Il bianco dei loro occhi
Non sparate sino a quando non vedete il bianco dei loro occhi! Si tratta di uno dei comandi militari più famosi di tutti i tempi. La tradizione militare statunitense vuole che sia stata pronunciato durante la battaglia di Bunker Hill (17 giugno 1775). Sono almeno quattro i comandanti dei coloni ribelli ai quali è stata attribuita la paternità di tale comando, ma la sua storicità rimane tutta da dimostrare. Ad una prima lettura potrebbe sembrare una dimostrazione pratica della cattiva qualità delle armi del periodo, fucili ad avancarica a canna liscia con innesco a pietra focaia. Se lo sparo avviene quando il tiratore può vedere il bianco degli occhi dell’avversario, significa che la distanza di ingaggio è veramente ridotta. In realtà ciò che rende interessante questo aneddoto è il fatto che persino truppe poco addestratecome i coloni nordamericani fossero in grado di percepire che la loro potenza di fuoco, per quanto scarsa, avrebbe avuto maggior efficacia a breve distanza, in particolare in una situazione di combattimento dove le scorte di munizioni erano limitate. L’effetto di questa tattica di fuoco permise ai difensori di tenere le loro posizioni per circa due ore, infliggendo alle truppe britanniche attaccanti gravi perdite.
Sui tanti aspetti legati alla guerra ne esiste uno in particolare che ha ricevuto poca attenzione da parte degli storici militari. Esistono numerose pubblicazioni e studi monografici sulle singole armi. Ogni dettaglio, meccanismo e impiego sono stati descritti ed illustrati, i numeri della loro produzione registrati e il rateo di tiro è ben conosciuto. Ciò che manca è però una chiara descrizione degli effetti o, più brutalmente, della letalità delle varie armi, sistemi d’arma e combinazioni di questi, sul campo di battaglia. Questo perché nel mondo accademico la “storia militare” o “storia della guerra” ha avuto uno sviluppo tutt’altro che lineare. In Italia in particolare, è stata confusa con l’ histoire-bataille, termine che la scuola delle Annales attribuiva alla storia politica, in particolare quella nazionale o “generale”, derivata dal genere letterario della storiografia classica che era tessuta sulle epopee guerriere e scandita di battaglie “decisive”((A tale proposito cfr. la voce “Storia Militare” in Dizionario di Storiografia, a cura di A. De Bernardi, S. Guarracino, Milano 1996.)). Al contrario la storia militare in senso proprio era una funzione interna e riservata dei ministeri della guerra e della marina che ebbe origine nel tardo Seicento, come attività ausiliaria della grande pianificazione strategica ed operativa. I due grandi dépots ministeriali francesi, della Guerra e della Marina, risalgono rispettivamente al 1688 ed al 1715 e andarono ad aggiungersi a quello, preesistente, degli esteri, mentre analoghe funzioni erano svolte, ad esempio, dall’Hofkriegsrat e dal Kriegsarchiv di Vienna e dall’Archivio Segreto Vaticano. Dépot può essere tradotto con archivio, ma il termine non deve trarre in inganno. Gli archivi militari europei di antico regime non erano quei cimiteri di atti amministrativi che finirono poi per diventare e sono oggi, ma veri e propri arsenali intellettuali funzionali all’attività corrente di comando e indirizzo strategico. La storia militare nasce dunque come intelligence, ossia ricerca ed elaborazione sistematica e statistica di qualunque tipo di informazioni, sociali, geografiche e tecniche, utili per elaborare i piani logistici ed operativi di attacco, difesa e occupazione in rapporto ai possibili teatri di guerra. E’ “militare” in quanto all’interesse e al metodo, ma non quanto all’oggetto e alle fonti. Questa attività, peritale e segreta basata sullo studio tecnico delle campagne e dei “precedenti”, è concettualmente ben distinta dalla memorialistica e dalla storia militare ufficiale. Trattavano le stesse informazioni ma la prima era intelligence, l’altra soprattutto autodifesa e propaganda.
La storia militare tecnica decadde nella seconda metà dell’Ottocento quando si dette alla sfida posta dalla crescente complessità la risposta sbagliata, cioè la specializzazione, separando i servizi storici, cartografici ed informativi. Spostata a livelli gerarchici sempre più elevati e distratti, l’unità di indirizzo decadde a mero coordinamento ed infine scomparve, provocando un catastrofico divorzio tra ricerca informativa e ricerca storica, e un corto circuito nel processo di consulenza strategica. Il processo si concluse generalmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli uffici storici furono trasferiti dal reparto operazioni al reparto propaganda.
La scomparsa della dimensione storica dell’intelligence strategica sembrò compensata dal contemporaneo fiorire di due nuovi tipi di storia militare, entrambi sanzionati da un certo riconoscimento accademico. Virgilio Ilari ha sottolineato e tracciato lo sviluppo della storia militare all’interno dell’accademia, descrivendo come sia divenuta una mera specializzazione della storia “generale” ((V. Ilari, Imitatio, restitutio, utopia: la storia militare antica nel pensiero strategico moderno, in Guerra e diritto nel mondo greco e romano, a cura di M. Sordi, Milano 2002, pp. 269-381.)). Essendo questa settorializzata per grandi epoche, poté nascere finalmente una storia militare “antica”, il cui punto di riferimento, per interesse e metodo, era però la storia antica e non la storia militare universale. Seguirono poi le corrispondenti storie militari medievale, moderna e contemporanea, del tutto indipendenti l’una dall’altra. La successiva divaricazione della storia “generale” nelle due grandi correnti della storia politica e della storia sociale, come la nascita di nuove prospettive storiche particolari (istituzionali, economica) ha semmai accresciuto la frammentazione delle storie specialistiche, che sono “militari” quanto al campo di indagine, ma quanto al metodo e all’interesse sono in realtà storie politiche, sociali, istituzionali ed economiche della guerra e delle istituzioni militari.
