gialli e dai gruppi di potere egemonici in questo o quel momento storico: maggior peso avranno il consenso politico e le esigenze occupazionali contingenti.
L’ambiente di lavoro e l’ecologia nei primi anni Settanta, fra indagini e proposte metodologiche
Ricapitolando: giunti alla prima metà degli anni Settanta, il rapporto fra i caschi gialli di Bagnoli e l’ambiente pare dettato dalla rapida radicalizzazione di uno scontro politico, ideologico e mediatico con le associazioni ambientaliste; dalla maturazione di proposte politiche definibili come “territorialiste” e mirate al miglioramento della qualità della vita in città, tradotte nella partecipazione al dibattito nazionale sulla Riforma Sanitaria e alla risposta della cittadinanza napoletana al colera; dalla condivisione di un orizzonte di senso di matrice igienista e delle più avanzate proposte del modello sindacale di prevenzione, nel ragionare sui problemi dell’ambiente di lavoro; dall’assimilare all’orizzonte igienista anche la risposta ai problemi ambientali esterni alla fabbrica.
Prima di aggiungere l’ultimo tassello a questo quadro, ovvero il rapporto fra i caschi gialli e le tecnologie eco-ingegneristiche, conviene ritornare al discorso sull’ambiente di lavoro, per convalidare quanto detto sopra sulla sostanziale assimilazione del problema ecologico a quello igienico-sanitario.
Per assistere all’effettiva implementazione dei libretti e registri, sulla carta conquistati nel luglio 1968, bisogna attendere circa sette anni. Simile ritardo è da ricondursi alla scarsa disponibilità di esperti provenienti dagli enti sanitari e ai quali affidare la conduzione delle indagini; ed all’ostruzionismo dell’azienda, tutt’altro che impegnata o persino interessata ad una rapida risoluzione del problema. Il 1975 rappresenta, invece, il punto d’arrivo di un decennio di rivendicazioni sugli ambienti di lavoro. A quella data, le indagini hanno preso avvio ed una “Commissione Ambiente, Sicurezza ed Ecologia” è ormai incaricata della contrattazione a livello di stabilimento, sulla materia ambientale. Si tratta di sviluppi forse meno noti alla storiografia vigente e sui quali si possono azzardare alcune ipotesi.
I risultati appena citati discendono da un triennio, circa, di lotte che vanno a coincidere con la “vertenza Campania” 1972-74, di cui sopra. Nei primi del 1972 prende le mosse un’altra ampia vertenza, condivisa da tutte le sigle dei metalmeccanici e guidata dagli operai del gruppo Italsider, che si mettono alla testa dei colleghi di altri gruppi aziendali della Finsider132: si rivendicano nuovi mezzi di prevenzione, l’applicazione dello Statuto dei Lavoratori ed il controllo operaio dell’antinfortunistica133. Da parte sua, l’Italsider evita il confronto affidandosi alla propaganda o scaricando tutte le responsabilità sul presunto lassismo di enti pubblici come l’Enpi134. Ciononostante, in questa occasione la presidenza Iri e il Ministero del Lavoro assumono una posizione critica, invitando l’Italsider ad intensificare gli sforzi nell’antinfortunistica135. La rigidità dell’azienda ne risulta compromessa e non sorprende, quindi, rilevare una decisa radicalizzazione della piattaforma sindacale.
Ciò si traduce, ad esempio, nella proposta di abolizione dei comitati antinfortunistici paritetici, istituiti nel 1966, che non sono più considerati “validi strumenti di prevenzione in materia”. Si rivendica, in buona sostanza, la transizione delle competenze di controllo ai soli rappresentanti sindacali, quindi l’estromissione dell’azienda dai comitati antinfortunistici136. Oltre alla vertenza dei metalmeccanici, l’istituto dei comitati antinfortunistici subisce un ulteriore attacco verso la fine del ‘72, quando il contratto di categoria dei chimici riesce a consolidare la gestione sindacale della nocività attraverso l’istituzione di Commissioni ambiente (altrove “Commissione ecologia” o “Commissione ambiente, sicurezza e ecologia”), che prendono il posto dei Comitati antinfortunistici. Le Commissioni ambiente hanno il compito di garantire l’applicazione delle norme preventive in azienda, al pari dei loro predecessori, ma sono composte dai soli rappresentanti dei lavoratori137. Quindi, si può ben dire che queste vertenze nazionali assumano un carattere periodizzante nelle rivendicazioni sugli ambienti di lavoro in Italia138.
In tutto ciò si inserisce il caso bagnolese, con una certa visibilità perlomeno a partire dall’autunno 1972 e con una vertenza legata a filo doppio ai temi della “vertenza Campania”. In questo contesto, gli operai bagnolesi scelgono di assumere un controllo diretto della “gestione della salute in fabbrica” e riescono, nel clima di mobilitazione generale sui temi igienico-sanitari, a coinvolgere un gruppo di medici provinciali nella stesura di un rapporto sull’“idoneità” dei lavoratori rispetto alla posizione lavorativa occupata. Tale indagine, pur esplicitamente definita “parziale” e “in via di definizione” dai relatori, pare affermare che ben l’80% dei lavoratori Italsider di Bagnoli “non sia idoneo” al lavoro svolto. Detto in altri termini, che le condizioni ambientali della fabbrica non siano fisicamente tollerabili. Su queste basi, si rivendica una maggiore autonomia del Consiglio di Fabbrica, tanto nelle “decisioni operative” utili a risolvere le singole problematiche, quanto nell’apertura di specifiche vertenze per i singoli reparti139.
Un’altra tappa essenziale nelle conquiste dei caschi gialli in materia di ambienti di lavoro discende dalla vertenza sul nuovo CCNL metalmeccanici delle Partecipazioni Statali. È una vertenza che prende le mosse in autunno 1972 e trova un primo sbocco nel maggio 1973, ma saranno necessari altri sette mesi alla stesura del testo contrattuale. La conquista principale è l’”inquadramento unico” per tutti gli operai delle aziende siderurgiche e metalmeccaniche delle Pp. Ss, che sopra si è detto essere inscindibile dalla questione salute e sicurezza, dato il nuovo sistema di calcolo dei rischi. Soprattutto, all’art. 23, il contratto di categoria sancisce su scala nazionale le conquiste – a lungo ottenute, ma mai effettivamente implementate a Bagnoli – sui registri dei dati ambientali e biostatistici e sui libretti sanitari140.
L’ultimo passaggio da citare è un accordo di gruppo dell’aprile 1974141 che mette fine alla lunga mobilitazione dei caschi gialli di Bagnoli sugli ambienti di lavoro, avviata nel 1972. Sull’esempio del contratto dei chimici, i vecchi comitati antinfortunistici sono trasformati in Commissioni Ambiente, Sicurezza ed Ecologia, i cui delegati sono designati esclusivamente dalle rappresentanze sindacali e in teoria hanno competenze di controllo su tutte le politiche ambientali promosse dalla direzione, sia all’interno che all’esterno dello stabilimento e sin dalla fase di progettazione. Al pari, si prevede che in ogni stabilimento sia discusso con le RSA un programma di modifica degli impianti esistenti, in modo da individuare le criticità che stanno dietro la nocività degli ambienti di lavoro e l’ambiente esterno alla fabbrica.
Fra i due, è abbastanza evidente che l’attenzione di operai e sindacalisti ricada sui primi: già nella piattaforma rivendicativa presentata dalla FLM in autunno 1973, la questione dell’inquinamento esterno alla fabbrica è affrontata con una certa superficialità142. Anche nel testo dell’accordo di aprile 1974 tutta l’attenzione è rivolta alle indagini, dentro la fabbrica, per la stesura dei registri di dati ambientali e biostatistici. Una misura prevista dal CCNL del maggio ‘73, ma che i caschi gialli di Bagnoli attendono ormai da sei anni. Ora, in aprile 1974, finalmente l’azienda si impegna a fornire le attrezzature necessarie, a individuare gli esperti e a collaborare con le rappresentanze sindacali nella conduzione delle indagini. Per inciso, il fatto che, in questo momento, le indagini abbiano effettivamente avvio, testimonia della validità dell’ipotesi avanzata in precedenza, secondo la quale l’ostruzionismo dell’azienda frammenta ulteriormente il dialogo con gli enti sanitari, quindi non fa che alimentare i ritardi.
Ad ogni modo, le indagini prendono timidamente avvio in ottobre 1974 ed i risultati sono comunicati dalla Commissione Ambiente alla direzione e alle maestranze nel giugno 1975. A questa data, gli operai e i sindacalisti bagnolesi avrebbero raccolto il questionario di gruppo sui dati ambientali e biostatistici di un solo reparto della fabbrica (il reparto “W. Biro”)143. Per ora, non c’è traccia di un prosieguo. Per questa ragione, l’effettiva applicazione del modello sindacale di prevenzione all’Italsider di Bagnoli, nei primi anni Settanta, va attualmente interpretata come un’operazione dai risultati molto parziali.
Va certo detto che quella tentata dai caschi gialli fra il 1974 e il 1975 è un’operazione pioneristica, alla quale loro stessi danno il valore di “proposta metodologica”. In altri termini, se i risultati sono effettivamente deludenti, l’esperienza bagnolese spicca, piuttosto, per la raffinatezza dell’elaborazione teorica sul modello sindacale di prevenzione. Sul piano strettamente metodologico, il questionario di gruppo appena citato è infatti aggiornato ai più recenti dettami della “sequenza operativa”144, elaborata in questi mesi dal Crd e dall’Inca-Cgil: e del resto, Gastone Marri partecipa in prima persona ai seminari preparatori dei delegati bagnolesi145.
Il lessico adottato nella proposta metodologica della Commissione Ambiente di Bagnoli, invece, ha delle note spiccatamente ecologiste e non aderisce alla terminologia fin qui prescelta da una larga parte del movimento operaio nazionale nel riflettere sull’ecologia, né tantomeno si rispecchia nelle parole condivise da Marri, Oddone e altri, ad esempio nella dispensa del 1977146 – persino successiva all’evento Seveso – che sarà parte della più decisa svolta territorialista impressa dalla stagione della Riforma Sanitaria. Si faccia attenzione: per quanto detto sopra sul primo confronto con le idee ecologiche, non ci sono differenze sostanziali nel modo di intendere l’orizzonte sociale ed economico retrostante le politiche e le rivendicazioni ambientali dei caschi gialli, che in altre parole nel 1975 sono e restano operaisti e industrialisti come nel 1970. Né tantomeno i caschi gialli si riscoprono improvvisamente innamorati delle idee ecologiche per qualche contingenza improvvisa.
Non si possono però sottovalutare tutte le trasformazioni intercorse nel quinquennio evidenziato. In specie la stagione del colera, che cambia profondamente il clima culturale e politico in città147. Per cui è verosimile ipotizzare che di qui maturino, se non altro, delle più articolate reazioni al problema ecologico, da parte dei caschi gialli.
In questa occasione, si tratta di una messa in discussione dell’orizzonte scientifico igienista, fin qui inossidabilmente condiviso dai caschi gialli. La riflessione prodotta dalla Commissione Ambiente, infatti, va a porre sotto esame la categoria, prettamente igienista, di “salubrità” dell’ambiente di lavoro, ipotizzandone un superamento per mezzo del concetto di “idoneità”. A differenza della prima, l’idoneità non discenderebbe dalla sola interazione fra il lavoratore e la specifica sezione del ciclo produttivo occupata, ma dalla tipologia e dalla quantità di sostanze utilizzate e dalla natura e dal grado di aggiornamento delle tecnologie di processo adottate. Va detto che, seppur in nuce, si tratta degli stessi principi che renderanno, rispettivamente, la direttiva Seveso (1988) e la direttiva Integrated Pollution Prevention and Control (IPPC, 1996) degli spartiacque nella storia delle politiche ambientali europee per l’industria. Un sentore delle idee ecologiche si percepisce, nel lessico adottato dalla Commissione, anche nel discutere i “limiti” fisici del corpo del lavoratore, limiti che definiscono la materialità del ciclo produttivo, quindi diventano un parametro imprescindibile a valutarne la complessiva “idoneità”148.
Insomma, come si accennava, la raffinatezza dell’elaborazione teorica della Commissione Ambiente rende molto affascinante la proposta metodologica del 1975. Resta però da valutare l’ampiezza, la diffusione e la presa delle riflessioni della Commissione nel più ampio gruppo dei caschi gialli di Bagnoli e, soprattutto, la possibilità di applicare concretamente queste elaborazioni teoriche alle politiche non solo per l’ambiente di lavoro, ma anche per l’ambiente esterno alla fabbrica, come cartina al tornasole della maturazione e della condivisione di idee ecologiche. Si può già anticipare come l’operato dei caschi gialli costringa a definire estremamente parziale la portata di queste proposte.
La strumentalità dei filtri
Si è già fatto riferimento, in precedenza, alle prime rilevazioni sistematiche sullo stato dell’ambiente a Napoli e al fatto che si trattasse di perizie condotte nei primi anni Settanta e nell’ambito di processi civili contro l’Italsider di Bagnoli. Queste prime rilevazioni sono confermate e ampliate dalle successive indagini sulle matrici acqua e atmosfera, condotte dai tecnici e professionisti della Stazione Zoologica Anton Dohrn149, della Direzione Igiene e Sanità del Comune150, dell’Istituto Superiore di Sanità151, del Tribunale di Napoli152 e tanti altri. Va anche detto che, nel corso degli anni Settanta, ci siano pareri contrari, espressi dal Servizio ecologia di stabilimento, sull’atmosfera, e dall’Istituto d’Igiene della II Facoltà di Medicina e Chirurgia della Federico II, sulle acque153. Ad ogni modo, quando, su denuncia di Italia Nostra e dopo una fase istruttoria durata otto anni, nel 1979 la dirigenza di stabilimento Italsider sarà finalmente portata in un’aula di tribunale per rispondere del reato di inquinamento, tutti questi dati perderanno di valore a fronte di un più granitico criterio di giudizio: l’aggiornamento, apparentemente costante e ininterrotto, dei filtri e degli impianti di trattamento delle acque. Per questa ragione, in ultima istanza, “il fatto non costituisce reato”154.
