I prodromi dell’approccio ecologico alla pianificazione territoriale. Alle origini della cultura ambientale di Osvaldo Piacentini.
A partire dagli anni Settanta del Novecento la “questione ecologica” è andata costituendosi nella narrazione pubblica e nell’agenda politica come una delle principali sfide, se non la più importante perché potenzialmente auto-distruttrice, con cui la società si sia trovata a confrontarsi. In un contesto complesso di relazioni economiche, politiche e sociali l’ambiente, da un lato, è divenuto un aspetto del dibattito pubblico e, dall’altro, un campo d’azione della governance. In tal modo esso ha acquisito gradualmente centralità sia a livello locale e nazionale, sia europeo e mondiale. Si è trattato di un quadro articolato e problematico che recentemente ha incontrato interesse da parte della ricerca storiografica: essa si è impegnata nel coniugare gli aspetti antropocentrici del rapporto fra uomo e territorio e, allo stesso tempo, si è interrogata sui processi costitutivi dei movimenti sociali e delle ideologie politiche che si sono fatti carico o mostrati sensibili al problema ecologico nel quadro della trasformazione dell’ambiente stesso((Ultimo in ordine di tempo L. Scichilone, L’Europa e la sfida ecologica. Storia della politica ambientale europea (1969-1998), Il Mulino, Bologna 2009.)). La complessità trasversale di questi studi storici è dovuta al fatto che l’ambiente è contemporaneamente co-protagonista, il più delle volte non riconosciuto, di molti approcci d’indagine e, parallelamente, contesto imprescindibile di molte discipline. In altre parole, la difficoltà risiede nel suo carattere ibrido fra ambito politico-economico e politico-amministrativo e, contemporaneamente, campo scientifico e filosofico-culturale((Cfr. S. Iovino, Filosofie dell’ambiente. Natura, etica, società, Carocci, Roma 2004.)).
È in questa prospettiva concettuale che risulta interessante andare a rinvenire i prodromi della cultura ambientale di uno dei protagonisti delle scelte di pianificazione del territorio attuate nell’Italia della seconda metà del Novecento: l’architetto Osvaldo Piacentini((Osvaldo Piacentini nasce il 29 dicembre 1929 a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, da una famiglia di piccola borghesia di provincia: il padre, invalido di guerra, è uno fra i principali esponenti della locale sezione del partito repubblicano e, grazie a questa pur breve militanza, Osvaldo conoscerà la passione per la politica; mentre è alla madre, insegnante elementare, che deve l’accostarsi alla fede cattolica. È il contesto esterno, nondimeno, che contribuisce maggiormente alla sua formazione: negli ambienti dell’associazionismo cattolico di Reggio Emilia, città nella quale la famiglia Piacentini si trasferisce nel 1933, il futuro architetto muove i primi passi di una vocazione alla solidarietà e alla vicinanza verso gli emarginati che culminerà nel 1969 nella partecipazione alla fondazione della Comunità del Diaconato e nel 1978 nell’ordinazione stessa a diacono. Ed è sempre nel retroterra cattolico reggiano che Piacentini costruisce solide amicizie che lo accompagneranno per tutta la vita, di cui la più importante fu quella con Giuseppe Dossetti. Sebbene la sua formazione sia avvenuta negli anni del regime fascista in un ambiente cattolico cittadino che non si è mostrato di certo immune dalla presa clerico-fascista, tuttavia è grazie a quelle stesse frequentazioni che Piacentini sceglie la democrazia e partecipa alla Resistenza e, infine, si affianca a Giuseppe Dossetti nella sua avventura politica. Piacentini accettò per la DC un seggio al consiglio provinciale (1950), uno nel Comitato direttivo (1952) e poi uno nella Giunta esecutiva (1953) dalla quale darà però in breve tempo le dimissioni per concludere definitivamente la parabola della militanza. Soltanto nel 1964 verrà nuovamente nominato alla Consulta regionale per gli Enti locali e alla Consulta provinciale per la Sanità, ma in veste di tecnico. Allo stesso modo – nel ruolo dell’“intellettuale” e del “tecnico” – è da interpretare la sua partecipazione alla stesura del Libro bianco per Bologna, che Dossetti sfidante del “leggendario” sindaco Dozza preparò per le elezioni amministrative del 1956. In esso Piacentini sviluppò per la prima volta su larga scala la propria idea di urbanistica e, grazie alla lungimirante intuizione del decentramento amministrativo con la creazione dei quartieri, segnò un momento capitale della vicenda urbanistica italiana. Laureatosi in architettura al Politecnico di Milano nel 1949 dopo aver conseguito il diploma presso l‘Istituto tecnico per Geometri A. Secchi di Reggio Emilia e la maturità scientifica al Liceo G. Marconi di Parma, al Politecnico approdò dopo un anno a Matematica e Fisica presso l’Università di Parma e dalla quale passò alla facoltà di Ingegneria dello stesso Politecnico. Nel 1952, assieme a un gruppo di colleghi universitari, diede vita alla Caire-Cooperativa architetti e ingegneri. L’edilizia sociale è la prima branca in cui si cimenta vincendo il concorso nazionale per la progettazione del quartiere Saint Gobain a Pisa (1952) e proseguendo con la progettazione di quartieri Ina-casa nelle città di Modena, Bologna, Reggio Emilia e Mestre. Nei decenni successivi l’interesse di Piacentini si amplia alla riflessione e alla progettazione di nuove “parti” della città redigendo molti dei Piani regolatori dei comuni dell’Emilia-Romagna fra cui spiccano ancora Modena, Parma, Reggio Emilia. L’interesse per la scala sovra-comunale, già presente nel Primo piano per lo sviluppo regionale (1964), egemonizzerà l’attività dell’architetto sino al