“La nostra bomba è il fiore, ossia l’espressione naturale della nostra società contemporanea, così come i dialoghi di Platone lo sono della città greca; il Colosseo, dei Romani imperiali; le Madonne di Raffaello, dell’Umanesimo italiano; le gondole, della nobiltà veneziana; la tarantella, di certe popolazioni rustiche meridionali; e i campi di sterminio, della cultura piccolo-borghese burocratica già infetta da una rabbia di suicidio atomico (…) in poche, e oramai, del resto, abusate parole: si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi”. Così scriveva Elsa Morante nel 1965 in “Pro o contro la bomba atomica” (Adelphi, Milano 1987).
Emanuele Dattilo, sul numero 121 della rivista Gli Asini (luglio/agosto 2025) riprende questo testo osservando che, secondo Elsa Morante, la bomba atomica non va considerata un semplice accidente della nostra vicenda storica, ma è intimamente legata alla nostra epoca, essendone è in una certa misura il fiore. Non è quindi solo causa, ma anche sintomo del male. Dunque – continua Dattilo – ognuno deve interrogare la propria coscienza, perché come ricordava anche Julian Huxley nella Costituzione dell’Unesco1 – è nelle coscienze umane che risiede la vera centrale atomica. Le bombe atomiche «non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma la manifestazione necessaria di questo disastro, già attivo nella coscienza». La bomba atomica – conclude Dattilo – può disintegrare il mondo, produce le più atroci distruzioni di massa. Ma questa disintegrazione e distruzione è in noi, ed è ciò che ha permesso la nascita della bomba. Non basta constatare che «nella grande avventura della mente, la seduzione scientifica ha sostituito quella immaginativa». Anche questo non è che un sintomo, la seduzione scientifica – con tutte le più diverse distinzioni che andrebbero fatte a questo punto – è il risultato di una disintegrazione (anzitutto, forse, di una certa idea del mondo).
Seguendo questo ragionamento, come già ricordato in questo numero di Altronovecento da Elena Camino, il Centro Studi Sereno Regis di Torino il 23 e 24 maggio 2025 ha ospitato un convegno sull’energia nucleare per riflettere, con prospettiva ampia e interdisciplinare, sul senso (sempre meno legato al bisogno di energia, sempre più legato a ciò che non può esser detto sul nucleare) e i problemi (sempre più irrisolti e affidati quindi nell’immaginario alla futurologia, più che alla scienza nella realtà) aperti dallo sciagurato rilancio, ennesimo, in Italia di questa fonte di energia per la costruzione di centrali elettriche. L’intento non era tanto quello di confutare la razionalità pretesa dai fautori della deterrenza nucleare, come dell’uso dell’energia atomica per la produzione elettrica, ma di intendere che cosa ha reso possibile l’abnorme (sono disponibili oggi più di 10mila bombe atomiche) uso del nucleare per scopi bellici e pretesi civili. Può sembrare una domanda filosofica e infantile per chi accetta che la storia abbia capacità di auto-avverarsi e agli umani tocca prenderne atto limitandosi a contrastarne gli effetti peggiori. Per chi ha un’esigenza conoscitiva innata e non si arresta alle constatazioni del mondo com’è, ma intende combattere per un mondo come dovrebbe essere, occorre invece capire la storia – “uno scandalo che dura da diecimila anni, fatta dai potenti che ordinano le guerre, i massacri, le invasioni, le torture” (Elsa Morante, La Storia, Einaudi, Torino, 1974) – senza intenti giustificatori e nemmeno per tentare di cambiarla, giusto per non essere solo vittime della forza che sovrasta tutto e tutti quando è la violenza a dettarne il corso. Aggiungiamo qui un approfondimento storico sugli sviluppi del nucleare partendo dal secondo dopoguerra.
