Il cammino, la corsa, il volo: come il cinema ha raccontato la rinascita nel dopoguerra

Pina: “Ma quando finirà questa guerra? Ci sono momenti che non ne posso più. St’ inverno sembra che non debba finire mai…”

Francesco: “Finirà, Pina, finirà… e tornerà pure la primavera e sarà più bella delle altre perché siamo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo… Noi lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire! Forse la strada sarà lunga e difficile, ma arriveremo e lo vedremo un mondo migliore. E soprattutto lo vedranno i nostri figli!”

Dialogo fra Pina e Francesco in Roma città aperta

Francesco: “Finirà, Pina, finirà… e tornerà pure la primavera e sarà più bella delle altre perché siamo liberi. Bisogna crederlo, bisogna volerlo… Noi lottiamo per una cosa che deve venire, che non può non venire! Forse la strada sarà lunga e difficile, ma arriveremo e lo vedremo un mondo migliore. E soprattutto lo vedranno i nostri figli!”

Dialogo fra Pina e Francesco in Roma città aperta

In Roma città aperta (1945) di Rossellini, assieme alle linee di tensione morale e allo sforzo di riunire posizioni ideologiche ma con obiettivi comuni, coabitano più rappresentazioni del tempo: il presente come dolore e attesa, il passato di cui si lavano le colpe col sangue, il futuro come immaginazione d’ un mondo migliore. Il tempo della guerra contiene quello della pace, il tempo della morte e del sacrificio quello della solidarietà e della speranza.

Tutte le strade del cinema italiano partono da quest’opera che, ancor oggi, appare come il più straordinario e dolente documento/monumento a caldo della volontà di rinascita del popolo italiano.

Come aveva notato Jean Cocteau nel film si sente veramente, per la prima volta, forse, nell’intera storia del cinema, “lo sguardo di un uomo farsi popolo e quello di un popolo identificarsi nello sguardo di un uomo”.

Il corpo del paese è lacerato (come racconta Paisà di Rossellini, 1946) e tuttavia ancora capace di rialzarsi, forte di un’entusiasmante sensazione di tensione collettiva comune e spontanea e d’ un inedito bisogno di libertà. Il cinema diventa così un luogo di memoria in cui cercar di raccogliere e restituire, in misura superiore a qualsiasi altra forma artistica e letteraria, quel senso di fiducia, azione e speranza, che unisce e muove gli italiani dall’indomani della fine della guerra.

Gli italiani laceri, confusi, feriti, affamati, che si rimettono in cammino sullo schermo – prima a piedi, poi in bicicletta e via via con mezzi motorizzati sempre più veloci – pur con tutte le paure e incertezze, hanno la coscienza d’ aver ritrovato valori di solidarietà perduti e sembrano avvertire accelerazioni inedite anche nei processi di crescita della propria coscienza e aspirazione, se non alla felicità, a ideali di giustizia, eguaglianza e possibilità di pensare a un futuro migliore, per se’ e per i propri figli, finora negati da guerra e fascismo.

Enorme giacimento a cui attingere per ritrovare lo spirito, le paure e speranze, le parole, i suoni e i profumi di un’epoca, il cinema appare sempre più come fonte storica “necessaria” per ridurre le distanze da un passato che vive ancora negli strati profondi della coscienza, come grande diario collettivo, spazio capace d’ accogliere nel breve, medio e lungo periodo, le oscillazioni sensibili o minime di carattere economico e sociale, ideologico, culturale e antropologico. E assieme alle dinamiche sociali, i mutamenti di mentalità, dei modelli linguistici e culturali, dei comportamenti, dei riti sociali, politici e religiosi, delle forme comunicative, dei cerimoniali pubblici e privati, a cui si aggiungono le trasformazioni del paesaggio e dello spazio urbano, il ruolo della piazza o la crescita delle periferie, il passaggio dall’economia agricola a quella industriale, la scoperta del consumismo e di un benessere sconosciuto, una più equa distribuzione del reddito, l’avvento di nuovi mezzi di comunicazione, a partire dalla televisione…