termine della sua attività professionale avvenuta a causa della morte, il 4 gennaio 1985, a seguito di una grave malattia. Con la partecipazione al Progetto ’80, prima, e grazie alla legge sulle Comunità Montane e all’avvio delle Regioni negli anni Settanta e, infine, all’elaborazione del progetto Appennino nel 1980 il suo metodo di approccio al territorio si era andato arricchendo. La sua riflessione urbanistica, capace di “inventare” nuove metodologie d’analisi e di coglierne i nessi di relazione, attinge in questa ultima fase, da un lato, al patrimonio del ripensamento dei modelli di sviluppo che si andava approfondendo in Europa (soprattutto il piano Mansholt) e, dall’altro, alla formulazione di una metodologia di base dell’urbanistica che sfrutta i saperi degli agronomi, dei geologi, degli ecologi, degli economisti allo scopo di pensare una nuova politica di pianificazione ambientale integrale e integrata. Per un regesto dei suoi principali lavori, G. Lupatelli, F. Sacchetti (a cura di), Osvaldo Piacentini. Un architetto del territorio, in «Quaderni di Urbanistica. Informazioni», 6, settembre-ottobre 1989; mentre sulla vicenda religiosa dell’architetto, cfr. A. Melloni, Storia locale e postconcilio italiano, note a margine agli scritti di Osvaldo Piacentini (1922-1985), in «Rivista di storia della chiesa in Italia», 55, 2, 2001, pp. 501-510.)), interprete e figura di spicco della stagione del riformismo urbanistico italiano((D. Calabi, Storia dell’urbanistica europea, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 274-276; P. Scattoni, L’urbanistica dell’Italia contemporanea. Dall’unità ai giorni nostri, Newton & Compton, Roma 2004, pp. 53-64.)); dal nostro punto di vista, un “intellettuale” del territorio. In tal senso, si vuole intendere un attore del dibattito pubblico che, depositario di un sapere specialistico e di specifiche tecniche disciplinari, grazie a una collaborazione partecipata alla formulazione di decisioni politiche contribuì in modo determinante alla realizzazione di uno specifico habitus mentale e di un autonomo modus operandi sulla questione della modernizzazione(( Per un’introduzione alla questione degli intellettuali cfr. M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2004. )).
Nella realtà convulsa e scomposta della ricostruzione e durante gli anni della “via italiana” alla modernizzazione Osvaldo Piacentini si interrogò su come ibridare le potenzialità analitiche delle nuove scienze sociali con l’agire urbanistico e s’impegnò per declinare nello urban planning e nella pianificazione territoriale il concetto di “ambiente”. Fra i primi urbanisti ad affidarsi alle conoscenze di agronomi, geologi e allo tempo stesso non dimentico delle pratiche consolidate nei secoli da contadini, pastori, l’architetto reggiano pur non essendo un teorico dell’urbanistica ecologica è stato nondimeno un attore del processo di avvicinamento della pianificazione territoriale e urbanistica ai temi dell’ecologia.
Con il suo percorso di introiezione della questione ambientale “moderna” Piacentini ci spinge a considerare la pianificazione e la politica del territorio come aspetti della questione politica della gestione della trasformazione. Nell’ottica della “peculiare storia ambientale dell’Europa”, cioè lo sforzo costante attuato dalla politics al fine di mediare gli interessi privato e pubblico nell’uso delle risorse((Cfr. R. Delort, F. Walter, Storia dell’ambiente europeo, Bari, Dedalo, 2002, pp. 99-125 e pp. 269-310.)), la sua prassi urbanistica appare dunque una faccia dell’ampio dibattito ideologico sulla modernità politica. In questo sviluppo un ruolo fondamentale lo ha giocato la questione ambientale che ha concorso, assieme agli altri processi di trasformazione culturale e sociale, alla costruzione della nuova concezione di cittadinanza((S. Neri Serneri, Culture e politiche del movimento ambientalista, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 367-399.)).
L’universo di temi, problemi, argomenti che il concetto stesso di ambiente solleva, infine, si riflette sul quadro di una collocazione storiografica della vicenda professionale e intellettuale dell’architetto Piacentini: “a metà” fra la storia dell’ambiente, la storia urbana e la storia del discorso intellettuale, dove gli aspetti cultural-ideali della prima s’incuneano nei topoi deterministici della seconda complicando ulteriormente la ricostruzione dell’incontro fra le culture urbanistica e ambientale nel quadro della storia del discorso pubblico((Per il rapporto tra culture ambientale e urbanistica si vedano V. De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Donzeli, Roma 2005; G. Corona, I ragazzi del Piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Donzelli, Roma 2007, pp. 11-47.)). Tuttavia, se i rapporti fra specifico e generale, fra vertice e base sono più intrecciati rispetto a quanto l’approccio storico monotematico abbia nella maggioranza dei casi mostrato e se la grande novità del mondo contemporaneo è data dal fatto che si sono andate consumando risorse e beni materiali che la natura non è più in grado di riprodurre, in altre parole l’uscita definitiva dall’economia virtuosa della riproduzione((Cfr. P. Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma 2001.)), in questa prospettiva, dunque, ricostruire le fondamenta culturali sulle quali si è basata una futura scelta esplicitamente ecologista appare stimolante((Per un confronto epistemologico fra storia ambientale e storia sociale o politico-istituzionale cfr. J.R. McNeill, Observations on the Nature and Culture of Environmental History, in «History and Theory», 42, December 2002, pp. 5-43.)).
