Il costo energetico delle merci

La resurrezione da un lungo oblio di Sergej Podolinskij (1850-1891)((J. Martinez-Alier, “Economia ecologica”, Milano, Garzanti, Milano, 1991 (titolo originale: “Ecological economics”, Oxford, Basil Blackwell, 1987).)) offre l’occasione per ripensare la teoria del valore in unità fisiche, naturali.

Gli economisti classici avevano riconosciuto fin dal 1700 che le merci hanno, oltre al valore di scambio, un valore d’uso, ma il problema della misura di tale valore è rimasto sempre irrisolto. Nel primo capitolo del primo libro del “Capitale” Marx si limita a dire che del valore d’uso di occupa una speciale disciplina, la merceologia ((

G. Nebbia, “La merceologia e un curioso problema filologico”, Quaderni di Merceologia, 4, (2), 23-39 (1965)))

, ma tutto si ferma qui. Anche la proposta di misurare il valore delle merci sulla base del lavoro “incorporato”, necessario a produrle, non consente grandi passi in avanti.

Sostanzialmente il valore lavoro è associato in qualche modo ad una misura della quantità di energia – umana, in questo caso – necessaria per produrre le merci. Martinez-Alier nel suo libro (1) ci offre una galleria di persone che hanno cercato di elaborare una teoria energetica del valore delle merci o una analisi del rapporto fra energia, lavoro e merci, e fra questi si inserisce Podolinskij con il suo saggio, apparso in tedesco, francese, italiano e russo, di cui  sono state presentate le prime tre versioni nel fascicolo di Giano, vol. 4, n. 10, aprile 1992.

L’idea di misurare il valore delle merci in unità energetiche era stata avanzata da Frederick Soddy (1877-1956)(1) e poi da H.G. Wells(1866-1946) nel libro “A Modern Utopia” del 1905 ((H.G. Wells, “A Modern Utopia”, 1905, Capitolo 3°, “Utopian economics”, sezione III; in Internet <http://etext.library/adelaide/edu.au/>)) e fu ripresa al tempo della grande crisi del 1929-1933 ((Per una rassegna sull’argomento si veda: G. Nebbia, “Prefazione” a: Peter Chapman, “Il paradiso dell’energia. Introduzione all’analisi energetica”, Milano, CLUP-CLUED, (titolo originale: “Fuel’s paradise. Energy options for Britain”, Harmondsworth, Penguin Books, 1975).)).

In Italia un professore di Merceologia dell’Università di Firenze, Roberto Salvadori, peraltro quasi sconosciuto ((Di Roberto Salvadori ho trovato poche notizie in un “Curriculum vitae” datato 1931. Si era laureato in chimica a Padova nel 1896, il che fa pensare che sia nato intorno al 1870. Nel 1899 si recò con una borsa di studio nell’Università di Gottingen nel laboratorio del prof. Nernst. Dopo due anni di insegnamento a Sassari, nel 1902 vinse il concorso di professore ordinario di chimica nell’Istituto Tecnico di Firenze e nello stesso anno ottenne la Libera docenza. Dal 1926 al 1934 tenne per incarico il corso (allora biennale) di Merceologia presso la Facoltà di Scienze economiche e commerciali; potrebbe essere vissuto fino a circa il 1940.)), in un suo libro di merceologia ((Renato Salvadori, “Merceologia generale. Principi teorici. I. Le proprietà delle cose. II. Concetto merceologico dell’energia”, Firenze, Editore Cya, 1933.)), ha introdotto il concetto di “energia-merce” per rappresentare “la somma algebrica delle energie necessarie alla creazione di una entità merceologica, per cui si può stabilire il valore commerciale energetico”. Per “valore commerciale energetico” Salvadori intendeva “il valore assoluto dell’unità di misura di un prodotto merceologico, determinato dalle condizioni tecniche della sua preparazione. Ogni tipo di merce rappresenta, in definitiva, una somma di energie che è sempre superiore all’energia teorica che il prodotto ha in se”.

Salvadori definì gli “energon-merce” come la somma dell’energia spesa per produrre una unità di peso di ciascuna merce; tale somma è sempre superiore al “contenuto energetico” della merce stessa e dipende dalle inefficienze e perdite del processo. A Salvadori va quindi il merito di aver introdotto, pur con un linguaggio poco chiaro, l’idea che esiste un consumo minimo teorico di energia per produrre ciascuna merce – equivalente, in un certo senso, al rendimento di Carnet delle macchine termiche – e che il consumo reale di energia dipende dalle perdite, dalle inefficienze tecniche, e così via.