A partire dagli anni sessanta la britannica War and Society School, guidata da Michael Howard, Geoffrey Best e Brian Bond, reinventò praticamente la storiografia della guerra. Agli inglesi si aggiunsero altri studiosi quali Peter Paret negli Stati Uniti, Wilhelm Deist nella Germania Occidentale, e più recentemente Hew Strachan, John Gooch, Michael Geyer e Robert Tombs. Alla base del nuovo approccio alla materia della War and Society School è posta l’idea che ogni elemento legato alla società, all’economia e persino alla cultura conferisca a ciascun conflitto un carattere ben definito. Quindi non esistono principi eterni che regolano la guerra, cosa che al contrario ilKriegsgeschichtliche Abteilung della Germania guglielmina continuava a ricercare((Il Kriegsgeschichtliche Abteilung (ufficio storico militare) tedesco produsse, per la verità, opere di notevole valore storico ancora oggi apprezzabili. In particolare notevoli sforzi furono fatti nell’edizione del 1902 dell’opera Die Kriege Friedrichs des Grossen, in 13 volumi, mai completata a causa dello scoppio della I Guerra Mondiale. La mole di documenti consultata e le ricerche topografiche effettuate rimangono insuperate. L’aspetto negativo di questa, e di simili altre ricerche condotte da altri uffici storici del periodo, risulta essere il tacito confronto con gli eserciti coevi agli autori della collana, i quali non riuscivano a comprendere quanta differenza esistesse tra un esercito del XVIII e uno dell’inizio del XX secolo, non solo in termini di prestazioni di combattimento, ma anche nella logistica, velocità di marcia e controllo delle operazioni sul campo. Il disastro tedesco del 1914 è la riprova di questo equivoco di fondo.)), ma una grande varietà di sviluppi che si basano su molteplici fattori. Michael Howard e i suoi collaboratori costruirono la propria metodologia di studio limitandosi non solo all’analisi di campagne e battaglie, ma incorporando anche la storia politica, sociale, economica e culturale. A questo tipo di storiografia militare si possono ascrivere Philippe Contamine ed André Corvisier e la totalità della produzione universitaria italiana. Ciò che appare evidente è che le maggiori energie spese per queste ricerche riguardano gli aspetti inerenti ai rapporti tra civili e militari e il ruolo dello sviluppo delle forze armate in tempo di pace, al punto che gli storici militari sono oggi più capaci nello sviluppare testi dedicati alle situazioni delle popolazioni civili in guerra ed in pace che non a soldati e battaglie. Questo ha posto numerosi interrogativi sul significato e l’utilità di una storia militare e sul senso di portare avanti ricerche dedicate a questo argomento((Sullo stato corrente della storia militare cfr. Was ist Militärgeschichte?, a cura di T. Kühne, B. Ziemann, Paderborn 2000; J. Nowosadtko, Krieg, Gewalt und Ordnung. Einführung in die Militärgeschichte, Tübingen 2002; S. Förster, The Battlefield: Towards a Modern History of War, London 2008.)). Nel contempo è stata rivista dal basso l’analisi degli eventi bellici, concentrandosi maggiormente sulle vicende dei singoli soldati, sia nella loro vita in caserma sia sul campo di battaglia.
Questo però ha fatto sì che gli storici collegati alla “New Military History”, ossia alla nuova corrente storiografica generata dalla War and Society School, abbiano accuratamente evitato di confrontarsi con il campo di battaglia e con la realtà del combattimento, considerando il tutto cose vecchie, infelici, lontane ((T.L. Knutsen, Old, Unhappy, Far-Off Things: The New Military History of Europe, in “Journal of Peace Research”, Vol. 24, n. 1, pp. 87-98.)). Nonostante la lettura di Jeremy Black((J. Black, European warfare, 1660-1815, New Haven 1994.)), Geoffrey Parker((G. Parker, La Rivoluzione Militare, Bologna 1999; Id., The Army of Flanders and the Spanish Road 1567-1659, Cambridge 2004.)), John A. Lynn(( J.A. Lynn The Bayonets of the Republic. Motivation and Tactics in the Army of Revolutionary France, Chicago 1984; Id., Giant of the Grand Siècle. The French Army 1610-1715, Cambridge 1997.)) e David A. Parrott((D. Parrott, Richelieu’s Army. War, Government and Society in France, 1624-1642, Cambridge 2001.)), solo per citare alcuni dei principali autori contemporanei consultati per questo studio, non sono riuscito a farmi un’idea di come un tercio spagnolo, un reggimento francese, austriaco o prussiano affrontassero la prova del campo di battaglia, come gli ufficiali impartissero gli ordini, i soldati vincessero la paura, subissero e infliggessero perdite. Ritenevo che i lavori di John Keegan((Su tutti il capolavoro J. Keegan, Il Volto della Battaglia, Milano 2001. Il libro, il cui titolo originale è The Face of Battle, pubblicato per la prima volta nel 1976, ha avuto più influenza sulla storia militare classica, romana e medievale che su quella moderna. Keegan spiazza le tesi delbrückiane secondo le quali negli studi storico-militari hanno valore fondamentale i numeri delle forze in campo, e questo fatto ha reso finalmente l’indagine sulla guerra classica un esercizio meno laborioso ed arido di quanto non fosse in precedenza, volto a ricostruire la realtà della battaglia per coloro che combattevano e morivano. Cfr. V.D. Hanson, L’Arte occidentale della Guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica, Milano 2001, pp. 48-49.)) e di Christopher Duffy((In particolare cfr. C. Duffy, The Military Experience in the Age of Reasons, London 1998 e le due monografie dedicate all’esercito austriaco nel corso della Guerra dei Sette Anni; Instrument of War, Rosemont 2000; By Force of Arms, Chicago 2008.)) avessero sdoganato per la storiografia militare moderna il concetto di violenza e di battaglia. Invece ha prevalso l’idea di Parker, secondo il quale per chi si occupa di “New Military History” é relativamente più facile scrivere la storia di battaglie, una campagna, persino di una guerra; é estremamente difficile scrivere la storia degli uomini, dei reggimenti, e delle armi che hanno combattuto ((G. Parker, recensione a D.C. Baxter, J. Childs e A. Corvisier, in “The Journal of Modern History”, Vol. 50, No. 1 (Mar. 1978), p. 148.)) .
Gli storici attuali, in particolare gli affezionati alla “New Military History”, spesso conoscono poco delle armi adottate dagli eserciti che studiano, della loro efficacia, per non parlare dei teatri operativi (ossia dei luoghi dove la guerra viene combattuta) che sono solo immaginati, quasi mai studiati, esplorati, compresi. Questo vuoto storiografico fa sì che oggi risulti assai difficile ricostruire un combattimento di epoca moderna. Quale storia militare perseguire è suggerito invece con estrema lucidità da Robert M. Citino che nota come la storia militare debba necessariamente ritornare ad occuparsi del campo di battaglia; un esercito, una istituzione militare hanno sul campo di battaglia la verifica della tenuta dei reparti, dell’efficacia dell’addestramento, della snellezza e dell’efficienza della logistica, della propria organizzazione((R.M. Citino, The German Way of War. From the Thirty Years’ War to the Third Reich, Lawrence 2005, pp. XV-XVIII; S. Förster, The Battlefield cit., pp. 22-23.)). Dunque è a livello operativo che la storia militare propriamente detta trova una nuova dimensione; l’analisi dei sistemi d’arma, la loro efficacia sul campo di battaglia, lo studio della topografia dei luoghi della guerra, sia che si tratti di campi, città o piazzeforti, come della rete stradale o dei porti (fluviali o marittimi) impiegati dalla logistica. A questa logica si ispira anche la Nouvelle Histoire Bataille proposta dall’Institut de Stratégie et des Conflits – Commission Française d’Histoire Militaire (Istituto di Strategia Comparata – Commissione Francese di Storia Militare), dai lavori di Paddy Griffith((P. Griffith, Battle Tactics of the American Civil War, Ramsbury 1987.)), Mark Adkin((M. Adkin, The Waterloo Companion. The Complete Guide to History’s Most Famous Land Battle, Mechanicsburg 2001; Id., Gettysburg Companion. A Guide to the Most Famous Battle of the Civil War, Mechanisburg 2008.)) e Scott Bowden((S. Bowden, Glory Years. Napoleon at Austerlitz 1805-1807, Chicago 1997.)) che di fatto hanno stravolto la stereotipata immagini che avevamo di alcune campagne belliche.
