Il Cotonificio Olcese di Cogno
Cogno, piccolo paese bresciano frazione del Comune di Piancogno, in Valle Camonica, è tutt’oggi sede di una grossa industria cotoniera denominata Cotonificio Olcese Spa, fondata agli inizi del Novecento dall’industriale milanese Vittorio Olcese ed avviata nel 1907 con il nome di Cotonificio Francesco Turati.
Alla storia di questa azienda, che negli anni Trenta del secolo scorso arrivò ad avere addirittura più di 3.000 operai, in gran parte donne, è legata la storia dell’intera vallata in quanto le maestranze che vi lavoravano provenivano non solo dai vicini centri abitati di Pian di Borno, Cividate Camuno, Ossimo e Borno, ma anche da molti altri paesi della valle, così numerosi da rendere necessaria la costruzione, man mano che l’industria si accresceva, di strutture abitative potessero ospitare gli operai e le loro famiglie.
Si può dire, in breve, che l’intero abitato di Cogno sia nato attorno allo stabilimento e per opera di quest’ultimo: in breve tempo, quella che un tempo veniva comunemente chiamata la “contrada dei sette camini” sarebbe divenuta un vero e proprio micro-universo quasi totalmente autonomo, un villaggio operaio senza precedenti né successori nella storia della Valle Camonica.
I primi tre decenni del ‘900 saranno i più brillanti per questa industria mentre, a partire dagli anni successivi al secondo conflitto mondiale, lo stabilimento inizierà la sua drammatica ed inesorabile parabola verso il basso, brevemente interrotta dal boom economico degli anni Sessanta. Tra alterne fortune, passaggi di proprietà, smembramenti, fusioni e controversie legali l’azienda è arrivata sino ai giorni nostri ed ancora oggi si impone come uno dei principali protagonisti del settore cotoniero nazionale.
Lo stabilimento di Cogno, tuttora funzionante con circa una novantina di dipendenti, è oggi l’ultimo superstite dell’impero costruito dal suo fondatore, Vittorio Olcese, ma rimane comunque una delle principali realtà industriali che hanno segnato l’economia valligiana e bresciana. Per questo motivo sarebbe molto opportuno conservarne e tramandarne la memoria attraverso iniziative culturali di rilievo tra cui un video-documentario, un’esposizione fotografica oppure, pensando più in grande, un allestimento museale. Tali iniziative risulterebbero, certamente, di grande interesse sociale e di notevole utilità didattica e per la valorizzazione del territorio.
La storia dello stabilimento e dell’intero gruppo meriterebbe certamente molto più di un solo capitolo. Per motivi di coerenza, tuttavia, ci limiteremo a ricostruirne brevemente le fasi principali. Chi desidera approfondire ulteriormente lo studio di questa importante realtà industriale potrà consultare due interessanti volumi che trattano l’argomento in questione. Il primo è “Il Cotonificio Vittorio Olcese nelle sue origini, nelle sue vicende e nella sua attualità”, testo autocelebrativo pubblicato nel 1939 dalle Edizioni Bestetti di Milano, opera di autori vari. Il secondo, più recente, è invece “Una valle, una fabbrica – Storia del cotonificio Olcese”, scritto da Tullio Clementi e Luigi Mastaglia per conto di CIGL, CISL Valcamonica-Sebino e Circolo Culturale Ghislandi. Pubblicato nel 2009, restituisce una visione più realistica della vicenda, soprattutto perché riporta, sotto forma di brevi interviste, esperienze e testimonianze di chi ha effettivamente lavorato nel cotonificio. Questo libro è stato di grande aiuto per laricostruzione della storia dello stabilimento di Cogno, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi decenni.
Per rendere sinteticamente l’idea di quanto l’Olcese abbia contribuito allo sviluppo del Comune di Piancogno basti dire che ad esso si deve la nascita stessa dell’abitato di Cogno. Prima della costruzione del cotonificio, infatti, la frazione non era che una modesta contrada, detta “dei sette camini” proprio per indicare il numero esiguo di abitazioni. Con l’arrivo dell’industria questa piccola comunità subì un cambiamento talmente radicale da risultarne totalmente sconvolta, trasformandosi in breve tempo un autentico micro-universo: un villaggio operaio a tutti gli effetti, sviluppato a raggiera attorno allo stabilimento. Dapprima centinaia e poi migliaia di persone saranno attirate a Cogno dalla possibilità di trovare un impiego: da Pian di Borno, da Cividate Camuno e quindi da altri paesi più o meno lontani. In pochissimi anni Cogno diventerà un vero e proprio volano economico per l’intera Valle Camonica, che a quell’epoca si stava timidamente affacciando al fenomeno dell’industrializzazione grazie alle intuizioni di Maffeo Gheza, di Giovanni Andrea Gregorini e di Carlo e Filippo Tassara((B. Bruna, S. Chiappin, R. Scortegagna, Approvvigionamento, distribuzione, utilizzazione, consumo dell’energia nel Comune di Piancogno, tesi di laurea discussa a Milano nel 1964 presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, schede nr. 32, 33, 34, 35, 36, 37 e 38)), artefici di quelle prime fabbriche sorte su un territorio sino ad allora utilizzato esclusivamente per l’agricoltura. Quello di Cogno, è il caso di ribadirlo, resterà però un caso assolutamente unico.
