Il modello Senza Zaino nella scuola pubblica. Visione e pratiche di un’esperienza di cambiamento
La questione della scuola ricorre periodicamente nel discorso pubblico italiano, solitamente oscillando tra dibattiti sulle cosiddette riforme epocali intestate al governo di turno e la cronaca sconfortante sui mezzi di comunicazione. Il resto, ovvero la conoscenza e la riflessione consapevole su ciò che rappresenta per tutti la complessa e contraddittoria realtà della scuola rimane confinata nell’autoreferenzialità degli addetti ai lavori: libri, ricerche, convegni, riviste, siti dedicati… Qui, nel discorso specifico, ci si misura da un lato con i la crisi del sistema di istruzione, i dati della dispersione scolastica, lo scadimento dei risultati, il disagio di chi abita la scuola di qua e di là della cattedra, nel cantiere continuo di riforme di bassa cucina ideologica e/o elettoralistica. E dall’altro emerge un laboratorio attivo di sperimentazione pedagogica e didattica, di pensiero e esperienze innovative diverse nel Paese, accomunate dalla scelta di individuare piste nuove di ricerca e azione, finalizzate al successo formativo e all’inclusione, un traguardo ancora lontano per la scuola pubblica nel suo insieme. Questo modo di intendere e praticare il compito educativo potrebbe essere sintetizzato in un motto , “Restare liberi, restare umani. Tornare a scuola”: una prospettiva etica, pedagogica e politica, una possibilità di libertà e di cambiamento a partire dalla scuola, qui e ora.
E’ necessario che si ampli la platea di conoscenza delle esperienze realizzate di rinnovamento, di “auto-riforme” capaci di sbloccare l’esistente, di abbandonare ciò che sembra scontato e tanto più pervasive quanto più riescono a uscire da nicchie privilegiate o individuali, e diffondersi in orizzontale, in una rete di relazioni e scambi nella scuola pubblica, riempiendo gli spazi del sistema formativo. Queste pagine si propongono di raccontare l’esperienza delle scuole Senza Zaino.
Tornare (o meglio restare) a scuola, ovvero riconoscere nel “fare scuola” il nucleo di senso, l’esperienza vitale che si confronta con la realtà delle persone che ospita, con bisogni esistenziali e domande urgenti alle quali dare risposta, in un contesto in rapido mutamento. È un fil rouge che ha percorso la storia della scuola italiana: dagli anni Settanta delle sperimentazioni diffuse e di ricerca sul campo, di scuola attiva promossa da movimenti innovatori (MCE, Movimento di Cooperazione Educativa ad esempio, tuttora vivo) sulla scia di “maestri visionari” (Lodi, Milani, Rodari, Ciari, Freire, Freinet…), delle conquiste di “democrazia”, dell’attenzione ai più fragili. Un filo che è andato assottigliandosi nei decenni a seguire del “ritorno all’ordine” generale, in un crescendo di riforme dirigiste, fino alla galassia confusa delle scuole dell’autonomia di stampo anglosassone, in cerca di un’ identità nella babele dei progetti, e nel mito salvifico delle tecnologie. Un modello che non funziona nel suo insieme, che non riesce a superare le criticità, come la dispersione e l’abbandono, che stenta a essere un luogo di vita autentica e formazione umana secondo i valori ai quali dice di ispirarsi: cittadinanza, accoglienza, cooperazione, iniziativa tra i primi.
L’esperienza della scuola Senza Zaino riprende e rinnova il filo del ripensamento radicale possibile: propone un “tornare a scuola” ri-generativo, capace di attivare insieme pensiero critico, conoscenza, manualità, creatività, immaginazione, emozioni nella relazione insegnamento-apprendimento. In una dimensione comunitaria, condivisa da chi si interroga sul senso e l’efficacia del proprio agire, sapendo che «il punto essenziale è il problema di cosa fare perché il nostro fare meriti il nome di educazione», ricordando J. Dewey.