Certo, nel decennio compreso fra fine anni Sessanta e fine anni Settanta (ma anche in seguito e perlomeno fino al 1986) si spendono decine di miliardi di lire ed è anche vero che, in alcune circostanze, si riescano ad abbattere determinati inquinanti (come polveri e azoto), ma esaminando i documenti in ordine cronologico vengono fuori troppe lacune. Posso, anzi, dire con certezza che l’Italsider non abbia mai coperto del tutto il proprio ciclo produttivo con gli impianti di mitigazione allora legalmente necessari, né abbia sempre utilizzato le più efficaci tecniche disponibili per l’epoca, né abbia effettivamente implementato tutti gli strumenti propagandati nei diversi momenti di contrattazione con gli organi pubblici, gli ambientalisti e/o le rappresentanze sindacali155. Nel complesso, le politiche di disinquinamento promosse dall’Italsider hanno un’efficacia molto parziale, come del resto confermato dall’eredità tossica che si sta scontando nel presente.
Ciò non toglie che, a partire da fine anni Sessanta, la sola promessa e propaganda di queste misure eco-ingegneristiche basti a creare consenso e a far accantonare persino la legge. In altre parole, la strumentalizzazione delle pur consistenti spese effettuate fa sì che in più occasioni il discorso politico prevalga su quello scientifico, sia nelle comunicazioni amministrative, sia nel dibattito pubblico. Per tre ragioni fondamentali.
La prima discende dalla difficoltà di accedere alle informazioni sulle opere di disinquinamento effettivamente adottate dall’azienda. Questo vale non solo per i contestatori, cittadini e ambientalisti, ma persino per i periti del tribunale chiamati a indagare a ridosso del processo del 1979 e ai quali è negato l’accesso alla fabbrica, se non in una fase molto avanzata del processo e a sentenza praticamente già scritta156.
La seconda è legata alla prima ed è nella connivenza di molti organi di controllo degli enti locali, quindi nella sostanziale benevolenza mostrata dalle – pur diversamente composite – giunte comunali e regionali nei confronti della dirigenza di stabilimento Italsider. Ciò è registrabile nel corso di tutta la parabola storica della fabbrica, discende dal nodo del consenso e dalle più ovvie ragioni occupazionali ed economiche, e in ultima istanza si traduce nella delegittimazione o persino nella rimozione dei (pur rari) pareri contrari espressi da organi tecnici ministeriali, quali il Provveditorato alle Opere Pubbliche157.
La terza – argomento specifico di questa sezione – è la comunione d’intenti che viene a crearsi fra il gruppo aziendale, la Regione, il Comune e i caschi gialli, le rappresentanze sindacali, i partiti della sinistra di classe e i loro riferimenti mediatici. Sinteticamente: fra azienda, pubbliche amministrazioni e “universo” operaio-sindacale. L’obiettivo politico contingente, condiviso dai tre “universi”, è il mantenimento in loco dell’Italsider di Bagnoli, attraverso l’approvazione di una variante al Piano Regolatore che si è detto “imposto” dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1972.
Il sensale del connubio è, invece, l’innovazione tecnologica, come strumento utile a costruire politicamente e mediaticamente l’“accettabilità” della presenza di un ciclo siderurgico integrale nel bel mezzo di una metropoli. Tutt’altro che una specificità di Bagnoli, l’alternativa fra “delocalizzazione o mitigazione” può farsi risalire persino all’assetto delle leggi sanitarie degli anni Trenta158, ma qui è significativa la continuità e la longevità con le quali si porta avanti una strategia politica di strumentalizzazione della tecnica.
Confrontando la parabola di Bagnoli alla casistica storica coeva – perlomeno per quanto riguarda la siderurgia italiana di questi anni – si può dire che una strumentalizzazione della tecnica di disinquinamento, come strategia politica di costruzione del consenso attorno alla presenza di una fabbrica di base in città possa essere condivisa dalla sinistra di classe e dagli operai siderurgici in alcune congiunture. A Cornigliano, già negli anni Sessanta pende una minaccia di delocalizzazione ma non è chiaro il nesso con la mobilitazione (di massa) di cittadini e operai per i primi filtri atmosferici, che di certo si risolve in una “sorta di compromesso tra accettazione del degrado e occupazione”159. A Taranto, intorno al 1973, l’opposizione comunale Pci e Psi fa pressioni sulla dirigenza Italsider per l’installazione di nuovi filtri, necessari anche ad allontanare una grave minaccia giudiziaria che coinvolge anche l’inquinamento160. Alla Falck di Sesto San Giovanni, per la Fim il miglioramento delle condizioni degli abitanti dell’adiacente villaggio operaio va legato alla conquista sindacale di impianti di depolverazione dentro la fabbrica, ottenuti nel 1973161.
Tornando a Napoli, questa strategia inizia ad essere pienamente condivisa dall’ “universo” operaio-sindacale in seguito alla radicalizzazione dello scontro con gli ambientalisti e alle più concrete minacce di delocalizzazione, quindi grossomodo dal 1973-74 in poi. In precedenza, l’Italsider e persino la passata gestione Ilva avevano implementato, nel corso dei decenni, un certo numero di tecnologie che potevano avere conseguenze positive sull’ambiente. Si trattava, perlopiù, di tecnologie utili a recuperare determinate risorse o sottoprodotti, quindi ad ottimizzare il ciclo produttivo. Di certo, perlomeno fino a metà anni Sessanta, non si parla di opere di “disinquinamento”. Dopodiché, la Società Italiana Impianti (dal 1971 parte integrante della società di engineering del gruppo Finsider, laItalimpianti) inizia a incaricarsi dei primi filtri e dei primi impianti di trattamento delle acque.
Fin qui, la posizione dei caschi gialli è relativamente disinteressata, ma non esclude posizioni critiche come queste:
A Bagnoli e in tutta la zona flegrea si cade malati e si muore più che in tutti gli altri quartieri della città. Nelle fabbriche i ritmi di lavoro sono disumani e l’aria che respira è estremamente nociva. I filtri che pure esistono presso l’Italsider … non sono utilizzati poiché i padroni considerano il loro impiego troppo costoso. In questo quartiere, senza né spazio verde né ospedali e povero di scuole, il fumo, le polveri ed i vapori provenienti dalle fabbriche sono la causa di malattie e di decessi162.
Queste parole, stampate e diffuse dalla sezione bagnolese del Pci e successivamente discusse in un convegnopromosso dalle sezioni locali del Pci, del Psiup e della Fgci, con la compartecipazione degli abitanti del quartiere, risalgono al 1971. Oltre al tema della nocività e della qualità della vita nel quartiere, c’è una chiara accusa, rivolta all’azienda, sul mancato utilizzo “degli strumenti tecnici capaci di eliminare smog, vapore e ogni nocività”163, ma è una accusa impossibile da comprovare senza il concorso dell’azienda stessa. Infatti, la si lascia presto cadere nel vuoto, cioè non appena la campagna di delegittimazione del paternalismo aziendale raggiunge i propri frutti, con la soluzione delle vertenze sul contratto collettivo e sugli ambienti di lavoro di cui si è parlato in precedenza.
Continuità maggiore ha, piuttosto, la comunione d’intenti con l’azienda in materia di disinquinamento. I caschi gialli partecipano per la prima volta al processo decisionale sulle politiche di disinquinamento nel 1973-74, ovvero nella fase vincente della medesima mobilitazione sugli ambienti di lavoro citata precedentemente. A riprova di quanto già detto sulla superficialità con la quale si affronta, in questa occasione, il tema dell’inquinamento, nel già citato accordo di aprile 1974 i caschi gialli non fanno altro che convalidare un piano aziendale preesistente, ovvero un investimento di sedici miliardi di lire già stanziati o lavori persino già realizzati, poiché resi urgenti dalla nuova normativa anti-inquinamento e dalle numerose denunce civili e penali pendenti164.
L’unica conquista autonoma, e di una certa importanza, è l’intervento sui campi di colata degli altoforni165, allora all’aria aperta e responsabili di una parte dell’inquinamento atmosferico e del suolo: nel corso degli anni sono progressivamente messi in sicurezza e automatizzati, ma conta rilevare anche il fatto che queste lavorazioni siano tra le più pericolose e nocive del ciclo siderurgico, poiché costringono l’operaio a lavorare a bordo di un pozzo di materiale incandescente, a respirare fumi di metallo e carbone (spesso gettato direttamente nella colata), ad affidare la propria incolumità ad una tuta d’amianto… Insomma, se i caschi gialli arrivano a richiedere un intervento su questi reparti è per problemi di salute e sicurezza, la cui soluzione ha certamente anche dei risvolti positivi sull’inquinamento atmosferico e del suolo.
Diventa, allora, importante segnalare il fatto che, in passato, parte della storiografia abbia frainteso ed esasperato il valore dell’accordo di aprile 1974, costruendo la narrazione per la quale i caschi gialli avrebbero, per primi, reso possibile l’intervento di disinquinamento all’Italsider di Bagnoli166. Anche sotto questo aspetto, la disponibilità di nuove tipologie di fonti e la metodologia della storia dell’ambiente – che per statuto disciplinare è più attenta alle relazioni fra i diversi attori sociali (l’uomo) e la natura – rende oggi possibile una messa in discussione, e magari un’autocritica, della vulgata operaista sulle politiche ambientali.
Valenzi e la ristrutturazione, fra crisi, processi e varianti
Del resto, quella vulgata è il prodotto di una fase storica alla quale non si è ancora accennato. Dopo l’elezione di Maurizio Valenzi alle amministrative di fine 1975, la solidità del fronte tripartito fra universo operaio-sindacale, pubbliche amministrazioni e azienda diventa inossidabile. Il sindaco comunista fa da perno della comunione d’intenti fra i tre universi ed assume un’importanza nodale nel network decisionale.
Sullo sfondo, fra il 1976 e il 1977, la situazione economica e finanziaria del gruppo Finsider sta diventando critica. Le conseguenze finanziarie del primo shock petrolifero del 1973 e la scarsa competitività della grande siderurgia pubblica – di fronte ai concorrenti europei, ai Paesi in via di sviluppo e alle emergenti piccole e medie imprese italiane – esasperano debiti preesistenti: nel caso di Bagnoli, al 1976 lo stabilimento macina cento miliardi di debiti ogni anno167. Come è noto168, Iri e Partecipazioni Statali costituiscono due Comitati Tecnici Consultivi (Ctc) sul mercato siderurgico e sulle “aree di perdita”. Fra queste ultime rientra ovviamente Bagnoli, cui è dedicato ampio spazio negli studi dei Ctc e nei due strumenti destinati a proporre ed approvare le possibili soluzioni, ovvero il cosiddetto “rapporto Armani”, pubblicato nel 1977, e il Piano per l’Industria Siderurgica varato dal Ministero dell’Industria nel 1979169. In estrema sintesi, il rapporto del 1977 e il Piano del 1979 convalidano l’idea per la quale la strada migliore per rilanciare Bagnoli consista in una modernizzazione degli impianti e in una ristrutturazione dello stabilimento, entrambe volte a potenziare determinate attività di laminazione a buon mercato, ma a tutto svantaggio del numero di occupati, che si ridurrebbe di circa millecinquecento addetti170.
Di qui, diventa estremamente delicato il lavoro di mediazione, fra azienda e caschi gialli, che il sindaco Valenzi è chiamato a svolgere: il rischio di un conflitto aperto è, anzi, risolto dal Comune non solo attraverso continui incontri con la Flm e la dirigenza Italsider, ma con dei passi rapidi e decisi verso la rimozione dei vincoli imposti dal Piano Regolatore del 1972, ovvero con l’approvazione di una nuova variante ed il pieno sostegno alle politiche ambientali dell’azienda171.
Di contro, di qui in poi si acuiscono ulteriormente sia la stigmatizzazione degli ambientalisti da parte dei caschi gialli172, sia la benevolenza degli organi di controllo nei confronti delle irregolarità commesse dall’azienda, sia, infine, la più ampia e condivisa strategia di strumentalizzazione della tecnica. Il punto d’arrivo di questa fase storica è il già citato processo penale a due dirigenti di stabilimento Italsider per inquinamento, del 1979. Rappresentanti della Flm, esponenti degli organi tecnici della pubblica amministrazione, assessori comunali e il sindaco stesso sono ora ascoltati come testimoni: nel corso delle udienze, tutti ribadiscono l’impegno del Comune e del sindacato nell’ottenere nuovi impianti di disinquinamento, confermando la “piena intesa” con i dirigenti aziendali173.
Anche di qui, come si è detto, discende l’esito del processo, ovvero l’assoluzione dei dirigenti di stabilimento, che è ovviamente percepito come un risultato positivo dalla maggior parte della stampa cittadina, dalle pubbliche amministrazioni e dai caschi gialli. Dato l’ampio consenso di cui gode il Pci a Bagnoli nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi Ottanta, si può dire che la maggior parte della cittadinanza aderisca a queste posizioni174, pur a dispetto di una crescente minoranza critica175. Ad ogni modo, una volta archiviata la minaccia del processo, si può procedere con maggiore serenità all’approvazione della variante al Piano Regolatore, quindi alla ristrutturazione della fabbrica.
La ristrutturazione e l’ambiente: una “tempesta perfetta”
Uno dei momenti più interessanti della storia del rapporto fra i caschi gialli e l’ambiente è il quinquennio, 1980-84 circa, in cui avvengono i lavori di ristrutturazione dello stabilimento Italsider. Prima e dopo la ristrutturazione, le politiche ambientali promosse dai caschi gialli di Bagnoli hanno un carattere prevalentemente strumentale, con la sola eccezione delle politiche per l’ambiente di lavoro: nel corso della ristrutturazione, invece, prevalgono quei filoni di intervento che più affondano non solo nei valori e negli obiettivi del movimento operaio, ma nelle più aggiornate elaborazioni sindacali dei metalmeccanici, nei nuovi cantieri dell’urbanistica promossa dall’amministrazione Valenzi e nei più recenti indirizzi programmatici del Partito Comunista nazionale.
Sin qui si possono già osservare i caratteri della “tempesta perfetta”: le politiche ambientali promosse durante la ristrutturazione sono l’esito di un combinato di contingenze straordinarie o path-dependant, che le condannano ad essere irripetibili nel percorso storico di Bagnoli. Del resto, a distanza di pochi anni dalla ristrutturazione inizierà la parabola declinante che porterà alla chiusura dello stabilimento, riporterà in auge la più pura strumentalità nelle politiche ambientali e preverrà ulteriori sviluppi nel discorso dei caschi gialli sull’ambiente.
