Il letame di stalla: risorsa preziosa o rifiuto inquinante?

“Il mantenimento della fertilità del suolo è la prima condizione di ogni sistema di agricoltura permanente. Nell’ordinario processo di produzione agricola, la fertilità è costantemente persa; la sua continua ristorazione per mezzo del letame e della gestione del suolo è perciò imperativa”. Così inizia l’introduzione di The Waste Products of Agriculture. Their Utilisation as Humus, ovvero I prodotti di scarto dell’agricoltura. La loro utilizzazione come humus. Questo testo scritto dell’agronomo inglese Albert Howard e dal chimico indiano Yeshwant Wad rappresenta la prima analisi scientifica di un metodo di compostaggio. È da questo libro, terminato da Albert Howard nel maggio del 1931 davanti alle spiagge assolate di Rimini, che prese avvio – da un punto di vista scientifico – il movimento per l’agricoltura biologica.

Come insegna la biologia, le piante traggono il proprio nutrimento dall’aria (anidride carbonica) e dal suolo (principalmente azoto, fosforo e potassio, oltre a acqua e altri sali minerali). Da pochi elementi di base, le piante “fabbricano” le diverse molecole organiche (proteine, carboidrati, grassi, vitamine) da cui tutti gli animali, specie umana compresa, dipendono direttamente o indirettamente per vivere.

Come insegna l’ecologia, negli ecosistemi naturali la quantità di sostanza tratte dal terreno è sostanzialmente equivalente a quella restituita dai prodotti di decadimento o di scarto di piante e animali. In natura si creano delle circolarità, come il ciclo del carbonio e il ciclo dell’azoto, che garantiscono la sostenibilità nel tempo degli ecosistemi e il progressivo accumulo di carbonio e azoto organico nel suolo e negli organismi viventi, come avviene per esempio nelle foreste.

A partire dalla “rivoluzione agricola” del Neolitico, con la nascita dell’agricoltura e delle città, si è iniziato a “sfruttare” il terreno attraverso le attività di coltivazione e di allevamento rivolte a produrre cereali, frutta, verdura, olio, carne, formaggi, fibre tessibili e altre “merci” destinate ai mercati cittadini. Dal punto di vista dell’“economia della natura”, ovvero dell’ecologia, questa continua estrazione di risorse, dalle campagne alle città, impoverisce il suolo delle sue sostanze nutritive.

Gli antichi agronomi romani come Varrone e Columella compresero con chiarezza la necessità di ripristinare la fertilità del suolo attraverso il riposo del terreno, l’uso del letame e la coltivazione di piante leguminose che – oggi sappiamo -, grazie alla simbiosi con alcuni tipi di batteri azotofissatori riescono ad apportare sostanza nutritiva al terreno. Tra queste piante leguminose, per Columella – che scrive nel I secolo d.C. – la più importante è l’erba medica: una coltura da fieno proveniente dalla Media, una regione del Medio Oriente, allora destinata all’alimentazione dei bovini necessari per il lavoro nei campi e per la produzione di letame.

Finita in disuso dopo il crollo dell’impero romano, la coltivazione dell’erba medica per produrre fieno venne reintrodotta nella Pianura Padana nel corso del Rinascimento. Testimone di questo rinnovamento dell’agricoltura padana fu l’agronomo bresciano Agostino Gallo che nelle Venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della villa (1572) descrive e promuove la coltivazione dell’erba medica nelle cascine di pianura. Il fieno di medica qui prodotto in primavera ed in estate era in gran parte destinato alle mandrie di bovine da latte dei malgari, o bergamini, che dopo lunghe transumanze trascorrevano il periodo autunnale ed invernale nelle cascine di pianura in attesa di ripartire, dopo avere lasciato letame e vitelli nelle stalle, verso i pascoli degli alpeggi prealpini e alpini. Qui si producevano – e si producono ancora – quei formaggi a pasta cotta pressata, e quindi a lunga stagionatura, simili se non nella forma certamente nella tecnologia casearia a quei Piacentini e Lodesani, antenati del Parmigiano Reggiano, già in epoca rinascimentale conosciuti, apprezzati e venduti a Roma, a Venezia e in Germania.

Il modello di azienda agricola basato sulla rotazione tra piante cerealicole e piante leguminose foraggere, e quindi sulla presenza della stalla, della concimaia e del letame, raggiunse la sua espressione più compiuta in Inghilterra con la rivoluzione agricola del XVIII secolo, che permise il raddoppio della popolazione europea dal 1750 al 1850. Fu grazie alla diffusione di questo modello di azienda agro-zootecnica che si riuscì ad aumentare sia produzione cerealicola sia la produzione zootecnica. Carne, latte e formaggi, con il loro grande valore proteico, si affiancarono alle diete basate sui cereali che in alcuni casi, come in quello del mais e del sorgo, si dimostrano fino ad epoche recenti drammaticamente inadeguate a garantire la salute umana.