Procediamo per ordine. L’epopea dello stabilimento inizia nel 1904 ed il suo protagonista è un giovane industriale milanese di nome Vittorio Olcese, all’epoca poco più che quarantenne. Quando, per qualche motivo, egli arriva a Cogno le sole cose che trova sono il torrente Trobiolo, abbondante manodopera e terreni a basso costo. Puntando su questi tre fattori, soprattutto sull’acqua che avrebbe fornito forza motrice ai macchinari, egli convince il conte Francesco Turati a finanziare l’edificazione di un nuovo stabilimento, forse senza sapere che presto sarebbe divenuto uno dei più grandi opifici della Valle Camonica, oltre che la fonte della propria fortuna. Olcese aveva alle spalle una lunga esperienza nel campo tessile, ma essendo il conte il principale finanziatore del progetto – oltre che proprietario di altri grossi cotonifici – lo stabilimento prenderà inizialmente il nome di Cotonificio Turati((Ibidem, pag. 21)).
La nascita del cotonificio fu quindi il frutto di una grande intuizione e di un notevole, seppure ponderato, investimento economico. Un ulteriore punto di forza nella scelta di Cogno rispetto ad altri luoghi fu però la presenza e la vicinanza della ferrovia, che avrebbe consentito una rapida ed efficace movimentazione delle materie prime e del prodotto finito. Proprio in quei primi anni d’inizio secolo, infatti, si stava decidendo il proseguimento della linea ferrata Brescia-Iseo, da poco inaugurata. Voluta da Giuseppe Tovini e dai suoi soci già nel 1884, era stata iniziata poco dopo la fondazione della “Società Anonima Ferroviaria di Valle Camonica” e già prevedeva una nuova tratta, da Pisogne a Edolo, che avrebbe ampliamente servito la Valle Camonica. La linea, in particolare, sarebbe passata anche per Cogno, a poche decine di metri dal lato orientale del cotonificio, dove effettivamente sorse lo scalo merci.
I lavori di costruzione ed ampliamento della ferrovia non furono estranei a problemi di vario genere, principalmente a causa di incomprensioni e questioni finanziarie e burocratiche. Dopo esser rimbalzato tra le mani di innumerevoli impresari il progetto cadde addirittura nel dimenticatoio e venne finalmente ripreso nel 1904, anno in cui Vittorio Olcese ottiene la concessione per lo sfruttamento dell’acqua del torrente Trobiolo. Nel 1908, dopo grandi lavori e sotto la direzione della SNFT – Società Nazionale Ferrovie Tramvie, la linea che dapprima giungeva solamente a Iseo arriva finalmente sino a Edolo((“L’appalto per i lavori venne affidato alla Società Nazionale Ferrovie e Tranvie (SNFT) che, al momento della stipula del nuovo contratto, si assunse anche precisi impegni per il rispetto di alcune clausole temporali che fissavano l’inizio del lavori entro il 1904 e imponevano il termine e il collaudo del tronco Iseo-Pisogne entro il 1906. La tratta successiva, quella tra Pisogne e Breno, che comportava minori difficoltà esecutive per l’orografia del terreno, doveva essere posta in esercizio e consegnata entro l’anno successivo, il 1907. L’ultimo tratto di strada ferrata, quello tra Breno e Edolo, doveva essere reso operativo e collaudato entro il 1908.”– M. Fiora, Storia dei Camuni e della Valle Camonica, pag. 158)).
A quella data lo stabilimento era già attivo in quanto i lavori di realizzazione, iniziati nel 1905, erano stati terminati l’anno successivo, nel 1906. Mentre la ferrovia veniva ultimata il cotonificio contava già oltre 50.000 fusi, il cui movimento meccanico era assicurato dal torrente Trobiolo. L’acqua, forzata all’interno di una condotta, forniva infatti la forza motrice necessaria per la filatura del cotone, azionando decine di macchine dette “ring”. Quando finalmente la ferrovia si trovò a passare anche per Cogno, due anni più tardi, il numero dei fusi era già raddoppiato, passando quindi a più di 100.000 unità((AA. VV., Il Cotonificio Olcese nelle sue origini, nelle sue vicende e nella sua attualità, Edizioni Bestetti, Milano, 1939, pagg. 42 e 43)).
L’edificazione dello stabilimento fu certamente un importante risultato, ma Vittorio Olcese sapeva di essere solo all’inizio del proprio disegno ed aveva in mente ben altri progetti. Prendendo esempio dal cotonificio Feltrinelli di Campione sul Garda, costruito un decennio prima, egli volle creare anche a Cogno un villaggio operaio indipendente e perfettamente organizzato((Vittorio Olcese (Milano, 18 aprile 1861 – 19 maggio 1940). “Convinto da don Stefano Gelmi, curato a Campione e poi parroco a Pian Camuno, fissò la sua attenzione sulla zona di Cogno assicurandosi nel 1904 i diritti di concessione per la derivazione delle acque del torrente Trobiolo, in vista di insediarvi un grande complesso industriale. … Il cotonificio entrava in funzione nel 1906. Attorno allo stabilimento costruì, ispirandosi all’esperienza di Alessandro Rossi a Schio, un vero e proprio alloggio con case e chiesa, negozi, opere sociali fra cui un convitto. Nel 1912, rilevato uno stabilimento rimasto inattivo a Casino Boario, lo trasformò in una grande filatura.” – A. Fappani, Olcese, Vittorio, Enciclopedia Bresciana – Vol. X, pagg. 360 e 361)). Già nei primi cinque anni di vita dell’opificio, dal 1906 al 1910, quella che un tempo era stata una modesta contrada vide nascere i suoi primi quartieri, che uno dopo l’altro si moltiplicavano attorno ai grandi capannoni dello stabilimento. Le abitazioni, man mano che il villaggio cresceva, venivano corredate da scuole, locali pubblici, centri aggregativi e di ricreazione come il noto “dopolavoro”, ed in seguito furono poi realizzati anche altri servizi, tra cui la cooperativa di consumo, un campo da calcio a 11 e addirittura il cinema. L’aspetto “sociale” era infatti molto caro a Vittorio Olcese. Applicando i principi di quello che all’epoca veniva definito “paternalismo illuminato”, egli riuscì a creare una comunità produttiva e dedita al lavoro, anche se in realtà poco compatta dal punto di vista dell’appartenenza al paese. Del resto, la provenienza delle maestranze era estremamente eterogenea.