Schematicamente e in via preliminare, si può dire che la straordinarietà della stagione della ristrutturazione di Bagnoli discenda dal combinato dei seguenti fattori storici: dall’intreccio fra la dottrina berlingueriana dell’austerità e la reazione delle politiche europee al secondo shock petrolifero del 1979; dalla piattaforma Fiom per la vertenza Italsider, del 1980, in grado di dare spazio a tensioni spiccatamente ecologiste; e dalla congiuntura del pre e post-terremoto dell’Irpinia del 1980, che a Napoli assiste all’emersione e all’affermazione di un rivoluzionario progetto di riforma urbanistica.
Altra premessa che va fatta è in realtà uno stimolo ad approfondire le diverse “dimensioni” in cui, oggi, può articolarsi il problema dell’impatto ambientale dell’industria nel territorio. Senza una chiara distinzione delle diverse dimensioni, diventa difficile fare chiarezza su cosa sia e cosa non sia assimilabile ad una “politica ambientale per l’industria”, in specie in congiunture straordinarie come questa. Il caso storico della ristrutturazione di Bagnoli chiama in causa quattro delle cinque – a mio avviso – dimensioni delle politiche ambientali per l’industria: il disinquinamento; il risparmio di materie prime ed energia; la tutela di salute e sicurezza dei lavoratori, per mezzo di interventi sul ciclo produttivo o ambiente di lavoro; ed il riequilibrio tra le funzioni territoriali coinvolte nel rapporto fabbrica-territorio. Per chiarezza, resta esclusa la sola dimensione della prevenzione degli incidenti rilevanti che, fortunatamente, nel caso storico dell’Italsider di Bagnoli ha un peso molto marginale. Senza neppure citare le dimensioni sovra-locali dell’impatto, su tutte la produzione di climalteranti.
Tornando ai tanti fattori retrostanti la ristrutturazione, è plausibile ipotizzare che l’austerità berlingueriana sia stato non solo un segnale di apertura del Pci all’ambientalismo176, ma un utile strumento di lettura, per alcune sigle sindacali, della nuova dottrina di “gestione razionale delle risorse”, promossa dal secondo Programma di Azione Ambientale europeo (1977-81)177. Questo discorso incrocia, storicamente, il secondo shock petrolifero globale del 1979 e, in Italia, sfocia nella prima regolamentazione dei consumi energetici e nel primo sostegno istituzionale alle fonti rinnovabili, la L. 308 del 29 maggio 1982. Nel frattempo, il tema ha modo di inserirsi nelle vertenze dei metalmeccanici, ancora una volta all’avanguardia dell’iniziativa sindacale sui temi ambientali178.
Una nuova vertenza di gruppo impegna l’Italsider tra la fine del 1979 e i primi del 1981. Principali argomenti di discussione tra sindacati e azienda sono i rispettivi margini di gestione dei piani di ristrutturazione degli stabilimenti di Bagnoli, Campi, Savona e Marghera, piani che l’azienda tende a monopolizzare. Per guadagnare maggiore spazio di manovra, la strategia sindacale fa leva, tra le altre cose, su due tematiche di natura ambientale. La prima ha a che fare con l’ambiente di lavoro: sotto questo aspetto, viene presto a riaccendersi la discussione su salute e sicurezza e sul concorso diretto del sindacato, necessario alla tutela dell’incolumità del lavoratore. Come nei primi anni Settanta, questi argomenti accomunano tecnici e professionisti provenienti da un gran numero di aziende, enti sanitari e di ricerca, operai e sindacalisti da tutta Italia, Flm napoletana inclusa179.
L’altra tematica ambientale è il risparmio di energia e materie prime, cui la Fiom nazionale dedica la maggior parte di un capitolo della piattaforma per la vertenza Italsider180. Da parte sua, la Fiom rivendica l’applicazione di una politica che tenda all’autosufficienza energetica dei centri siderurgici a ciclo integrale e ad un più razionale utilizzo delle risorse, che si dicono soggette a sprechi non irrilevanti. Per inciso, al 1980, l’Italsider copre il 4,8% del consumo energetico nazionale e il fabbisogno energetico annuo aziendale è pari a 832 miliardi di lire, ovvero il 30% delle spese di produzione, al netto dei ricavi181. Quindi, la Fiom richiede la formulazione di un piano per ogni stabilimento Italsider, in modo da individuare le operazioni più onerose sul piano energetico e progettare nuovi strumenti di recupero e riutilizzo di energia e sottoprodotti.
Nel caso di Bagnoli c’è anche un altro fattore che sospinge queste misure: nel 1980, la CEE richiede esplicitamente migliori margini di risparmio energetico, come condizione essenziale alla concessione della propria quota di finanziamento alla ristrutturazione dello stabilimento182. Ad ogni modo, le opere di risparmio energetico e di materie prime a Bagnoli si articolano in un lungo elenco di interventi realizzati, perlomeno fino al 1981, nei reparti agglomerazione, altoforni, acciaieria e laminazione. Nella maggior parte dei casi si tratta di modifiche alle tipologie di sostanze utilizzate, oppure dell’installazione di impianti di recupero183. Anche per l’ambiente di lavoro si completano i filtri di depolverazione interna nei reparti agglomerazione e altoforni e si sostituiscono lingottiere e forni a pozzo con sistemi ermetici ed automatizzati184. Ovvero, si realizzano gli interventi rivendicati come urgenti dai caschi gialli sin dal 1974.
Si tratta di una serie di soluzioni che, in vario modo, può avere risvolti utili anche in termini di disinquinamento. Il disinquinamento in sé e per sé è liquidato più rapidamente dalla piattaforma Fiom del 1980. Tuttavia, non si tratta di una sottovalutazione del problema, come pure ci si potrebbe aspettare subito dopo la chiusura positiva di un’indagine giudiziaria per inquinamento. Al contrario, la Fiom va dritta al sodo e individua nel nodo dei continui ritardi nell’implementazione di filtri e impianti di trattamento il passaggio nel quale far sentire il proprio peso: la strategia è quella di rivendicare la compartecipazione dei rappresentanti sindacali sin dalla prima fase di pianificazione e progettazione degli interventi ingegneristici. Il modello di riferimento della Fiom nazionale è la formula nipponica dell’autogestione, o Jishu Kanri (“partecipazione volontaria”)185.
Bagnoli testimonia della validità di questo esperimento, ma bisogna anche chiarire perché la Fiom riesca a ritagliarsi più ampi margini di partecipazione alla programmazione degli interventi di disinquinamento: in primis, lo fa sul finire della vertenza del 1980-81, in un clima di sostanziale accordo con l’azienda, che è quello che segue il processo penale del 1979 e che è destinato a chiudersi con le vertenze occupazionali degli anni successivi; in secondo luogo, la Fiom unisce gli obiettivi di disinquinamento a quelli di risparmio energetico e riutilizzo di materie prime, dai quali si attende un chiaro ritorno economico.
Oltre ad accelerare l’implementazione di un certo numero di filtri atmosferici, da tempo programmati, la compartecipazione sindacale alla progettazione delle opere ecologiche porta ad un risultato storico: la creazione di due grandi e moderni impianti di trattamento delle acque186, che avviene prima – e non in seguito, come fin qui da prassi – della costruzione dei nuovi reparti produttivi ai quali dovrebbero essere collegati. In questo caso, due colate continue e un treno nastri.
L’ultima dimensione del problema ambientale affrontata dalla ristrutturazione di Bagnoli ha a che fare con il riequilibrio territoriale e, sotto questo aspetto, l’incontro fra i piani aziendali, le iniziative comunali e le istanze dei caschi gialli è estremamente serena. Come si è detto, il tema è caro a molti operai Italsider – in specie se anche residenti in zona – ed è da tempo parte integrante dell’agenda della Riforma Sanitaria. Per inciso, andrebbe anche accennato al fatto che, a Napoli e in Campania, la Riforma del 1978 avrà un’applicazione molto parziale: ritardi e clientele dilateranno a dismisura i tempi di attivazione di molte Unità Sanitarie Locali, spesso prive di risorse e strumenti ancora al 1989187. Ad ogni modo, un altro percorso di sensibilizzazione può seguire il tracciato della più decisa transizione al territorialismo, nelle geografie culturali e politiche del movimento sindacale nazionale, che discende dalla dispensa Ambiente di lavoro. La fabbrica nel territorio dell’ottobre 1977, secondo la quale la fabbrica deve essere un presidio democratico, o imporre il proprio “carattere egemonico”188 alle altre funzioni territoriali, che dir si voglia.
Concretamente, i caschi gialli costruiscono con le proprie mani un parco attrezzato per i bambini del quartiere Fuorigrotta, nel 1979189. Nel dopo-terremoto dell’80 gli operai Italsider sono in prima linea nella risposta all’emergenza abitativa: se ogni giorno affiancano i residenti nella rivendicazione di nuove abitazioni, il loro lavoro è essenziale a rendere agibili strutture provvisorie come scuole e case abbandonate190. Oppure, ancora, i caschi gialli creano nei primi anni Ottanta due associazioni di volontariato sociale. E poi ci sarebbe da citare il Cral, il Comitato di donne per la difesa dell’Italsider e le tante altre iniziative che sembrano “costituire … un’unica realtà sociale che si aggrega attorno alla fabbrica”191.
Sul piano istituzionale, tutto questo incontra anche la straordinaria congiuntura dell’urbanistica riformista del pre e post-terremoto dell’80, animata dall’amministrazione comunista, da Vezio De Lucia e dai “Ragazzi” del Piano delle Periferie, grossomodo tra il 1979 e il 1984. La svolta è in una rinnovata concezione del territorio urbano come risorsa e non più terreno di conquista: le radici di questa nuova stagione affondano certamente nella cultura della sinistra di classe, ma in misura minore anche in quella della sinistra libertaria. Le crisi economiche di metà anni Settanta, il discorso berlingueriano sull’austerità, l’accento sul miglioramento della qualità della vita, in specie nelle zone industriali: tutto ciò si intreccia, nella mentalità della nuova generazione di urbanisti napoletani, alle denunce del degrado urbano, sociale ed ambientale reiterate da ambientalisti come Antonio Cederna e Antonio Iannello192. Di qui prende corpo il progetto di recupero e riqualificazione delle periferie napoletane, con studi su vivibilità, attrezzature, servizi, aree verdi e stato di degrado architettonico che confluiscono nel Piano delle Periferie del 1979 e trovano applicazione nel Piano Straordinario di Edilizia Residenziale (PSER), con legge 219 del 1981193. Alcuni ambiti dell’area occidentale sono inseriti, dal Piano delle Periferie, nelle aree di degrado e segnalati per il recupero, come nel caso della fascia costiera a nord dell’Italsider; altri per la riqualificazione, come il centro storico di Bagnoli e i rioni di Fuorigrotta adiacenti l’Italsider.
Contemporaneamente, dal 1979194 il Comune attiva delle commissioni paritetiche con l’Italsider, con lo scopo comune di “migliorare il rapporto tra città e fabbrica”195. Non è chiaro il ruolo svolto dai caschi gialli in queste commissioni, ma si può presumere che la Commissione Ambiente sia al corrente dei risultati. Ad ogni modo, le commissioni paritetiche si incaricano di garantire la compatibilità del centro siderurgico con l’ambiente circostante, attraverso una “operazione verde”. Si realizzano così delle fasce verdi di mitigazione, per una superficie boschiva che al momento della riapertura dello stabilimento, nel 1984, ha già raggiunto trentaduemila metri quadri, ma se ne prevede un’ulteriore espansione196.
Non è questa la sede per un bilancio dettagliato di tutte le misure fin qui citate, ma basti affermare, sinteticamente, che negli anni della ristrutturazione, 1981-84, saranno stanziati 80 miliardi in “ecologia”197.
Al momento della definitiva chiusura dello stabilimento, nel 1993, le aree verdi raggiungeranno i centottantamila metri quadrati. Certo, sarà meno della metà del totale previsto dal primo progetto Italsider198, ma si tratterà comunque di una straordinaria operazione di immagine, che assieme al revamping tutto d’azzurro delle facciate darà un nuovo volto alla fabbrica.
Le operazioni di risparmio energetico riusciranno a mitigare parzialmente le strozzature energetiche dello stabilimento fino alla fine degli anni Ottanta, finché non emergeranno criticità nell’organizzazione della manutenzione degli impianti e si verificherà un grave incendio nella centrale termoelettrica, che assieme metteranno in ginocchio l’approvvigionamento energetico dello stabilimento e, a detta della dirigenza, influiranno molto sulla definitiva chiusura dello stabilimento, in favore di una centralizzazione a Taranto199.
A sua volta, la ridotta efficacia della manutenzione sembra discendere dalla nuova stagione di conflitto tra azienda, maestranze e rappresentanze sindacali sui tagli, sulle competenze e sui quadri organizzativi: una stagione apertasi in seguito alla ristrutturazione200 e che rappresenterà il momento di massima spaccatura tra il sindacato e la base, sulla quale anche in seguito. Quindi, è difficile valutare l’efficacia degli ultimi interventi sugli ambienti di lavoro – perlopiù operazioni di automazione dei processi produttivi e dei sistemi di allarme – che avranno sicuramente un impatto positivo sulla sicurezza, ma saranno anche percepiti dai caschi gialli come una minaccia alla propria autonomia201.
Dal nodo del deterioramento della manutenzione discenderanno anche degli eventi inquinanti estremi, quali le “piogge metalliche” che si abbatteranno su Bagnoli e Posillipo nel 1986, come esito di blackouts e malfunzionamenti dei filtri atmosferici d’acciaieria202. Al di là di questi eventi, ancora al 1986 indagini provinciali e della Fondazione Pascale per lo studio e la cura dei tumori riveleranno continui sforamenti dei valori di legge per inquinanti atmosferici come piombo, azoto e ossido di carbonio, a Bagnoli e nel comprensorio occidentale della città203. Sul problema dell’inquinamento idrico ci sarebbe da aprire una parentesi più ampia, pensando anche alla sua eredità tossica ed al suo peso nelle odierne operazioni di bonifica: basti affermare che neppure i due grandi impianti di trattamento potranno eliminare le elevatissime concentrazioni di metalli pesanti, idrocarburi e composti organici accumulatesi nell’arco dei decenni. A metà anni Ottanta, queste sostanze saranno caratterizzate dall’Università di Napoli, dalla University of South Carolina e da un network di ricerca guidato dall’Enea204.