Breve storia di “Senza Zaino, per una scuola Comunità”
L’esperienza di Senza Zaino nasce nel 2002 a Lucca, dall’intuizione pedagogica e dalle pratiche condivise di un nucleo di persone “di scuola”, in un istituto comprensivo come tanti, guidato da Marco Orsi, l’ideatore del modello educativo. Marco Orsi, intervistato da chi scrive nel 2017 in merito alle origini dell’esperienza ha detto “Era un bisogno generale, connesso sia alla percezione di insufficienza della scuola tradizionale di allora, all’inizio del Duemila, sia all’esigenza di vedere realizzate molte idee di educatori e pedagogisti illustri, che si leggono, si studiano e poi non si applicano davvero nella scuola. Ho vissuto una sorta di schizofrenia tra il racconto di queste esperienze e la realtà scolastica tradizionale. Il tentativo è stato di mettere in pratica idee fondamentali per l’educazione: stimolare la partecipazione e l’autonomia, l’attenzione agli spazi (dal pensiero di Montessori,) la scuola come la vita, non fondata sulla valutazione ( Don Milani), il collegamento dell’esperienza scolastica con il mondo ( Dewey), la scuola laboratoriale ( Freinet)”.((Questo e gli estratti che seguono si riferiscono all’ intervista a Marco Orsi, pubblicata sul numero di febbraio 2018 sul blog “La Poesia e lo Spirito” — Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Educativa, ente propaggine del Ministero dell’Istruzione.))
Da questa comunità professionale si è originato un movimento in costante diffusione sul territorio nazionale, formato da una rete di scuole che conta oggi 242 istituti e oltre 450 plessi. Si tratta in larghissima prevalenza di scuole statali, soprattutto infanzia e primaria, che ne costituiscono il nucleo consolidato. Seguono le secondarie di primo grado e alcuni istituti superiori: il modello si confronta con pratiche e modalità adeguate al variare dell’età degli allievi e delle finalità dell’ordine di scuola, in una fase di evoluzione e ricerca, non senza difficoltà, soprattutto alle superiori, come sottolinea il fondatore:«nella scuola secondaria di secondo grado l’approccio di scuola comunità è più complesso, poiché i docenti hanno una formazione prettamente disciplinare e sono meno orientati all’aspetto educativo. Nel procedere dei gradi di istruzione si incontra un approccio fortemente tradizionale, che però mostra i suoi limiti, soprattutto nella perdita di “fame di conoscenza”, di motivazione e partecipazione di molti ragazzi, che dovrebbe far riflettere»
SZ si è diffuso sin dall’inizio per disseminazione spontanea, a partire dalla Toscana, con una sorta di “passaparola “ e scambi tra insegnanti e scuole, anche grazie a convegni, pubblicazioni, conferenze… Sempre parlando con Marco Orsi, in merito alle ragioni della diffusione costante del modello, sappiamo che «(…) è il sintomo che c’è una domanda di innovazione, di autenticità da parte di insegnanti e dirigenti e genitori. Questo dice che la scuola non è un mondo fermo e bloccato, ci sono molte istanze di cambiamento che non sono ascoltate bene. SZ ha la caratteristica di essersi sviluppato dal basso, tramite diffusione orizzontale e formazione tra pari, i nostri formatori sono tutti insegnanti. È un metodo da studiare e valorizzare per il cambiamento, meglio di altri metodi organizzati dall’alto. La forza del movimento è stata la contaminazione tra insegnanti e scuole, e lo scambio orizzontale.
Certamente il fatto che sia un modello coerente è anche la forza del movimento, fa nascere interesse e entusiasmo perché è comprensibile».
Pure l’ Università ne ha preso atto: negli ultimi anni SZ è entrato in alcune nelle facoltà di Scienze della Formazione (Bari- Pesaro/Urbino) come un “caso di studio” e modello di scuola per la formazione dei futuri insegnanti. L’Università di Firenze lavora a una ricerca strutturata sugli esiti in uscita ( abilità sociali e competenze disciplinari) di un campione di allievi di scuole SZ, per verificarne e validarne l’efficacia.