1. Un continuum ecologista nell’urbanistica di Osvaldo Piacentini?
Chiamato nel 1974 a commentare il Piano regolatore generale (Prg) del comune di Modena che con Luigi Airaldi e Giuseppe Campos Venuti aveva progettato dieci anni prima, Piacentini si diceva convinto del fatto che esso avrebbe sostenuto bene l’esame dell’adeguamento alle nuove acquisizioni in materia di pianificazione territoriale((O. Piacentini, Dieci anni dopo/Un P.R.G., in «Parametro», 31, novembre 1974, p. 9.)).
Avviato nel 1953 e approvato in sede definitiva nel 1965, il Prg di Modena rappresenta il punto di incontro fra le precedenti esperienze dei piani per l’edilizia economica e popolare (Peep) condotte fra Reggio Emilia e Bologna e le linee “militanti” proposte dall’Istituto nazionale di urbanistica (Inu), applicate qui per la prima volta su larga scala((Cfr. F. Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana, Ediesse, Napoli 2008, pp. 53-64.)). Se, come aveva scritto nel 1947, l’urbanistica era per l’architetto reggiano «non un problema a sé, ma uno dei tanti aspetti dell’unico vero problema che è la vita dell’Uomo» la cui funzione, nel pathos palingenetico dell’immediato dopoguerra, era quella di inventare una «nuova vita della società dove ogni manifestazione» si inserisse in un «addentellato organico di funzioni»((Archivio Osvaldo Piacentini (d’ora in poi AOP), “Primo studio urbanistico” 1947, 2032 F 2.2.)), Modena fu dunque la risultante della sinergia fra la competenza professionale e disciplinare, le esperienze dei Peep ma soprattutto l’impegno civile e la sensibilità intellettuale di Piacentini.
Non è questa la sede per soffermarsi sull’importanza metodologica e concettuale del piano di Modena dal punto di vista dello sviluppo dell’urbanistica italiana, il cui precipitato si può leggere sino negli articoli della “legge ponte” in materia di standard urbanistici (L. 765 del 6 agosto 1967 a integrazione della L. 1150/1942), né si può qui approfondire l’impronta culturale prima ancora che professionale che l’architetto ha lasciato nelle pratiche urbanistiche dell’amministrazione modenese((Cfr. V. Bulgarelli, Sviluppo urbano e politiche ambientali, in G. Corona, S. Neri Serneri (a cura di), Storia e ambiente. Città, risorse e territori nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2007, pp. 165-168.)). Nell’esplicita scelta di riorientare l’asse dello sviluppo urbano della città emiliana (dalla direttrice est-ovest segnata storicamente dalla via Emilia a quella nord-sud), lo schema di sviluppo è risultato non più radiocentrico ma, al contrario, aperto e disposto secondo un reticolo ortogonale atto a permettere futuri sviluppi territoriali non più polarizzati. Fra i servizi calcolati in misura di circa 50 mq per abitante vi era il “verde”, la cui distribuzione era prevista nei nuovi quartieri così come incuneata sino al centro storico. La creazione di parchi urbani diventava inoltre uno dei punti focali del Prg e il loro mantenimento risultava uno degli aspetti formali da conferire alla città. Alle aree verdi, infine, sulla scia della sociologia urbana introdotta nel dibattito italiano dagli studi di Paolo Guidicini e Achille Ardigò, col quale Piacentini aveva collaborato nel 1956 nel redigere il famoso Libro bianco((Cfr. P. Guidicini, Il decentramento urbano nella programmazione delle regioni metropolitane: l’esperienza delle New Towns, Ilses, Milano 1965; A. Ardigò La diffusione urbana, A.V.E., Roma 1967; per l’esperienza bolognese cfr. M. Tesini, Oltre la città rossa. L’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-1958), Il Mulino, Bologna 1986.)), veniva peraltro conferita una significativa “funzione sociale”: aree verde come spazio comune, luogo di socializzazione, elemento di ricucitura fra città e campagna, perno attorno al quale far ruotare la strutturazione dei servizi sociali. Nonché una funzione urbanistica, intendendo il “verde” come mezzo per la riqualificazione dei quartieri esterni allo scopo di attenuare la pressione insediativa sul centro storico. Questo, come gli altri Prg ideati fra gli anni Cinquanta e Sessanta dall’architetto reggiano, rappresenta uno dei punti più alti di quella stagione di riscrittura delle città emiliane che fungerà da banco di prova per quella pianificazione territoriale che lo assorbirà nei decenni seguenti. Una pianificazione territoriale che si dovrà confrontare con la nuova sfida ambientale.
Cogliere la dimensione socio-culturale e chimico-biologica dell’intervento antropico sull’am-biente scatenò all’inizio degli anni Settanta un forte dibattito. Grazie alla pubblicazione, fra i tanti, del saggio di L. White, di The Closing Circle di Barry Commoner, alla diffusione del rapporto del Club di Roma((L. White, The Historical Roots of Our Ecological Crisis, in «Science», 155, 3767, 10 March 1967, pp. 1203-1207 (trad. it. Le radici storico-culturali della nostra crisi ecologica, in «Il Mulino», marzo-aprile 1973, pp. 251-263); B. Commoner, The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, Knopf, New York 1971 (trad. it. Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1972); D.H. Meadows et. al., The Limits to Growth, Universe Books, New York 1972 (trad. it. I limiti dello sviluppo, A. Mondadori, Milano 1972).)), al fermento scatenato dalla rivista «Se», supplemento di «Abitare», la questione ambientale acquisì anche in Italia una dimensione di massa. Il contesto era quello del maturare della affluent society e del frantumarsi e ricollocarsi del sistema di valori in un’organizzazione sociale che poneva con modalità nuove la questione dell’uso e abuso, dell’appropriazione e publicizzazione delle risorse naturali. Il discorso pubblico sui temi ambientali, poi, faceva parte di quella critica al modello di sviluppo dei paesi occidentali che nel ripensamento della società del benessere accoglieva una presa di coscienza collettiva degli effetti negativi sulla natura del sistema di produzione capitalista. Un dibattito complessivo che Piacentini conosceva((Testimonianza dell’attenzione agli sviluppi dell’ecologia da parte di Piacentini sono desumibili dai ricordi di Giuseppe Campos Venuti, Enrico Bussi e da una consistente tradizione orale tramandata da collaboratori e colleghi. Anche le frequentazioni del gruppo di lavoro del Progetto ’80 lasciano presupporre che Piacentini fosse a conoscenza del dibattito ambientalista italiano; inoltre, è altrettanto noto che l’architetto reggiano fosse un lettore della rivista «Il Mulino». Per le testimonianze si vedano G. Campos Venuti, La battaglia professionale, culturale e politica, in S. La Ferrara (a cura di), Osvaldo Piacentini. Senza stancarsi mai. Scritti di un cittadino diacono, Diabasis, Reggio Emilia 1999, pp. 193-203; E. Bussi, Le scelte in agricoltura tra esigenze di cambiamento e di equilibrio, in G. Lupatelli, F. Sacchetti (a cura di), op.cit., pp. 38-45.)).