Tuttavia, agli operai ed agli impiegati dello stabilimento non veniva fatto mancare nulla e lo stesso Olcese era visto come una sorta di padre affettuoso che si preoccupava del soddisfacimento dei loro bisogni e delle loro necessità. Ovviamente, tutto ciò avveniva soprattutto nella logica di ottenere la migliore resa lavorativa possibile. Al di fuori dello stabilimento gli operai avevano però piena libertà e ciascuno poteva dedicarsi ad altri lavori oppure ai più svariati passatempi. Ad esempio, nei vari bar dell’abitato si crearono presto ben sette circoli di varia ispirazione (politica, religiosa, sociale, eccetera) cui gli uomini potevano liberamente associarsi, in base alle proprie convinzioni o preferenze. Una simile varietà rispecchiava ovviamente lo stato di disaggregazione interna allo stabilimento ed al paese, ma al contempo consente di capire l’assortimento di opportunità extra lavorative offerte da Cogno ai suoi operai. Lo stesso, seppure in misura inferiore, valeva anche per le operaie, che peraltro rappresentavano la stragrande maggioranza dei dipendenti. Oltre alle aggregazioni maschili, il paese offriva infatti anche alle donne la possibilità di aderire a due diversi circoli ricreativi: uno di ispirazione cattolica ed uno invece di impronta decisamente più laica.
Distrazioni e passatempi a parte, nel momento stesso in cui si offrì agli operai la possibilità di disporre di abitazioni a prezzo agevolato, la popolazione di Cogno aumentò ovviamente in modo esponenziale. La comodità di abitare a pochi passi dal posto di lavoro rappresentava infatti un vantaggio non indifferente ed in quest’ottica l’amministrazione Olcese continuò per anni a edificare palazzi e abitazioni che ancora oggi compongono la maggior parte del centro abitato. Tra i quartieri più affollati vi era quello di viale Roma, tuttora molto ben conservato e che fornisce un esempio lampante della concezione imprenditoriale di Vittorio Olcese e di altri grandi industriali suoi contemporanei. Nella disposizione del villaggio di Cogno tutto è assolutamente funzionale e nulla è lasciato al caso. Osservando attentamente viale Roma, si scopre infatti che il posizionamento stesso delle strutture riassume sinteticamente il paradigma “lavoro-casa-chiesa”((T. Clementi – L. Mastaglia, Una valle, una fabbrica – Storia del Cotonificio Olcese, CIGL e CISL Valcamonica-Sebino – Circolo Culturale Ghislandi, Artogne, 2009, pag. 24)), garantendo così che tutto ciò che si trovasse all’interno di questo semplice schema fosse sufficiente al soddisfacimento dei bisogni elementari del lavoratore.
Oltre le due strutture abitative, separate dallo stabilimento solo da via Vittorio Veneto, si trova infatti un grande piazzale che un tempo ospitava il monumento ai Caduti, ora spostato sul lato destro. Qui, ai piedi della parete rocciosa che costeggia il torrente Trobiolo, sorge la chiesa dedicata a Maria Annunciata. La maestosa quanto inusuale struttura sacra, dallo stile misto tra il romanico ed il neoclassico, fu ultimata nel 1928 e si inserisce alla perfezione nell’ordinato disegno del villaggio funzionale, oltre che nella logica del “paternalismo illuminato” che forniva al dipendente un’occupazione, un’abitazione e la possibilità di rinfrancarsi nello spirito dedicandosi al culto. In merito vi è anche una singolare curiosità. Probabilmente a quell’epoca erano in pochi ad esserne al corrente, ma la chiesa prende in realtà il proprio nome dalla moglie dell’industriale, donna Annunciata Olcese Polli, e non dall’Annunciazione di Maria come potrebbe invece sembrare((Ibidem. Pagg. 48 e 49)), quasi fosse la consorte dell’industriale, non la Madonna, la vera protettrice del villaggio operaio. Naturalmente si tratta di un’interpretazione, anche se non troppo lontana dalla realtà.
Oltre alla presenza di una chiesa, in viale Roma vi sono anche altri aspetti particolarmente interessante ed assolutamente non scontati. Tra questi il fatto che ogni singola abitazione del quartiere aveva a disposizione un piccolo spazio esterno da adibire ad orto. Questo semplice ma efficace “optional” da un lato permetteva di integrare l’alimentazione degli operai con i frutti della terra, dall’altro impediva un distacco troppo drastico dalla vita rurale cui le famiglie erano abituate prima dell’impiego in fabbrica. Anche questo accorgimento fu importato dalla gestione sperimentata nello stabilimento di Campione e si rivelò più che vincente, tanto da essere poi adottato anche in altre abitazioni costruite a Cogno dalla proprietà Olcese.