Un modello di scuola: visione globale e valori espliciti
È sicuramente questo aspetto la caratteristica peculiare di SZ; una proposta pedagogica, didattica e organizzativa coerente, sostenuta da una visione globale della scuola come organizzazione sociale, e fondata su valori formativi espliciti: responsabilità, ospitalità, comunità. La cornice pedagogica è espressa da scelte didattiche ed educative coerenti, che considerano tutti gli aspetti dell’esperienza scolastica, secondo il metodo del curricolo globale.
Le piste pedagogiche si esplicitano in:
- l’esperienza e la ricerca
- il senso e i sensi
- la centralità dell’attività
- la co-progettazione
- la valutazione formativa
- l’aula come mondo vitale
Un modello quindi, non un progetto o una strategia metodologica: che vive e anzi si sviluppa nella gamma di contesti della scuola pubblica, mettendo al centro “come” realizzarne le finalità. Per molti insegnanti, dirigenti (e genitori) rappresenta un’alternativa possibile e praticabile alla scuola “tradizionale” (accettiamo la genericità del termine), al conformismo didattico che l’ha isterilita nell’ossessione della misurabilità dei risultati, ripartendo dai bisogni di senso e di conoscenza di chi apprende e di spessore pedagogico di chi insegna, un’apertura di orizzonte necessaria a grandi e piccini. La dimensione comunitaria del modello include le famiglie, chiamate a confrontarsi concretamente con un patto educativo esplicito, a essere parte della comunità, superando la distanza che separa scuola e famiglia.
Per approfondire la riflessione sul significato di innovazione e tradizione sono utili ancora le parole di Marco Orsi: «In questo momento si stanno sperimentando alcune innovazioni metodologico-didattiche, io stesso sono stato coinvolto in un gruppo di lavoro ministeriale in merito. Però SZ si distingue da queste proposte, perché vuole realizzare una scuola comunità. Le innovazioni metodologiche possono essere positive, il movimento SZ è eclettico, sperimenta ciò che “funziona” senza preclusioni, anzi la pluralità di strumenti e approcci è necessaria per favorire la differenziazione, ma nella visione SZ queste iniziative devono diventare patrimonio di un gruppo di docenti di una scuola, per riuscire a cambiare il modello educativo, non essere iniziative individuali o estemporanee.
Comunque il modello tradizionale è quello più diffuso. Le innovazioni metodologiche, le cosiddette “Avanguardie educative”di cui si occupa Indire2 riguardano una minoranza, ma la scuola nel suo insieme è tradizionale e un problema è quello della preparazione dei docenti, che non sempre è sufficiente».
SZ propone una scuola a contatto con il mondo reale, “con i piedi per terra”, fondata sull’esperienza che raggiunge tutti gli aspetti del bambino: pensiero, emozioni, fisicità, immaginazione, inclinazioni; e li coniuga attraverso attività “tridimensionali” con l’oggetto della conoscenza. Un approccio metodologico coerente con questa “ecologia dell’apprendimento” è il modello “dell’artigiano”, che promuove creatività e cooperazione, l’apprendere seguendo l’esempio nel fare concreto, grazie alla relazione asimmetrica tra “novizi e anziani” avvalendosi di tutti gli strumenti utili, tattili o digitali che siano, riconoscendo il valore del tempo e dell’attesa per passare dal progetto alla realizzazione.
Al centro dell’insegnamento vi è dunque un sistema di attività differenziate, concrete e simboliche, situate in un ambiente che è esso stesso spazio educativo, progettato per costruire progressivamente identità, autonomia, competenze sociali e conoscenze disciplinari, in coerenza con le Nuove Indicazioni Nazionali del 2012.
In questa prospettiva educativa che stabilisce connessioni tra mondo interiore e mondo esterno, in un percorso di scoperta e consapevolezza, hanno spazio i temi cruciali per l’umanità e quindi per la formazione delle nuove generazioni, quali la cura del pianeta, la non-violenza e la pace, che sono parte della visione culturale e ideale della rete SZ.