Per la prima volta nella storia del cinema, la “petite histoire évenémentielle” di anonimi personaggi, colti quasi per caso dalla cinepresa nel loro agire quotidiano, si trasforma e rappresenta la Grande Storia. La Storia di tutti. L’occhio della macchina da presa incontra la storia, nel suo farsi e nelle sue dimensioni epicizzanti, nelle strade e se ne fa cronista e cantore: Pina, Otello, Giuseppe, Francesco, Giovanna, Angelina… sono i nuovi eroi dei film di Rossellini, De Sica, Zampa, Castellani, De Santis, Germi, Emmer, Franciolini, Steno e Monicelli, Lattuada, Soldati, che, come rapsodi e cantafavole, costruiscono e raccontano le gesta, gli amori, le lotte, i sogni e gli orizzonti d’attese, scegliendo proprio di celebrare l’anonimia dei nuovi protagonisti dello schermo e la loro identificabilità e congruenza perfetta con la storia di tutti.

Per qualche tempo -come mi è capitato più volte di dire – il meridiano del cinema mondiale passa per Roma città aperta e da lì segna il tempo del cinema internazionale. Tra il 1945 e il 1948 le opere di Rossellini, Zavattini-De Sica, De Santis, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada, sprigionano una forza di novità, un’energia e una potenza tali da cambiare le coordinate, i sistemi di riferimento, i paradigmi culturali, la prosodia, la sintassi e le poetiche di tutto il cinema mondiale. I riconoscimenti dall’Europa e dall’America giungono da subito e contribuiscono non poco al riscatto dell’immagine dell’Italia sul piano internazionale.

Dal neorealismo in poi il cinema del dopoguerra raccoglie, grazie alle nuove capacità di vedere, testimoniare e raccontare, dinamiche e trasformazioni nella vita degli italiani, nei comportamenti e nelle mentalità, nelle relazioni, nei sogni e capacità di costruire il futuro.

Vi sono film – chiave che hanno ancor oggi la forza di racchiudere nel loro insieme, o anche in una sequenza, lo spirito di un’epoca o di un particolare momento: oltre alle altre opere di Rossellini, daPaisà a Viaggio in Italia al Generale della Rovere, ovviamente vanno citati quelli di De Sica, da Sciuscià (1946) a Ladri di biciclette(1948), da Miracolo a Milano (1950) Umberto D (1952), di Visconti, da La terra trema (1948) a Bellissima ( 1951), a Rocco e i suoi fratelli (1960), a cui si possono aggiungere, in ordine sparso, Riso amaro (1949), Guardie e ladri ( 1951, Due soldi di speranza (1952), I sogni nel cassetto ( 1954), Don Camillo(1952), Pane amore e fantasia(1953), Poveri ma belli (1954), I vitelloni(1953), La strada (1954), La dolce vita (1960), Otto 1/2 (1963), I soliti ignoti (1959), Una vita difficile (1962), Il sorpasso ( 1962), I mostri ( 1963), Salvatore Giuliano (1960), Le mani sulla città (1962), Divorzio all’italiana (1961), Il posto (1962), Deserto rosso (1964), Uccellacci e uccellini(1966), Zabriskie Point (1970) e decine e decine di altri titoli di film entrati a far parte della geografia e dell’arredo immaginativo dell’uomo del dopoguerra. Film di finzione, capaci, a pieno titolo, di costituirsi come fonte storica indispensabile per capire mentalità, immaginario, metamorfosi nei sistemi di valori, compromessi, fallimenti, aspirazioni e orizzonti d’attesa delusi d’ un periodo (uno per tutti, Una vita difficile, Risi). A questi vanno aggiunti i melodrammi, i film musicali che nel ventennio del dopoguerra coglieranno, con non minor tempismo dei film d’autore, conservazione e mutamenti di mentalità, codici morali e comportamenti generazionali, residui nostalgici del passato e tensioni verso il nuovo.