Dalla seconda metà dell’800, successivamente ai risultati degli studi sul meccanismo di nutrizione delle piante da parte del chimico tedesco Gustav Liebig, con il continuo aumento della popolazione e della domanda di alimenti, nonché con l’allargamento dei mercati, si iniziò a pensare di risolvere il problema della fertilità del suolo, apportando dall’esterno dell’azienda agricola le sostanze nutritive minerali necessarie alla produzione agricola: nacque così il commercio del guano del Perù, del nitro del Cile, nonché l’industria dei fertilizzanti fosfatici prodotti a partire dei minerali di fosforo e dalle ossa. La vera svolta si ebbe però all’inizio del Novecento con l’invenzione di un processo di sintesi dell’ammoniaca a partire dall’utilizzo di combustibili fossili (gas naturale principalmente) e dall’azoto che compone il 78% dell’aria. Il processo Haber Bosch, da cui si ricava l’ammoniaca necessaria per produrre i fertilizzanti azotati oltre agli esplosivi, rappresenta ancora oggi la base dell’agricoltura industriale, consumando ogni anno circa il 3%-4% del gas naturale e tra l’1% e il 2% dell’energia complessivamente utilizzata.

La critica all’utilizzo di fertilizzanti di sintesi (utilizzo che permette la pratica della monocultura cerealicola in aziende agricole senza animali e letame, ma che alla lunga è causa della degradazione del suolo, oltre che fonte di consumi enormi di energia fossile, di emissioni in atmosfera e di fenomeni di lisciviazione di nitrati e di fosfati nelle acque) è alla base della nascita, nel periodo tra le due guerre mondiali, del movimento per l’agricoltura biologica, di cui Albert Howard e Rudolf Steiner sono i padri riconosciuti.

Meno conosciuto e purtroppo in gran parte dimenticato il nostro Alfonso Draghetti, direttore per oltre venti anni della Stazione Sperimentale Agraria di Modena, padre dell’agricoltura biologica italiana e pioniere dell’agroecologia. Sulla base della visione unitaria dell’azienda agricola di Pietro Cuppari, il principale agronomo dell’Italia risorgimentale, che per primo concepì l’unità agraria come un (eco)sistema di parti in relazione tra di loro (la terra, le piante, gli animali, la stalla, le lettiere, i concimi, i fabbricati, le persone, i capitali), Draghetti dal 1932 annesse alla Stazione di Modena, allora il più importante centro di sperimentazione agraria italiano, un’azienda sperimentale a San Prospero di Secchia dove implementò un piano di miglioramento volto a proporzionare correttamente le parti dell’azienda in modo da aumentare con le sole risorse del fondo – in maniera quindi ecologica ed economica – la circolazione della materia organica nell’azienda agricola e la produzione per il mercato.

Partendo da una situazione particolarmente degradata, con poca materia organica e minerale circolante e bassa produzione vendibile, l’agronomo modenese orientò il piano di miglioramento dell’azienda agricola sperimentale verso il suo ideale caratterizzato dall’integrazione tra attività agricola e attività zootecnica, la rotazione tra cereali e leguminose foraggere, la corretta gestione della stalla e della concimaia. Calcolando il peso della massa di materiale organico in circolazione tra le parti dell’azienda (suolo, coltivazioni, stalla, concimaia) e il peso dei prodotti agricoli e zootecnici in uscita verso il mercato, Draghetti dimostrò il progressivo aumento, nel corso dei 15 anni di sperimentazione, della materia organica circolante in azienda e il raddoppio della produzione vendibile. Sui 18 ettari dell’azienda sperimentale, il carico di bestiame passò da 8 a 32 capi adulti e il contenuto di humus nel suolo aumentò in un decennio dal 2,1% al 2,8%.

Per Draghetti è proprio la presenza della stalla e della concimaia, e quindi del letame, che permette il ritorno al terreno delle sostanze nutritive assorbite dalle piante nel modo più ottimale alla preparazione del nuovo raccolto e alla rigenerazione della fertilità organica del suolo. È per questo che secondo l’agronomo modenese padre dell’agricoltura biologica italiana l’azienda agricola senza stalla è una forma aziendale “aberrante” incapace di raggiungere quella prosperità e quella perennità proprie delle aziende agro-zootecniche. Chiaramente il buon agricoltore biologico deve trovare la corretta proporzione tra le parti dell’azienda, come ad esempio tra numero di animali e il terreno agricolo. Il rapporto di circa 2 unità bovine adulte per ettaro che venne raggiunto presso l’azienda sperimentale a San Prospero di Secchia è del resto lo stesso rapporto che oggi compare, come limite massimo, nella regolamentazione europea sul biologico.

All’interno della “concezione biologica” dell’azienda agraria, che Draghetti nel 1948 nei suoi Principi di fisiologia contrappose all’allora nascente “concezione economica” dell’azienda agricola come una macchina fatta di parti disgiunte tra loro, le deiezioni animali (liquide e solide) e il letame (l’unione di queste deiezioni con i materiali di lettiera) sono una risorsa preziosissima, oggi utile, oltre che per produrre cibo in modo sostenibile, anche per trasferire e stoccare carbonio atmosferico nel suolo. Di recente l’Intergovernal Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico delle Nazioni Unite preposta a studiare il cambiamento climatico, ha affermato che il sequestro dell’anidride carbonica nel suolo è l’azione che per l’agricoltura può contribuire maggiormente alla mitigazione climatica.

È soltanto quando si esce dalla concezione biologica dell’azienda agricola – che oggi potremmo chiamare anche “concezione bioeconomica” – quando non si considerano i rapporti circolari e simbiotici che collegano l’attività agricola all’attività zootecnica, quando non si rispettano le correte proporzioni tra le parti, che le deiezioni animali e il letame si trasformano da preziose risorse a rifiuti inquinanti.