È lo stesso architetto a sottolineare quanto le condizioni dello sviluppo nella seconda metà degli anni Settanta fossero radicalmente mutate e di conseguenza come si rendesse necessario un esame critico del Prg di Modena accentuandone, pur restando fedeli alle linee guida, l’apertura verso il territorio extraurbano. Sebbene nel Prg del 1965 la concezione delle aree verdi avesse conosciuto una sostanziale innovazione e una rottura con l’approccio estetizzante e igienista della precedente stagione urbanistica della città, la loro funzione “ecologica” – è stato rilevato – non era tuttavia ancora stata colta appieno((V. Bulgarelli, op. cit., p. 167. )). Del resto era stato l’architetto reggiano a riconoscere, benché convinto della sua capacità di rispondere alla nuova sfida, la necessità di un adeguamento del piano alle ultime acquisizioni delle scienze ecologiche e dell’urbanistica: un aggiornamento cioè al «concetto di risorsa finita». Limitate, in via di esaurimento e dunque da tutelare erano per Piacentini «non solo le fonti di energia, ma l’acqua, l’atmosfera e principalmente il suolo». Il secondo aggiornamento a cui sottoporre il piano, continuava l’urbanista, era l’accettazione che «sviluppo non significa[va] più esclusivamente sviluppo industriale, ma piuttosto equilibrio dell’intero sistema produttivo e sviluppo dei servizi civili»((O. Piacentini, Dieci anni dopo, cit.)).
La “città diffusa” modenese e l’impatto antropico con le sue implicazioni economiche e culturali sulle principali matrici naturali è una vicenda segnata da contraddizioni tecniche o politiche, contraddistinta da intuizioni innovative e anticipatrici e anche sottovalutazioni, ritardi. Non ci soffermeremo qui sulle modalità con cui la variate al Prg del 1975 e quelle seguenti accolsero l’antinomia ambientale((Per uno schema introduttivo A. Muratori, La dimensione ambientale nella pianificazione urbanistica nell’esperienza del Comune di Modena, in C. Mazzeri (a cura di), Le città sostenibili. Storia, natura, ambiente, Franco Angeli, Milano 2003, pp. 307-343.)). Il Prg di Modena è una fonte paradigmatica dell’urbanistica sociale e rappresenta un momento fondante del rinnovamento della politica urbanistica nell’ottica del riequilibrio del territorio. La sensibilità nei confronti delle aree verdi in esso ampiamente sistematizzata è stato il terreno sul quale si è andata a erigere una matura consapevolezza ecosistemica. Dal nostro punto di vista, nondimeno, è interessante domandarsi se esiste una linea di continuità fra l’approccio conservazionista a tutela delle aree verdi preesistenti che aveva guidato le scelte urbanistiche di Piacentini negli anni Cinquanta e Sessanta, quantunque si trattasse di una necessità di riequilibrio riconoscibile nella funzione sociale attribuita al “verde” e inquadrabile nella responsabilità riformistica dell’urbanistica, e la questione ecologica che invece divenne il perno della sua pianificazione futura. Se, in altre parole, una costante matrice culturale di coscienza ambientale abbia accompagnato l’intero percorso professionale e intellettuale dell’urbanista. Ci stiamo domandando, cioè, se la sensibilità ambientale dell’architetto reggiano non sia stata una rivelazione indotta dalla contingenza del dibattito in corso, ma anzi l’approdo all’urbanistica di un orientamento intellettuale e di un’etica ambientale personali strutturatisi negli anni della sua formazione. Ricordando il collega, è lo stesso Campos Venuti del resto a introdurre il tema ecologico come elemento costante del lavoro di Piacentini((G. Campos Venuti, op.cit., p. 201.)).
In una delle rare occasioni in cui l’architetto reggiano ha fissato il proprio pensiero urbanistico in forma scritta, la consapevolezza di una relazione ineludibile fra trasformazione sociale e ambientale si concretizza nella teorizzazione della “pianificazione ambientale”. Senza addentrarci in un’analisi approfondita, basti dire qui che essa prendeva impulso dall’etica ambientale dell’ecologo Eugene P. Odum: «L’unico ecologo – affermava OP – a cui va ascritto il merito di aver trattato con chiarezza il problema della globalità in ecologia». L’architetto accoglieva con entusiasmo le riflessioni metodologiche di Odum che a partire da Fundamentals of Ecology (1953) e soprattutto da Ecology (1963) imperniava la propria riflessione sul rapporto uomo-natura inserito nel concetto di ecosistema: l’uomo è per Odum parte di un ambiente complesso che deve essere studiato, trattato e modificato come un tutt’uno e non con approcci e progetti isolati(( E.P. Odum, The Strategy of Ecosystem Development, in «Science», 164, 3877, 18 April 1969, pp. 262-270.)). Da qui, concludeva Piacentini nella Relazione programmatica per la formazione del Piano di sviluppo presentata nel 1971 alla provincia di Reggio Emilia, si desumeva la necessità di cambiare i vincoli posti all’agire urbanistico al fine di capovolgere alcuni dei valori territoriali di base. Lo scopo era quello di impedire la distruzione di elementi integranti del ciclo biologico e l’esaurirsi delle risorse naturali. Un capovolgimento tanto più necessario se non si voleva «far pagare caro all’Uomo il diritto di esistenza»((Relazione programmatica per la formazione del Piano di sviluppo della provincia di Reggio Emilia, in G. Lupatelli, F. Sacchetti (a cura di), op. cit., p. 110-116.)).