Come ha anticipato il fondatore del movimento SZ, il riferimento pedagogico è al pensiero di Maria Montessori e alla pedagogia attiva del Novecento, intrecciato con le prospettive aperte dalle scienze cognitive e dell’organizzazione. L’esito è un modello educativo strutturato, accessibile per la scuola pubblica, aperto alle proposte metodologiche coerenti con l’approccio inclusivo, basato sulla cooperazione e la differenziazione didattica.
Non mancano le difficoltà nell’attuazione, legate alle caratteristiche organizzative, ai ruoli e alle dimensioni delle scuole per come sono stati determinati da decisioni politiche di taglio alle risorse umane, come rileva Marco Orsi: «la cultura dell’organizzazione nella scuola è generalmente carente, intesa come comunità e con una leadership chiara e riconosciuta a vari livelli. È un’organizzazione piatta, senza gerarchie “di servizio” nell’esercizio della leadership educativa. Tranne il dirigente, che non riesce ad esercitarla mentre questo dovrebbe essere fondamentale, poiché il suo ruolo ora è di tipo amministrativo, non vi sono altre figure legittimate di carattere didattico-educativo. Io sono un propugnatore della cultura della gestione: sono necessarie figure intermedie, che facciano da collante, che portino a realizzazione le decisioni. Anche nella comunità potrebbero dare ai ragazzi un senso diverso dell’autorità, oltre agli insegnanti: il preside non è una figura prossima, pensiamo alla gestione di comprensivi con 1500 alunni, otto, dieci scuole sparse sul territorio. Io sono a favore di scuole di piccole dimensioni, il comprensivo può essere un modello solo se le scuole che lo compongono sono ben organizzate.
SZ è partito, all’inizio del duemila in circoli didattici di dimensioni più ridotte, quando io ho iniziato a fare il direttore didattico avevo 500 alunni. Non c’erano i comprensivi. Sono nati come realizzazione di economie di scala, io non sono mai stato d’accordo perché nella scuola non si deve fare economia di scala».
Perché senza zaino. L’ambiente formativo come spazio reale e simbolico
Un altro cardine teorico-pratico che SZ esplicita è la centralità degli artefatti materiali in un’organizzazione, che parlano silenziosamente dei suoi valori e assunti di base.
A cominciare dallo zaino, che è divenuto l’oggetto emblematico della scuola tradizionale oggi. Rappresenta infatti l’inospitalità e la precarietà di un ambiente impersonale, dove occorre portare quotidianamente ciò che è necessario, mentre il suo contenuto di tanti quaderni e libri (e fotocopie!) quanti sono gli insegnanti, ci dice della frammentazione precoce e inautentica del sapere, già alla primaria, dell’enfasi sui traguardi piuttosto che sui percorsi, del “peso” di una scuola che ha rinunciato all’esperienza.
Fare scuola Senza Zaino significa riprogettare l’ambiente formativo, ripartire dall’aula, dove si intrecciano le relazioni di crescita umana e il processo di apprendimento, dove realizzare nel quotidiano i valori di ospitalità, responsabilità, comunità.
- OSPITALITÀ intesa in diverse accezioni: come ambiente che accoglie gli alunni nella loro globalità e nelle loro differenze. I percorsi didattici si articolano intorno a “esperienze generatrici”, in grado di “ospitare” pre-conoscenze e potenziale conoscitivo dei bambini, guidandoli alla comprensione del mondo e di sé, attraverso percorsi interdisciplinari. I materiali di cancelleria e gli strumenti sono comuni (solitamente acquistati dalle famiglie in modo cooperativo) e gestiti dai bambini secondo un sistema di responsabilità. Lo zaino è sostituito da una borsina uguale per tutti, leggera e sufficiente a portare a casa e scuola il necessario per i compiti. Lo spazio è flessibile e articolato: la classe tradizionale viene completamente trasformata, di solito con l’aiuto materiale dei genitori, con aree dedicate ad attività diverse che possono svolgersi in un tempo anch’esso flessibile, in contemporaneità e in autonomia. I banchi individuali sono sostituiti da tavoli grandi che accolgono i gruppi. La comunicazione visuale è curata e finalizzata sia all’esposizione di contenuti di lavoro sia alla gestione condivisa dei ritmi e delle attività della classe. Gli strumenti didattici sono in gran parte ideati dai membri della rete e condivisi dalla comunità; consentono di differenziare la proposta didattica in base ai bisogni, ai profili, “ospitando” così tutte le diversità. Gli strumenti sono prodotti e raccolti in “Fabbriche degli strumenti” (quattro in Toscana e altre in fase di allestimento). Le fabbriche sono luoghi di formazione e approfondimento sugli strumenti stessi, per un loro uso diffuso. Gli strumenti possono essere riprodotti o acquistati dalle scuole della rete.