Michael Hochedlinger scrive che la storia delle campagne e delle battaglie non solo è superata ma è anche incline a mantenere vivi antichi pregiudizi contro una disciplina (la Storia Militare) che deve lottare per ottenere un posto di rispetto; in più la vecchia storia narrativa ha in gran parte e considerevolmente esaurito lo studio di campagne e battaglie ((M. Hochedlinger, Bella gerant alii? On the state of Early Modern Military History in Austria, in “Austrian History Yearbook”, vol. XXX, Minneapolis 1999, p. 24.)) . L’autore di queste pagine non può che essere in disaccordo con questa affermazione. Gli studi delle più notebattaglie e campagne sono di fatto inesauribili, dal momento che nuove interpretazioni sono sempre possibili, grazie ad una rinnovata e più critica lettura delle fonti già conosciute, alla scoperta di documentazione inedita e di moderne forme di indagine. Fra queste emerge la nascente Conflict Archaeology che si sta rivelando in grado di mettere nelle mani degli storici militari un notevole e prima di oggi impensabile strumento di studio per la ricostruzione e la comprensione del campo di battaglia((
Michael Hochedlinger scrive che la storia delle campagne e delle battaglie non solo è superata ma è anche incline a mantenere vivi antichi pregiudizi contro una disciplina (la Storia Militare) che deve lottare per ottenere un posto di rispetto; in più la vecchia storia narrativa ha in gran parte e considerevolmente esaurito lo studio di campagne e battaglie ((M. Hochedlinger, Bella gerant alii? On the state of Early Modern Military History in Austria, in “Austrian History Yearbook”, vol. XXX, Minneapolis 1999, p. 24.)) . L’autore di queste pagine non può che essere in disaccordo con questa affermazione. Gli studi delle più notebattaglie e campagne sono di fatto inesauribili, dal momento che nuove interpretazioni sono sempre possibili, grazie ad una rinnovata e più critica lettura delle fonti già conosciute, alla scoperta di documentazione inedita e di moderne forme di indagine. Fra queste emerge la nascente Conflict Archaeology che si sta rivelando in grado di mettere nelle mani degli storici militari un notevole e prima di oggi impensabile strumento di studio per la ricostruzione e la comprensione del campo di battaglia(()). Già un grande pioniere della storiografia militare, Hans Delbrück (1848-1929), aveva comprovato come fosse possibile dimostrare che molti tradizionali resoconti di operazioni militari siano un puro nonsenso mediante una semplice, intelligente ispezione del terreno. Un suo seguace inglese, Alfred Higgins Burne (1886-1959), ha proposto di estendere a tutti i maggiori campi di battaglia un principio da lui dimostrato valido, consistente nell’Inherent Military Probability (probabilità militare implicita) e che, se usato con circospezione, costituisce un interessante campo di indagine(( Il principio consiste nel risolvere un problema teorico in base a ciò che un soldato esperto avrebbe fatto nelle stesse circostanze. Per la visione di Delbrück e Burn sulla storia militare cfr. Keegan, Il Volto della Battaglia cit., p. 31.)). Inoltre trovo che gli storici militari, come già aveva segnalato Keegan, dovrebbero trascorrere il maggior tempo possibile in compagnia di militari, non in base alla considerazione che “gli eserciti rimangono sostanzialmente gli stessi” e neanche con occhio critico a prescindere, ma perché l’osservazione casuale di eventi banali può servire a illuminare la sua personale comprensione di tanti problemi del passato che altrimenti quasi certamente resterebbero obnubilati.)). Già un grande pioniere della storiografia militare, Hans Delbrück (1848-1929), aveva comprovato come fosse possibile dimostrare che molti tradizionali resoconti di operazioni militari siano un puro nonsenso mediante una semplice, intelligente ispezione del terreno. Un suo seguace inglese, Alfred Higgins Burne (1886-1959), ha proposto di estendere a tutti i maggiori campi di battaglia un principio da lui dimostrato valido, consistente nell’Inherent Military Probability (probabilità militare implicita) e che, se usato con circospezione, costituisce un interessante campo di indagine(()). Inoltre trovo che gli storici militari, come già aveva segnalato Keegan, dovrebbero trascorrere il maggior tempo possibile in compagnia di militari, non in base alla considerazione che “gli eserciti rimangono sostanzialmente gli stessi” e neanche con occhio critico a prescindere, ma perché l’osservazione casuale di eventi banali può servire a illuminare la sua personale comprensione di tanti problemi del passato che altrimenti quasi certamente resterebbero obnubilati.
John Keegan ritiene che i “momenti” tecnologici della guerra siano sostanzialmente tre: armi bianche, armi monoproiettile e armi pluriproiettili. Le guerre dell’era moderna sono segnate, a mio avviso, dall’adozione di tre tipi di armi: il fucile a pietra focaia, il fucile a retrocarica, il fucile a retrocarica con munizione a polvere infume. La rigatura delle canne ha avuto in questa storia un’importanza meno decisiva di quello che un tempo si riteneva ((Nel 1987 questo paradigma storiografico è stato messo in crisi da Griffith, Battle Tactics cit. Le successive ricerche di Mark Grimsley, Brent Nosworthy e Earl J. Hess hanno confermato la ridotta distanza di ingaggio, in media 100 metri, degli eserciti ottocenteschi ed in particolare della Guerra Civile Americana. M. Grimsley, Surviving Military Revolution: The U.S. Civil War, in The Dynamics of Military Revolution, 1300-2050, Cambridge 2001, pp. 74-91; E.J. Hess, The Rifle Musket in Civil War Combat. Reality and Myth, Lawrence 2008; B. Nosworthy, The Bloody Crucible of Courage: Fighting Methods and Combats Experience of the Civil War, New York 2003.)).