L’assunzione esplicita dell’ambiente non come supporto fisico a complemento dell’“urbano” ma come elemento coesistente con cui confrontarsi prendeva le mosse dall’idea dell’uomo che l’architetto assumeva come dato inderogabile. Non dunque una difesa della terra spinta da un conservazionismo intriso esclusivamente di etica della responsabilità, per quanto la preoccupazione per il futuro fosse comprensibilmente una direttrice del pensiero urbanistico di Piacentini. Né tantomeno una deep ecology: «Non era – ha sottolineato Campos Venuti – la difesa negativa per principio, il rifiuto aprioristico dell’intervento o del cambiamento»((G. Campos Venuti, op. cit., p. 201.)). Piuttosto, si può concludere, il suo era un approccio all’ambiente dalla doppia radice che, in quanto “eco-sistemico”, non poteva prescindere da un antropocentrismo: l’unico a essere in grado di formulare un discorso consapevole sull’ambiente e per l’ambiente era per l’architetto l’uomo stesso.
2. Le fondamenta culturali dell’approccio ecologista
Per cercare di ritrovare i fili di un “continuum ambientale” nella vicenda del pianificatore reggiano è utile soffermarsi su tre momenti formativi del suo percorso di maturazione intellettuale. Lo scopo è quello di rinvenire, seppur non ancora matura e non declinata come prisma prioritario del suo approccio, una cultura proto-ecologista la quale, quando la fine del mito della affluenza imporrà all’agenda politica il controllo sull’uso della natura, potrà esprimersi pienamente in sintonia con il clima politico e le sensibilità culturali circostanti.
Il primo momento obbligatorio a cui guardare è quello della formazione accademica in cui si struttura la piattaforma disciplinare dell’urbanista. Osvaldo Piacentini si laureò in architettura al Politecnico di Milano nel 1949 dopo un percorso universitario un po’ accidentato che tuttavia non precluse né il formarsi di un solido gruppo di futuri colleghi, che andò a rinsaldare conoscenze degli anni della scuola, né ostacolò una proficua collaborazione con gli architetti Franco Albini e Franco Marescotti per la redazione del manuale Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione((I. Diotallevi, F. Marescotti (a cura di), Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione, Poligono, Milano 1948.)). Questa esperienza, parte di quel faticoso processo di riscatto politico-ideale che caratterizzò nell’immediato dopoguerra il pensiero architettonico nazionale ancora schiacciato nella contrapposizione fascismo-antifascimo, così come la frequentazione dell’ideologia urbanistica di Ebenezer Howard e Lewis Mumford studiata sui banchi universitari furono indubbiamente propedeutiche al futuro impegno urbanistico di Piacentini((Per questo aspetto cfr. R. Cominotti, G. della Pergola (a cura di), Lewis Mumford nella storia e nella critica:. Atti del seminario di studi, Politecnico di Milano, Grafo, Brescia 1992; A. Villani, Urbanistica alternativa. Howard e le città-giardino, in «Studi economici e sociali», 38, 2, 2003, pp. 99-111. Per una rassegna introduttiva al dibattito urbanistico degli anni Quaranta cfr. P.G. Massaretti, L’urbanistica, gli uffici tecnici comunali e i piani regolatori, in R. Parisini (a cura di), Politiche urbane e ricostruzione in Emilia-Romagna, Bup, Bologna 2006, pp. 54-64.)). Il precipitato dell’ipotesi delle New Towns con la sua ambizione di autosufficienza assegnata alle strutture socio-ricreative e alla fascia verde contigua al nucleo insediativo è visibile nelle progettazioni delle aree Peep e, soprattutto, nel quartiere Nebbiara di Reggio Emilia dove lo stesso Piacentini andò ad abitare dando forma e vita a un sistema di convivenza e di educazione comunitaria a tutto tondo. Nonché, la lezione della città-giardino si può rinvenire nel valore aggiunto assegnato alle aree verdi nel Prg di Modena di cui si è già detto.
Nella facoltà milanese, nondimeno, non era presente un indirizzo di pensiero e di stile spiccato, aperto e la scoperta delle grandi scuole degli anni Trenta si tramutava semplicemente in uno sperimentare auto-referenziale, puramente empirico e, dunque, per Piacentini incapace di tradursi in una proposta urbanistica adattabile alla necessità di trasformazione e modernizzazione della condizione italiana. Non è quindi al Politecnico che si deve rinviare nella ricerca della base intellettuale della cultura ambientale dell’urbanista reggiano. La convinzione che tutte le problematiche legate alla progettazione dovessero avere un significato etico e un obiettivo primariamente sociale non trovando quindi nella dimensione astratta dell’accademia un terreno soddisfacente spinse l’architetto verso una ricerca intellettuale autonoma.