Un altro edificio molto interessante, che peraltro si trova proprio a ridosso di viale Roma, è sicuramente il convitto, originariamente pensato per le operaie che non potevano permettersi un’abitazione né potevano tornare a casa ogni giorno dopo il lavoro a causa della distanza. Anche questa struttura presentava particolarità innovative ed estremamente funzionali, tra cuila presenza di una mensa interna e addirittura di un tunnel sotterraneo che dal piano interrato dell’edificio portava le operaie direttamente nel cortile dello stabilimento, senza che dovessero uscire in strada. La stessa galleria veniva utilizzata anche per portare ai lavoratori i pasti preparati nelle cucine del convitto, attraverso un sistema di trasporto con carrelli spinti a mano.
Le restanti strutture del villaggio erano per lo più normali abitazioni, grandi edifici residenziali ora trasformati in condomini o abbattuti per lasciar posto a costruzioni più recenti. Ancora oggi, tuttavia, è possibile immaginarne il brulicante contenuto umano di intere famiglie che dal primo all’ultimo membro lavoravano all’interno dell’opificio. All’aumentare del regime produttivo aumentava anche il fabbisogno di manodopera e, di conseguenza, il numero degli alloggi. Nel giro di pochissimi anni Cogno si troverà ad essere una tra le aree più densamente popolate dell’intera Valle Camonica ed al termine della Prima Guerra Mondiale, giungerà infatti al ragguardevole traguardo di ben 1.600 abitanti. Una volta e mezza quelli di oggi, cento anni dopo.
Lavorare all’Olcese era quindi una sorta di privilegio. Nonostante i turni estenuanti, le rigide condizioni imposte dai datori di lavoro e la scarsa sicurezza dei macchinari, la possibilità di avere un impiego fisso e uno stipendio sicuro attirava uomini e donne a spostarsi anche di molti chilometri pur di lavorare. Avere anche solo un membro della famiglia al cotonificio rappresentava motivo di sicurezza economica e per questo si accettavano anche le condizioni più dure ed un salario non sempre adeguato alle ore lavorative ed alle mansioni, generalmente faticose o molto ripetitive. Il lavoro per le operaie e gli operai era estenuante e rigidamente controllato dagli addetti alla qualità, salariati per passare letteralmente al setaccio interi reparti. Ogni mancanza era punita severamente dal rigido regolamento e, a campione, gli operai erano sottoposti anche ad una sorta di perquisizione. Il filato era infatti molto pregiato e anche solo gli scarti potevano essere rivenduti per guadagnare poche Lire in più.
La manodopera è però la vera ricchezza dello stabilimento e proprio grazie all’elevata produttività il cotonificio di Cogno conosce un’impressionate fortuna. La sua espansione è a dir poco sconvolgente, tant’è che, a soli sei anni dalla sua apertura, si rende necessaria l’integrazione con un secondo opificio: quello di Casino Boario((Ibidem. Pag. 27)) demolito non più di una decina d’anni fa. Nel 1909 la società Olcese (che all’ora si chiamava ancora Cotonificio Turati) acquista infatti la dissestata Manifattura di Darfo, costruita nel 1906 su terreni della parrocchia di Montecchio, rendendola un satellite di Cogno. Nel 1912, nonostante la crisi del settore cotoniero che sarebbe durata sino al 1914, l’Olcese di Boario dava lavoro a ben 600 persone, molte delle quali donne giovanissime che spesso facevano turni di dodici ore al giorno. A Cogno, nello stesso anno, il numero dei dipendenti era arrivato a contare circa 1.400 unità((“Borgo o villaggio Olcese: frazione di Cividate, ma gravitante su Cogno (Comune di Piancogno). Giace in un’ampia zona che da Cogno si spinge, tra la montagna e il fiume Oglio, fino sotto Cividate. La costruzione venne avviata a Cogno nel 1905 assieme al cotonificio Turati e C., il cui tetto venne completato nel dicembre del 1905. al contempo venivano gettate le fondamenta della prima casa operaia di cinque piani, un refettorio capace di 800 operai e di un alloggio per 400. Facevano corona altre sei-sette case costruite di nuovo, ampliate assieme ad un albergo costruito da Pietro Nolli con negozio di pizzicagnolo, ufficio postale e telegrafo, mentre venivano programmate altre case e botteghe con la previsione dello stanziamento di tremila persone. La chiesa venne costruita nel 1922.” – A. Fappani, Olcese, Borgo, Enciclopedia Bresciana – Vol. X, pag. 360)), praticamente l’intera popolazione.