Presi dunque come fonte privilegiata e luogo di memoria, i film del dopoguerra aiutano a definire, caratteristiche e trasformazioni della vita e mentalità di un italiano, che passa dalla ricostruzione agli anni della guerra fredda e del miracolo economico, dagli anni degli scontri, ma anche della cooperazione tra forze diverse e del pluralismo ideologico, a quelli del trionfo dell’individualismo, della contestazione e del terrorismo, dagli anni di ricerca e scoperta di luoghi in cui riconoscere l’anima e lo spirito comune del paese, al 1968 e oltre, anni in cui si assiste ad uno sconvolgimento di tutte le bussole ideologiche e alla fine di molte speranze.

La storia del cinema, dall’indomani della fine della guerra, insegue il sogno della ricomposizione di un corpo unitario a partire dalle macerie che ricoprono e unificano l’ aspetto del paese da Sud a Nord. In realtà l’Italia che si è liberata dalla stretta nazifascista, sembra più che devastata in senso materiale, attraversata e scossa da una tensione e da un comune bisogno di rinascita morale politica ed economica. Bisogno che, nel corso dei decenni successivi, si andrà via via perdendo.

Nel breve periodo che va dal 1945 all’inizio della guerra fredda, riprende a circolare una tensione che si traduce in energia culturale e morale e in volontà ricostruttiva che trova nello schermo un punto di trasformazione privilegiato. Il cinema appare, per alcuni anni, come una vera e propria centrale nucleare di tipo ideal-ideologico-immaginativa. Ed è proprio la sua straordinaria capacità di accordare la disperazione, la fame, il dolore alla speranza, alla volontà di riprendere a vivere e a farsi portatore di nuove richieste, che fa sì che il cinema sia promosso a legittimo interprete della voce di un paese rimasto per vent’anni in silenzio. A specchio dell’anima purificata dal dolore di una nazione che pur tra molte contraddizioni va alla ricerca di una nuova identità.

Di una nazione che rappresentandosi per la prima volta senza censure e abbellimenti riesce a produrre empatia senza richiedere commiserazione,

Il senso della speranza e al tempo stesso della disillusione, della spinta verso il nuovo e della consapevolezza di dover continuare a vivere in situazioni senza via d’uscita nel breve periodo, si coglie in una serie di opere di vario livello, sia comico che drammatico, che vanno daIl sole sorge ancora di Vergano (1946) a Un americano in vacanza di Zampa (1946), da Sciuscià di De Sica (1946) a Un giorno nella vita di Blasetti (1946), daCaccia tragica di De Santis (1948) aMolti sogni per le strade di Camerini ( 1948), a Gioventù perduta di Germi (1948)…

In ogni caso la risalita morale, per molti autori di un cinema il cui corpo è in parte immerso a bagnomaria in acque ricche di cloro cattolico, o di solfuri neo-marxisti, appare comunque per lo più incompatibile con le possibilità di una risalita anche economica.

La ricchezza, in un’Italia a prevalente economia agricola, sembra sempre frutto di un patto demoniaco ed è incompatibile con l’onestà e la rappresentazione delle forme di lavoro conosciute. Assieme al tema della miseria e della fame atavica, spesso rivendicata come un blasone nobiliare e della lotta quotidiana per la sopravvivenza (i film di Totò, anzitutto), emerge, nei primi anni del dopoguerra, il motivo di chi si è arricchito non per vie legali, ma scegliendo scorciatoie come la borsa nera, la prostituzione, la corruzione, o lo spaccio di droghe.