Ciò che in questo contributo mi propongo è qualcosa di assai più ridotto che non l’analisi in chiave operativa e tattica di tutte e tre queste Rivoluzioni Tecnico Militari, ma non privo di importanza. Questo studio tratta dell’evoluzione del concetto di potenza di fuoco e del suo impatto sui campi di battaglia europei tra il 1500 ed il 1800 soffermandosi in particolare sul XVIII secolo. Mentre completavo le ricerche della mia tesi di dottorato, dedicata alla Guerra dei Trent’Anni, mi resi conto che il vero “salto di qualità” in termini di Battle Effectiveness nella storia della guerra moderna non avvenne nel corso del Seicento, ma un secolo dopo a causa dell’aumento costante della potenza di fuoco. La “potenza di fuoco” è uno dei concetti chiave della guerra moderna ed indica la capacità di scagliare una massa di metallo contro un nemico, una sua postazione o un mezzo, allo scopo di distruggerlo o di abbattere il suo desiderio di continuare a combattere. Fu l’elemento che più di ogni altro contribuì a cambiare radicalmente il volto della guerra e la società europea, trasformando entrambi in maniera così profonda che ancora oggi possiamo apprezzarne gli effetti.
Ciò che mi propongo è dimostrare che il concetto di “potenza di fuoco” nacque e si sviluppò nel corso del Settecento, quanto condizionò gli sviluppi futuri della guerra nei secoli successivi e quali effetti diretti ebbe sul campo di battaglia. Per fare questo mi servirò principalmente di regolamenti, relazioni, memorie stampate tra il 1600 ed il 1800. Si tratta di una scelta ben precisa in quanto ho voluto approfondire quali e quanti argomenti di carattere specialistico erano affrontati, discussi e commentati dai lettori, militari e non, del XVIII secolo attraverso una diffusione a mezzo di stampa. Mi servirò delle indicazioni che le fonti materiali mi hanno suggerito: ho esaminato, smontato, rimontato e, quando possibile, impiegato una buona parte delle armi descritte o menzionate nel testo. Utilizzerò anche tutti gli spunti, informazioni e dati che le ricognizioni dei campi di battaglia mi hanno trasmesso. Le aree dello scontro sono fonti preziose, e a chi è allenato a leggerle queste possono fornire dati altrimenti impossibile da dedurre o carpire attraverso la lettura dei documenti del periodo. Come un testo d’archivio, i campi di battaglia possono essere più o meno integri, spesso sono stati manomessi e solo parte di essi sono ancora percorribili. Si tratta ad ogni modo di un aspetto della ricerca che ogni storico militare che si occupi di una battaglia particolare dovrebbe affrontare. Il mio è un personale tentativo di guardare “il bianco degli occhi” dei soldati del passato, e cercare di comprendere attraverso la loro esperienza le guerre che hanno combattuto.
Primi fuochi
05:00, 25 febbraio 1525: Bosco di Mirabello, Pavia
Nella fredda mattina del 25 febbraio l’esercito imperiale entrò di sorpresa nel Parco vecchio attraverso tre brecce praticate nel muro perimetrale est, in prossimità di Due Porte, e puntò su Mirabello. Protette da una spessa nebbia che gravava sulla campagna, le avanguardie imperiali, costituite da circa 3.000 archibugieri, arrivarono nei pressi del paese quando ormai stava albeggiando. Parte della guarnigione riuscì a sganciarsi appena in tempo e ritirarsi sino al campo, dove fu dato l’allarme. Il re di Francia, Francesco I, tratto dal sonno prese il comando della cavalleria, la sceltissima Gendarmerie, costituita dal fiore della nobiltà francese. Sul suo fianco destro si schierò il quadrato della Banda Nera, forte di 4.000 lanzichenecchi tedeschi al soldo francese, affiancato a sua volta da un altro quadrato di circa 3.000 picchieri svizzeri. I quadrati erano intervallati da 53 pezzi di artiglieria. Gli archibugieri imperiali, inviati all’avanguardia verso Mirabello, rientrarono verso il grosso dell’esercito imperiale che si dispose in ordine di battaglia per affrontare i francesi che stavano avanzando. Mentre i cannoni colpivano la fanteria nemica, Francesco I e la sua Gendarmerie si scontrarono con la cavalleria leggera imperiale che fu rapidamente dispersa. Il re di Francia si sentivaormai padrone della vittoria e rivoltosi al signore di Lescun, che gli era in fianco, esclamò la famosa frase Monsignore, oggi mi voglio chiamare Signore di Milano. La situazione per gli imperiali si faceva difficile. Con abile intuizione, ilmarchese di Pescara ordinò allora che 1.500 archibugieri si spostassero all’ala destra, si appostassero sulle rive del rio Vernavola e nelle campagne circostanti e battessero con il loro fuoco la Gendarmeria francese che stava rifiatando dopo la carica.
I francesi furono decimati dal tiro degli archibugieri mentre la cavalleria imperiale, riordinatasi, passò al contrattacco. Francesco I cercò di resistere il più a lungo possibile attorniato da un’esigua schiera dei suoi cavalieri, ma alla fine cercò anche lui scampo nella fuga, tentando di uscire dal Parco. Inseguito da alcuni cavalieri e fanti nemici, nei pressi della cascina Repentita il suo cavallo fu abbattuto ed egli venne fatto prigioniero. La cattura del re di Francia sarebbe bastata da sola ad assicurare la vittoria agli imperiali, che comunque trionfarono anche al centro, dove i lanzichenecchi tedeschi e i fanti spagnoli travolsero la Banda Nera e gli Svizzeri, catturando le artiglierie francesi e ponendo in rotta ciò che restava dell’esercito nemico. La sortita da Pavia della guarnigione comandata da Antonio de Leyva contribuì a mettere in fuga un altro quadrato svizzero proveniente dalle “cinque abbazie” e completò il trionfo imperiale. La battaglia era stata brevissima, meno di due ore. I francesi subirono perdite che oscillavano, secondo le fonti, tra i 6.000 e i 10.000 uomini, mentre quelle imperiali, sensibilmente inferiori, furono attorno ai mille uomini((Sulla battaglia di Pavia cfr. J. Giono, Il disastro di Pavia, Pavia 2002.)).