Per tutti gli anni Dieci, nonostante la guerra, lo stabilimento continua a produrre incessantemente il filato. Negli anni Venti, soprattutto dopo la Marcia su Roma e con l’inizio del Ventennio Fascista, l’Olcese conosce un periodo particolarmente felice, soprattutto nel quinquennio dal 1923 al 1927. Nel 1925 l’opificio di Cogno, il cotonificio Feltrinelli di Campione e le due filature liguri a Entella di Lavagna e Voltri si riuniscono sotto la ragione sociale di Cotonificio Francesco Turati((T. Clementi – L. Mastaglia, Una valle, una fabbrica – Storia del Cotonificio Olcese, CIGL e CISL Valcamonica-Sebino – Circolo Culturale Ghislandi, Artogne, 2009, pag. 36)). Più o meno nello stesso periodo viene inoltre completata la strada che da Malegno sale fino all’altipiano di Ossimo e Borno, garantendo una via di comunicazione più agevole e sicura rispetto ai sentieri usati dagli operai e che tuttora solcano le pareti della montagna di Piancogno: “le Viti”, “la Volte” e il “Sentiero di Pirla”. Con la strada viene istituito anche un servizio di trasporto su pullman, anche se moltipreferiranno continuare a scendere a piedi. Non tanto per risparmiare i soldi del biglietto, ma perché queste persone, che ogni giorno scendevano dai monti verso la fabbrica, finivano per creare delle piccole comunità in movimento. Oltre a farsi compagnia durante il viaggio, esse assumevano l’onere di mantenere battuti i tracciati, eseguendo anche piccoli interventi di manutenzione laddove necessario.
Anche il 1929 è un anno molto importante perché il Cotonificio Francesco Turati cambia il proprio nome in Cotonificio Vittorio Olcese. Ciò avviene dopo l’acquisizione degli stabilimenti della Filatura Bergamasca di Clusone, Novara, Carrù e Vergiate. A questo punto Olcese dispone, in totale, di circa mezzo milione di fusi suddivisi in otto fabbriche.Vi sono però anche risvolti negativi. A pochi mesi dal “giovedì nero”, la crisi di Wall Street viene avvertita anche in Italia ed il settore del tessile subisce un grave colpo. In breve vengono applicati i primi licenziamenti e drastici tagli ai salari, mentre i ritmi richiesti dalla produzione diventano sempre più pressanti e logoranti. Anche Cogno non è immune a questo fenomeno.
Passano le stagioni e nella Valle Camonica dei primi anni Trenta, sotto l’egida del fascismo, lo stabilimento Olcese si distingue come un’eccellenza nel campo della produzione tessile. Già nel 1930 viene in visita Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Accolto da una folla festante di operai egli rimase molto impressionato dalla realtà di Cogno, tanto da proporre Vittorio Olcese per un’onorificenza ufficiale. Nonostante le lodi, fu proprio a causa del servilismo nei confronti del Regime che anche a Cogno si instaurerà presto un clima di sfruttamento e subordinazione forse ancora peggiore di quello precedente. Lo stabilimento diventa addirittura un focolaio di tensioni politiche, in cui bisognava rigare dritti, lavorare e rimanere in silenzio per non rischiare di essere licenziati e addirittura malmenati dagli squadristi guidati dal famigerato Vittorino Olcese, figlio di un cugino dello stesso Vittorio((Ibidem. Pag. 33 e 34)).
Proprio in quegli anni, avendo ormai tre stabilimenti relativamente vicini, Olcese decide di costruire un grande bacino idroelettrico, la cui acqua avrebbe alimentato una centrale sufficientemente attrezzata per servire contemporaneamente Cogno, Boario e Clusone. Viene così realizzato il cosiddetto “Lago di Lova” (ovvero il bacino idrico di Pian di Lova), iniziato nel 1931 e terminato nel 1934. Situato in territorio bornese, è tuttora alimentato dalla sorgente del torrente Lovareno, che era stato appositamente imbrigliato per dar vita al laghetto. L’acqua raccolta nel bacino, capace di contenerne circa 400.000 metri cubi, veniva forzata in una grossa condotta e, dopo un salto di 600 metri, andava ad alimentare la centrale detta della “Rocca”, situata nella valle che separa l’Annunciata da Ossimo. Questa centrale, ultimata nel 1925 ed attiva già dal 1928, non fu mai la principale fornitrice di energia elettrica dell’opificio di Cogno, che preferiva tenerla come fonte d’emergenza e sfruttare invece quella prodotta nella piccola centrale situata in paese. L’acqua turbinata alla “Rocca”, infatti, passava in un grande serbatoio, detto “vasca di accumulo”, e da qui veniva intubata in un’altra grossa condotta. Dopo un salto di altri 408 metri arrivava finalmente a fondovalle, nella centrale che tuttora si trova nell’abitato di Cogno. La corrente elettrica qui prodotta andava ad alimentare gli stabilimenti di Casino Boario e Clusone, oltre a quello ubicato in paese((B. Bruna – S. Chiappin – R. Scortegagna, Approvvigionamento, distribuzione, utilizzazione, consumo dell’energia nel Comune di Piancogno, tesi di laurea discussa a Milano nel 1964 presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, pag. 38 e segg.)).Oggi la proprietà delle centrali è cambiata, ma la produzione dell’energia idroelettrica avviene esattamente nello stesso modo e con le medesime condotte forzate posate da Olcese quasi ottanta anni fa.