Una prospettiva storica sul nucleare centrata sul controllo degli armamenti è utile per comprendere la geopolitica della proliferazione, ma è incompleta e fuorviante se non si guarda anche alle motivazioni strategiche di promozione dei programmi nucleari civili e al ruolo delle tecnologie come simbolo di potere e legittimazione degli stati-nazione moderni. Riflettere sul reale bisogno e sul non detto dell’energia e delle armi nucleari di ieri e di oggi è quindi necessario per denunciare la servitù e le barbarie a cui queste costringono l’umanità. I contributi interdisciplinari, di biologia, sociologia e tecnici raccolti dal Convegno di Torino raccomandano una prospettiva non riduzionista ma attenta alla complessità della questione nucleare, includendo i risvolti antidemocratici e antiliberali, oltre che rischi e pericoli, associati all’uso di tecnologie di grande potenza per il difficile, auspicato ma mai garantito controllo dell’energia atomica.
Va sottolineato che durante la Guerra Fredda, USA e URSS hanno utilizzato scienza e tecnologia in campo nucleare come strumenti diplomatici per mantenere prestigio, stringere accordi commerciali, condurre attività di sorveglianza occulta e fidelizzare paesi satelliti con programmi di assistenza tecnica. La fabbricazione degli ordigni nucleari capaci di prefigurare l’autoestinzione della specie umana, si colloca nel suo insieme su un livello di irragionevolezza impareggiabile seppure presentata come razionale sulla base del principio di deterrenza, mentre nel 2025 l’orologio dell’olocausto nucleare annualmente aggiornato dal Bulletin of Atomic Scientists, segna 89 secondi alla mezzanotte.
Il ricorrente invito alla razionalità, contro la presunta irrazionalità del pacifismo e dell’ambientalismo, in ogni rilancio del nucleare, sia per la costruzione di impianti di generazione, sia per questioni di sicurezza, si scontra immancabilmente con intrinseci vizi di forma, sia per l’irrisolvibile gestione dei rischi di malfunzionamento e smaltimento delle scorie degli impianti civili e militari, sia per la negazione dei diritti democratici, di libera informazione e partecipativi dovuti al loro carattere strategico. Le centrali nucleari civili fanno ricorso alla stessa industria e materia prima degli impianti militari e, oltre alla possibilità di attacchi diretti – come per la centrale di Zaporizia, tra gli impianti di produzione di energia più grandi del mondo, occupata dalle forze russe in seguito all’invasione dell’Ucraina del 2022 – è da considerare anche la sottrazione per scopi militari di materiali destinati ad altro uso. In Europa, l’allargamento dell’UE ai paesi dell’Est ha posto la questione degli impianti nucleari ereditati dal regime sovietico. Molti di questi continuano a vendere energia agli stati dell’Europa centrale, ma i loro standard di sicurezza sono generalmente sottodimensionati e c’è preoccupazione per il mercato nero del nucleare, fiorente, affamato e criminalmente incosciente.
Queste considerazioni fanno della trasparenza dei problemi legati al nucleare un’urgenza ma anche un enorme e insormontabile problema per politici e amministratori, perchè il rischio zero per l’energia atomica non esiste e, come dimostra la vicenda delle scorie radioattive, ogni gestione genuinamente democratica si traduce spontaneamente in uno stimolo alla dismissione degli impianti.
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“Se la luce di mille soli bruciasse improvvisamente in cielo, quello sarebbe lo splendore dell’Onnipotente (…) ora io sono Morte, sterminatrice dell’universo” (Bhagavad Giva, libro dei Veda). Scegliendo le parole di un testo sacro indù, J. Robert Oppenheimer riuscì, in un’intervista televisiva, a descrivere con efficacia l’impressione del primo esperimento nucleare della storia. Pochi giorni prima, il 16 luglio 1945 alle 5.30 del mattino, si era svolto il test Trinity: una bomba al plutonio era stata fatta esplodere nel deserto del New Mexico, vicino a Los Alamos. Oppenheimer era stato il principale artefice di quell’esperimento, test finale del Progetto Manhattan, il piano segreto USA per giungere al controllo dell’energia atomica prima di ogni altra nazione al mondo.