Istantanee dal passato
Gli Arazzi della Battaglia di Pavia, oggi conservati al Museo Capodimonte di Napoli, rappresentano una fonte quanto mai interessante, dal momento che fotografano un momento cruciale della trasformazione della Guerra, che muta in ogni suo aspetto, nella tattica, nell’armamento e nelle posture; un’epoca intera separa i pesanti cavalieri corazzati italiani e francesi che hanno aperto le cosiddette “Guerre italiane” a Fornovo sul Taro nel 1495 dagli archibugieri di Pavia del 1525((I sette arazzi recano la seguente numerazione e titolo: Avanzata dell’Esercito Imperiale e attacco della gendarmeria francese guidata da Francesi I, 439 x 867 cm, I.G.M.N. 144483; Sconfitta della cavalleria francese. Le fanterie imperiali si impadroniscono delle artiglierie nemiche, 439 x 867cm, I.G.M.N. 144484; Cattura del re di Francia Francesco I, 435 x 880 cm, I.G.M.N. 144489; Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili al seguito dell’esercito di Francesco I, 440 x 818 cm, I.G.M.N. 144486; Fuga dei civili dal campo francese. Gli Svizzeri si rifiutano di avanzare nonostante gli incitamenti dei loro comandanti, 424 x 886 cm, I.G.M.N. 144485; Fuga dell’esercito francese e ritirata del Duca d’Alençon oltre il Ticino, 433 x 836 cm, I.G.M.N. 144487; Sortita degli assediati e rotta degli Svizzeri che annegano in gran numero nel Ticino, 437 x 789, I.G.M.N. 144488. Sulla storia degli arazzi, la loro realizzazione e i recenti restauri si veda Gli Arazzi della Battaglia di Pavia, a cura di N. Spinosa, Milano 1999. Per un’interpretazione delle scene di combattimento cfr. G. Cerino Badone, A ferro e a fuoco. Soldati, società, tecnologia e guerra agli inizi del XVI secolo, in “Musei del Ferro in Europa e in Italia, atti del convegno “Regioni, città, percorsi, del ferro in Europa”, Brescia 2006, pp. 63-80.)). Dalla fine del XV secolo i re di Francia da una parte e l’Impero dall’altra fecero ampio ricorso a fanterie mercenarie prevalentemente armate di lunghe picche: “Svizzeri” e “Lanzichenecchi”, secondo la loro provenienza dai Cantoni svizzeri o dalla Germania meridionale. Nello stesso periodo la diffusione e il perfezionamento delle armi da fuoco fu continuo. Anche se inizialmente erano grossolane, poco maneggevoli ed efficaci, nonché molto costose, i militari intuirono le loro possibilità di sviluppo ed elaborarono speciali tattiche con cui valorizzarle ed estenderne l’uso.
Gli archibugieri, facile preda di una carica di cavalleria per via della lentezza del caricamento delle loro armi, furono affiancati ai picchieri; la picca e l’archibugio diventarono, in una tattica coordinata, gli arbitri della battaglia. Di riflesso la cavalleria non fu più l’arma vincente e risolutiva e, abbandonato il graduale appesantirsi delle armature, iniziarono a essere elaborate nuove tecniche di combattimento a cavallo basate a loro volta sulle armi da fuoco. I cannoni provocarono nel giro di pochi anni modifiche radicali nella costruzione delle difese fisse e, di riflesso, nelle tattiche di assedio. Nel primo degli arazzi, Avanzata dell’esercito imperiale e attacco della gendarmeria francese guidata da Francesco I, una formazione di archibugieri imperiali si sta disponendo in linea dopo aver oltrepassato ilbosco di Mirabello. La ricerca di Bernard Van Orley, il cartonista degli arazzi, e le sue capacità pittoriche hanno fotografato splendidamente l’aspetto più scenografico della guerra del XVI secolo. I colori, gli uomini, di cavalli, i campi, sono stati raffigurati in tutta la loro sgargiante maestà. Manca la raffigurazione della cruda realtà della guerra che, ad esempio, si vede nelle incisioni e nei disegni di Holbein il Giovane o di Urs Graf, ma raramente le masse di soldati sono state raffigurate con altrettanta precisione nei loro movimenti. Gli archibugieri sono schierati su 4 distinte fila e 8 ranghi, per un totale di 32 uomini. Mentre la prima fila scaricava le proprie armi, le altre tre ricaricavano. Se il nemico, come effettivamente avvenne a Pavia, si avvicinava troppo, gli uomini avrebbero potuto ritirarsi agevolmente nella boscaglia o farsi difendere dalla selva di lance dei picchieri visibili sullo sfondo.
I soldati sono raffigurati nell’atto di tenere il fucile secondo una postura non casuale: la prima fila si appresta a spianare le armi contro il nemico che avanza. L’archibugio è afferrato al calcio con la mano destra, la sinistra serve solo come appoggio. Gli uomini delle file successive alla prima trasportano la loro arma appoggiandola alla spalla sinistra. Quando la Gendarmerie francese si avvicinò al galoppo gli archibugi erano già caricati e la miccia accesa. Con un pronto colpo di spalla l’arma era spinta in avanti e la mano destra la trasportava nella posizione orizzontale di sparo. Il soldato che combatté a Pavia nel febbraio del 1525 era già in grado di servirsi in maniera disinvolta di un’arma ideata e realizzata, nelle forme presentate dagli arazzi della battaglia, solo una trentina di anni prima. Gli uomini si muovevano al passo. Quelli della prima fila hanno tutti il piede sinistro avanzato, così come quelli delle file successive. È una pratica scaramantica, sin dall’antichità il primo piede da muovere nelle marce militari era il sinistro.
Le armi da fuoco raffigurate in questa scena dell’arazzo sono archibugi a miccia, quanto di più evoluto è presente nell’arsenale individuale del soldato della prima metà del XVI secolo. L’accensione avveniva tramite una miccia, ossia un tratto di spago imbevuto in una soluzione di nitrato di potassio. Questo trattamento garantiva un consumo di 10 cm all’ora, in contrasto con la miccia normale che bruciava alla velocità di 30 cm al minuto. Schiacciando una leva o un bottone, il serpe, un braccetto ricurvo al quale era fissata la miccia, si abbassava sullo scodellino aperto bruciando l’innesco. Il fuoco, attraverso un piccolo foro definito focone, entrava all’interno della canna incendiando la carica di lancio la quale, esplodendo, scagliava il proiettile di piombo contro il bersaglio. Cessando la pressione sulla leva, la molla di richiamo riportava indietro il serpe. Il meccanismo, noto già dalla seconda metà del XV secolo, aveva ricevuto importanti migliorie a partire dal 1490((Sugli armamenti a miccia delle Guerre italiane cfr. C. Calamandrei, Meccanismi di accensione. Storia illustrata dell’acciarino dal serpentino alla retrocarica, Sesto Fiorentino 2003; S. Masini, G. Rotasso, Armi da fuoco. Le armi individuali dal ‘500 ad oggi, Milano 1987, pp. 12-22; G. Zinoni, Vivere il ferro. Materiali per una storia della siderurgia bresciana in epoca moderna, Quaderni della Fondazione Micheletti, n. 14, 2003.)). Gli archibugi erano impreziositi da una volata troncoconica la cui decorazione contribuiva rendere l’arma costosa. Non fu però un ostacolo alla loro diffusione. L’archibugiere arruolato nelle formazioni di lanzichenecchi era inserito nelle liste dei Doppensoldner (doppio soldo), specialisti destinati a ricevere una doppia paga. Le canne raffigurate negli arazzi sembrano essere tutte in ferro, tranne quella degli ufficiali schierati nelle prime file. Le loro armi hanno le parti metalliche dorate: si tratta probabilmente di archibugi dotati di canne di bronzo.