Mentre Olcese si dava da fare per assicurare un apporto energetico adeguato ai suoi stabilimenti, la smania di autarchia imposta dal fascismocondizionò pesantemente le produzioni del gruppo tessile. Con l’arrivo degli anni Quaranta,infatti, la direzione affidò allo stabilimento di Novara il compito di sperimentare nuovi prodotti realizzati con materie prime nazionali, naturali e sintetiche, quali la ginestra, la canapa, il ramié, il raion e il fiocco. A Cogno, invece, si continuò ininterrottamente a produrre solo filato di cotone. L’entrata in guerra decretò nuovi disagi per il settore cotoniero e a farne le spese furono soprattutto gli operai, in particolare quelli dello stabilimento di Boario. A causa della forte crisi occupazionale, infatti, ben 400 dipendenti vengono licenziati in blocco. I lavoratori di Cogno, intanto, erano arrivati a circa 2.000 unità e lo stabilimento aveva raggiunto una notevole estensione, coprendo un’area di circa 13.000 metri quadrati. Le maestranze erano composte soprattutto da donne, impiegate nella filatura e nella torcitura del cotone, rispettivamente su 100.000 e 200.000 fusi.
Tra sofferenze e privazioni passano anche gli anni del più tragico conflitto della storia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a causa delle molte commesse, l’Olcese di Cogno si trovanella necessità di assumere altri operai. In breve tempo l’organico arriva a ben 3.000 dipendenti, molti dei quali riassunti dopo il licenziamento imposto dalle ristrettezze economiche della guerra. Lo stabilimento subisce un rimodernamento e per tutto il 1946, grazie soprattutto agli sforzi di Vittorio Olcese, conosce un nuovo sviluppo. L’effetto è pero effimero e già nel 1947, con la ripresa produttiva di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, la situazione favorevole inizia a venir meno, lasciando il posto all’inevitabile crisi((Ibidem. Pag. 49)). Tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta il cotonificio di Cogno vedrà il numero dei dipendenti passare da oltre 2.400 unità a poco più di 1.000, peraltro gravati dall’enorme carico di lavoro causato dall’incremento di produzione. È proprio in questo periodo che il villaggio di Cogno inizia a svuotarsi: sia perché vengono meno gli operai, man mano licenziati o invitati alle dimissioni volontarie a fronte di un premio economico, sia perché quelli che rimangono preferiscono sempre più recarsi al lavoro a piedi, in bicicletta o con gli ormai diffusi pullman e autocarri.
Nel frattempo, nel 1948, il Cotonificio Vittorio Olcese è divenuto società per azioni, la maggior parte delle quali acquisite dalla Snia Viscosa, azienda leader nella produzione di fibre sintetiche e già proprietaria di diverse altre industrie tessili. Il gruppo subisce anche alcuni cambiamenti logistici e tra gli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo vengono chiusi gli stabilimenti liguri di Voltri e Lavagna, mentre vengono invece acquisiti gli stabilimenti friulani di Pordenone, Torre di Pordenone, Fiume Veneto e Venezia, di proprietà del Cotonificio Veneziano. Dopo questa integrazione la nuova società prenderà il nome di Cotonificio Olcese Veneziano e, sotto la spinta della Snia, che ormai è proprietaria del gruppo, si orienterà sempre più alla produzione di fibre sintetiche a scapito della tradizione cotoniera che sempre l’aveva caratterizzato((Ibidem. Pagg. 57 e 58)).
Nella notte tra il 16 e il 17 settembre 1960 si verifica un fatto imprevisto, del tutto estraneo alle decisioni aziendali: il fiume Oglio straripa portando con se pesanti ripercussioni su Piancogno e su altri paesi camuni. Per sua fortuna lo stabilimento di Cogno sarà lambito solo marginalmente dalle acque e non registrerà particolari danni, al contrario invece di quello di Casino Boario investito in pieno dall’ondata di fango. Nonostante il fastidio arrecato da questo spiacevole episodio, le condizioni favorevoli dovute al cosiddetto “boom economico” resero possibile un ulteriore ammodernamento di entrambi gli stabilimenti. La vera fortuna di Cogno, in questo periodo, fu la particolare conformazione dei capannoni, la maggior parte dei quali avevano un solo piano. Inizialmente voluti perché fosse più efficace il controllo della produzione, questa loro caratteristica si dimostrò molto vantaggiosa in quanto rese possibile un’agevole sostituzione dei vecchi macchinari con quelli più moderni. decisamente più voluminosi, senza dover necessariamente demolire le strutture.
Questi anni sono caratterizzati da una vera e propria “rivoluzione tecnologica”: se da un lato vi è l’installazione di macchine all’avanguardia, capaci di ritmi di produzione sino ad allora irraggiungibili dall’altro si registra un’ulteriore, inevitabile, riduzione del personale. Contemporaneamente, in collaborazione con l’IPSIA di Breno, viene attivata a Cogno una scuola professionale per assistenti di filatura i cui allievi, una volta conseguito il diploma, avrebbero potuto trovare un impiego nello stabilimento. Si tratta di una realtà sperimentale, ma gli iscritti imparano comunque a comprendere il funzionamento delle macchine, la loro gestione e riparazione, le basi della chimica, della scienza tessile ed altre materie ritenute importanti, in modo da poter disporre di un bagaglio completo di conoscenze immediatamente applicabili in ambito lavorativo((Ibidem. Pag. 64)). La scuola resterà attiva per oltre dieci anni, formando molte decine di giovani tecnici preparati e motivati. Alcuni di loro riusciranno a fare anche una discreta carriera, ma l’istituto verrà comunque chiuso a metà degli anni Settanta per far fronte ai molti debiti contratti dalla società.