Di fatto convivono a lungo sullo schermo i rappresentanti di molte Italie: quella affamata e miserabile, costretta ad emigrare per mancanza di lavoro (Il cammino della speranza, Germi, 1949), quella che scopre le vacanze di massa, sia pure di un giorno (Una domenica d’agosto, Emmer, 1950), o che si permette un viaggio a Parigi per vedere la nazionale in trasferta (Parigi è sempre Parigi, Emmer, 1951), quella che rispecchia un paese parsimonioso, retto da principi morali ottocenteschi, capace di sacrificarsi (Le miserie di Monsù Travet, Lattuada ,1946, Anni facili, Zampa1953), assieme a un’Italia che decide di lasciarsi alle spalle ad ogni costo la povertà (Vita da cani, Steno Monicelli, 1950) e tenta di giocarsi e capitalizzare la carta della bellezza (Miss Italia, Coletti, 1950), e a un’ altra che già può godere del privilegio di rinviare a tempo indeterminato l’assunzione di responsabilità nei confronti della società. Esemplare, in questo senso, I vitelloni di Fellini del 1953. Un’ Italia disonesta, in cui prosperano i furbi e i profittatori, si muove assieme a un’Italia povera, ma capace di sognare beni di consumo voluttuari e di lusso e che riuscirà, nel giro di pochi anni, a veder realizzarsi i propri sogni. Amore, benessere ed eventualmente ricchezza, da raggiungere ad ogni costo, libertà e democrazia vengono così a intrecciarsi e confondersi nei sogni e aspirazioni collettive. Accanto a un’ Italia in cui tre ragazze da marito in una famiglia piccolo borghese tipo sono ancora costrette a scambiarsi il reggicalze per poter uscire con un uomo ( Ragazze d’oggi, Zampa, 1955) ne esiste un’altra che si affida alla ruota della fortuna e un’altra ancora che desidera pellicce e gioielli e si affaccia alla civiltà dei consumi firmando ottimisticamente pile di cambiali. Il senso del mutamento di mentalità si può cogliere quasi allo stato nascente, nelle parole di Antonio in due Soldi di speranza di Castellani: “Pagherò! Pagherò, Antonio Catalano, Via dell’Asilo 47. Pagherò come e quando potrò”.

Anno dopo anno, grazie a continui cambiamenti di mentalità e condizioni di benessere materiale, la casa muta aspetto, gli elettrodomestici ne modificano fisionomia, logistica e dinamiche dei suoi abitanti. Con qualche fatica la Seicento diventa un bene diffuso nella famiglia dell’italiano medio dai primi anni Sessanta. Muta anche il modo di vestire assieme al corpo, che, poco alla volta, viene scoperto sempre di più. Mutano il lessico comunicativo, i simboli del benessere, i modi per affermarsi nella società. Il cinema muta assieme alla sua capacità di percepire e rappresentare il mutamento. Entrano di prepotenza i modelli di vita americani (Un americano a Roma, Steno, 1954), il jazz, il rock and roll, i jeans, la Coca Cola, i film in Cinemascope. La televisione entra nei luoghi pubblic, bar, sale cinematografiche e poi via via diventa presenza totemica in ogni casa. La bellezza femminile, grazie al rapido sviluppo del sistema divistico, diventa un bene materiale, un segno della ricchezza del patrimonio naturale a cui attingere a piene mani: sulla scia della prepotente affermazione di Silvana Mangano in Riso amaro di De Santis (grazie anche alle calze nere con cui sorge dall’aqua delle risaie del vercellese come una Venere post-botticelliana) si imporranno, nell’immaginazione nazionale e internazionale, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Lucia Bosé, Marisa Allasio… mentre dagli anni sessanta alla generazione delle “maggiorate” subentrerà quella di ragazze non più provenienti dai concorsi di bellezza, ma scelte perché rispondenti a nuovi canoni e modelli internazionali (Brigitte Bardot in primis) come Stefania Sandrelli, Claudia Cardinale, Monica Vitti, Catherine Spaak, Ornella Muti. Attrici capaci di accettare da subito una sorta di perdita dell’aura divistica rispetto alla generazione precedente a favore anche di un divismo maschile dominato per alcuni anni da Mastroianni, Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi…