Spesso il colpo non andava a segno: a volte era la miccia che non bruciava bene. Il vento, la pioggia, l’umidità, la mancanza di sangue freddo da parte del tiratore erano altri motivi che impedivano all’arma di far centro. Se il nemico era troppo vicino l’archibugio era usato come una clava e il calcio ligneo era sagomato a tale fine. Una corta daga a doppio taglio e dalla caratteristica guardia a S, la Katzbalger (stermina gatti), pende dalla vita dell’archibugiere: dove falliva il fuoco non doveva fallire il ferro. L’equipaggiamento degli archibugieri, che nell’arazzo si preparano allo scontro, appare povero. I carichi più pesanti e voluminosi sono rimasti nell’accampamento, ad una certa distanza dalle postazioni francesi. Alcuni portano a tracolla una cinghia di cuoio dalla quale pendono i contenitori di legno riempiti con cariche di polvere nera già pesate e pronte all’uso . Altri, per la stessa funzione, hanno una fiasca. Qualcuno porta con sé entrambi i tipi di contenitore. La bacchetta per il caricamento, in legno, è alloggiata al di sotto della canna dell’arma, annegata nella cassa. La miccia è sempre accesa e per questo è soggetta ad un consumo veloce. La sua riserva, spesso arrotolata intorno alla canna dell’archibugio, permette al soldato di afferrare l’arma anche quando, per la frequenza del tiro, la canna si surriscalda. Gli uomini indossano appariscenti abbigliamenti “a Tagli” assai popolari tra i mercenari svizzeri e tedeschi al principio del XVI secolo. La giubba, pesante e dotata di voluminose maniche, è chiusa da ganci e stringhe. L’abbondante imbottitura serve anche come protezione contro i colpi ad effetto tagliente, così come la sopravveste di pelle flessibile di cui tutti appaiono dotati. Le calzebrache attillate, in tessuto di lana, sono alte abbastanza in vita da essere autoreggenti. La brachetta (in francese pont-levis), ancora pochi anni prima semplice e funzionale pezza posta a chiusura dell’inguine, è diventata un’insegna, imbottita, tagliuzzata e ornata di nastri, della virilità e della mascolinità del guerriero. L’arazzo documenta l’abitudine di lasciare nuda una gamba o parte di essa, in particolare il ginocchio. Un espediente per restare più freschi durante le lunghe marce delle campagne italiane. Tutti gli uomini indossano stivaletti a punta larga in pelle oppure delle calzature, sempre in pelle, dette Kuhmäule, ossia “a bocca di mucca”, al posto delle comode scarpe basse solitamente raffigurate in altre immagini dell’epoca. Molti portano sul capo ampi cappelli a falda, talvolta abbelliti da piume. Alcuni al di sotto del copricapo indossano una cuffia per proteggersi dal freddo. Gli ufficiali – ce ne sono quattro nelle fila dei fucilieri – si distinguono per una fascia bianca indossata di traverso sul petto, di colore bianco e rosso. Gli uomini hanno tutti barba e baffi, un particolare che oltre alla Katzbalger distingue i mercenari lanzichenecchi da quelli svizzeri. I capelli sono portati cortissimi: il capello corto,talvolta completamente rasato, significava una preoccupazione in meno per l’igiene personale. Due bandiere sono fatte sventolare sui ranghi e servono a segnalare la posizione di raccolta per i soldati che ancora sono impegnati nell’attraversamento del bosco. Ogni bandiera indica una Fälhein, una delle compagnie nelle quali un reggimento si suddivide. Disegni e colori sono volutamente appariscenti. I soldati potevano più rapidamente comprendere se si trattava del loro reparto di un altro. La croce di Borgogna, due bastoni disposti a X, è uno dei simboli della compagine imperiale ed è raffigurata su quasi tutti i vessilli mentre i colori sono invece quelli degli stemmi gentilizi dei capitani delle compagnie. Un tamburo e un piffero danno il passo alla truppa, funzione irrinunciabile per far muovere ordinatamente e contemporaneamente tanti uomini in uno spazio contenuto. Gli strumenti musicali servono per la trasmissione degli ordini e non è un caso che nell’arazzo il tamburo e il piffero si trovino nelle vicinanze di un ufficiale. Ad un ordine del comandante il tamburo segnalava, con differenti cadenze, l’avanzata, la ritirata, l’apertura o la sospensione del fuoco. Il cartonista omise tuttavia una serie di particolari. Lo scontro è reso come se si fossero sovrapposti una serie di piani tra loro indipendenti. La prospettiva non risulta schiacciata, ma le scene e gli uomini raffigurati sembrano partecipare a momenti ed eventi tra loro indipendenti e isolati. La battaglia di Pavia avvenne il 25 febbraio: a quella data gli alberi erano tutt’altro che quei rigogliosi e fronzuti vegetali raffigurati. Inoltre una fitta nebbia, che face scendere ben al di sotto dei 50 metri la visibilità e che penalizzò l’azione francese, copriva l’intero campo di battaglia. L’artista ha rappresentato pressoché tutta la truppa dotata del corpetto di pelle altrove raramente riscontrabile, ma le condizioni del vestiario dovevano essere assai più malconce di quelle qui visibili. Pavia, per gli imperiali, fu la conclusione di una lunga e difficile marcia di avvicinamento avvenuta nel rigido inverno dell’Italia settentrionale e l’equipaggiamento dei singoli doveva averne risentito parecchio((Sull’equipaggiamento, reclutamento ed organizzazione del soldato agli inizi del XVI secolo, in particolare sui lanzichenecchi, cfr. R. Baumann, Landsknechte. Ihre Geschichte und Kultur vom späten Mittelalter bis zum Dreißigjährigen Krieg, München 1994; G.J. Millar, The Landsknecht. His Recruitment and Organization, with some reference to the Reign of Henry VIII, in “Military Affairs”, Vol. 35, No. 3, pp. 95-99; H. Pleticha, Landsknecht Bundschuh Söldner. Die große Zeit der Landsknechte, die Wirren der Bauernaufstände und des Dreißigjährigen Kriegs, Würzburg 1974; B. von Seggern, Der Landsknecht im Spiegel der Renaissancegrafik, Bonn 2003.)).
La rivoluzione militare del XVI secolo
Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 1525 davanti alla città di Pavia fu combattuta una delle più importanti battaglie per il controllo dell’area italiana: da una parte l’esercito guidato dal Francesco I re di Francia, dall’altra quello di Carlo d’Asburgo divenuto dal 1516 re di Spagna e dal 1519, dopo aver ereditato l’arciducato d’Austria e il ducato di Borgogna, anche imperatore del Sacro Romano Impero((Per una visione globale del dibattito storiografico legato alla Rivoluzione Militare, con una analisi dei testi di Parker e Roberts, cfr. La Révolution Militaire en Europe (XVe – XVIIIe siècles), a cura di J. Bérenger, Paris 1998; G.P. Motta, Marte liberato. Rivoluzione Militare e Rivoluzione Industriale, Torino 1998; The Military Revolution Debate. Readings on Military Transformation of Early Modern Europe, a cura di C. J. Rogers, Oxford 1995; L. Pezzolo, La “rivoluzione militare”: una prospettiva italiana 1400-1700, in Militari in Età Moderna. La centralità di un tema di confine, a cura di A. Dattero, S. Levati, Milano 2006, pp. 15-62.)).