La prosperità del “boom” non è però particolarmente duratura e gli eventi del Sessantotto faranno da preambolo a quello che sarà forse il decennio più difficile. Dopo la fusione con il Cotonificio Veneziano del 1970, la storia dell’Olcese prosegue con un’annata funesta, quella del 1971, in cui molti dipendenti verranno licenziati a causa della crisi economica. Si tratta soprattutto di donne. Con il susseguirsi degli anni il numero degli operai si riduce sempre più drasticamente. A fine decennio si conteranno circa 3.000 unità tra tutti i nove stabilimenti((Ibidem. Pag. 75)). Nel contempo, le fabbriche subiranno una radicale trasformazione e, mentre alcune di esse verranno chiuse per obsolescenza o per altri motivi, le rimanenti saranno oggetto di ripetuti ammodernamenti e sostituzioni del macchinario. Tra gli stabilimenti del gruppo, quello di Cogno rimane comunque il più esteso, specializzato nella produzione di pettinati di pregio e filati “open end”((Ibidem)). Proprio per questo motivo subirà un intervento di rinnovo piuttosto mirato, concentrato soprattutto sui banchi a fusi e sull’impianto di condizionamento.
La fine del decennio porta altre novità ed il gruppo, sino ad allora di proprietà della società Snia Viscosa, viene assorbito dalla FIAT che cambia la ragione sociale dello stesso in Snia BPD. Con l’arrivo degli anni Ottanta gli stabilimenti ritenuti economicamente non produttivi vengono gradualmente chiusi o comunque abbandonati. Tra di essi anche quelli di Clusone e Boario((Ibidem. Pagg. 76 e 79)). Lo stabilimento di Cogno, pur con il taglio di oltre 100 posti di lavoro, resiste anche a questa falcidiata e, tra le solite difficoltà, si prepara ad entrare nel nuovo decennio con qualche speranza di miglioramento.
Nel 1984 lo stabilimento di Boario viene definitivamente smantellato e parte dei suoi macchinari trasportati a Cogno. Qui, con un investimento di cinque miliardi di Lire di allora, verrà creato un nuovo reparto di filatura e, in generale, si avrà un ulteriore processo di ammodernamento degli impianti esistenti. Anche parte delle maestranze di Boario viene dirottata a Cogno. Con l’introduzione di nuovi turni, 80 dipendenti vengono licenziati da una parte per essere riassunti dall’altra. Tuttavia, dovranno adeguarsi a lavorazioni, ritmi e produzioni ben diverse rispetto a quelli cui erano abituati.
Finiscono anche gli anni Ottanta e, proprio come era accaduto dieci anni prima, anche la fine di questo decennio porterà alcune amare sorprese. Nel 1989 il gruppo Olcese viene acquisito dal gruppo dell’imprenditore vicentino Sante Dalle Carbonare il quale procederà, già l’anno successivo, ad operare un taglio di altri 120 posti allo stabilimento di Cogno. Il fatto desterà così tanto scalpore in Valle Camonica che la quasi totalità dei comuni e delle istituzioni territoriali, tra cui la Comunità Montana ed il Consorzio BIM, cercheranno di opporsi. Purtroppo senza sortire alcun successo.
Sotto la “guida” dei nuovi proprietari lo stabilimento di Cogno sprofonda ben presto in un baratro e già nel 1993 il rischio di chiusura appare imminente. Intanto il numero dei dipendenti è sceso drasticamente ed ora sono meno di 400: un settimo di quelli impiegati trent’anni prima. Inoltre, con alcune discutibili manovre, il gruppo vicentino cede ad una delle sue società, peraltro appositamente costituita, le tre centrali idroelettriche di proprietà dell’Olcese (Cogno, Ossimo e Artogne), in modo da assicurarsi la possibilità di poterle rivendere a piacimento, anche qualora lo stabilimento dovesse essere definitivamente chiuso. Di fatto, per la prima volta dalla fondazione dello cotonificio, gli apparati per la produzione di energia idroelettrica vengono divisi dalle fabbriche che la utilizzavano. I Dalle Carbonare intuiscono infatti che se da un lato la parte produttiva è inevitabilmente destinata al tracollo, dall’altro lato le centrali idroelettriche possono invece essere rivendute. L’unico modo di salvare il salvabile è pertanto quello di separarle dal resto degli impianti, destinati invece alla chiusura. Questo è esattamente ciò che avviene, nonostante l’indignazione di operai, sindacalisti, sindaci e amministratori della Valle Camonica, del tutto impotenti di fronte a questa manovra, resa pubblica soltanto a cose fatte((Ibidem. Pag. 89)).
Dopo i disastri causati dai Dalle Carbonare, il Gruppo Olcese, quel poco che ormai ne rimane, trascorre i successivi dieci anni passando di mano in mano a vari proprietari, i quali cercheranno di risanare l’economia degli stabilimenti e rilanciarli sul mercato. Nel 2000 l’Olcese è in mano alla Compagnie Financière d’Anvers. Il passaggio è di breve durata e, nonostante la generale riorganizzazione, l’intero gruppo sarà ceduto nel 2002 ai libici della Lafico (Lybian Arab Foreign Company) a causa della scarsa domanda nel settore manifatturiero. Nello stesso anno l’Olcese sigla un accordo di cooperazione anche con la società finanziaria Finpart, a capo di un gruppo operante nel settore tessile casa, per poter rilanciare la propria posizione sulla scena internazionale. Nonostante i buoni propositi gli sviluppi nonseguiranno esattamente i programmi stabiliti. Il 25 ottobre 2004 il Tribunale di Milano dichiarerà il fallimento della società finanziaria, che già da tempo aveva abbandonato l’Olcese in balia di se stesso((Ibidem. Pagg. 91 e 92)).