L’accelerazione dei processi industriali, l’aumento vertiginoso dei consumi e la scoperta del tempo libero, la scomparsa di molte sacche di miseria e sottosviluppo (benché se ne denuncino presenze perfino nel cuore della capitale con Pasolini di Accattone, 1960, o in Sardegna, con De Seta di Banditi a Orgosolo,1960, o nella Sicilia di Rosi, o del documentario di Mingozzi, Con il cuore fermo, Sicilia,1965), l’alfabetizzazione prodotta sia dalla televisione che dalla scuola, l’incremento del turismo, la riduzione dell’uso del dialetto e la necessità di parlare le lingue straniere, la diffusione delle vacanze di massa, proiettano il boom al centro della scena cinematografica e dilatano in modo considerevole lo scenario dell’azione, anche oltre i confini dell’Italia. Grazie ai mezzi di trasporto, all’immigrazione interna, alle vacanze, alla televisione, alle autostrade, le distanze tra gli italiani si accorciano: all’ Italia sbrindellata e affamata del dopoguerra subentra quella del benessere diffuso, di una meno squilibrata distribuzione del reddito, della ipermobilità e della esibizione della ricchezza. Dalla seconda metà degli anni cinquanta, milioni di italiani, sempre meno spinti dal bisogno di trovare lavoro altrove, conseguono la licenza di viaggiare, assieme alla patente e all’aumento del reddito medio e dilagano nel territorio percorrendolo con tutti i mezzi. Dalla Vespa e Lambretta all’utilitaria, dalla millecento Fiat all’Alfa, alle Maserati e Ferrari, percorrono l’Italia metro metro scatenando i cavalli-vapore come ci raccontano Il sorpasso di Dino Risi e molti altri film o episodi di film (per tutti L’autostrada del soledi Lizzani in Thrilling, film a episodi del 1965), raggiungendo la consapevolezza che proprio perché si tratta di un patrimonio comune si possa usare senza troppo rispetto il paesaggio e le sue bellezze naturali.

Nel “blu dipinto di blu”, ovvero nel colore del cinema che si affaccia agli anni sessanta, volano comunque per qualche anno nuovi sogni e bisogni che puntano a realizzarsi nel paese, mentre dieci anni prima i barboni di Miracolo a Milano (1950) avevano cercato altrove una vita migliore. Poi questa possibilità di poter gridare a piena voce la percezione che il futuro si apre a nuovi vasti orizzonti verra progressivamente a mancare. Bisognerà attendere qualche anno per ritrovare, in un piccolo quasi invisibile documentario di Ettore Scola, dedicato alla città di Torino, ai suoi vari volti e alla sua capacità di accoglienza di nuovi immigrati, Vorrei che volo (1980) e nelle parole del suo protagonista dodicenne la manifestazione appena sussurrata del desiderio espresso nel titolo stesso: “Vorrei che volo… vorrei che volo…”.

Rispetto al decennio precedente gli anni sessanta appaiono come il periodo di massima carica, potenza e capacità di rappresentare l’entrata del paese in una fase più ricca e complessa e decisamente proiettata, con tutte le sue contraddizioni, verso la modernità e condizioni di benessere e sviluppo finora inimmaginabili.