Il giorno seguente, il 17 luglio, e fino al 2 agosto 1945, a Postdam, nella zona di occupazione sovietica della Germania, si tenne una Conferenza fra Unione Sovietica, Regno Unito e Stati Uniti, per la pianificazione postbellica. Si doveva decidere come amministrare la Germania, che nove settimane prima aveva accettato la resa incondizionata. La guerra in Europa era giunta al termine. Solo il Giappone resisteva sotto i massicci bombardamenti statunitensi.
L’atmosfera fra gli alleati era cambiata rispetto alla conferenza precedente, tenutasi pochi mesi prima a Yalta, in Crimea, dal 4 all’11 Febbraio 1945. Winston Churchill, inizialmente presente a Postdam, fu sostituito alla guida della delegazione britannica da Clement Attlee dopo la sconfitta alle elezioni generali del 26 luglio2. Harry Truman, a sua volta, aveva sostituto Franklin D. Roosevelt, morto il 12 aprile 1945. Solo Joseph Stalin fu presente di persona a tutte le conferenze alleate. Gli obiettivi di Postdam includevano la definizione dell’ordine postbellico, la risoluzione di questioni relative al trattato di pace e la ricostruzione, mentre la guerra sembrava prossima a finire anche nel Pacifico. Tuttavia, poche settimane prima della capitolazione del Reich, l’Armata Rossa aveva occupato la parte orientale della Germania, parte dell’Austria e tutta l’Europa centrale. Stalin colse l’occasione per insediare governi comunisti nei paesi liberati dalle truppe sovietiche ridisegnando la mappa dell’Europa orientale e avviando vasti movimenti di popolazione al suo interno. In attesa dei trattati, inglesi e americani accettarono le annessioni sovietiche e i nuovi confini fissati sulla linea dei fiumi Oder-Neisse che scorrono fra Germania e Polonia.
In questo clima, Truman auspicava forse che l’eco della bomba di Los Alamos bilanciasse la supremazia militare sovietica sul campo, ma non bastò. Il 27 luglio Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina con la Dichiarazione di Potsdam minacciarono il Giappone di “distruzione immediata e totale” se non si fosse arreso immediatamente. L’Unione Sovietica non firmò, non avendo mai dichiarato guerra al Giappone. Quattro giorni dopo la fine della conferenza di Postdam, il 6 agosto 1945, un ordigno nucleare all’uranio fu fatto esplodere a Hiroshima e tre giorni dopo, il 9 agosto, una bomba al plutonio fu lanciata su Nagasaki.
Da allora, la citazione del Bhagavad Giva è diventata celebre, Robert Jungk vi fece riferimento in Splendente più di mille soli (1956) – un libro sul lavoro del gruppo di Oppenheimer e sugli sviluppi storici e scientifici delle ricerche di Los Alamos. È difficile descrivere diversamente una simile devastazione, senza riferimenti al soprannaturale. La forza liberata da una bomba atomica non è misurabile direttamente: nessuno strumento può resistere all’esplosione. Secondo l’equazione di Einstein, e = mc2, l’energia disponibile è data dalla differenza di massa persa dagli atomi che subiscono il processo di fissione, moltiplicata per circa 9.000.000.000.000.000.000 (novemila milioni di miliardi di volte): la velocità della luce al quadrato. La valutazione dei danni di un’esplosione nucleare è possibile solo per calcolo, o attraverso approssimazioni basate su analisi successive all’evento. Gli effetti della distruzione sono troppo scostati dalle esperienze naturali per trovare senza difficoltà accettazione nelle nostre menti.