Nel complesso, si può dire che la ristrutturazione sia il punto più alto delle politiche ambientali promosse dall’Italsider di Bagnoli. Ed è altrettanto certo che la compartecipazione dell’“universo” operaio-sindacale – amministrazione municipale comunista inclusa – abbia reso possibile questo risultato. Le opere di risparmio energetico, le misure di sicurezza, le fasce verdi: è una mole inusitata di conquiste per l’ambiente, in un arco temporale così ristretto. La nota dolente è, come sempre, l’inquinamento: certo, si tenta di stabilizzare le emissioni, ma i pur utilissimi nuovi filtri e impianti non riescono a risolverne le premesse e neppure ad abbatterle entro limiti legali. Sul piano ecosistemico, è abbastanza evidente che sia ormai troppo tardi per prevenire un disastro ambientale.
Le convergenze mancate degli anni Ottanta
Oltre al rapporto fabbrica-ambiente-territorio, la ristrutturazione rivoluziona il gruppo dei caschi gialli. Dopo anni passati a lottare per l’occupazione e contro gli ambientalisti, in molti iniziano a rendersi conto del fatto che la battaglia per la ristrutturazione, pur necessaria a mantenere la fabbrica in attività, vada contro gli interessi di un gran numero di lavoratori.
Nel 1984, poco prima della prevista riapertura dello stabilimento, azienda e sindacato contrattano ulteriori tagli occupazionali, non condivisi dalla base: sullo sfondo c’è sia un’improvvisa richiesta della CEE di tagli produttivi alla siderurgia italiana, sia il “nuovo corso” aziendale di flessibilità gestionale, ovvero l’assegnazione di priorità all’economia di mercato205. Così, la vertenza Italsider si riapre fino agli accordi di maggio e luglio 1984 che, per Bagnoli, stabiliscono in quattromiladuecento il numero degli occupati e prevedono ulteriori e progressivi tagli per gli anni successivi, che accompagnino la chiusura di determinati reparti. Al momento della riapertura, lo stabilimento ha già perso duemila unità e ne perderà altre millequattrocento entro dicembre 1985206.
In luglio 1984, i caschi gialli ricorrono ad un referendum per approvare o meno queste misure e con il settanta per cento prevale il “sì”, pur a dispetto del boicottaggio del Consiglio di Fabbrica e di un nutrito gruppo di operai207. Nell’immediato, la riapertura e la sicurezza del posto di lavoro riescono ad imporsi sulle già notevoli divisioni interne ma, negli anni successivi, i continui tagli alimentano l’idea che il sindacato si sia “scollato” dalla base: al 1986 questa opinione risulta essere condivisa dal novanta per cento degli operai di un campione208. Peraltro anche a Bagnoli, come alla Montedison di Castellanza o nei gruppi Fiat e Alfa, l’“epurazione” coinvolge soprattutto gli operai più politicizzati209.
Tutto questo ci interessa, innanzitutto, perché ci permette di ragionare sulle ultime politiche di disinquinamento adottate dall’Italsider di Bagnoli, in quel 1986. È il sindacato a promuoverle, in pieno accordo con l’azienda e nel disinteresse generale delle maestranze. Il testo dell’accordo210 parla di un certo numero di filtri e di un innovativo sistema automatico di rilevamento delle emissioni atmosferiche211, quindi è impossibile non correlarle al DPCM 28 marzo 1983 e all’imposizione di nuovi limiti di emissione. E, contemporaneamente, ad una nuova minaccia giudiziaria, per la quale in gennaio 1985 il Tribunale di Napoli condanna l’Italsider all’indennizzo dei danni provocati dalle sue polveri grossolane, depositatesi sulle facciate delle abitazioni delle denuncianti212. Insomma, le misure adottate nel 1986 non solo non sono condivise dalle maestranze, ma non hanno nulla della tensione alla prevenzione che si era manifestata nel corso della ristrutturazione: sono le più classiche politiche reattive, necessarie a rispondere a minacce giudiziarie e a nuove imposizioni normative.
Quindi, la congiuntura che si apre dopo la ristrutturazione e la spaccatura tra vertici e base impediscono ai caschi gialli di raffinare la piattaforma ecologica che era emersa negli anni precedenti. Le politiche di disinquinamento per Bagnoli tornano ad essere pienamente strumentali e reattive.
Poi ci sarebbe anche da accennare al fatto che la spaccatura fra vertici e base – ma più in generale le battaglie di retroguardia di questi anni – abbia impedito alle più approfondite riflessioni della Cgil (in specie, la Fiom) e di Legambiente di fare presa sui lavoratori di Bagnoli. Anche questa è una convergenza mancata. Mi riferisco, rimandando a più approfondita riflessione, a quella che sembra essere la prima auto-critica sindacale sulla portata del divide ambiente/lavoro, che viene fuori dall’esame di traiettorie come Bagnoli, Montalto di Castro, Massa Carrara, Marghera, Cengio, Gela ed altre, che si sofferma in particolar modo sul tema inquinamento/disinquinamento e che trova degli echi nelle proposte Cgil di “riconversione a fini ambientali” dei grandi stabilimenti inquinanti213; oppure, nel rapporto organico di collaborazione siglato tra Fiom e Legambiente alla fine del 1989214, presto reiterato anche su base regionale in Campania215. Tutto questo non approda in una Bagnoli dilaniata al proprio interno e in picchiata verso la dismissione.
L’altra traiettoria di convergenza mancata cui bisogna accennare è la più matura riflessione sull’ambiente promossa dal Pci campano, in questi anni Ottanta. Alimentata dall’esterno e a più riprese da un esponente “eterodosso” di Italia Nostra, il politologo Ugo Leone216, va a intrecciarsi alla corrente “legalista”217 del Pci locale, da decenni votata al contrasto attivo all’abusivismo e al ripristino della legalità urbanistica. Sullo sfondo, c’è sempre da tenere in considerazione la reazione del Pci nazionale alla progressiva affermazione politica dei partiti Verdi, dal 1986 Federazione nazionale delle liste verdi218. Ad ogni modo, tutto questo si traduce non solo in una più raffinata agenda ambientale del Pci campano – in grado di recepire dall’urbanistica gli strumenti utili ad una partecipazione sostanziale del pubblico interessato nelle politiche ambientali – ma in una comunione d’intenti con Italia Nostra, Verdi e le tre federazioni sindacali, contro le distorsioni urbanistiche che si stanno producendo in questi anni in sede regionale219. Anche in questo caso, e sebbene l’Italsider di Bagnoli sia direttamente coinvolta220, i caschi gialli restano in disparte.
Dismissione e ambiente, attraverso il trauma della chiusura
Non è questa la sede per una disamina dettagliata della crisi e della dismissione dell’Italsider di Bagnoli e, del resto, le traiettorie sono ben note221. Basti ricordare la crisi della siderurgia occidentale e le richieste fatte all’Italia dalla CEE per continui tagli alle quote produttive di acciaio, da metà anni Ottanta in poi. Di qui, e dal nuovo corso neoliberista imposto dal Commissariato per l’Industria CEE a fine anni Ottanta, discende l’impossibilità per stabilimenti poco dinamici come Bagnoli sia di ristrutturare il proprio ciclo produttivo, sia di ricorrere ai sussidi pubblici. Va anche detto che lo stabilimento campano non sia semplicemente “condannato” all’obsolescenza e all’improduttività: alle spalle c’è un disegno aziendale di accentramento di tutte le produzioni a Taranto, che si rende manifesto in concomitanza col nuovo corso neoliberista della CEE, tra fine 1987 e il 1989222. La strenua resistenza dei caschi gialli e il sostegno altalenante dei governi a guida socialista riescono solo a ritardare l’inevitabile.
Nel dicembre 1990 chiude l’area a caldo e i caschi gialli si dimezzano: da tremiladuecento si passa a mille-quattrocentocinquanta addetti. Pochi mesi prima, l’80% delle maestranze aveva votato a favore di una chiusura anticipata dell’area a caldo, per accelerare la riconversione a polo di produzione della banda stagnata223. Con questa dimensione manifatturiera, l’Ilva di Bagnoli sopravvivrà fino al novembre 1993, quando la CEE imporrà la chiusura definitiva224.
Nel frattempo, sin dal 1986 si affollano progetti di terziarizzazione, promossi da potentissime cordate imprenditoriali: basti citare il progetto “Campi Flegrei”, sostenuto da Fiat, Eni, Iri-Italstat, col supporto delle Partecipazioni Statali, Regione Campania, Comuni di Pozzuoli e Napoli a guida socialista. Il progetto, che non avrà fortuna alcuna, arriva però a minacciare anche la linea di costa impegnata dall’Italsider, quindi il Pci regionale chiama a raccolta i caschi gialli contro le “più selvagge” logiche speculative225. Nel 1988, un’altra minaccia viene dall’Iri-Finmeccanica e da Aeritalia, attraverso un progetto di reindustrializzazione che prevede l’integrazione di Bagnoli nella filiera aerospaziale dell’hinterland napoletano. Se i sindacati sembrano perplessi per le poche garanzie occupazionali226, molti caschi gialli si dicono ostili per il supporto dato al progetto di reindustrializzazione da Italia Nostra e Verdi227.
Quindi, la tradizionale ostilità ideologica nei confronti degli ambientalisti, sebbene non sia più pervasiva come a metà anni Settanta, è tutt’altro che tramontata a fine anni Ottanta, così come la più longeva contrapposizione ai propositi di turistificazione e terziarizzazione della città e dello spazio della fabbrica.
Il trauma della chiusura apre i primi varchi, perlomeno nel rapporto con l’ambientalismo. Di fronte alla chiusura dell’area a caldo e all’ultima colata, il 20 ottobre 1990, alcuni caschi gialli, intervistati dalla Rai e dalle principali testate nazionali, sembrano individuare nel possibile miglioramento dello stato dell’ambiente e della salute di lavoratori e residenti un discorso utile a razionalizzare il trauma. C’è chi, tra gli operai della cokeria, ricorda con la più classica smokestack nostalgia228 il “mostro di fuoco” che ha fatto “ingoiare molta polvere nera”229. I più anziani, ormai pensionati, ricordano con commozione i compagni morti sul lavoro, nominandoli ad uno ad uno: uomini uccisi “dal fuoco, dal gas, dalle scariche elettriche, o precipitati da impalcature, o travolti da vagoni”. Un sindacalista, invece, si sofferma sulle misure ecologiche conquistate nel recente passato e che hanno reso l’Italsider “uno stabilimento all’avanguardia”230: non solo filtri e impianti di trattamento, ma decine di migliaia di metri quadrati di verde attrezzato e misure di sicurezza automatizzate. Altri sono ben consapevoli del trattamento riservato, nel recente passato, agli ecologisti e colgono l’occasione per fare autocritica. “Fino a qualche anno fa avevo i paraocchi”, afferma un operaio puteolano, e prosegue:
Difendevo lo stabilimento ad ogni costo. Oggi non ho difficolta ad ammettere che per il passato ho trattato con arroganza i verdi, che si battevano contro l’inquinamento a Bagnoli. Ora ho capito che i problemi del posto di lavoro e quelli della salvaguardia dell’ambiente hanno pari dignità231.
C’è chi, tra i leader storici dei caschi gialli, sceglie di identificarsi non più come “operaio”, né nel suo caso come esponente della Fiom, ma come “abitante di Napoli”, nel dire: muoia l’altoforno, ma Bagnoli continui a vivere.
Non serve chiedere e magari ottenere 120mila lire in più nella busta paga se si vive in un quartiere senza acqua, se le scuole chiudono due giorni a settimana per mancanza di aule, se i propri figli non hanno neanche un angolo di verde per giocare232.
Servizi e aree verdi, quartieri residenziali vivibili, attività ricreative, ma anche rioccupazione degli ex operai e nuove prospettive lavorative per i più giovani: tutto questo orienti la nuova piattaforma rivendicativa dei caschi gialli, in accordo con “imprenditori seri e capaci ed ambientalisti”. Che la sinistra di classe smetta di “giocare a fare la rivoluzione”233, ma sia sempre pronta a lottare e a scendere in piazza per raggiungere i suoi obiettivi. Questo il messaggio lanciato da Bagnoli, a suo dire.
Che dire, allora, dello spazio lasciato libero dall’area a caldo? Un altro leader storico dei caschi gialli non ha dubbi:
sia destinato a parco verde … a disposizione dei quarantamila abitanti di Bagnoli [che] non hanno un pezzo di verde234.
Opinioni come queste confermano che perlomeno una parte degli ex operai e dei duemila caschi gialli ancora attivi al 1993235 sia pronta ad accogliere la proposta politica e la riforma urbanistica promosse da un insider dell’universo operaio-sindacale napoletano come il neo-eletto sindaco Antonio Bassolino, che di qui ai primi anni Duemila si rende il principale artefice, assieme a Vezio De Lucia e al gruppo dei “Ragazzi” del Piano, sia del progetto di riconversione di Bagnoli in uno spazio dedicato “al verde, al sapere e al tempo libero”236, sia di un tentativo di ricomposizione della frattura culturale creatasi fra i caschi gialli e gli ambientalisti.
Certo, non si possono ignorare le occasioni in cui esponenti sindacali o di Rifondazione Comunista si sono posti in modo critico, nei confronti degli ambientalisti e dei progetti urbanistici della maggioranza comunale237. Ciononostante, se rispetto al recente passato molti ex operai e sindacalisti arrivano, nei primi anni Novanta, ad abbracciare progetti di bonifica e tutela, oppure recupero della balneazione238, il merito politico è indubbiamente della leadership e della prima stagione delle riforme urbanistiche bassoliniane. Tutt’oggi, e a dispetto del loro carattere divisivo, alcuni ex caschi gialli e, soprattutto, le loro figlie e i loro figli continuano a sostenere la validità di quella visione.
Conclusioni
A più di trent’anni di distanza dal primo progetto di bonifica, sarebbe assurdo ignorare il senso di abbandono e di disilluso fatalismo che aleggia su Bagnoli e sul recupero dell’area ex Italsider. A questi più comuni – ma qui così lungamente riprodottisi da poter essere peculiari – sintomi della ruination post-industriale239, occorre dare innanzitutto ascolto e, per farlo, bisogna provare ad inserirsi nell’orizzonte valoriale dei cittadini. Certo, in casi come il nostro quell’orizzonte può essere frammentato, contraddittorio e divisivo, ma una riduzione della complessità credo celi più rischi che opportunità.