A contribuire principalmente alla formazione della “grammatica” intellettuale di Piacentini furono le esperienze dirette e indirette fatte in seno all’associazionismo cattolico reggiano negli anni precedenti e immediatamente seguenti la Seconda guerra mondiale. Il momento capitale, lo si è già ricordato, fu il sodalizio stretto con Giuseppe Dossetti. L’incontro fra Piacentini e Dossetti molto probabilmente è avvenuto fra il 1941 e il 1942 quando quest’ultimo tenne a Reggio alcune conferenze nelle quali criticò il regime fascista((Non esistono memorie autografe sull’incontro fra Piacentini e Dossetti. È probabile che Piacentini abbia fatto la conoscenza di Dossetti grazie a don Dino Torreggiani, animatore degli oratori reggiani di San Rocco e di Santa Teresa d’Avila frequentati dal futuro architetto e nei quali negli anni Trenta fece le prime esperienze di educatore. Torreggiani sarà il sacerdote nelle cui mani Dossetti emetterà i voti privati nel 1936. L’ipotesi dell’amicizia nata grazie all’occasione di socializzazione fornita da Torreggiani è suffragata peraltro da una diffusa tradizione orale locale. Dalle lettere conservate del periodo universitario sembra tuttavia da escludere che possa esserci stata una frequentazione durante la permanenza a Milano di entrambi. Seppur riferito agli anni immediatamente precedenti si veda cfr. E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione (1913-1939), Il Mulino, Bologna 2006, pp. 93-147.)). Un incontro determinante per la crescita culturale e umana, per la maturazione ideologica e politica del futuro architetto: le scoperte di conoscenza e di lettura fatte nel cenacolo formativo che faceva capo a Dossetti annoveravano testi del riformismo cattolico e della dottrina sociale cristiana, scritti di Jacques Maritain e di Johan Huizinga. È lo stesso architetto a utilizzare l’espressione «cenacolo formativo» in riferimento alla leadership che, ancora prima della fase resistenziale, Dossetti iniziò a esercitare negli ambienti cattolici reggiani((Di questo gruppo, che andrà a formare la sinistra democristiana di Reggio Emilia e che darà vita nell’immediato dopoguerra alla breve ma intensa stagione del settimanale «Tempo Nostro», citiamo fra i tanti Corrado Corghi, il fratello di Giuseppe Dossetti Ermanno, il fratello di Osvaldo Piacentini Bruno, l’ingegnere Domenico Piani (così ricorda Piacentini). Minuta in risposta a un questionario dell’Azione Cattolica, probabilmente databile al 1966, AOP, 2031 F 2.1; anche testimonianza pubblicata in S. Spreafico, I cattolici reggiani dallo stato totalitario alla democrazia. La resistenza come problema, V Il difficile esordio, Tecnograf, Reggio Emilia 1993, p. 731.)). Fra i temi e le letture dei quali si discuteva, ha ricordato Piacentini, i Salmi e l’attenzione per la politica sindacale((Ivi.)), le lezioni di Arturo Carlo Jemolo e l’esame approfondito del Sillabo per scoprire il giudizio della Chiesa sulle ideologie liberali((Memoriale, databile verso la fine degli anni Settanta, AOP, 845 C 6.6.)). Furono tuttavia la “scoperta” dello storico olandese e del filosofo francese che ebbero un precipitato di lungo corso sulla sensibilità intellettuale dell’architetto e sulla formazione della sua cultura ambientale((Infra n. 28 e n. 30.)).
Le ricadute del pensiero di Maritain nel cattolicesimo italiano sono state ampiamente documentate, sia per quanto riguarda la necessità che la religione non dovesse rimanere fuori dal tempo e dalla storia sia, soprattutto, nell’esaltazione fatta dal filosofo francese del regime democratico come conseguenza del vangelo((Cfr. R. Moro, M. Papini, L’influenza di Maritain nella formazione dell’antifascismo degli universitari e dei laureati cattolici, in R. Papini (a cura di), Jacques Maritain e la società contemporanea, Massimo, Milano 1978, pp. 204 ss.)). L’opera che ha influito in misura maggiore su Piacentini, come è lui stesso a ricordare((Infra n. 31.)), fu Humanisme intégral (1938), pubblicata in Italia nel 1946 da Studium, ma sicuramente già nota ai dossettiani alla fine degli anni Trenta((E. Galavotti, op. cit., p. 145.)). Il tema che percorre il testo del filosofo e che interessa la nostra analisi è la contrapposizione fra l’umanesimo teocentrico e quello antropocentrico. L’antropocentrismo in prospettiva teocentrica, andato in crisi con l’avvento del razionalismo moderno, è per Maritain quello autenticamente cristiano e, dunque, umano. Al contrario, l’onnipotenza dell’uomo alla base dell’era moderna determina un antropocentrismo assoluto, ateo, autosufficiente anche rispetto alle altre forme viventi del pianeta((M.P. Faggioni, L’ecologia della terra come problema morale. Atti del convegno “Ambiente e religione: le motivazioni cristiane per un impegno a difesa del creato”, disponibile in http://www.spazioambiente.org (consultato il 6 marzo 2009).)). Ne consegue che, tramontato il sogno della superiorità ontologica dell’uomo, il dominium terrae è stato concepito esclusivamente in chiave utilitaristica anche per quanto riguardo lo sfruttamento delle risorse materiali e fisiche((F. Böckle, Etica dell’ambiente: fondamenti filosofici e teologici, in Poli C., P. Timmerman (a cura di), L’etica nelle politiche ambientali, Padova 1991, pp. 53-71 e, sempre nello stesso volume, W. Fox, Fondamenti antropocentrici e non antropocentrici nelle decisioni sull’ambiente, pp. 115-137.)). È questa contraddizione fra umanesimo teocentrico e umanesimo immanentista che è andata a comporsi nella tassonomia della cultura ambientale di Piacentini.
