Il mio addio all’Università che premia poco l’insegnamento
Genova – Qualche giorno fa ho chiuso il mio corso di Storia contemporanea e tenuto l’ultima lezione della mia carriera universitaria. La prima l’avevo tenuta oltre quarant’anni fa, in qualità di cultore della materia, cioè assistente dell’assistente, del leggendario Raimondo Luraghi, uno dei pionieri della storia degli Stati Uniti in Italia, col quale mi ero laureato da pochi mesi. Dal 1° settembre lascio volentieri l’Università con qualche anno di anticipo, a 65 anni.
Volentieri perché so quanto sono bravi i quarantenni che insegneranno Storia contemporanea al mio posto e perché non ho rimpianti: per una serie di circostanze fortunate mi è capitato di fare molto più di quanto potessi aspettarmi quando tutto è cominciato, nel 1974, in virtù di una borsa di studio per gli Stati Uniti.
Certo, gli studenti mi mancheranno. Ma, anziché suscitare nostalgia, il ricordo degli intensi investimenti emotivi che essi mettevano nel lavoro svolto insieme in classe mi spinge a immaginare come quel lavoro potrebbe migliorare e a proporre alcune riflessioni che mi auguro servano a chi resta. Riguardano lo stato della didattica, le cose che si insegnano, le condizioni nelle quali si insegnano.
Nessuno meglio di un grande storico inglese, Stefan Collini, ha sintetizzato di recente in un bell’articolo sulla London Review of Books la difficile situazione dell’insegnamento universitario. Stretta fra l’enfasi primaria sulla ricerca e la crescente mole di impegni amministrativi e di coordinamento cui sono sottoposti i docenti, la didattica rischia di diventare un fanalino di coda. Se ne deve fare sempre più, con sempre meno soldi e sempre meno tempo per prepararla seriamente. Intendiamoci, non intendo sottovalutare la centralità della ricerca.
I lavori che ho pubblicato (un libro in media ogni quattro anni più circa tre articoli e saggi all’anno) dimostrano, spero, il contrario. Né sottovaluto l’esigenza dell’impegno sul versante organizzativo e amministrativo. Però è un fatto che non c’è alcun riconoscimento o valutazione sostanziale di quello che si è fatto in classe. In quasi due decenni di pratica dei questionari degli studenti, le medie bulgare di gradimento che gli allievi, bontà loro, mi assegnavano regolarmente non mi sono mai valsi niente che ricordasse le cerimonie che ho visto nei campus d’oltre Atlantico, con la premiazione pubblica dei docenti migliori, sostanziata da cospicui fondi di ricerca assegnati a chi si era distinto nel lavoro formativo.
Senza contare che si è addirittura abolita la prova didattica nei concorsi per l’accesso alla docenza. Auspico dunque una riflessione a tutto campo sullo stato dell’insegnamento perché è in classe che si riproducono saperi e competenze, è a lezione che si impara a parlare e a scrivere, a rapportarsi con gli altri, a organizzare il proprio pensiero in vista di una presentazione o di un colloquio. Ma non meno importanti sono i contenuti della didattica. E qui la storiografia contemporaneistica italiana sta vivendo un serio paradosso.
Per un verso, come in ogni altro campo, si parla giustamente di internazionalizzazione. Per l’altro, la vita si fa ogni giorno più dura per le storie d’area. Storia degli Stati Uniti, quella che conosco più direttamente, ha visto i suoi ranghi più che dimezzati nell’arco di nemmeno dieci anni e, come ha notato sulla rivista il Mulino un suo autorevole esponente oggi emigrato all’estero, Mario Del Pero, rischia seriamente di sparire. Con un impoverimento profondo delle nostre competenze su quel Paese tanto cruciale nella storia del Novecento.
Infine, due parole sulle condizioni in cui si insegna. Ormai sono fuori della mischia, ma come non ricordare la faccia sbigottita del grande David Montgomery di Yale quando gli dicevo che facevo una media di 400 esami annui senza la caterva di teaching assistants del sistema americano e che avevo colleghi in Italia che esami ne facevano regolarmente un ventesimo?
Credo sia opportuno prima o poi fare un discorso sui carichi di lavoro, i programmi didattici, le modalità con cui si insegna a insegnare e magari si metta a frutto l’esperienza dei docenti che si sono rivelati più bravi in classe a beneficio dei loro colleghi più giovani. Sono sicuro che questi ultimi sapranno affrontare tutti questi nodi. Andrò a sentire le loro lezioni e leggerò i loro libri. Per imparare. Come ho sempre cercato di fare quando stavo dall’altra parte della cattedra.
18 maggio 2016