Che dire, ad esempio, del vivace associazionismo che a Bagnoli riesce in qualche modo a “preservare” e a “rinnovare”240 l’eredità del movimento operaio? Adottando una prospettiva “dall’alto”, fare in modo che l’associazionismo possa partecipare tanto alla discussione specialistica, quanto al processo decisionale sul recupero ambientale e sulla riqualificazione dell’area dismessa dovrebbe costituire un momento chiave della ricostruzione di un rapporto di fiducia fra cittadini e istituzioni ed uno stimolo alla vita democratica dei quartieri occidentali. Su questo fronte, sebbene se ne discuta da decenni241, si è fatto troppo poco.
Peraltro, non si può negare che le criticità ecologiche della zona siano di un’entità e di una complessità tale da richiedere sia strumenti innovativi, sia informazioni costanti che – come l’esperienza del movimento sindacale per la prevenzione in fabbrica insegna – possono prodursi grazie all’intreccio fra saperi esperti e saperi esperienziali. Insomma, attraverso nuove forme di “validazione consensuale”, che oggi possono attingere sia al vasto patrimonio di esperienze di citizen science, in giro per il mondo242, sia alla sempre altissima attenzione del mondo accademico per il caso di Bagnoli. Forse persino troppa, a detta di molti attivisti, se paragonata ai risultati concreti: quindi anche l’accademia sconta, a Bagnoli, un certo deficit di fiducia e credibilità che va colmato.
Da parte sua, e in una prospettiva “dal basso”, l’associazionismo locale sembra spesso esprimere grande energia e consapevolezza della complessità della questione ambientale. Esperienze come l’Osservatorio Popolare, Villa Medusa, Lido Pola e Iskra coinvolgono saperi esperti ed affrontano, con prospettive spesso molto diverse o persino opposte, le conseguenze sociali, sanitarie, territoriali ed ecologiche dell’eredità tossica dell’industria. Ciò, naturalmente, non comporta automaticamente la partecipazione di una larga fetta della cittadinanza, quindi non elimina la possibilità che il citato senso di abbandono e il fatalismo possano riprodursi in opinioni contradditorie, sia sul piano scientifico sia nel modo di intendere il futuro del quartiere.
Su tutte, la questione della colmata: è noto, dal 2006, che la colmata sia una fonte attiva di contaminazione, per dilavamento di materiali inquinanti dal sottosuolo ai sedimenti costieri243. La scelta, recentissima244, di Invitalia e dell’amministrazione comunale di mantenerla lì dov’è mette in discussione la ricostituzione dell’ecosistema marino-costiero, il recupero della balneazione e l’integrità delle scelte paesistiche fatte nel piano urbanistico vigente. Al tempo stesso, non fa che alimentare il fatalismo di quella parte della cittadinanza secondo la quale la rimozione della colmata è un problema irrisolvibile e il recupero della linea di costa deve essere ottenuto a tutti i costi e più in fretta possibile. Quindi, è una modalità decisionale che fa leva sulle vulnerabilità della cittadinanza, piuttosto che comprenderne le potenzialità.
Per tutto quanto detto in precedenza, le potenzialità di Bagnoli e del comprensorio occidentale di Napoli, nel loro ragionare storicamente e autonomamente sulla questione ambientale, credo siano solo in parte correlabili al rapporto fra i caschi gialli e l’ambiente. Nel riflettere sui caratteri di quel rapporto, conviene recuperare quanto detto sulle diverse dimensioni del problema ambientale dell’industria. Uno spiccato territorialismo e la necessaria attenzione al problema della salute e sicurezza in fabbrica caratterizzano il loro modo di ragionare sull’ambiente: questi temi potrebbero aver lasciato delle tracce nel loro orizzonte valoriale, tanto da far percepire alcuni echi nelle mobilitazioni e nell’associazionismo odierno. Fin qui, niente di peculiare. In tanti altri contesti industriali ed ex industriali, il movimento operaio ha portato avanti un ragionamento autonomo sugli ambienti di lavoro e di vita.
Nel caso di Bagnoli, queste due dimensioni del problema ambientale diventano, direi già dai primi anni Sessanta, parte integrante dell’agenda politica dei caschi gialli. Delle due, maggior fortuna ha avuto il territorialismo, che si è riprodotto senza soluzione di continuità perlomeno fino al periodo bassoliniano. Al contrario, la rivendicazione operaia sull’ambiente di lavoro, come in altri contesti245, sembra scemare da metà anni Settanta in poi, complice anche il post-ristrutturazione, quindi l’automazione dei sistemi di sicurezza e la spaccatura fra i vertici sindacali e la base.
Nel complesso, per l’Italsider di Bagnoli si può parlare di “ambientalismo della classe operaia”? Non credo. Per due motivi. Il primo è di ordine politico ed ideologico. La contrapposizione agli ambientalisti è, per i caschi gialli, un elemento identitario. È molto difficile da scalfire, al punto che ancor oggi, in assemblee pubbliche, si possono sentire dei pareri denigratori, rivolti da anziani o giovani cittadini della zona a questa o quella associazione ecologista, che ricordano da vicino gli slogan del passato. Qui pesano discorsi e contrapposizioni mediatiche e ideologiche prodottesi e riprodottesi sin dagli anni Sessanta, oltre al sempre valido divide ambiente/lavoro, che si allarga sempre più a partire dai primi anni Settanta e si ripropone a fasi alterne, ma fino alla chiusura della fabbrica.
L’altro motivo ha a che fare con la dimensione scientifica dell’ecologia e con la risposta operaia ad un’altra dimensione dell’impatto ambientale dell’industria, l’inquinamento. Sicuramente, l’attenzione all’inquinamento da parte dei caschi gialli discende dalle tante minacce giudiziarie, dalla minaccia della delocalizzazione, dalla minaccia politica e mediatica posta dall’associazionismo ambientalista e dall’incontro/scontro con l’azienda che pure era mossa da tutte queste minacce ad affrontare il tema. Quindi, si può dire che sia una sensibilizzazione “di risposta”, quella che interessa l’inquinamento industriale. Concretamente, non può che produrre risposte politiche reattive, strumentali e per questo limitate: dell’inquinamento i caschi gialli possono accettare solo forme di mitigazione o compensazione, che nel lungo termine dimostreranno tutta la loro parzialità. L’obiettivo della prevenzione è inaccettabile, perché mette in discussione il posto di lavoro, in parte o in toto: in toto, qualora si parli di delocalizzazione; e in parte, qualora si parli di riconversione a manifatturiero o di altre forme di ristrutturazione del ciclo produttivo.
L’ultimo aspetto su cui vorrei soffermarmi è, allora, la più rumorosa dissonanza che si percepisce affrontando il caso storico del rapporto fra i caschi gialli e l’ambiente. Si è già detto della portata, tutto sommato limitata, delle conquiste in materia di salute e sicurezza in fabbrica: l’applicazione del modello sindacale di prevenzione si ferma a metà anni Settanta e lascia alle sue spalle un’eredità “monca”. Ecco, la dissonanza maggiore si percepisce quando si raffrontano i presupposti di quella stagione alle soluzioni effettivamente sostenute dai caschi gialli nell’affrontare il problema dell’inquinamento: prevenzione, rifiuto della monetizzazione e rifiuto della neutralità della tecnica contro compensazione territoriale o mitigazione per mezzo di filtri e impianti di trattamento.
Se i presupposti della stagione della stagione della prevenzione in fabbrica (e in parte anche del quinquennio della ristrutturazione) si fossero davvero solidificati nell’orizzonte valoriale dei caschi gialli, queste contraddizioni avrebbero prodotto una condizione schizofrenica, forse inaccettabile. Al contrario, la volatilità di quei momenti storici, che è a sua volta esito di alcune convergenze mancate, lascia spazio alla strumentalità, nei riguardi del tema dell’inquinamento. Forse, come pure si accennava, sarebbe invece utile recuperare l’eredità del movimento sindacale per la prevenzione in fabbrica, sia nel ragionare sul portato storico dell’inquinamento, sia nel proporre nuove soluzioni.
1 La bonifica a terra dell’area ex Italsider ha implicazioni dirette sui quartieri Bagnoli e Fuorigrotta. La bonifica dell’area marina antistante coinvolge indirettamente anche l’area flegrea, in specie i comuni di Pozzuoli, Bacoli e Monte di Procida.
2 Mi inserisco nel solco degli studi di storia ambientale dedicati alla città di Napoli, all’Italsider di Bagnoli e al divide ambiente/lavoro da Gabriella Corona e a partire dagli anni Novanta. Mi limito a citarne due: G. Corona, Activités humaines et ressources naturelles à Naples au XXème siècle. L’exemple du complexe industriel de Bagnoli, in C. Bernhardt, G. Massard-Guilbaud, Le démon moderne. La pollution dans les sociétés urbaines et industrielles d’Europe/ The modern Demon. Pollution in Urban and Industrial European Societies, Clermont Ferrand, Presses de l’UBP, 2002, pp. 351-76; G. Corona, I Ragazzi del Piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Roma, Donzelli, 2007.
3 Faccio riferimento al preziosissimo repertorio digitale dei documenti del Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro (Crd), custodito nel Repository della documentazione sindacale sulla prevenzione dei rischi e la salute e sicurezza sul lavoro (di seguito Rls), e accessibile tramite il portale digitale Inail. Faccio anche riferimento all’Archivio Storico Fiom-Cgil nazionale (di seguito ASFiom), conservato grazie al lavoro di Tommaso Cerusici presso la sede storica di Corso Trieste 36, Roma. Il fondo Antonio Iannello (di seguito IanCo), parte importante degli Archivi di Urbanistica del Comune di Napoli, tiene traccia dell’instancabile lavoro svolto dal presidente di Italia Nostra Napoli (1973-85), in seguito segretario nazionale (1985-90), nella tutela dei beni culturali e ambientali del Paese. Alcune serie degli Archivi Iri (di seguito ASIRI Nera e Rossa) e Intersind (di seguito ASIntersind), conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato, pure recano traccia delle vertenze operaie su salute e sicurezza, dentro e fuori la fabbrica bagnolese. Infine, i liberamente accessibili portali digitali de l’Unità e l’Avanti (di seguito PDUnità e PDAvanti) rendono estremamente agevole la triangolazione con le principali fonti mediatiche della sinistra di classe.
4 C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000.
5 Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il numero degli operai Ilva/Italsider passa da quattromilaseicento a oltre seimila. S. Di Liello, Ferropoli e il paesaggio occidentale di Napoli, in A.M. Oteri, G. Scamardì, Un paese ci vuole. Studi e prospettive per i centri abbandonati e in via di spopolamento, in “ArcHistoR” n.13, 2020, pp. 569-91.
6 S. Maglione, operaio Nuova Italsider,in F. Soverina, C’era una volta l’Ilva a Bagnoli, Napoli, Istituto campano per la storia della Resistenza, 2018, p. 16.
7 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute negli ambienti di lavoro (1961-1978), Università degli Studi di Firenze e Università degli Studi di Siena, dottorato di ricerca in Studi Storici, XXX Ciclo. Coord. Andrea Zorzi, tut. Simone Neri Serneri, 2017, pp. 29 e 56.
8 P. Pelizzari, Sviluppo e ambiente nel dibattito della sinistra, in “Italia Contemporanea”, LVIII, (2007), n. 247, pp. 254-6.
9 M. Ruzzenenti, Dossier 1970. Le radici operaie dell’ambientalismo italiano, in “altronovecento”, XXI, (2020), n. 43, pp. 2-5.
10 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica per l’indagine sugli Ambienti di Lavoro, 23.6.1975, p. 1. Rls, DO2285.
11 M. Ruzzenenti, Dossier 1970. Le radici operaie dell’ambientalismo italiano, cit., p. 5.
12 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica, cit., pp. 16-7.
13 F. Ricciardi, La giusta misura del lavoro. Igiene industriale e valutazione operaia nella siderurgia italiana tra anni Cinquanta e Settanta, in “Giornale di Storia Contemporanea”, XIX, (2016), n. 2, p. 143.
14 Ivi., pp. 134-49 e Causarano, P., «Il male che nuoce alla società di noi lavoratori». Il movimento dei delegati di fabbrica, la linea sindacale sulla prevenzione e i corsi 150 ore nell’Italia degli anni Settanta, in “Giornale di Storia Contemporanea”, XIX, (2016), n. 2, p. 69.
15 Ufficio Sindacale Fiom-Cgil, Sistema incentivo operai Italsider (1963), maggio 1963. Rls, DO611.
16 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati. Seduta pomeridiana del 12.9.1963, Discussioni. Interrogazione di Angelo Abenante e Gerardo Chiaromonte (PCI), Portale Digitale della Camera dei Deputati (in seguito PDCamera).
17 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica,cit., p. 1.
18 Ambiente di lavoro e riforma sanitaria, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, IX, (1971), n. 28, p. 101.
19 D. Alhaique, Il Centro ricerche e documentazione dei rischi e danni da lavoro (Crd), 1974-1985, in “Giornale di Storia Contemporanea”, XIX, (2016), n. 2, pp. 229-58.
20 M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia in Italia, 1968-1974, “I quaderni di Altronovecento”, 2017, n.8, p. 38.
21 Comitato di Fabbrica del CSI di Bagnoli, All’Italsider di lavoro si muore, volantino diffuso in ottobre 1965. Rls, DO1158.
22 Profonda emozione per la fine dei tre operai all’Italsider, in “l’Unità”, 28.4.1965.
23 Ieri a Bagnoli totale lo sciopero, in “l’Unità”, 29.4.1965.
24 Profonda emozione per la fine dei tre operai all’Italsider, in “l’Unità”, 28.4.1965.
25 Comitato di Fabbrica del CSI di Bagnoli, All’Italsider di lavoro si muore, volantino diffuso in ottobre 1965. Rls, DO1158, p. 3.
26 Ivi, p. 8.
27 Alla fine del ‘65, ad esempio, un’altra fuga di monossido di carbonio si verifica durante la riattivazione di un altoforno, provocando l’intossicazione di diciannove operai: in questo caso, la dirigenza scarica le responsabilità sull’ “assenza di vento”. Diciannove operai avvelenati all’Italsider per la fuoriuscita di ossido di carbonio, in “il Roma”, 13.11.1965.