La battaglia di Pavia fu tuttavia solo una delle grandi battaglie che a partire dalla fine del Quattrocento misero di fronte le due potenze dell’epoca, Francia e Spagna (dal 1519 per motivi dinastici unita all’Impero), in uno scontro che mirava al controllo dell’area italiana e che durò fino al 1559 quando, con la Pace di Cateau Cambrésis, la Francia rinunciò definitivamente alle sue mire su Milano e Napoli impegnandosi ad uscire per il momento dalla scena italiana.
A scontrarsi attorno a Pavia furono circa 60.000 uomini per la maggior parte mercenari. L’esercito imperiale, guidato da Ferdinando Francesco d’Avalos marchese di Pescara, disponeva di 800 uomini d’arme, 1.500 uomini della cavalleria leggera, 20.000 fanti (12.000 lanzichenecchi, 5.000 spagnoli, 3.000 italiani), 17 cannoni; a questi si aggiungevano i 6.000 uomini della guarnigione di Pavia. Agli ordini di Francesco I erano i 1.200 uomini d’arme ( Gendarmerie), 2.000 uomini della cavalleria leggera, 23.000 fanti (8.000 svizzeri, 5.000 lanzichenecchi della Banda Nera, 4.000 italiani, 6.000 francesi) e 53 cannoni.
Le grandi guerre del passato impallidivano di fronte a quanto stava avvenendo in quegli anni: sempre più battaglie, sempre più eserciti composti da migliaia di persone e l’impiego di tattiche e strategie belliche che miravano all’eliminazione dell’avversario. Questo fatto, se da un lato produsse inevitabilmente stragi inaudite, dall’altra portò anche a questi cambiamenti:
- riduzione degli spazi fisici, commerciali, imprenditoriali e morali impermeabili alla penetrazione della guerra;
- deterioramento definitivo del rapporto tra la guerra e le altre occupazioni o attività dell’uomo. Si generalizzò così la figura del combattente a tempo pieno e forze giovani e valide si spostarono dal lavoro al consumo improduttivo;
- cambiamento della sensibilità collettiva, progressivo distruggersi dei tradizionali valori etici di fronte al quotidiano spettacolo della violenza e del potere corruttore della guerra. La guerra infatti assunse caratteristiche di rabbia e di spietatezza a danno anche degli inermi. Le popolazioni indifese erano alla mercé di eserciti amici e nemici ma, in ogni caso, ladri e banditi il cui comportamento liberava ulteriori violenze, religiose e politiche, di villaggio e familiari.
Altro elemento di novità importante fu la specializzazione del guerriero. Si differenziarono le aree di reclutamento (Cantoni svizzeri, Germania del sud, Spagna) e si codificarono le specialità (cavallerie pesanti e leggere, picchieri ed archibugieri, artiglieri, ecc.). Tra gli stessi uomini della fanteria vi furono mercenari svizzeri, lanzichenecchi, italiani, francesi, tra di loro antagonisti in quanto in lotta per accaparrarsi una fetta di quel mercato di uomini che la guerra aveva aperto. Non solo si trovavano differenze tra specialisti del combattimento, ma anche all’interno della stessa struttura logistica degli eserciti, dei reggimenti e delle singole compagnie. Le differenze non stavano solo nelle mansioni o nelle capacità dei singoli ma, ovviamente, anche nella paga. Agli inizi del XVI secolo un lanzichenecco riceveva generalmente 4 fiorini al mese di paga, un sergente ( Veldwaibel Feldwebel) dai 10 ai 16, un alfiere (Vendrich, Fahnrich) 16, un cappellano 4. I veterani, gli archibugieri, gli uomini armati della grande spada a due mani detta Biedenhänder, ricevevano soldo doppio, cioè 8 fiorini al mese, ed erano per questo chiamati Doppelsoldner. Una pagapiù alta veniva anche corrisposta a coloro che svolgevano uffici particolari, come lo scrivano, il tamburino, il furiere, i suonatori di piffero, ecc. L’unità tattica più piccola nella quale i lanzichenecchi erano inquadrati era la “bandiera” ( Fahnlein), che poteva contare dai 300 ai 500 uomini ed era comandata da un capitano. Questi riceveva un compenso che andava dai 20 fino ai 60 fiorini al mese. Più “bandiere” formavano un “Reggimento”, al comando di un colonnello (Obrist), che generalmente era lo stesso “imprenditore” al servizio del “signore della guerra”. Il suo “Stato Maggiore” comprendeva un luogotenente, alcune guardie del corpo, cappellano, cuoco, barbiere, scrivano, interprete, ecc. Il reggimento aveva anche un “prevosto” (Profoss), pubblico accusatore e contemporaneamente esecutore delle sentenze, oltre che sovrintendente alla vita economica del campo. Inoltre il gran numero di carriaggi che seguivano le truppe in campagna, insieme a un’infinità di donne, mercanti, ragazzi, avventurieri, richiedeva un responsabile, il cui lavoro difficilmente era pagato in maniera adeguata.
Nuova guerra, nuova società
Re, principi e tutti coloro che promuovevano la guerra sollecitavano il genio versatile degli inventori, dalle armi curiose e speciali, alle fortezze, all’interesse per i problemi della fusione di artiglierie. La guerra, oltre che una straordinaria occasione per mercanti e affaristi per accumulare denaro, diventò il principale riferimento di quanti come i tecnici e gli ingegneri erano invitati a pensare e a progettare. Si può dire che le armi e più in generale la potenza del principe siano stati la quasi esclusiva occasione che essi hanno avuto per impiegarsi. Artisti e personaggi più noti e meno noti frequentavano le corti, spesso passando da una all’altra, chiamati a risolvere problemi e pronti ad offrire i loro servigi. Non solo di tecnici insigni o di ingegneri si trattava. La guerra chiamava al suo servizio un’infinità di pratici, per la maggior parte rimasti sconosciuti, in genere poveri di conoscenze teoriche ma ricchi, in compenso, di quelle che gli provenivano dall’esercizio del mestiere.
La guerra spinse principi e monarchi a spese enormi e per rastrellare il denaro necessario fu necessario dar vita a nuovi sistemi fiscali. Fu la guerra il principale fattore di spesa in ogni Stato che, a partire dalla fine del Medioevo e per tutta l’età moderna, determinò il controllo e la destinazione delle risorse naturali (miniere, boschi ecc.), materiali (denaro e forza lavoro) e intellettuali.