La creatività esplode ed ha una ricaduta su un territorio vastissimo, producendo contatti, travasi, intergamie inedite tra i territori dell’industria e quelli dell’arte e della cultura. Il cinema, di colpo, sembra divenire anche il collettore privilegiato dell’energia nuova che circola nel paese, che comincia a non avvertire più le distanze grazie alle autostrade e alla velocità delle automobili sportive ( Il sorpasso, Risi, 1962, La bella di Lodi, Missiroli, 1963, Il boom, di De Sica, 1964): la registra, riceve e cerca di trasmetterla con onde circolari, che vanno a toccare perfino i prodotti di genere, sfornati quasi con i ritmi dell’industria automobilistica. Un paese che si è accontentato nel dopoguerra e negli anni della ricostruzione dei ” due soldi di speranza”, che ha guardato con ottimismo al futuro stringendo i denti, che si è motorizzato grazie agli scooter, nell’affacciarsi agli anni sessanta muta improvvisamente i propri ritmi, innesta una marcia, se non due in più, muta in maniera profonda i modi di autorappresentazione e narrazione. Nuovi modelli di civiltà e modernizzazione possono invadere il mondo contadino sotto forma di invasione aliena ( Il disco volante, Brass, 1963). Oltre a cogliere il mutamento improvviso e rapido nella corsa collettiva al benessere, a mostrare la forbice economica, culturale e sociale tra Nord e Sud ( Rocco e i suoi fratelli, 1960, Mafioso, Lattuada, 1962, Divorzio all’italiana, Germi, 1960, Sedotta e abbandonata, Germi, 1962) e a registrare le metamorfosi delle maschere sociali, dei gesti, delle forme elementari di comunicazione e dei canoni etici, a raccontare le vacanze di massa ( Racconti d’estate, Franciolini, 1958, L’ombrellone, Risi, 1964), i vizi della provincia ( Signore e signori, Germi, 1964) e la crescita delle grandi città e delle periferie, il cinema allarga lo sguardo, per andare oltre la superficie immediata del visibile e fare dello schermo un luogo di registrazione di tutti i mutamenti di ritmo di vita, di comportamenti e mentalità – oltre che di modelli e paradigmi ideologici, morali, sociali, sessuali, culturali – e anche di rivisitazione del passato e di prime registrazioni e segnalazioni di pericoli per il futuro (per esempio Omicron di Gregoretti, 1963). Se le poetiche zavattiniane puntavano a riunire e ricomporre il mosaico delle “mille e una Italia”, dagli anni sessanta si ha la sensazione della scomposizione progressiva sia del quadro che del tessuto e di vari fili di una trama che si era cercato di ricomporre.

Ad un primo sguardo d’insieme gli anni sessanta ci appaiono comunque come il decennio più innovativo in campo cinematografico per qualità e quantità di modi e forme di rappresentazione, affabulazione narrativa, sperimentazione, rinnovamento dei quadri, continuità e senso di potente espansione della cinematografia italiana nei mercati mondiali. Dopo un decennio di crescita e sviluppo e azione fecondante dei moduli neorealisti, ibridati e adattati alle diverse strutture dei generi popolari, si è entrati in quella che si può considerare la fase di massimo splendore della storia del cinema italiano. I titoli campioni nella classifica degli incassi del 1960 sono La dolce vita di Fellini Rocco e i suoi fratelli di Visconti La ciociara di De Sica e Tutti a casa di Comencini.

Il cinema, che è già stato l’arte “guida” negli anni del neorealismo, ora diventa anche la forma più sicura di certificazione della qualità dell’intera industria italiana, del prodotto fatto in Italia e frutto della fusione dei geni artistici con quelli di una nuova mentalità industriale e imprenditoriale: il fatto che si vendano sui mercati mondiali non solo i film di Fellini e Antonioni, di Visconti e De Sica, ma anche i film mitologici con gli Ercole e Maciste; gli horror, i western, i documentari erotici di Blasetti, la commedia che assume un ruolo centrale nella produzione, fa proprio del cinema un testimonial privilegiato di una sorta di “qualità totale” di una nuova creatività italiana che si vuole portare dietro il passato e al tempo stesso cavalca comunque – anche se con molte paure, come si è detto – i nuovi ritmi della modernizzazione.

Per alcuni anni il cinema italiano sembra attraversato da un’energia creativa inesauribile: nello stesso spazio topologico convivono almeno quattro generazioni di registi in una condizione di libertà creativa ed espressiva, di possibilità economiche e comunione col pubblico che non ha eguali in passato. Gli anni sessanta sono anche gli anni di maggiore sperimentazione, libertà e ricchezza linguistica ed espressiva. Anche se non tutto raggiunge l’eccellenza assoluta il livello qualitativo medio è il più alto mai raggiunto. Gli effetti della ricerca e della coesistenza tra tradizione e innovazione si possono rintracciare a tutti i livelli, dalle opere d’esordio ai film di genere di Cottafavi, Margheriti, Freda, Bava, Tessari, Leone, Corbucci… Un laboratorio senza eguali, anche a livello internazionale, dove ogni atto innovativo sembrava avere immediate ripercussioni sul sistema ed era subito assorbito nel tessuto stilistico e narrativo.