La potenza della bomba di Hiroshima fu pari a 15 mila tonnellate di dinamite (15 kiloton), eppure solo uno dei 25 kg di uranio arricchito caricati sull’ordigno raggiunse le condizioni necessarie per la reazione di fissione. Su quel primo storico Ground Zero il calore portò la temperatura a quasi 4000 gradi, su alcune costruzioni in pietra rimasero indelebili segni di fusione. In un punto a 500 metri dall’epicentro fu calcolato uno spostamento d’aria alla velocità di 1600 chilometri orari e tutte le costruzioni entro tale raggio furono prima abbattute poi presero fuoco. Le persone che si trovarono lì morirono quasi immediatamente. La maggior parte delle altre vittime, colpite attorno all’epicentro, morì nei 30 giorni successivi. Chi si trovò nell’area entro 800 metri dal punto d’impatto nelle prime cento ore dopo la bomba rimase gravemente contaminato dalle radiazioni. Si suppone che a Hiroshima ci siano state 350.000 persone nel momento dell’esplosione. Altri ancora dovevano scomparire dopo lunghe sofferenze, e altri sarebbero rimasti marchiati dal fuoco atomico per il resto della loro vita. Dopo la guerra, fu stimato che le persone complessivamente uccise potessero essere 140.000. A queste occorre aggiungere le 60.000 morti avvenute fra il 1946 e il 1951, per le conseguenze della radioattività. Il dato finale del genocidio di Hiroshima è di almeno 200.000 vittime. A Nagasaki furono stimati più di 70.000 morti, escludendo i decessi per malformazioni genetiche fra i discendenti dei contaminati. Nei decenni successivi le morti dei sopravvissuti continuarono anche se le statistiche di mortalità non differivano significativamente da quelle della popolazione giapponese nel complesso. I nomi di tutte queste persone, gli hibakusha, sono conservati in uno speciale registro che continua a essere aggiornato nel monumento alle vittime dell’olocausto atomico. Secondo il ministero della salute giapponese, ci sono ancora più di 100.000 sopravvissuti con età media di 86 anni.
La resa incondizionata del Giappone avvenne cinque giorni dopo l’eccidio di Nagasaki. Le esplosioni nucleari invece proseguirono, in modo ininterrotto e indipendente dagli eventi bellici. Nell’epoca dei test in superficie, dal 1945 al 1962, gli USA condussero 216 esperimenti nell’atmosfera e negli oceani, l’URSS 217. Dopo il trattato per la limitazione dei test nucleari (1963) la sperimentazione cessò in superficie per proseguire sottoterra. L’eliminazione delle piogge radioattive in atmosfera fu pagata con l’invisibilità e la segretezza. Le esplosioni sotterranee sono state molto più numerose. Considerando che con le bombe a fusione termonucleare la prima deflagrazione innesca una seconda esplosione ancor più devastante, il risultato è che gli USA si sono poi ‘limitati’ a 1054 nuovi esperimenti, per un totale di 1149 esplosioni. L’ultima bomba americana fu fatta esplodere il 23 settembre 1992. L’URSS ha posto fine agli esperimenti nucleari sotterranei il 24 ottobre 1990, poco prima di dissolversi formalmente, dopo aver raggiunto il limite di 715 test e 969 esplosioni.
I costi umani di quegli esperimenti sono stati rilevanti. Le esplosioni fra gli atolli nel Pacifico obbligarono le popolazioni isolane all’esodo. Alcuni ordigni svilupparono potenze inattese arrivando ad irradiare fino a 135 km dall’esplosione. Molti militari coinvolti nelle osservazioni e molti dei residenti in zone raggiunte dalle radiazioni hanno subito danni gravissimi alla salute, con sviluppo di tumori letali. I dati del National Cancer Institute statunitense mostrano che le ricadute dei test nucleari successivi con esplosioni atomiche in atmosfera equivalenti a 29.000 bombe di Hiroshima, e che hanno disperso più di 9 tonnellate di plutonio colpirono pesantemente gli statunitensi. Il premio Nobel per la medicina 1995, Edward Bok Lewis nel 1957 evidenziò correlazioni fra l’esposizione alle radiazioni dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki e l’insorgenza di leucemie. Approfondendo l’analisi, stimò che il fall-out avesse causato un aumento del 5-10 % delle leucemie indotte da radionuclidi (circa il 20 % del totale) su scala mondiale. L’intera popolazione USA ha registrato un aumento del tasso di leucemia durante i test nucleari in atmosfera e poi una sua diminuzione con la loro messa al bando.
La contaminazione radioattiva continua a rendere inabitabili le località scelte per gli esperimenti. Lo stesso vale per i test effettuati sul territorio Russo dove in alcune aree remote ci sono cartelli stradali che suggeriscono agli automobilisti di attraversare la zona a velocità sostenuta, senza fermarsi ed evitando di aprire l’abitacolo.