- RESPONSABILITÀ come acquisizione crescente di autonomia e indipendenza degli allievi, che sono corresponsabili e artefici del proprio apprendimento e della vita della comunità. Nell’aula SZ le attività vengono pianificate insieme, in momenti assembleari di classe e anche di scuola, definendo i tempi e i modi del lavoro. L’apprendimento cooperativo implica l’assunzione di ruoli e la condivisione di percorsi per giungere al risultato. Anche nella differenziazione didattica vi è una responsabilità crescente dei bambini, che arriva all’esercizio della scelta dei compiti da svolgere, con attenzione alla cura, all’ordine, alla revisione.
- COMUNITÀ come intreccio di relazioni che costituiscono il contesto vitale della scuola, nel quale sviluppo delle abilità sociali e apprendimento si incrociano. Comunità come luogo di incontro e scambio per e tra tutti gli attori della scena educativa: insegnanti, alunni e genitori. L’approccio cooperativo è necessario per poter progettare, sviluppare e sostenere il percorso. La comunità è un traguardo e insieme una premessa: interconnessa con le pratiche di responsabilità e ospitalità è un laboratorio attivo di democrazia.
Il contesto, che dalla classe si allarga alla scuola, in molti plessi SZ, offre altre occasioni di assunzione di responsabilità, come quando i più grandi accolgono all’inizio dell’anno i più piccoli e li accompagnano individualmente come tutor. Un livello più alto di partecipazione attiva è l’istituzione di consigli dei bambini, con compiti di decisione e gestione della scuola.
Parlando dei valori alla base del modello, Orsi insiste sulla loro correlazione con le pratiche quotidiane e sul concetto di valutazione formativa: “…sono necessari valori di riferimento, ma devono essere connessi con la pratica didattica, altrimenti sono solo intenzioni che non producono effetti.Tutto è legato a come si imposta la valutazione, ad esempio non serve parlare di democrazia o Costituzione in una modalità astratta che si traduce in nozioni da valutare. Va recuperata nell’accezione formativa, intesa come valorizzazione e incoraggiamento a migliorare, libera dal giudizio. Si realizza nella relazione di fiducia tra allievi e insegnanti, negli atteggiamenti vissuti nel quotidiano e, paradossalmente, permette di ottenere buoni risultati proprio non focalizzando sui risultati. L’incoraggiamento a migliorare viene percepito dai bambini, nel loro mondo interiore, come uno stimolo alla crescita, un’esperienza formativa, umanizzante.
Se si pongono in primo piano i risultati, se non si praticano concretamente accoglienza e cooperazione, anche tra insegnanti, malgrado si professino a parola questi valori, nei fatti si favorisce l’interiorizzazione di atteggiamenti competitivi e individualistici”.
Il ruolo dell’insegnante
L’insegnante SZ nell’aula è un facilitatore dell’apprendimento, è decentrato anche fisicamente nella scena didattica: la cattedra è a lato perché le lezioni sono tenute in forme diverse, negli spazi predisposti, il binomio insegnante-lavagna è solo una modalità tra le altre. Sa praticare forme di presenza/assenza; più spesso, con la didattica differenziata e le attività per i tavoli, è un organizzatore che predispone gli strumenti didattici e di gestione, strutturando con gli alunni le procedure per il loro uso autonomo e le ritualità che conferiscono valore simbolico ai momenti di vita della classe.