Nella folla d’esordienti, si possono ricordare Pasolini, Rosi, Olmi, Bertolucci e Ferreri, i fratelli Taviani e Petri, Damiani, Caprioli, Scola, Wertmüller, De Seta, Agosti, Orsini, Salce, Bellocchio, Mingozzi, Vancini, Gregoretti, Montaldo, Bene, Baldi, Nelo Risi, Cavani, Brusati, Magni… E’ impossibile ovviamente ricordare tutti sono più di 300 i registi che esordiscono negli anni sessanta.

La maggior parte degli autori si serve del cinema per interpretare, sul piano dei significanti, le indicazioni poetiche e teoriche o le forme del pensiero e delle manifestazioni artistiche europee più avanzate degli ultimi decenni. In questi anni non è solo la storia che viene rivisitata dal cinema e neppure la geografia del paese, di cui si accentueranno le differenze, si moltiplicheranno gli stereotipi, o quella dei corpi femminili, che si offriranno sempre più nel loro aspetto naturale, quanto piuttosto è lo spazio dell’immaginazione ad essere del tutto ridisegnato, oltre che le forme del racconto, il lessico visivo, la prosodia e metrica.

Fellini (con La dolce vita, Otto 1/2 , Giulietta degli spiriti ,1965) e Antonioni (con la “trilogia dell’alienazione”, L’avventura, 1960, La notte, 1961, L’eclisse, 1962 e poi con Deserto rosso, 1964, Blow-up, 1967 e Zabriskie Point, 1970), assumono veri e propri ruoli pontificali nei confronti delle nuove frontiere dell’ immaginario: il racconto per loro non si costituisce più a partire dai dati della realtà oggettiva, quanto piuttosto si sforza di esplorare e rappresentare le dimensioni sfuggenti della soggettività. Entrambi capiscono l’importanza della percezione e rappresentazione di ciò che sta oltre le dimensioni del visibile. Antonioni respira e trasporta sullo schermo il soffio e lo spirito dell’arte contemporanea, da De Chirico a Morandi a Bacon, e in qualche modo cerca di sviluppare una riflessione che oscilla tra non-finito e il senso della ipercostruzione dell’ immagine, sulla traducibilità nel racconto cinematografico delle indicazioni dell’informale, dell’ espressionismo astratto e della lezione di Mondrian di Burri e della sua arte materica, o dei cromatismi di Mark Rothko o di Mark Tobey.

Antonioni modifica i canoni di rappresentazione dello spazio.

Il processo rappresentativo e affabulatorio di Fellini è non meno innovativo, ma è debitore piuttosto di altre suggestioni, che hanno a che fare con l’iconografia e lo spettacolo popolare, i fumetti, l’avanspettacolo e il varietà, le riviste umoristiche, la radio, il circo, l’esigenza di costruire 0pere-Mondo, perfettamente autosufficienti e capaci di creare dei ponti tra memoria, immaginazione personale e immaginazione collettiva.