28 In Tre operai uccisi dal gas all’Italsider di Bagnoli, articolo comparso in“l’Unità” del 28 aprile 1965, si accenna alla recente creazione di una sezione aziendale addetta ai problemi di sicurezza: oltre all’inefficacia, se ne sottolinea la presa di iniziative “di discutibile gusto”, quali il bando di un concorso fra i vari reparti che premi quello in grado di totalizzare il minor numero di infortuni.
29 Comitato di Fabbrica del CSI di Bagnoli, All’Italsider di lavoro si muore, volantino diffuso in ottobre 1965. Rls, DO1158, p. 4.
30 Comunicazione della società Italsider alle direzioni nazionali delle O.S.L., ASIRI Nera, DPL/435,1, 4.3.1966; Nota Intersind su Italsider-Bagnoli, ASIRI Nera, DPL/435,1, 18.3.1966; Nota informativa inviata dall’Intersind al Ministero del Lavoro, ASIRI Nera, DPL/435,1, 1.4.1966; Cisl/Fim, circolare su Trattative nazionali Italsider, ASIRI Nera, DPL 435,1, 24.6.1967; Italsider SpA, Comunicazione alle rappresentanze sindacali, 13.12.1972, ASIntersind, b. 97, fasc. 421.
31 G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano. Le molte identità di Bagnoli, in S. Adorno, S. Neri Serneri, Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, Bologna,Il Mulino, 2009, p. 195.
32 A. Belli, Il luogo e la fabbrica. L’impianto siderurgico di Bagnoli e l’espansione occidentale di Napoli, Napoli, Edizioni Graphotronic, 1991, pp. 106, 110, 126 e 164.
33 Ivi, pp. 77-143.
34 M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene. Bagnoli tra memoria e progetto, Napoli, La Città del Sole editrice, 2001, p. 66.
35 G. Corona, Activités humaines et ressources naturelles, cit., p. 360.
36 L. Brancaccio, Strategie del consenso politico a Bagnoli (1980-1992). La Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, in C. Marletti, Politica e società in Italia, vol. II, Milano, FrancoAngeli, 1999, p. 536
37 Si veda ad es. 19 copie di reclami, a firma di singoli abitanti di via Enrico Cocchia (civici 15 a 18), indirizzati a Italia Nostra, alla Pretura di Napoli, al Presidente del CTA del Provveditorato alle Oo. Pp. della Campania, al Procuratore della Repubblica di Napoli. 5.3.1979, IanCo 19lNa, e Lettera di diffida, firmata dalla famiglia De Ruggiero-Di Giovanni residente in via Cavalleggeri d’Aosta, alla Pretura di Napoli, al Presidente del CTA del Provveditorato alle Oo. Pp. della Campania, al Procuratore della Repubblica di Napoli. 5.3.1979, IanCo 19lNa.
38 L. Pirone, All’uscita della fabbrica, fra parchi e vecchi villaggi, in “Inchiostro”, VII (2007), n. 4, p. 10.
39 Si veda ad es. Migliaia dalle zone flegree, in “L’Unità”, 9.2.1974.
40 U. Leone, Una carica da disinnescare, in “Bollettino Periodico dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza”, Italsider. Una fabbrica, una città, VI, (1983), n.1, p. 75.
41 Nel 1960 i lavoratori Ilva sono 4500. Nel 1973 sono settemila i posti di lavoro, tra occupati diretti e ditte appaltatrici, garantiti dall’Italsider di Bagnoli. Dopo la ristrutturazione del 1980-84, i lavoratori si ridurranno a 4200, per poi contrarsi progressivamente nella lunga agonia della dismissione e fino al 1993. Gronchi inaugura a Bagnoli il quarto altoforno dell’ILVA, in “l’Unità” 21.4.1960; S. Di Liello, Ferropoli e il paesaggio occidentale di Napoli, cit., p. 582; F. Soverina, C’era una volta l’Ilva, cit., pp. 13-4.
42 Lettera di un gruppo di lavoratori Ilva residenti nell’area flegrea al direttore de “il Tempo”, in I lavoratori sollecitano l’ampliamento dell’Ilva, in “il Tempo”, 9.4.1961.
43 M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene, cit., p. 141.
44 I lavoratori sollecitano l’ampliamento dell’Ilva, in “il Tempo”, 9.4.1961; Va affrontato con criteri realistici il problema dell’ILVA di Bagnoli, in “il Tempo”, 28.5.1961; È una fortuna per i napoletani l’ampliamento dell’Italsider, in “il Tempo”, 19.8.1961; È stato firmato il documento per l’ampliamento dell’Italsider, in “il Tempo”, 16.11.1962.
45 Profonda emozione per la fine dei tre operai all’Italsider, in “l’Unità”, 28.4.1965.
46 Ibid.
47 Comitato di Fabbrica del CSI di Bagnoli, All’Italsider di lavoro si muore, volantino diffuso in ottobre 1965. Rls, DO1158, p. 8.
48 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, cit., p. 36.
49 Senato della Repubblica, Interrogazione a risposta scritta n. 4 – 1056, 30.11.1972. ASIntersind b. 97, fasc. 421.
50 La pubblicazione risale al 1964, ma sarà inserita nella seconda edizione dell’Enciclopedia Medica Italiana, del 1979 e una digitalizzazione del testo è disponibile al portale della Biblioteca Centrale dello Stato, collocazione: S. Sci, 610, E69/7.
51 E. Davigo, Il movimento italiano, cit., p. 16.
52 Su questa fortunata espressione Si veda P. P. Poggio, M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Milano, Jaca Book, 2020.
53 F. Soverina C’era una volta l’Ilva a Bagnoli, cit., p. 20.
54 F. Ricciardi, La giusta misura del lavoro, cit., p. 149.
55 Un comitato di partito per il gruppo Italsider, in “l’Unità”, 3.6.1967.
56 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, cit., p. 55.
57 Totale lo sciopero nei centri Italsider, in “l’Unità”, 30.12.1967.
58 Verbale di accordo Italsider di Bagnoli del 7 luglio 1968, Rls, DO2480.
59 Il 45% risultava iscritto al Pci ed il 72% alla Cgil. Tuttavia, va detto che il carattere spesso clientelare delle assunzioni permetteva che si affiancassero alla dominante cultura della Cgil delle componenti di “ribellismo”. L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, in Dalle Partecipazioni statali alle politiche industriali. Storie industriali e del lavoro, Roma, Meta Edizioni, 2003, p. 141; F. Soverina, C’era una volta l’Ilva, cit., p. 19, e G. P. Cella, V. Fortunato, Lavoro e culture sindacali nel Mezzogiorno, in L’Italia e le sue Regioni, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2015, p. 207.
60 F. Mazzuca, Il mare e la fornace. l’ILVA-Italsider sulla spiaggia di Bagnoli a Napoli, Roma, Ediesse, 1983, p. 79.
61 L’intensità dei ritmi di lavoro in questi anni emerge con chiarezza nella testimonianza orale di L.F., addetto in acciaieria dalla fine degli anni Sessanta: “[si lavorava] di notte … anche a Natale, a Capodanno, a Pasqua” per impedire la fermata del ciclo integrale. M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene, cit., p. 91.
62 All’Italsider ucciso un operaio dal vapore infuocato: è già il terzo che muore così, in “l’Unità”, 10.5.1968.
63 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica, cit.
64 P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori, cit., p. 61.
65 D. Alhaique, Lotte per la salute nel Mezzogiorno: un’indagine nell’archivio dell’ex Centro Ricerche e Documentazione dei rischi e danni da lavoro, CRD (1974-1985), in A. Conte, G. Ferrarese, Un bilanciamento difficile. Industria e ambiente dal Dopoguerra a oggi, Brienza, Le Penseur Edizioni, 2021, p. 97.
66 M. Ruzzenenti, Dossier 1970. Le radici operaie dell’ambientalismo italiano, cit., p. 19.
67 Sotto questo aspetto, un utile riferimento teorico del movimento sindacale è l’opera del sociologo del lavoro Georges Friedmann (1902-1977), della quale i sindacalisti italiani recuperano non solo la critica al taylorismo, ma alla presunta “neutralità” della tecnica. Si veda Ambiente di lavoro e riforma sanitaria, in “Quaderni di Rassegna Sindacale” IX, (gennaio-febbraio 1971), n. 28, in specie p. 170 e ss.
68 P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori, cit., p. 73.
69 Fra gli osservatori coevi, va citato l’intervento di Bruno Broglia (Fiom-Cgil) nel corso del VII Congresso Cgil di Livorno del giugno ‘69, nel quale si lodava la conquista bagnolese; si veda anche E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, cit., pp. 53 e 55.
70 Ma Si veda Accordi sugli ambienti di lavoro del gruppo Finsider nel 1968, Rls, DO 2471, per meglio comprendere come Bagnoli sia in relativo ritardo rispetto a numerosi stabilimenti settentrionali del gruppo Finsider.
71 Si veda ad es. Bruno Broglia (Fiom-Cgil), Lettera ai sindacati provinciali Fiom su Ricerca sulle condizioni ambientali, Roma, 6.11.1968. Rls, DO 517.
72 Si veda Redazione altronovecento, Luigi Mara (1939-2016). Le lotte per la salute e l’ambiente, in “altronovecento”, XVIII (2017), n. 31.
73 Appunti manoscritti (di Gastone Marri?) su Corso Cgil di Napoli del 12-13 dicembre 1968, Rls, DO2485.
74 Almeno cinque tra gennaio e aprile 1969, stando al Servizio Problemi del Lavoro. Si vedano i telegrammi in ASIRI Nera, DPL 435,1.
75 Verbale di accordo tra Intersind, Italsider di Bagnoli e le O.S.L., 12.6.1969, ASIRI Nera, DPL/435,1.
76 Gli operai rispondono all’Italsider, in “l’Unità”, 21.10.1969.
77 Napoli: i metallurgici rispondono all’attacco dell’azienda di Stato, in “l’Unità”, 22.10.1969; Vittoria operaia a Napoli. I cinque operai riassunti, in “l’Unità”, 25.10.1969.
78 La città bloccata dai 43mila metalmeccanici, in “l’Unità”, 4.10.1969.
79 Riuniti a Napoli gli operai comunisti del gruppo Italsider, in “l’Unità”, 9.11.1969.
80 “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.
81 F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit., p. 84.
82 Napoli, capitale operaia, in “l’Unità”, 27.1.1970.
83 CdF di Bagnoli, Libretto sanitario personale, s.d. ma post maggio 1970 per riferimento a Statuto dei Lavoratori. Rls, DO1205.
84 Un caso virtuoso è nel lavoro di informazione su problematiche ambientali svolto all’interno del CdZ metalmeccanici della Tiburtina, per il quale si veda M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., pp. 18-9.
85 Per la complessità di queste tensioni e i tanti intrecci con l’attività istituzionale fra il XIX e il XX secolo, non posso che rimandare a L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Trento, Tipolitografica Editrice, 2014.
86 G. Corona, Breve storia dell’ambiente in Italia, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 80-5 e M. Andretta, M. Diani, D. della Porta, Movimenti senza protesta? L’ambientalismo in Italia, Bologna,il Mulino, 2004, p. 13.
87 Su Antonio Iannello, Si veda F. Erbani, Vita di Antonio Iannello: difensore del Belpaese, in “Meridiana”, XI (1998), n. 31, pp. 101-135.
88 Su Lello Capaldo, Si veda http://notizie.comuni-italiani.it/foto/37100
89 Sulla storia di tutte queste associazioni, su alcune esemplari rivendicazioni e sul profilo dei protagonisti qui richiamati, in specie le sorelle Croce, Si veda A. Caputi, Storie di resistenza ambientale. La tutela di Napoli e della costa campana negli anni Settanta, Soveria Mannelli, Fondazione Biblioteca Benedetto Croce – Rubbettino Editore, 2022.
90 G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano, cit., p. 192 e “Il Foro Italiano” XCV e XCVII, 1972 e 1974.
91 Rispettivamente, la Legge 13.7.1966 n. 615o “legge antismog” e relativo regolamento d’esecuzione per l’attività industriali; e la circolare n. 105 del Ministero della Sanità del 2.7.1973, sulla qualità degli effluenti urbani ed industriali.
92 G. Corona, Industrialismo e ambiente urbano, cit.
93 R. Parisi, Tra acciaio e petrolio. Storia dello spazio urbano-industriale di Napoli (1945-1985), in “Italia Contemporanea”, n. 285 (2017), pp. 21-48.
94 Lettera del presidente del Collegio degli Ingegneri e degli Architetti di Napoli, in Ampliamento o trasferimento per gli stabilimenti dell’Ilva?, in “il Tempo”, 22.4.1961; lettera di “un gruppo di cittadini e lettori” residenti nel quartiere Fuorigrotta in Va affrontato con criteri realistici il problema dell’ILVA di Bagnoli, in “il Tempo”, 28.5.1961.
95 F. Erbani, Vita di Antonio Iannello, cit., p. 110.
96 Comune di Napoli, Prg 1972, Norme di Attuazione, art. 18.
97 F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit., in particolare i capitoli 7-10; Lettera al direttore del Tempo di un gruppo di lavoratori Ilvain I lavoratori sollecitano l’ampliamento dell’Ilva, in “il Tempo”, 9.4.1961; Va affrontato con criteri realistici il problema dell’ILVA di Bagnoli, in “il Tempo”, 28.5.1961; È una fortuna per i napoletani l’ampliamento dell’Italsider, in “il Tempo”, 19.8.1961; È stato firmato il documento per l’ampliamento dell’Italsider, in “il Tempo”, 16.11.1962.
98 L. Piccioni, Dossier 1970. Italia, anni Settanta: dal movimento di protezione della natura all’ambientalismo politico, in “altronovecento”, XXI, (2020), n. 43, pp. 6-7.
99 E risuonò l’antico lamento, in “il Roma”, 13.3.1979.
100 Si veda ad es. Si sono affrontati a Villa Pignatelli i fautori e i nemici dell’ampliamento dell’Ilva, in “il Roma”, 26.6.1961.
101 Si veda ad es. Le dimissioni di Majuri per il caso Ilva respinte all’unanimità dal consiglio dell’Ente Provinciale del Turismo, in “il Tempo”, 8.7.1961.