Durante la Guerra Fredda la propaganda sulla modernizzazione dei paesi poveri e sull’utilizzo di tecnologie innovative per sottrarli alla fame, alla povertà e ai vincoli della natura, erano strumento quotidiano della diplomazia imperialista sull’uno e sull’altro fronte. L’uso dell’atomo per scopi pacifici va considerato come uno degli strumenti più importanti della geopolitica, a partire dagli anni ‘50. L’uso dell’energia nucleare sembrava addirittura l’apice del potere e della modernità mentre veniva costruito l’ordine strategico del dopoguerra: decine di paesi, specialmente in Asia e Africa, si liberavano dai padroni coloniali e l’equilibrio della ricchezza delle risorse naturali globali, in particolare il petrolio, s’inclinava lontano dagli Stati Uniti e dall’Europa.
Se ci si concentra sugli sforzi compiuti per promuovere le tecnologie nucleari a livello globale dal secondo dopoguerra, emergono paesi che avevano allora economie di sussistenza o carenze di risorse, o dove le popolazioni – in gran parte non bianche, molte ex colonie o ancora colonie sotto occupazione militare – erano minacciate da guerre, carestie, siccità e malattie. Fra questi – classificati allora come Terzo Mondo, o in via di sviluppo se non arretrati – sono inclusi paesi che oggi sarebbero fuori luogo in tali categorie, come Israele o il Giappone, o ex colonie occidentali grandi e popolose, come l’India e il Brasile, e anche più piccole, come il Ghana e altri Stati africani che ottennero l’indipendenza negli anni ‘60. C’è da sospettare quando a popolazioni prima brutalizzate ed emarginate vengono offerte soluzioni tecnologiche innovative. La scorciatoia dalla tecnologia è poco più che uno slogan, nel migliore dei casi conta sull’illusione di poter saltare centinaia di anni di sviluppo e nel peggiore fornisce la via d’accesso ad altre forme di influenza provvidenziale dall’esterno, lasciando molti di quei paesi dannati a perpetuare le strutture del colonialismo.
Per comprendere le origini della distopia nucleare che si ripropone nel XXI secolo è necessario prestare attenzione alle strategie di chi cerca di convincere il mondo a impegnarsi nell’energia atomica. Il governo degli Stati Uniti è stato il principale promotore di questa causa, assieme ad altri Stati nucleari e alle organizzazioni internazionali. Ma l’energia atomica raramente ha mantenuto la promessa, il suo uso inseparabile dalla geopolitica raramente è stato del tutto pacifico ed è stato invece sovente causa di guerre convenzionali, frammiste a divisioni razziali e neocoloniali, per affermare il controllo su ben altre preziose risorse naturali.
Su scala globale, nonostante la proposta d’uso pacifico risalga agli anni ‘50, per tutto il periodo dei test, la prospettiva del disastro nucleare è stata la prima e principale minaccia globale alla vita sulla terra, vissuta con maggiore o minore angoscia secondo la congiuntura storica. Dal tempo di Trinity sono state costruite armi nucleari capaci di ripetere 200 volte la distruzione dell’ultima guerra mondiale. Nel 1986 si contavano 65.000 ordigni nel mondo. Attualmente, nemmeno mettendo assieme tutto il nucleare disponibile altrove si può reggere il confronto con la capacità di risposta statunitense.
In molti paesi dell’Europa al confine fra i due blocchi, come a Vienna e a Bratislava, si sono costruiti bunker antinucleare fino alla fine degli anni ‘80. Successivamente, il progressivo spegnersi della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino hanno contribuito a rimuovere dall’immaginario occidentale, almeno in parte, il pericolo di una guerra nucleare. Ciononostante, il numero di testate in possesso degli Stati Uniti è ancora impressionante e sufficiente per distruggere la terra venti volte.