Per inciso lo stesso concetto, per alcuni cicli produttivi, è stato ripreso dall’americano Gyftopoulos nel 1974 ((E.P. Gyftopoulos, L.J. Lazaridis e T.F. Widmer, “Potential fuel effectiveness in industry”, Cambridge, Ballinger, 1974.)).

Negli stessi anni in cui Salvadori scriveva della sua energia-merce, negli Stati Uniti fu proposta addirittura una “moneta energetica”. Ai tempi della grande crisi e sull’onda delle idee di Thornstein Veblen (1857-1929), era sorto un movimento, denominato “tecnocrazia”, basato sull’idea che i tecnici, piuttosto che il potere finanziario, avrebbero dovuto avere un ruolo predominante nelle decisioni economiche e produttive. Nell’ambito di questo movimento un certo Howard Scott (1890-1970) propose una curiosa teoria della distribuzione delle merci, secondo la quale il denaro avrebbe dovuto essere sostituito da una moneta basata sulle unità energetiche. La proposta, pubblicata da Scott nel fascicolo del gennaio 1933 di Harper’s Magazine, sosteneva che l’industria avrebbe prodotto nella maniera più efficiente una grande quantità di merci utili se il governo avesse stampato dei certificati energetici in quantità equivalente alla quantità totale di energia usata nella produzione delle merci stesse. Tali certificati sarebbero stati distribuiti equamente fra la popolazione: ciascun cittadino avrebbe usato i certificati a sua disposizione per acquistare le merci occorrenti, regolando i suoi gusti e le sue scelte sulla base del vincolo fisico costituito dalla quantità di energia assegnatagli dalla collettività. I certificati di energia avrebbero dovuto essere trasferibili e avrebbero dovuto avere una durata limitata ((La curiosa storia è raccontata nel libro di W.E. Akin, “Technocracy and the American dream. The Technocrat movement, 1900-1941”, University of California Press, Berkeley, 1977. Per il movimento di “tecnocrazia” si veda anche: J. Martinez-Alier (1), p. 202-205. Molte notizie nei siti Internet www.technocracyinc.org/ e <www.tecnocracy.ca/>)).

In coincidenza con un’altra crisi economica, quella seguita al primo aumento del prezzo del petrolio nel 1973, la ricerca di un indicatore energetico del valore delle merci fu ripresa da Martha Gilliland ((Martha Gilliland, “Energy analysis and public policy”, Science, 189, 1051-1056 (26 settembre 1975) e “Energy analysis”, Science, 192, 8-12 (2 aprile 1976))) [il cui lavoro è stato criticato da David Huettner ((David Huettner, “Net energy analysis: and economic assessment”, Science, 192, 101-104 (9 aprile 1976) e varie “Lettere” in Science, 196, 259-262 (15 aprile 1977)))], dall’inglese Peter Chapman ((

Per una rassegna e una bibliografia dei lavori inglesi di Chapman e altri cfr., per esempio: Peter Chapman, “Fuel’s paradise. Energy options for Britain”, Harmondsworth, Penguin Books, 1975. Purtroppo nella traduzione italiana, citata nella nota (2), è stata omessa

la bibliografia

)), da molti altri ed è stata affrontata anche nell’Università di Bari ((Giorgio Nebbia, “Storia naturale delle merci”, Rassegna Chimica, 43, (6), 241-249 (novembre-dicembre 1991) Con una rassegna e una bibliografia delle ricerche precedenti.)). Una critica alla proposta di misurare il valore energetico delle merci è contenuta in un celebre articolo di Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994)((Nicholas Georgescu-Roegen, “Analisi energetica e valutazione economica”, in: N. Georgescu-Roegen, “Energia e miti economici”, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 108-160  Questo saggio è la traduzione ampliata di un articolo intitolato: “Energy analysis and economic valuation”, Southern Economic Journal, 45, (4), 1023-1058 (aprile 1979).)), sulla base del fatto che non conta solo l’energia, ma “anche la materia conta” (“matter matters too”).

Qui vorrei soffermarmi brevemente sulla domanda: serve a qualcosa tentare di liberarsi dalla schiavitù della valutazione delle merci in unità monetarie e cercare qualche altro indicatore del valore?