102 L. Piccioni, Paccino e Peccei: una relazione lasca col Sessantotto, in P. P. Poggio, C. Tombola, L’ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, Brescia, Fondazione Micheletti, 2019, pp. 203-205.
103 D. Alhaique, Lotte per la salute nel Mezzogiorno, cit., p. 99-100 e 105-6.
104 CdF di Bagnoli, in Libretto sanitario personale, cit.
105 G. Nebbia, Breve storia della contestazione ecologica, in “Quaderni di Storia Ecologica”, IV (1994), p. 26.
106 L. Piccioni, Dal movimento di protezione della natura all’ambientalismo politico, cit., p. 14.
107 M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., pp. 28-31, 37 e 62.
108 L. Piccioni, G. Nebbia, I Limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito, 1971-74, “I quaderni di altronovecento”, I (2011), pp. 28-31.
109 L. Piccioni, Dal movimento di protezione della natura all’ambientalismo politico, cit., pp. 11-2.
110 “Quaderni di Rassegna Sindacale”, n. 28, cit., 1971 p. 16.
111 Ivi, p. 6.
112 Ivi, p. 13.
113 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, cit., p. 65 e n. 184.
114 In La salute nelle fabbriche, citato in M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., pp. 19-20.
115 Sulla problematicità di questo nodo storico, si veda M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., p. 19, pp. 25-27 e p. 31 e G. Corona, Breve storia, cit., p. 83.
116 G. Ferrarese, La vertenza Basilicata: il sindacato lucano di fronte alla sfida per lo sviluppo regionale (1973-80), in “Meridiana”, XXXIV (2022), n. 105, pp. 161-184.
117 D. Alhaique, Lotte per la salute nel Mezzogiorno, cit., p. 106 e n. 35.
118 Migliaia dalle zone flegree, in “l’Unità”, 9.2.1974.
119 A Bagnoli firme contro il carovita e per i servizi, in “l’Unità”, 14.6.1973.
120 G. Corona, I Ragazzi del Piano, cit., pp. 51-2 e n. 16.
121 Federazione provinciale CGIL-CISL-UIL Napoli, volantino dal titolo Primi risultati immediati e concreti per i disoccupati e i lavoratori colpiti dalle conseguenze del colera, 28.9.1973, IanCo 72fNa.
122 Elaborazione su dati comunali in Lettera dei consigli di fabbrica dei lavoratori MobilOil Italiana di Napoli alla MobilOil Italiana, alla Regione Campania e al Comune di Napoli, 31.10.1975, IanCo 45bNa.
123 Stanziamento Finsider di 61 miliardi per potenziare l’Italsider a Bagnoli, in “l’Unità”, 3.6.1973; Comunicato di Italia Nostra Napoli e del WWF Campania, a firma di Antonio Iannello e Lello Capaldo, 10.8.1973, IanCo 26cNa; L’improbabile Napoli del duemila, in “il Paese Sera”, 7.9.1973.
124 E risuonò l’antico lamento, in “il Roma”, 13.3.1979.
125 F. Erbani, Vita di Antonio Iannello, cit., p. 115.
126 Italsider di Bagnoli, decisi nuovi stanziamenti, in “il Globo”, 16.11.1973.
127 50 licenziamenti in una ditta per il blocco dei lavori all’Italsider, in “l’Unità”.
128 Italia Nostra per una rapida attuazione del Piano Regolatore, in “il Mattino”, 25.10.1973; Comunicato di Italia Nostra, 16.11.1973, IanCo 91gNa; Dichiarazione di Antonio Iannello in qualità di presidente di Italia Nostra, 12.2.1974, IanCo 71cNa; Italia Nostra, Intervento del Presidente di Italia Nostra Napoli al convegno sull’assetto territoriale della Campania, tenuto al Cenacolo Serafico l’11 marzo 1974, 12.3.1974, IanCo 71cNa; Ampliando l’Italsider si ipoteca il futuro, in “il Roma”, 13.3.1974.
129 Mi riferisco principalmente a F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit.; in parte anche a A. Belli, Il luogo e la fabbrica, cit., e ad Italsider. Una fabbrica, una città, in “Bollettino Periodico dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza”, VI, (gennaio-febbraio 1983), n.1.
130 Relazione del Comitato Tecnico Consultivo IRI sulla evoluzione e sulle prospettive della siderurgia, 1.7.1977, ASIRI Bilanci, Serie Periodici Iri, in “Notizie IRI”, documentazione 187.
131 Gruppo di lavoro per l’area di Bagnoli, note su Temi da approfondire, 17 e 29.3.1977, ASIRI Nera, STU/252; Relazione del gruppo di lavoro per l’area di Bagnoli, maggio 1977, ASIRI Nera, STU/252.
132 Si veda b. 97, ASIntersind: l’intero fascicolo 421 porta traccia di mobilitazioni sull’ambiente di lavoro, in questi mesi, avvenute a Marghera, Cornigliano, Piombino, Taranto e negli stabilimenti minori del gruppo.
133 È aperta la vertenza nel gruppo Italsider per l’incolumità e la salute dei lavoratori, in “l’Unità”, 12.1.1972.
134 Italsider, Relazione sulla situazione antinfortunistica all’Italsider, 12 e 13.1.1972. ASIri Rossa, R222.
135 Fonogramma di Giuseppe Petrilli alla dirigenza Finsider, 26.1.1972, ASIRI Rossa, R222; Donat Cattin sugli infortuni all’Italsider, in “l’Unità”, 29.1.1972.
136 Fonogramma dell’Intersind di Genova all’Intersind centrale, 1.2.1972, ASIntersind, b.97, fasc.421.
137 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, p. 58.
138 P. Causarano, Il male che nuoce alla società di noi lavoratori, cit., p. 75.
139 La vertenza della Campania, in “l’Unità”, 3.1.1973.
140 Federazione Lavoratori Metalmeccanici, Contratto Nazionale di Lavoro. Addetti all’industria metalmeccanica a Partecipazione Statale, Roma, Edizioni Abete, 1973, pp. 59-60.
141 Verbale di accordo tra l’Intersind, i rappresentanti delle società Italsider e Acciaierie di Piombino e la FLM, con la partecipazione dei delegati delle aziende suddette, 11.4.1974, ASIRI Rossa, R222.
142 Si parla molto genericamente di “bonifica degli ambienti siderurgici”, cit. in Pronta la piattaforma per la vertenza Italsider, in “l’Avanti”, 30.11.1973.
143 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica, cit.
144 La nuova sequenza operativa diffusa dal Crd in gennaio 1975 si articola in dieci passaggi: presentazione e dialogo tra lavoratori e saperi esperti; identificazione dei gruppi omogenei; questionario d’indagine di gruppo; discussione assembleare, di gruppo o di stabilimento, del questionario; compilazione della scheda di dati ambientali; compilazione della scheda di dati biostatistici; confronto di ipotesi tra tecnici e lavoratori sui fattori di nocività e sulle visite mediche da effettuare; definizione dei MAC e discussione tra lavoratori e tecnici sulle misurazioni ambientali; effettiva costruzione e diffusione dei registri a livello di reparto o di fabbrica; effettiva costruzione dei libretti individuali. Ibid.
145 D. Alhaique, Lotte per la salute nel Mezzogiorno, cit., p. 107.
146 G. Briante, M. Chiattella, S. Gloria, G. Marri, I. Oddone, A. Re, Ambiente di lavoro. La fabbrica nel territorio, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1977.
147 Testimonianze efficacissime sono nell’intervista effettuata nell’ambito del progetto multimediale Ruvide, storie di lotte & lavoro, realizzato dall’archivio storico Spi-Cgil e dal Centro di giornalismo permanente. Si veda https://www.youtube.com/watch?v=wKs-FJbdnXs&list=PLcagdOFY269W0x3Yel oXYF0HDC0TMnch&index=4&ab_channel=RUVIDE-Storiedilotte%26lavoro
148 Consiglio di Fabbrica Italsider di Bagnoli. Comitato Ambiente, Sicurezza, Ecologia, Proposta Metodologica, cit., 23.6.1975, seconda parte su Riflessioni di merito, pp. 1-2.
149 Stazione Zoologica di Napoli, lettera all’Ing. Di Gioia, Presidente VI Sezione del Consiglio Superiore dei Ll. Pp., Napoli 17.4.1971. IanCo 99bNa.
150 G. Ortolani, B. Angelillo, L’inquinamento atmosferico nella città di Napoli: impostazione del problema, programmazione dei controlli, primi risultati attinenti alle polveri sedimentate raccolte durante l’anno 1973 e Considerazioni sull’inquinamento atmosferico, in “Archivio Monaldi”, XXX (marzo-aprile 1975), n. 2.
151 Istituto Superiore di Sanità, risposta a nota n.62103 del 20/11/1973 dell’Amministrazione Provinciale di Napoli, oggetto Richiesta di apparecchiature e personale per rilevamenti sull’inquinamento atmosferico, 29.7.1974. IanCo, 74fNa.
152 Pretura di Napoli, VII sezione penale, Perizia disposta dal pretore di Napoli G. Febbraro su Inquinamento atmosferico determinato dallo stabilimento Italsider – Centro Siderurgico di Bagnoli – Napoli. Periti: prof. Claudio Botrè, Isituto di Chimica farmaceutica e tossicologia, Università di Roma; prof. Marco Mascini, Istituto di Chimica Analitica, Università di Roma; dott. Marcello Ielmini, Servizio Corpo Chimico delle Miniere, Roma, 1977. IanCo 144eNa.
153 Sulla base di una convenzione fra Italsider e Istituto d’Igiene, che risale al 1971; la fondazione del Servizio ecologia di stabilimento risale invece al 1972. Italsider SPA, CSI di Bagnoli, Note sulla situazione ambientale della zona di Bagnoli, marzo 1979, IanCo 71cNa
154 Secondo il pretore Febbraro, l’Italsider non inquina, in “il Roma”, 7.11.1979.
155 Le fonti da citare sarebbero troppe, quindi mi limito a rimandare a un confronto fra le più esplicite: Società Italiana Impianti Spa, Direzione Ingegneria, Impianti per la prevenzione dell’inquinamento dell’acqua e dell’aria realizzati o in corso di realizzazione, maggio 1971. ASIRI Rossa, R637, fasc. IIIf; Italsider SPA, CSI di Bagnoli, Note sulla situazione ambientale della zona di Bagnoli, marzo 1979, IanCo 71cNa; Verbale di Accordo tra Nuova Italsider, FIM, FIOM, UILM e rappresentanze sindacali del CSI di Bagnoli, 8.5.1986, ASFiom 01s0702010123033.
156 Processo Italsider: il pretore controlla gli impianti anti-inquinamento, in “il Roma”, ottobre 1979.
157 Per tutti, vedasi il punto di arrivo di questa stagione di irregolarità amministrative, ovvero la Deliberazione n. 1731 della Giunta Regionale della Campania, Comune di Napoli – Variante al Prg, 17.3.1976. La delibera è revocata è riapprovata in due occasioni, il 9 e poi nuovamente il 21.4.1976.
158 S. Neri Serneri, Incorporare la natura. Storie ambientali del Novecento, Roma, Carocci, 2005, in particolare pp. 83-92.
159 R. Tolaini, Il peso dell’acciaio. Siderurgia e ambiente a Genova, in S. Adorno, S. Neri Serneri, Industria, ambiente e territorio, cit., p. 100.
160 S. Romeo, L’acciaio in fumo: L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Roma, Donzelli, 2019, pp. 152-3.
161 E. Davigo, Il movimento italiano per la tutela della salute, cit., p. 142.
162 Volantino della sezione locale del Pci, marzo 1971, in F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit., p. 149.
163 Ibid.
164 Direzione Centrale Italsider, Scheda da inoltrarsi al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, 28.9.1973. IanCo, 241iNa; Giunta Regionale della Campania, La questione Italsider, s.d. febbraio-marzo 1974, IanCo 158cNa; Trascrizione di un intervento pubblico di Antonio Iannello, 9.2.1974, IanCo 158dNa; Direzione Centrale Italsider, I programmi del gruppo Finsider, s.d. 1976. IanCo 241iNa.
165 Trenta miliardi di investimenti per l’Italsider, in “l’Avvenire”, 1973, ASIntersind, b. 97; L’Italsider sotto accusa, in “il Roma”, 21.3.1974 e Italsider SPA, CSI di Bagnoli, Note sulla situazione ambientale della zona di Bagnoli, allegato n.1: Stato degli interventi sulle emissioni atmosferiche, 16.3.1979, IanCo 71cNa.
166 Floriana Mazzuca definisce l’accordo del 1974 la “prima definizione puntuale” della questione ecologica e legge l’investimento aziendale di 16 miliardi in misure di disinquinamento come una conquista puramente sindacale, laddove è evidente che si tratti di una riproposizione di investimenti già previsti dall’azienda. F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit., pp. 150-2. Anche Attilio Belli esaspera il valore storico dell’accordo sindacale, ponendolo all’origine del primo intervento anti-inquinamento operato all’Italsider di Bagnoli, ma ignorando i precedenti. A. Belli, Il luogo e la fabbrica, cit.,p. 193.
167 Bagnoli, Gioia Tauro e la riconversione industriale, in “Punto Fermo”, 5-20.9.1976, IanCo 45aNa.
168 S. Romeo, L’acciaio in fumo, cit., pp. 172-8.
169 S. Romeo, tesi di dottorato dal titolo: La siderurgia pubblica italiana nel mercato comune europeo (1956-1995). Dottorato di ricerca in Storia Economica, XXVI Ciclo. Dipartimento di Scienze Economiche. Scuola di dottorato di Economia, via Portale dell’Università degli Studi Verona, pp. 173-5.
170 Relazione del Comitato Tecnico Consultivo IRI sulla evoluzione e sulle prospettive della siderurgia, 1.7.1977, ASIRI Bilanci, Serie Periodici Iri, in “Notizie IRI”, documentazione 187; Relazione del gruppo di lavoro per l’area di Bagnoli, maggio 1977, ASIRI Nera, STU/252.
171 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati. VII Legislatura, discussioni. Seduta del 2.12.1977, e Petrilli è disposto a discutere col Comune il futuro di Bagnoli, in “l’Unità”, dicembre 1977; Italsider: incontro Puri-giunta comunale, in “l’Unità”, 23.11.1978.