Guerra moderna e produzione manifatturiera andarono di pari passo. Forniture e rifornimenti furono all’origine di straordinarie fortune imprenditoriali e mercantili. I finanziamenti da parte di imprenditori e mercanti ai vari sovrani erano elargiti sulla base di precisi scambi o privative, monopoli per produrre o commerciare, diritti di riscuotere tasse e imposte. Spesso i fornitori di capitali ma anche di armi, munizioni e vettovaglie assumevano ruoli politici ed economici di primo piano, che permettevano loro di influenzare la stessa politica dei principi.
Carlo I di Spagna, già padrone dei territori ereditati dagli Asburgo – arciducato d’Austria, ducato di Borgogna – era un candidato naturale alla successione nell’Impero. Secondo la regola fissata nella “Bolla d’oro” a metà del Trecento dall’imperatore Carlo IV, a eleggere l’imperatore dovevano essere i tre principi vescovi di Magonza, Colonia e Treviri e quattro principi laici degli stati territoriali maggiori, Boemia, Palatinato, Brandeburgo e Sassonia. Nel 1519, alla vigilia dell’elezione di un nuovo Imperatore, si sviluppò un grande gioco finanziario e diplomatico in cui ebbe gran peso il denaro dei più grandi finanzieri dell’epoca. Il papa cercò di favorire prima la candidatura del re d’Inghilterra Enrico VIII poi quella del re di Francia Francesco I. Temeva infatti – e non solo lui – la nascita di uno stato che unisse i territori asburgici e tedeschi a quelli della Spagna. A decidere furono l’astuzia di Carlo e specialmente l’oro e i metalli preziosi che da tempo affluivano alle casse spagnole e che le banche tedesche seppero maneggiare in modo spregiudicato. Agli elettori dell’imperatore, i tre religiosi e i quattro laici, giunsero le somme di denaro necessarie ad orientare il loro voto su Carlo I di Spagna che divenne così l’imperatore Carlo V. Fu l’inizio di una saldatura tra politica e finanza che da allora non conobbe battute d’arresto. I centri della politica imperiale asburgica furono la città di Siviglia, a cui faceva capo tutto il commercio mondiale che nel periodo tra il 1510 e il 1550 crebbe di 8 volte, e la città di Anversa, divenuta allora un centro cosmopolita frequentato da finanzieri e mercanti d’ogni parte. L’oro predato ai nativi americani, l’argento estratto dalle miniere del Perù, un’organizzazione militare e burocratica sterminata che teneva sotto controllo interi continenti, una rete bancaria che aveva al centro i Fugger e alcuni banchieri italiani assicuravano il trasferimento del denaro e i finanziamenti delle imprese manifatturiere e commerciali, oltre al pagamento di eserciti di militari e funzionari.
Il rame, la materia prima fondamentale per la fabbricazione dell’artiglieria in bronzo, proveniva principalmente dall’Ungheria, dal Tirolo, dalla Sassonia e dalla Boemia. Lo stagno, il metallo che va unito al rame, proveniva per lo più dall’Inghilterra, dalla Spagna e dalla Germania. Fu Jacob Fugger, banchiere e proprietario tra l’altro di quote di miniere di argento e rame in Ungheria e in Tirolo, a intuire che l’aiuto al futuro imperatore sarebbe stato un investimento che in seguito avrebbe giovato ai suoi affari facendogli ottenere l’aiuto necessario a debellare la concorrenza di altre società. Fugger seppe coniugare l’iniziativa finanziaria alle nuove pratiche minerarie, che alla metà del XV secolo permettevano la separazione del rame argentifero con l’aiuto del piombo e la quasi totale estrazione dell’argento dal minerale. Una pratica decisiva per sfruttare a fondo i giacimenti di Ungheria a debole tenore d’argento, che unita a una massiccia produzione di rame diede origine a una grande fortuna. Lo sviluppo commerciale del rame era infatti legato alla nuova industria delle armi da fuoco dove questo metallo entrava, specie nella produzione dei cannoni, in percentuali molto elevate. Alcuni paesi che pure costruivano armi, come la Francia e Venezia e in seguito Olanda e Fiandre, non erano produttori di rame e questo rendeva il monopolio produttivo e commerciale di Fugger ancora più redditizio.
Si capisce come l’importanza commerciale strategica del rame trasformasse i metodi di estrazione e lavorazione. Le regioni minerarie dell’Ungheria e del Tirolo divennero l’avanguardia di un’infinità di innovazioni tese a razionalizzare e ad aumentare la produzione. Fu questa una delle numerose conseguenze della guerra sull’uso delle risorse – minerali, legname, viabilità, ecc. – e sulle pratiche per il loro sfruttamento. Alla fine del XV secolo in Tirolo, nella sola miniera di Falkenstein presso Schwaz, lavoravano circa 7.000 operai che nel 1536 erano diventati 20.000.
Come la corsa di una sfera su un piano inclinato, alla fine del XV iniziò un’inarrestabile ascesa verso livelli di efficienza nella capacità di infliggere perdite e distruzioni al nemico secondo un ordine di grandezza mai visto in precedenza. Le migliori menti e i maggiori capitali furono impiegati senza risparmio in questa vera e propria corsa agli armamenti. Entro la metà del XVI secolo erano state ideate, pensate ed in parte realizzate tutte le successive innovazioni tecnologiche applicate alle armi che compariranno via via sino agli inizi del XIX secolo e oltre: gli acciarini a pietra focaia, le granate esplosive, il concetto di retrocarica e di canna rigata((Per un panorama generale della guerra nel XV e XVI secolo cfr. B.S. Hall, Weapons & Warfare in Renaissance Europe, London 1997.))
Nelle società di antico regime i cambiamenti erano lenti e spesso impercettibili ai più, ma a partire dalla fine del XV secolo molti di coloro che vissero allora compresero sia pure confusamente che stava iniziando una nuova età i cui segni più vistosi erano le scoperte geografiche, l’uso dei caratteri mobili per la stampa e l’impiego della polvere da sparo. Più di ogni altra cosa a colpire gli uomini dell’epoca fu il nuovo modo di fare la guerra, l’affermarsi di una sua versione sterminatrice e cruenta. Apparve chiaro allora che con la guerra anche il resto del mondo stava cambiando: il governo degli uomini e dell’economia, la morale individuale e collettiva.
La guerra entrò allora nell’esperienza e contemporaneamente nell’immaginario individuale sia come un’occasione per cambiare in meglio la propria sorte sia come sigillo drammatico del trionfo della morte. Entrò nella letteratura popolare, nell’aneddotica, nella riflessione religiosa e in quella politica. Poche volte nella storia è successo, come invece accadde allora, che i contemporanei, la gente del popolo come i grandi intellettuali, si rendessero conto dei profondi cambiamenti in corso nella società in cui si svolgeva la loro esistenza.