E, al tempo stesso, bisogna sottolineare come il cinema racconti e in qualche modo diventi il nuovo cantore del mutamento antropologico, della perdita del senso del “noi”, dell’apparizione sulla scena sociale di nuove tipologie di italiani, privi di inibizioni e freni morali, privi di scrupoli, prevaricatori, cinici e arroganti (Il tigre, Risi, 1964), pronti a tutto pur di trovare il percorso più rapido al successo. In una parola i “mostri” raccontati da Risi, Comencini, Salce, Scola, Pietrangeli… Il cinema, registrando la caduta di molti tabù (la macchina da presa, con i documentari di Olmi prima e poi con Visconti, Fina (Pelle viva,1962), Gregoretti (Omicron, 1963), Petri, varca i cancelli delle fabbriche e racconta la vita e il lavoro degli operai, una specie praticamente finora sconosciuta, i riti sessuali e religiosi, celebra la bellezza dei corpi, osserva i nuovi comportamenti giovanili, vede il dispiegarsi dei nuovi simboli di benessere, accompagna i suoi protagonisti sempre più spesso oltre l’ombra del campanile del paese, mostra le arretratezze, denuncia l’esistenza di poteri occulti, denuncia il ritorno di un passato che si è cercato inutilmente di rimuovere e che ha lasciato ancora ferite profonde e al tempo stesso racconta la perdita della memoria della storia passata (“Mussolini, chi? Il padre del pianista?” dice la sedicenne della Voglia matta di Luciano Salce nel 1963), mostra una serie di paradisi a portata di mano e al tempo stesso ne smaschera l’illusorietà ( Io la conoscevo bene, Pietrangeli, 1964). La ricchezza è spesso esibita in modo sfacciato e appare come una causa del rapido mutamento dei modelli morali di riferimento. I danni prodotti dalla crescita, l’irriconoscibilità del paesaggio, l’aumento del malessere comunicativo e del “male di vivere”, non solo nei film di Antonioni, lo svilupparsi di un nuovo tipo di competitività mutano di colpo il gioco delle maschere e dei ruoli sociali. Negli anni sessanta trionfa la ricerca del bene individuale su quello collettivo e si ha l’impressione di una regressione e una deregulation nel rispetto di tutti i codici e leggi sociali, civili, morali, religiose…

Da ultimo va detto che la straordinaria energia degli anni sessanta segna anche la caduta progressiva e il tramonto di alcune grandi fedi ideologiche alle quali si sostituiscono tensioni che nascono dal basso e non sono più controllabili o rappresentate dalle tradizionali forze politiche o istituzionali.

Così se nei primi anni sessanta nel bianco e nero domina una luce accecante meridiana e nel colore prevalgono i toni solari della giovinezza e della vitalità, verso la fine del decennio le ombre si fanno più lunghe, i colori più cupi e l’immagine sembra virare al nero non solo nei film di genere: di colpo si percepisce – anche a livello formale e simbolico – un deciso mutamento di fase, un senso di perdita, di caduta di speranze e di bussole d’orientamento morale e ideologico. Vi sono ancora tante bandiere rosse, tante tensioni non più nettamente finalizzate e tante armi che sparano, sia nei film di genere che nelle ricostruzioni drammatiche della storia del passato prossimo, o slogan che inneggiano a rivoluzioni messicane, o nei paesi Sudamericani, ma è evidente, a partire dalla morte di Palmiro Togliatti del 1964, che le grandi ideologie che hanno segnato la storia del dopoguerra e della ricostruzione e ne hanno costituito un grande motore collettivo, sono destinate a perdere rappresentatività e ruolo di guida per le masse popolari (I sovversivi, Taviani, 1967). Con il 1968 tutte le tensioni accumulate nel decennio e prive di guide e punti di riferimento politico esploderanno in modo caotico e incontrollabile, ma a quel punto diventerà ancora più evidente che qualsiasi utopia o sogno rivoluzionario – anche quello dell’immaginazione al potere – sarà destinato a rimanere tale e a trasferire sullo schermo luoghi e mondi sempre più lontani o improbabili, o a degenerare nella realtà del decennio successivo dell’azione assassina e stragista delle frange terroristiche.

Nel momento in cui l’uomo sbarca sulla luna molti registi del cinema italiano mostrano di non riuscire a percepire, se non in modo confuso, il cammino che si apre al presente per i protagonisti delle loro storie. Le utopie rivoluzionarie non guardano al futuro, quanto piuttosto sembrano nostalgici richiami al passato e quelle registrate a caldo nel vivo della lotta non sono state mai finora oggetto di una vera analisi storico-critica. Il sogno di volare assieme alla carica di speranze che avevano guidato a lungo il grande cinema del dopoguerra e avevano avuto un ruolo fecondante per molte cinematografie, sembrano al momento destinati a sparire pressoché del tutto dallo schermo.