172 Altrove, il deterioramento del rapporto fra ambientalisti e Pci dipende dal sostegno comunista al potenziamento del nucleare prevista dal Piano Energetico Nazionale del 1975. M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., p. 37.
173 L’Italsider è un’industria inquinante?, in “il Mattino”, 3.4.1979, IanCo 45aNa; Italsider: 415 miliardi per risanare Bagnoli, in “il Mattino”, 23.5.1979; Valenzi e Balzano ascoltati sulla vicenda Italsider, in “il Paese Sera”, 27.5.1979. Una testimonianza d’eccezione in tal senso è fornita da Valenzi anche a distanza di alcuni anni, nella prefazione alla più volte citata monografia storica di Floriana Mazzuca del 1983, dove afferma: “la collaborazione [tra il Comune e la direzione del CSI di Bagnoli] è stata sempre possibile, [come] in occasione del processo all’ingegner Parodi”, citato in F. Mazzuca, Il mare e la fornace, cit., pp. 14-5.
174 Tra il 1976 e il 1983 le percentuali di voto a Bagnoli oscillano tra il 45 e il 52% a favore del Pci. L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, cit., p. 142.
175 Alla data del processo, pare siano almeno trecento i cittadini firmatari di esposti e denunce contro l’Italsider, stando a Esposto dei cittadini di Coroglio, Bagnoli, Cavalleggeri d’Aosta, rione Cocchia al Procuratore Generale della Repubblica di Napoli e alla VII sezione della Pretura di Napoli, s.d. ma 1979, IanCo 19lNa.
176 M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., p. 37.
177 L. Scichilone, L’Europa e la sfida ecologica. Storia della politica ambientale europea (1969-1998), Bologna, il Mulino, 2008, pp. 115 e ss.
178 M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., p. 62.
179 Si veda la ricerca Fattori di rischio nell’industria siderurgica, risultato della collaborazione tra i delegati della Falck, Breda e Dalmine Italsider, i medici dell’ambiente di lavoro di Sesto San Giovanni e Trieste, e la facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, cit. in Nell’antro buio dell’acciaieria, in “l’Unità” 3.10.1979, e Preoccupazioni a Bagnoli, il sì CEE non convince, in “l’Unità”, 17.11.1979.
180 Fiom-Cgil nazionale, Piattaforma gruppo Italsider. B: risparmio energetico e disinquinamento ambientale, 1980, ASFiom, 01s0703021024. Per inciso, nel lessico della piattaforma non si distingue chiaramente tra “risparmio energetico” e “riutilizzo di materie prime”, spesso utilizzati come sinonimi.
181 Fiom Nazionale, Nota su Italsider. Ecologia e disinquinamento ambientale, 1981, ASFiom, 01s0703021024.
182 La ristrutturazione di Bagnoli adesso non è più un miraggio, in “il Mattino”, 15.3.1980.
183 Interventi analoghi interessano gli stabilimenti di Cornigliano, Campi, Lovere, Trieste e Taranto. Fiom Nazionale, Nota su Italsider. Ecologia e disinquinamento ambientale, 1981, Fiom01s0703021024 e CIPE, Ammissione di progetti dimostrativi ai contributi ex. Art. 11 L. 308/82, Roma, 31.7.1986 (Portale digitale CIPE); R. Tolaini, Il peso dell’acciaio. Siderurgia e ambiente a Genova, cit., pp. 102-4.
184 Nuova Italsider, SpA, Gruppo Iri-Finsider, Bagnoli ‘84. Documentario, regia di Luigi Bontà Polito. Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Min. 14:00-14:45. Liberamente consultabile online all’indirizzo: http://patrimonio.aamod.it/ Ultima consultazione, 27/06/2022.
185 Sulla traiettoria storica del Jishu Kanri in siderurgia, e sulla loro efficacia in termini di performances ambientali, vedasi K. Yoneyama, Innovation and Jishu Kanri Activities in the Japanese Steel Industry, in “Economic Journal of Hokkaido University”, XXIV (1995), pp. 25-58.
186 In seguito a finanziamento Isveimer del febbraio 1981 e per una spesa complessiva di circa 1,6 miliardi di lire. Aset, Voce di spesa n.08 del 02/02/1981, PDAset; Fiom-Cgil, CSI di Bagnoli, Nota di sintesi sulle attività previste nel 1980 per il piano di ristrutturazione del Centro Siderurgico di Bagnoli, dicembre 1979, ASFiom 01s0703021024 e M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene, cit., p. 142.
187 Regione Campania, Legge Regionale 9.6.1980, n. 57, Norme per la costituzione ed il funzionamento delle unità sanitarie locali in attuazione della legge 23.12.1978, n. 833, in “Bollettino Ufficiale della Regione Campania” n. 35 del 19.6.1980; Camera dei Deputati, Atti parlamentari. Interrogazione a risposta scritta 4/13931 presentata da Mario Gatto in data 26.9.1995. PDCamera.
188 I. Oddone et al., La fabbrica nel territorio, cit., p. 112.
189 A. Delmonaco Presenza Italsider nel tessuto sociale, in Italsider. Una fabbrica, una città, cit., pp. 78-85.
190 Si veda ad es. la testimonianza di Vincenzo Iorio in M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene, cit., pp. 75-6.
191 L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, cit., pp. 142-3.
192 G. Corona, I Ragazzi del Piano, cit., in specie pp. 63-8, 105, 126 e 129.
193 Ivi, in specie pp. VIII, 4-6, 40, 130-1.
194 Italsider: 415 miliardi per risanare Bagnoli, in “il Mattino”, 23.5.1979.
195 Quando il sindaco, come un messo, porta la Variante, in “il Paese Sera”, 22.1.1980.
196 Direzione Nuova Italsider, SpA, Gruppo Iri-Finsider, CSI di Bagnoli. Bagnoli ‘84. Documentario, regia di Luigi Bontà Polito. Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Liberamente consultabile online all’indirizzo: http://patrimonio.aamod.it/ Ultima consultazione, 27/06/2022. Min. 6:40-7:20.
197 U. Leone, Una carica da disinnescare, cit., p. 74.
198 Ilva SpA, Piano di recupero ambientale dell’area industriale di Bagnoli. Progetto delle operazioni tecniche di bonifica dei siti industriali dismessi nella zona ad elevato rischio ambientale dell’area di crisi produttiva ed occupazionale di Bagnoli, novembre 1994, IanCo 185aNa.
199 Fiamme all’Italsider, in “il Mattino”, 24.5.1988, e rapporto Ilva su CSI di Bagnoli, citato in Taranto batte Bagnoli, in “il Sole 24 Ore”, 19.1.1989.
200 C’era il rischio di esplosioni a catena, in “la Repubblica”, 6.11.1984 e Atti Parlamentari, Camera dei Deputati. IX Legislatura, Discussioni. Seduta del 17.4.1985, PDCamera.
201 Si veda ad es. l’indagine in fabbrica condotta tra il 1986 e il 1987 dall’Istituto di Studi e Ricerche Sociali, citato in Ah, l’acciaio di un tempo!, in “il Manifesto”, 23.12.1987.
202 Atti Parlamentari, IX Legislatura, Discussioni, Seduta del 30.9.1986, Interrogazione a risposta scritta 4/17330 presentata da Parlato e Manna (MSI/DN), PDCamera.
203 E Napoli rischia di morire soffocata dall’inquinamento, in “la Repubblica”, 15.11.1986.
204 S. De Rosa et al., A case study: Bay of Pozzuoli (Gulf of Naples, Italy), in “Hydrobiologia”, CXLIX (giugno 1987), n. 1, pp. 201-11 e G. Nardi, W.E. Sharp, A study of the heavy-metal pollution in the bottom sediments at Porto Di Bagnoli (Naples), Italy, in “Journal of Geochemical Exploration”, XXIX (1987), n. 1-3, pp. 31-48.
205 Si veda Commissioni Riunite, V Bilancio e programmazione-Partecipazioni statali e XII Industria, commercio e artigianato, 28.9.1983, PDCamera
206 F. Soverina, C’era una volta l’Ilva a Bagnoli, cit., pp. 13-4.
207 Italsider, Flm e Cdf verso un piano comune, in “il Mattino”, 23.6.1984, e M. Albrizio, M. A. Selvaggio, Vivevamo con le sirene, cit., p. 101.
208 L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, cit., p. 142.
209 Ibid. e redazione di altronovecento, Luigi Mara (1939-2016). Le lotte per la salute e l’ambiente, cit., pp. 12-4.
210 Verbale di Accordo tra Nuova Italsider e FIM, FIOM, UILM e rappresentanze sindacali del CSI di Bagnoli, 8.5.1986, ASFiom 01s0702010123033.
211 Anche in A. Belli, Il luogo e la fabbrica, cit., p. 193 e nota 30.
212 Tale sentenza sarà ribadita in Appello (1990) e in Cassazione (1993). “Il Foro Italiano”, CXVI (maggio 1993), n. 5, pp. 1451-2 e 1457-58.
213 Lettera di Elisabetta Ramat, responsabile Dipartimento Territorio-Ambiente, CGIL Nazionale, alle Segreterie Regionali, delle Federazioni Nazionali di Categoria, delle Camere del Lavoro territoriali, ai Dipartimenti CGIL Nazionale. Oggetto: Proposta di legislazione per riconversione a fini ambientali, 28.3.1989, ASFiom01s07030302.
214 Legambiente e FIOM-CGIL, Documento Ambiente, 1989, ASFiom0s070303023.
215 Convenzione FIOM-Legambiente Campania, Napoli, 14.12.1989, ASFiom010703032021.
216 U. Leone, Una carica da disinnescare, in Una fabbrica, una città, cit. e U. Leone, Mappa del rischio e del degrado ambientale in Campania, Napoli, Cooperativa Editrice Sintesi, 1986.
217 G. Corona, I Ragazzi del Piano, cit., p. 125.
218 G. Corona Breve storia dell’ambiente in Italia, cit., pp. 98-9; R. Lewanski, Il difficile avvio di una politica ambientale in Italia, in B. Dente, P. Ranci, L’industria e l’ambiente, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 48; A. Macchi, Il XVII Congresso del Pci, in “Aggiornamenti sociali”, 1986, n. 6, pp. 411 e 416.
219 A. Cederna, E la Campania tradì Galasso, “la Repubblica”, 19.12.1986
220 Ricorso della Nuova Italsider SpA al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, contro il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, per l’annullamento del D.M. 28.3.1985. Datato 18.6.1985, IanCo 19iNa.
221 E. Rea, La dismissione, Milano, Feltrinelli, 2014; S. Romeo, L’acciaio in fumo, cit., pp. 182-92.
222 Ci sono delle alternative alla chiusura di Bagnoli, in “la Repubblica”, 27.12.1987; Finsider si sdoppia per superare la crisi, in “la Repubblica”, 20.1.1988; Taranto batte Bagnoli, in “il Sole 24 Ore”, 19.1.1989.
223 Accordo a Bagnoli, tagliati 1450 posti, in “la Repubblica”, 26.7.1989, Bagnoli ora cambia. Operativa l’intesa con i sindacati, in “la Repubblica”, 11.7.1990.
224 Bruxelles spegne i forni all’Ilva, in “il Corriere della Sera”, 11.11.1993.
225 Il 4 dicembre si ferma tutta la siderurgia, in “l’Unità”, 13.11.1987, ma cfr. anche C’è un mega-progetto per l’area di Bagnoli, in “la Repubblica”, 10.9.1987.
226 La CEE è contro Bagnoli, in “il Mattino”, 25.6.1988.
227 Conferenza Stampa sull’Italsider di Italia Nostra e CCV, 9.1.1989, IanCo 42vNa; Quando tra gli studenti si infiltra chi vuole la fabbrica chiusa, in “Napoli Cronaca”, 12.1.1989.
228 T. Strangleman, “Smokestack Nostalgia”. Ruin Porn or Working-Class Obituary. The Role and Meaning of Deindustrial Representation, in “International Labor and Working-Class History”, LXXXIV (2013), pp. 23-37.
229 Ultima fermata: Bagnoli-Italsider, in “l’Unità”, 20.10.1990.
230 S. M., sindacalista Cisl in L’Italsider era un inferno. Non voglio che chiuda ora che è quasi un paradiso, in “Napoli Oggi”, 22-29.11.1989.
231 Ultima fermata: Bagnoli-Italsider, in “l’Unità”, 20.10.1990.
232 A.V., cit. in Ibid.
233 Ibid.
234 N. D. F., citato in Costruire un parco nelle vecchie acciaierie, in “la Repubblica”, 24.10.1990.
235 Da ottomila a duemila all’ex Italsider e La protesta di Bagnoli diventa una sfida, in “il Mattino”, 7.10.1993, IanCo 209aNa.
236 Vezio De Lucia in G. Corona, Bagnoli oggi: quale futuro? Conversazione con Vezio De Lucia, in “Meridiana”, n. 85, pp. 270-1.
237 Bagnoli divide i progressisti, in “la Repubblica”, 23.6.1994.
238 I caschi gialli in trincea, in “la Repubblica”, 6.10.1993.
239 A. Mah, Industrial Ruination, Community and Place: Landscapes and Legacies of Urban Decline, Toronto, University of Toronto Press, 2012.
240 L. Brancaccio, Crisi industriale, crisi sociale e sistema politico nel declino di Bagnoli, cit. p. 158.
241 Ivi, pp. 158-60.
242 Si veda ad es. T. Davies, A. Mah, Toxic Truths: Environmental Justice and Citizen Science in a Post-Truth Age, Manchester, Manchester University Press, 2020.
243 Su questo e sulle alternative possibili, si veda B. De Vivo et al., Il risanamento di un sito industriale dismesso. Bagnoli, davvero un caso unico al mondo?, Napoli,La Valle del Tempo, 2022, pp. 43, 128-31, 138, 146-47, 178 e ISPRA, Siti contaminati: Caratterizzazione, Bonifica e Analisi di Rischio. Caratterizzazione di un sito industriale dismesso prospiciente la fascia costiera del Golfo di Pozzuoli: il caso di Bagnoli, a cura di Elena Romano, 2007, via isprambiente.gov.it
244 https://www.ilsole24ore.com/art/bagnoli-cabina-regia-si-proposta-non-rimuovere-colmata-AFYUxiyC e https://ilmanifesto.it/bagnoli-laffare-colmata
245 M. Citoni, C. Papa, Sinistra ed ecologia, cit., pp. 62-5.