L’antitesi fra un antropocentrismo ideologico, sferico e un antropocentrismo in prospettiva teocentrica, è noto, rientra nella querelle scatenata dalle tesi di Lynn White e rilanciate poi da John Passmore in cui il cristianesimo veniva accusato di essere alla base del collasso dell’ecosistema((Infra n. 16; J. Passmore, Man’s Responsabilty for Nature. Ecological Problems and Western Traditions, Duckworth, London 1974 (trad. it. La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano 1986).)). Non è possibile affermare quale fosse la posizione di Piacentini in questa polemica, nondimeno il superamento nel pensiero di Maritain dell’antropocentrismo assoluto, egoistico e accentratore che lo stesso architetto riconosceva come elemento disgregante e causa della crisi ecologica non lo condusse, tuttavia, a un anti-antropocentrismo altrettanto esclusivista. Soltanto attraverso la centralità dell’essere umano in una prospettiva più ampia si sarebbe ricomposta la frattura tra etica e applicazione socio-politica: per Piacentini l’ambiente era cioè un campo di interazioni che con gradi diversi di qualità e intensità investiva fattori biotici e abiotici. In questa prospettiva, la pianificazione diventava per l’architetto una modalità, un criterio per definire applicazioni analitiche interdisciplinari in un’ottica attenta, da un lato, al governo delle risorse primarie e, dall’altro, alla qualità della vita. Alla luce degli sviluppi scientifici dell’ecologia, di conseguenza, la pianificazione ambientale diveniva una declinazione evoluta, matura, per intendere quella che era stata già in precedenza la sua idea dell’urbanistica sociale((O. Piacentini, Registrazione dell’intervento al Convegno “Indirizzo per lo sviluppo economico e sociale della Vallata del Marecchia”, marzo 1973, trascritta e pubblicata in G. Lupatelli, F. Sacchetti(a cura di), op. cit., pp. 116-119.)).
Johan Huizinga, infine, fu l’autore che maggiormente influì nella formazione di una cultura ambientale dell’urbanista reggiano. Non tanto attraverso il suo metodo storico((Questa l’interpretazione di S. La Ferrara nelle sue note biografiche le quali, va detto, pagano la parzialità di una ricostruzione filtrata esclusivamente attraverso la vicenda religiosa dell’architetto senza distinguere tra vita professionale, sfera privata e scelta religiosa. Cfr. S. La Ferrara (a cura di), op. cit., p. 20.)), ma anzi per quel dissidio intellettuale tra la teoria e la prassi dello sviluppo (la Zivilization), da un lato, e i valori spirituali, estetici e critici della cultura europea, dall’altro, che permea La crisi della civiltà. Pubblicato in Italia da Einaudi nel 1937 il testo dello storico olandese è stata una delle letture più amate e più citate da Piacentini(( Infra n. 31.)). La critica alla società industriale qui elaborata sfociava nella teorizzazione della dissoluzione della civiltà, preannunciava future catastrofi e il tramonto progressivo ma ineluttabile dell’Europa la cui causa principale era il progresso scientifico. Un dibattito intellettuale, quello della “crisi dell’Europa” sviluppatosi negli anni Trenta, che ebbe una grande influenza sul portato culturale e sul progetto politico di Dossetti e che ebbe altresì un precipitato determinante sulla “visione” del mondo del futuro urbanista Piacentini((Su Huizinga cfr. D.G. Shaw, Huizinga’s Timeliness, in «History and Theory», 35, 2, May 1998, pp. 245-258; per il dossettismo P. Pombeni, Un riformatore cristiano nella ricostruzione della democrazia italiana. L’avventura politica di Giuseppe Dossetti 1943-1956, in L. Giorgi (a cura di), Le «Cronache sociali» di Giuseppe Dossetti, Diabasis, Reggio Emilia 2007, pp. 15 ss.)).
L’interpretazione della responsabilità personale e collettiva di fronte a una società affannata nella transizione alla modernità economico-sociale, politica e tecnologica e l’incapacità dell’uomo nel rispondere adeguatamente al bisogno di elevazione nel quadro di un contesto comunitario che Piacentini mutuerà dal discorso di Huizinga andrà a definire la tensione intellettuale con la quale egli guarderà al territorio da urbanizzare, al quartiere da costruire, alla regione da pianificare. Un “sentimento del tempo” che nell’immediato lo spinse a partecipare alla lotta resistenziale e lo condusse alla definitiva scelta democratica e repubblicana; una “lettura della modernità” che nel lungo periodo lo sensibilizzerà a considerare il territorio e il suolo come delle risorse scarse e a lungo andare esauribili, acqua compresa((O. Piacentini, Urbanizzazione e difesa del suolo, in «Economia Montana», 15, 4, 1983, pp. 2-7.)).