Dal punto di vista dello studioso di merceologia – intesa, secondo l’indicazione di Marx, come la disciplina preposta alla determinazione del valore d’uso delle merci (“Der Gebrauchswert der Waren liefert das Material einer eigenen Disziplin: der Warenkunde”) – risponderei di si. Noi viviamo in un mondo di risorse naturali scarse e ogni processo di produzione delle merci inevitabilmente porta ad una diminuzione delle risorse naturali esistenti e ad un peggioramento della qualità delle risorse naturali restanti. Il pianeta diventa più povero in proporzione all’aumento della ricchezza monetaria e delle merci che tale ricchezza monetaria accompagnano.

Ciò appare chiaro considerando che il processo di produzione delle merci ha una sua storia naturale ((Giorgio Nebbia, “Storia naturale delle merci”, Rassegna Chimica, 43, (6), 241-249 (novembre-dicembre 1991) Con una rassegna e una bibliografia delle ricerche precedenti.)): la produzione e l’uso di ogni merce sono associati ad un flusso di materia e di energia, che parte dalla natura e alla natura ritorna: una circolazione natura-merce-natura, N-M-N. L’impoverimento delle riserve di risorse e l’inquinamento dipendono da tale flusso.

Se quindi ci sta a cuore capire come soddisfare i bisogni individuali e collettivi – nei paesi opulenti e in quelli poveri – con una minore o con una minima erosione delle risorse naturali, può essere utile conoscere il flusso associato a ciascuna merce o processo capace di soddisfare ciascun bisogno. Ad esempio: il bisogno di movimento – il “servizio mobilità” – può essere caratterizzato sulla base della quantità di energia, della quantità di materiali (consumo della gomma dei copertoni o dell’amianto della frizione e dei freni) e dell’inquinamento associati ai differenti modi di trasporto con cui una persona può percorrere un kilometro. Si potrebbe così parlare di un “valore” o di un “costo” in termini di risorse naturali o di materiali, o di energia o di inquinamento, per passeggero-kilometro.

La misura del costo in risorse naturali, del costo energetico e del costo ambientale di ciascuna merce o servizio presenta delle grandi difficoltà tecnico-scientifiche. Nonostante ciò, in questi ultimi anni si stanno moltiplicando l’interesse e gli articoli sulla misura di tali “costi” anche perché l’Unione Europea ha proposto di caratterizzare alcune merci, considerate meno dannose all’ambiente, con una “etichetta ecologica” (o “ecolabel”) assegnata sulla base del minore consumo di materiali e di energia e del minore inquinamento, rispetto ad altre merci. Gli acquirenti potrebbero così essere orientati, a parità di prezzo o anche pagando un prezzo maggiore, verso le merci più “amiche” della natura. In un certo senso questo orientamento si sta già verificando con gli alimenti cosiddetti “biologici”, più costosi, ma ottenuti con meno pesticidi e concimi rispetto a quelli tradizionali.

È facile costatare che l’operazione si presta a frodi se le misure dei valori “naturali” delle merci non sono effettuate correttamente. Comunque l’introduzione dell’”etichetta ecologica”, come anche l’introduzione delle “imposte ecologiche”, una forma di imposta proporzionale a qualche valore “negativo” di una merce (contenuto in piombo della benzina, in zolfo dei carburanti, in carbonio dei combustibili, eccetera) costituiscono strumenti di orientamento dei consumi verso merci meno dannose all’ambiente.

Si tratta di strumenti tipici delle economie di mercato, diretti a modificare o contenere certi consumi ecologicamente dannosi, e quindi intrinsecamente contradditori con la regola capitalistica che esige l’espansione, non la contrazione, dei consumi.

Per chi, come l’autore di questa breve nota, considera le regole della società capitalistica intrinsecamente incompatibili con la difesa di valori collettivi e planetari, cioè con la salvaguardia delle risorse naturali scarse e la diminuzione della contaminazione ambientale, la ricerca di indicatori fisici e naturali delle merci e dei servizi può apparire come uno strumento per facilitare la diffusione di una cultura della pianificazione della produzione e dei consumi; tale pianificazione appare come l’unica azione capace di assicurare una più razionale distribuzione delle risorse naturali scarse anche contro gli interessi dei fabbricanti e le richieste dei consumatori imposte con le raffinate tecniche pubblicitarie.