Svolge un ruolo di supporto, ai singoli o gruppi, per attività di potenziamento o avanzamento. È un supervisore, che stimola, osserva e monitora e può così offrire un feedback immediato, anche non verbale, discreto: ad esempio con messaggi scritti posti sul tavolo. L’insegnante pratica esemplarmente il valore del silenzio e la pregnanza della parola limitando le sue al necessario.
La possibilità di osservare e affiancare è cruciale per la valutazione dei processi rispetto ai risultati, considerando le situazioni di partenza. In molte scuole SZ si conviene di non utilizzare i voti se non per i documenti finali e si stanno sperimentando strumenti alternativi, in una prospettiva di valutazione “mite”, formativa.
L’approccio globale al curricolo
Un elemento fondativo del modello SZ è il metodo del curricolo globale, che vede l’ambiente formativo come un sistema che mette in relazione i soggetti (le persone) con gli oggetti materiali (spazi, arredi, strumenti…) e con gli “artefatti immateriali” (valori, contenuti, programmi, metodi, valutazione, atteggiamenti, uso del tempo…). In concreto viene pensata e ristrutturata l’aula, si rivedono i metodi di insegnamento, le relazioni tra docenti e alunni e tra docenti, i materiali didattici, i modi di progettare e valutare.
Il curricolo coincide con la globalità dell’esperienza scolastica, allontanandosi dal concetto comune di curricolo segmentato che prevede la progettazione lineare e per ambiti distinti dell’attività didattica. In questo approccio vi è consapevolezza che tutto concorre alla qualità dell’esperienza scolastica e quindi la progettazione coinvolge tutti gli ambiti e le figure della comunità, anche ciò che sta “dietro” l’attività d’aula (gestire-organizzare), in un intreccio necessario per la buona riuscita dell’azione educativa e il consolidamento della comunità di pratiche.
I saperi sono intesi in una prospettiva interdisciplinare centrata sull’esperienza e l’attività. L’approccio indirizza alla progettazione di attività che considerano la globalità come:
- integralità della persona e delle sue potenzialità
- globalità del sapere (inteso come connessione delle specificità disciplinari)
- integrazione delle differenze
- globalità dell’ambiente, che con la sua complessità influenza le dinamiche cognitive
Un altro aspetto di rilievo è la globalità dell’esperienza, che permette di integrare nella pratica didattica l’astrazione e il simbolico, la realtà concreta e quella virtuale.
Un percorso aperto
La narrazione di questa esperienza, di cui chi scrive è parte, ha messo in evidenza, insieme alla spinta al cambiamento, anche le difficoltà reali ad essere una “scuola nella scuola pubblica”, confrontandosi con i limiti del sistema e gli inevitabili adattamenti: trasferimenti, inserimento di insegnanti non formati o riluttanti al cambiamento, risorse scarse o nulle per gli allestimenti delle aule e per riconoscere tempo e intensità dell’impegno dei docenti. L’espansione è un successo e anche una sfida perché il passaggio di scala pone nuovi problemi: la formazione degli insegnanti rispetto al numero dei formatori e il supporto alle scuole, per esempio, tenendo conto che quasi tutti sono insegnanti o dirigenti in servizio, e quindi immersi in molti compiti. Ne parla ancora Marco Orsi, le cui parole indicano le piste di lavoro future «La sua diffusione è positiva ma mette in evidenza anche le criticità, gli aspetti sui quali lavorare. È necessario aver cura del modello, stabilizzarlo nel tempo e dedicarsi alla “manutenzione”, per aiutare le scuole a realizzare le pratiche, a percorrere consapevolmente tutti i gradi di attuazione del modello. Pensiamo che sia necessario anche sostenere le scuole con forme di tutoraggio, sulle quali si sta riflettendo insieme».
Donata M. Miniati è formatrice e incaricata al supporto della rete lombarda Senza Zaino.
Alcune indicazioni per approfondire:
Marco Orsi (con Grazia Merotoi, Chiara Natali, Maria Bruna Orsi)
A scuola senza zaino. Il metodo del curricolo globale per una didattica innovativa
Trento, Ed. Centro Studi Erickson, 2016, pp. 392