Già all’inizio di questo stesso anno il gruppo aveva trovato un accordo anche con l’azienda tessile vicentina Raumer Spa, con la promessa da parte di quest’ultima di salvarla dall’ormai inevitabile collasso e di impegnarsi a farne il maggiore produttore europeo di filati moda a base laniera. Anche in questo caso le promesse non vengono mantenute e dopo poco tempo gli operai di Cogno scendono in sciopero per il mancato pagamento di salari e tredicesime(( Ibidem. Pagg. 93 e 94)).
Negli anni a seguire gli ultimi stabilimenti Olcese (Trieste, Longarone e Conegliano) chiudono uno dopo l’altro. Rimangono solamente Cogno e Sondrio, per i quali vengono decise la cessione e una drastica riduzione del personale. A causa di continui passaggi di società, che non hanno fatto altro che impoverire l’insediamento produttivo, l’Olcese è sprofondato in una crisi quasi permanente, tanto che viene imposta l’amministrazione straordinaria in seguito alla dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale di Milano. Con questo provvedimento, molti degli ultimi 110 operai dell’opificio di Cogno vengono dapprima messi in cassa integrazione straordinaria e poi licenziati, riducendo ancora il numero dei dipendenti che nel 2005 supera di poco le 80 unità((Ibidem. Pag. 95)).
Nel 2006 si verifica un altro colpo di scena: mentre gli operai sono stati messi in mobilità ed ormai il fallimento sembra inevitabile, compare la società italiana Newcocot – Nuova Compagnia Cotoniera (la cui maggioranza azionaria era all’epoca detenuta da un socio di nazionalità indiana) e già il 1° ottobre il cotonificio passa in gestione al nuovo acquirente. La società annovera alcuni tra i più prestigiosi marchi europei nel settore dei filati cotonieri di alta gamma, tra cui la Manifattura di Legnano, la Novara Filati, i Cotoni di Sondrio, il Cotonificio di Conegliano, Gemona Moda e Legnano Tinti.
La Newcocot rimane ad amministrare lo stabilimento di Cogno sino al 2011. Nel luglio di quest’anno viene richiesta la procedura di concordato per cercare di non chiudere totalmente l’attività produttiva. Entra però in gioco una nuova società, denominata Cotonificio Olcese, che riesce a non interrompere la produzione grazie all’affidamento in affitto dello stabilimento. La società è fondata da tre industriali del settore, tutti e tre lombardi, che decidono di puntare sull’esperienza storica di questo stabilimento e sulla professionalità delle maestranze per rilanciare il nome del prodotto. Nonostante i ripetuti passaggi di gestione e gli innumerevoli problemi, il cotonificio di Cogno non ha mai perduto l’elevato livello qualitativo della sua produzione, raggiunto dopo più di un secolo di storia e di competenza nel settore.
La gestione della nuova società parte proprio dal recupero dei valori storici più radicati e questa volontà si è tradotta anche nella scelta del nome, che dopo diversi anni è tornato ad essere Cotonificio Olcese Spa. Anche il logo scelto dall’amministrazione, riportato su ogni prodotto o documento che esce da Cogno, è un chiaro richiamo ai valori del passato, come se fosse una sorta di garanzia di qualità. Con questo spirito si è dato un vero e proprio colpo di spugna al periodo più buio dello stabilimento e la politica aziendale odierna punta al futuro ed all’apertura al mercato mondiale grazie a prodotti innovativi e di tendenza, oltre che a nuove collezioni.
Attualmente il cotonificio ha circa 90 dipendenti e continua nella sua tradizione di filatura esclusivamente cotoniera. Nello stabilimento avvengono due tipologie di lavorazione: la prima è la produzione del filato, ottenuto trasformando il cotone greggio e colorato in filo, mentre la seconda è composta da una serie di passaggi complementari finalizzati alla trasformazione del filato greggio in filato tinto. Questa seconda parte ha luogo presso terzi (ovvero tintorie esterne) mentre il riavvolgimento del filo sulle rocche avviene al ritorno nello stabilimento. La prima lavorazione comporta una produzione di circa 1.000.000 di chilogrammi di filato all’anno mentre le lavorazioni complementari ammontano invece a circa 600.000 chilogrammi l’anno, con esportazioni in tutto il mondo. La vendita è infatti ripartita in un 65% destinato all’Italia ed il 35% al resto del mondo. Per poter tener testa alla concorrenza l’azienda ha sempre cercato di aggiornarsi ed allinearsi alle nove proposte. Oggi, ancor più che in passato il nuovo cotonificio Olcese vuole essere una realtà soprattutto propositiva e che punta sulla flessibilità e sulla dinamicità, sempre però nell’ottica di una produzione ad elevati standard di qualità.
Il testo è tratto integralmente dal 13° capitolo, intitolato “Il cotonificio Olcese di Cogno”, del volume “Storia del Comune di Piancogno nel cinquantesimo di fondazione (1963-2013) – Saggi di Oliviero Franzoni e Andrea Richini”, Tipografia Brenese, Breno (Bs) 2013, realizzato dall’Amministrazione Comunale di Piancogno in occasione del primo cinquantesimo anniversario per essere distribuito gratuitamente a tutti i nuclei famigliari delle tre frazioni.