Ancora più influente su Piacentini fu, inoltre, Lo scempio del mondo (che Huizinga scrisse nel 1943 e pubblicato in Italia nel 1948 da Rizzoli) in cui l’intellettuale “erasmiano” opponeva alla violenza delle ideologie totalizzanti il nerbo del vivere civile e delle libertà moderne((Sebbene non sia conservato, com’è comprensibile, un elenco preciso dei testi letti da Piacentini durante gli anni formativi, non sembra tuttavia azzardato ipotizzare che Piacentini conoscesse approfonditamente l’opera di Huizinga. Mentre nel caso di Maritain e di altri autori nei suoi memoriali e appunti Piacentini precisa il titolo del testo a cui si riferisce, nel caso di Huizinga invece si limita a indicare il nome dell’autore lasciando supporre una conoscenza più ampia. Questa ipotesi è inoltre suffragata dai ricordi, per quanto non conclusivi, degli amici e dei collaboratori. Infra n. 31.)). In esso, fra le «perdite morali» della società occidentale Huizinga includeva anche il «tramonto del paesaggio». Così appunto s’intitolava il paragrafo nel quale lo storico si interrogava sulla «scomparsa […] di quella natura immediata che una volta circondava quasi dappertutto le dimore umane». La scomparsa della natura intatta era un fenomeno che era apparso in tutta la sua estensione allo storico olandese quando nel 1926 assieme al sociologo T.H. Marshall e all’economista Luigi Einaudi attraversò Gary, sulle rive del fiume Michigan((J. Huizinga, Lo scempio del mondo, B. Mondadori, Milano 2004, pp. 107-108.)). Più volte “accusato” di elaborare un «moralismo estetizzante»((Cfr. N. D’Elia, Delio Cantimori e La crisi della civiltà di Johan Huizinga, in «Storiografia», 11, 2007, pp. 209-228.)), al contrario, in quest’occasione fra i tanti tramonti della civiltà occidentale che Huizinga elenca, l’eclisse del paesaggio non era soltanto la perdita di un valore estetico. Alla consapevolezza che non sarebbe stato possibile dichiarare parco nazionale tutta la Terra, Huizinga opponeva, citando J.M. Burgers, il rapporto fra il concetto di entropia e le funzioni vitali: «La Terra […] è per noi un ambiente chiuso. La spensierata demolizione, e in special modo lo spreco inconsiderato dei prodotti di demolizione e di rifiuto senza che si badi alle conseguenze – concludeva – celano il pericolo di un impoverimento e di un intossicamento della cui gravità quasi non ci rendiamo conto»(( J. Huizinga, op.cit, p. 109.)). Un passaggio questo che, pur con le dovute differenze di costestualizzazione, l’architetto riprenderà nel marzo 1973. L’ecologia, disse alla platea convenuta per un Convegno sullo sviluppo della Val Marecchia, significa anzitutto il «controllo continuo di come l’Uomo modifica il territorio»; ma se i parchi servono per salvaguardare l’ambiente, la risposta non è la «parchizzazione dell’Autosole». Di conseguenza, l’obiettivo reale di un discorso ecologico moderno diveniva per Piacentini quello di far sì che l’azione dell’Uomo non modificasse l’ambiente «troppo rapidamente». Se la lezione dell’ecologia era dunque stata quella di far comprendere che allo sviluppo industriale non si associa sempre ed in modo esclusivo il progresso civile, in altre parole che industrializzazione non è sinonimo di civiltà, far dialogare territorio e ambiente, campagna e città, industria e campo coltivato in una simbiotica relazione di crescita e progresso – concludeva Piacentini – diveniva l’obiettivo della nuova urbanistica((O. Piacentini, Registrazione, op. cit.)).
Ciò, naturalmente, non significa che la comprensione della crisi mutuata da Huizinga contenga in sé già tutte le direttrici della prasi pianificatoria futura. Tuttavia, i prodromi di una “ideologia ambientale” paiono già presenti: l’ansia di programmare e di trasformare dell’urbanista sarà temperata dalla lettura della realtà storica come ulteriore parametro per comprendere il significato della vita sociale. Un orizzonte di senso della realtà storica e della vita sociale che per Piacentini non potevano prescindere dall’ambiente. Grazie a Huizinga egli “incorpora” la natura nella sua visione del mondo: scopre da un lato quanto essa, oltre ad avere un ruolo produttivo primario, possegga anche una valenza identitario-simbolica. Inoltre, forte anche delle ulteriori letture e discussioni fatte negli anni della formazione, Piacentini comprende come la presunta razionalità del mondo capitalista, che muove dal presupposto che le risorse siano infinite, non solo può contraddire la parola di Dio – come Maritain suggeriva – ma è pure in grado di dissipare e mutilare una natura parte della civiltà dell’uomo.
Nel processo di riassegnazione alla progettazione urbanistica del compito di emancipazione etico-morale avvenuto nel secondo dopoguerra, Piacentini rispose alla pressione antropica con la razionalizzazione del territorio. Una riorganizzazione di spazi e luoghi, di funzioni e ruoli che traeva le proprie linee guida dall’ibridazione con la sociologia e le esperienze progressiste anglosassoni conosciute sui banchi universitari e nell’incontro con la scuola sociologica bolognese. Il raggiungimento della consapevolezza ecologica di tipo moderno giunse più avanti, quando alla lettura critica della realtà circostante si associò l’idea che essa non fosse soltanto una mera catalogazione di elementi diversi ma anzi un sistema di relazioni fisico-chimiche e biologiche. In entrambi i momenti la matrice culturale dominante rimase quella della tutela del territorio. Un territorio che era composto non solo di città e di paesaggio ma era anche “ambiente”: composto di campi coltivati, boschi e di interrelazioni con l’uomo che andava a costituire quel valore immateriale del sentire collettivo che era per Piacentini parte integrante di una cultura comune((Sul rapporto simbiotico fra paesaggio naturale e paesaggio culturale cfr. V. Fumagalli, L’uomo e l’ambiente, Bari-Roma, Laterza 1992.)).
Una linea di continuità, pertanto, lega la prima fase dell’attività di Piacentini alla seconda, quella della pianificazione territoriale su vasta scala; un continuum che affonda nella ricerca intellettuale a tutto tondo compiuta dall’architetto. Sul pensiero urbanistico di Mumford e sull’idea della città-giardino, base del background architettonico appreso all’università, Piacentini è andato a innestare le tesi della “crisi di civiltà” mutuate da Huizinga, e poi declinate anche nell’accezione della crisi ecologica e, forte del rifiuto dell’antropocentrismo immanentista estrapolato da Maritain, si è avviato a forgiare la sua ideologia della pianificazione.