Di emergenze ambientali, politiche e sociali come l’aumento demografico, le guerre per le risorse o le variazioni climatiche, capaci di produrre angosce in tutto il mondo ne abbiamo a sufficienza. Stupisce, oggi, che il secondo millennio si sia chiuso con scarsa coscienza della minaccia nucleare come peggiore lascito del ventesimo secolo e la possibilità che le migliaia di ordigni atomici esistenti possano porre fine alla storia umana. Una riduzione drastica degli armamenti nucleari, puntando all’opzione zero, non sembrerebbe fuori luogo. Occorrerebbe stabilire un numero massimo di armi nucleari al mondo, 100 pare un buon numero, per contenere l’eventuale danno alla vita e all’ambiente entro livelli da cui sarebbe poi possibile risorgere. Questo genere di ragionamenti può trovare supporto solo all’interno di una logica già compromessa e intrinsecamente viziata qual è quella degli armamenti nucleari. è già stato spiegato che giustificando il ricorso al nucleare come deterrente bellico si condivide una mentalità irragionevole e genocida. Accettare la possibilità di ricorrere a questo salto quantico di morte tecnologica permette a persone apparentemente rispettabili di predisporre nei particolari il prossimo olocausto. Questo avviene tanto partecipando alla messa a punto delle armi nucleari quanto progettandone l’utilizzo, o semplicemente condividendo politiche che includono la volontà del loro impiego, anche se sotto certe condizioni. Intanto, c’è anche un’eredità tangibile di scorie radioattive da seppellire, proteggere e controllare per i prossimi 10.000 anni almeno.
Cercare di comprendere le motivazioni che hanno portato alla costruzione e al mantenimento di un armamentario nucleare così sproporzionato è frustrante. Si usa oggi lo stesso giustificazionismo dei tempi della guerra fredda, i cui teorici brandivano la moltiplicazione delle armi nucleari come principale deterrente al loro uso. Per questo l’arsenale doveva essere sufficientemente ampio e distribuito nel mondo, per garantire in ogni caso, anche dopo la fine del mondo, una risposta nucleare all’attacco subito. Era l’epoca delle superpotenze, il nemico era l’URSS culturalmente e geograficamente riconoscibile e il termine kamikaze era usato ancora solo per indicare i piloti giapponesi della guerra del Pacifico. L’ipotesi di un nemico disposto a tutto, compreso il terrorismo, e nascosto anche sotto la Casa Bianca non era presa in considerazione. Sotto questa prospettiva la strategia della deterrenza non funziona.
Fra le eredità della guerra fredda c’è anche un lascito di immagini uniche, legate agli esperimenti nucleari e alla corsa verso lo spazio. All’inizio del nuovo millennio, il fotografo americano Michael Light pubblicò una raccolta di fotografie dei test nucleari: 100 Soli (Contrasto edizioni, 2003), 100 immagini da terra, mare e cielo delle esplosioni atomiche conservate negli archivi di stato statunitensi che ad ogni ordigno assegnava nomi in codice: Sugar, Apple, Devil, Climax, Sunset, Bravo e Romeo.
Light non era nuovo a simili iniziative. Un’altra sua collezione, Luna (Mondadori, 1999), raccoglie fotografie delle missioni Apollo della NASA. L’intero viaggio lunare, dal count-down all’allunaggio, le passeggiate in orbita e il rientro sulla Terra sono raffigurati con toni simbolici. Fra tutte queste immagini, quelle della Terra sospesa nel vuoto incutono un senso condiviso di finitezza e vulnerabilità del pianeta. Le analogie fra le foto dei funghi atomici e quelle della terra vista dalla luna stanno nella loro efficacia comunicativa, nella capacità di troncare il discorso sul superpotere della tecnologia, spostandolo sull’indivisibilità del nostro pianeta e sull’urgenza di condividere sforzi e responsabilità per non distruggerlo.
1 “Poiché le guerre nascono nello spirito degli uomini, è nello spirito degli uomini che devono essere poste le difese della pace”. Dalla Costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura Firmata a Londra il 16 novembre 1945. Approvata dall’Assemblea federale l’8 dicembre 1948.
2 La Conferenza di Postdam fu interrotta per circa una settimana per permettere alla delegazione inglese il ritorno in patria proprio per le elezioni in corso.

