Il musil di Rodengo Saiano e il «visitatore senza qualità»

In questo intervento cercherò di ragionare sul rapporto tra patrimonio culturale e società, con particolare riferimento alla sfera dei consumi, partendo dal caso del musil(Museo dell’Industria e del Lavoro) di Rodengo Saiano. La scelta di questo specifico punto di osservazione si giustifica per due ordini di motivi, uno topografico, l’altro di politica culturale.

In primo luogo, il museo è collocato nelle adiacenze di uno dei più grandi spazi commerciali del Nord Italia, il Franciacorta Outlet Village. Questa vicinanza non è affatto casuale, ma discende (ed è questo il secondo, e più importante, ordine di motivi) dalla volontà di aprire una delle tre «antenne» territoriali del sistema-musil((Il musilè un sistema nel senso che le tre sedi ad oggi realizzate (il Museo del Ferro di San Bartolomeo; il Museo dell’Energia Idroelettrico di Cedegolo; il Museo del Cinema e magazzino visitabile di Rodengo Saiano), nonché la futura Sede Centrale, sono pensate in maniera tale che alla contiguità spaziale e all’omogeneità tematica (cioè il patrimonio industriale) corrisponda un assetto istituzionale unitario. L’esempio seguito è stato quello del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Catalogna. Tale logica organizzativa punta a evitare la frammentazione dell’offerta in tanti microcosmi, istituzionali e patrimoniali, grazie a una strutturazione verticale e non solo orizzontale. Con ciò si intende che l’integrazione deve andare al di là di accordi contingenti funzionali a economie di scale (p. es. comunicazione, pubblicità etc.), poiché i confini di un museo, se parte di un sistema, non coincidono più con i confini del museo stesso, ma tendono a identificarsi con quelli del sistema)) proprio in corrispondenza di uno spazio commerciale di nuova generazione e dei relativi flussi di pubblico. Il museo comincerà a funzionare a pieno regime (esposizioni, comunicazione pubblica, offerta didattica etc.) a partire dall’autunno 2011. Risulta quindi impossibile, al momento, valutare tale strategia sulla base di riscontri oggettivi. È però fin da ora possibile esplicitare, almeno in parte, il ragionamento che ha portato alla nascita di questo museo.      

Nella prima parte dell’intervento richiamerò il progetto culturale che informa il sistema museale bresciano, partendo da un chiarimento riguardo la scelta di un acronimo («musil») così impegnativo. L’idea è che alcuni dei paradossi e delle formule che caratterizzano il capolavoro di Robert Musil, «L’uomo senza qualità», siano ancora «buoni per pensare» le sfide che il Museo dell’Industria e del Lavoro si propone di affrontare. In particolare, proveremo a vedere nel musiliano «uomo senza qualità» la prefigurazione del visitatore cui si rivolge il musil.

Nella seconda parte dell’intervento cercherò di difendere la ragionevolezza della scelta di delocalizzare il museo di Rodengo Saiano dal suo (presunto) luogo naturale, sia esso il palazzo di pregio del centro storico o l’antico insediamento autentico in campagna, immergendolo in un ambiente dedicato a svago e consumo.

1. Robert Musil, l’uomo senza qualità e il musil

L’acronimo sembra essere diventato un obbligo per ogni museo che si rispetti, e «musil» sembrerebbe confermare la regola. In realtà, «musil» non è soltanto un modo veloce per dire  «Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia» perché il riferimento a Robert Musil non è affatto casuale. L’opera di Robert Musil e in particolare il suo capolavoro, «L’uomo senza qualità», offrono analisi e spunti non invecchiati su un tempo che è ancora, per molti versi, il nostro – un tempo dominato dalla scienza e dalla tecnica, in cui i pensieri e le azioni degli uomini sembrano incatenati a schemi antiquati, capaci soltanto di produrre reazioni sentimentali anti-razionaliste o, all’opposto, una paradossale fede scientista. Vediamo di seguito alcuni elementi di continuità tra l’opera in questione e il progetto museale bresciano, partendo dal noto passo de «L’uomo senza qualità» in cui l’intuitivo «senso della realtà» viene contrapposto al tipicamente musiliano «senso della possibilità»: «Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità»((Musil (1957), p. 12. Il noto passo continua nel seguente modo: «Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è […]»)).

Nel capolavoro di Robert Musil il rappresentante del «senso della realtà» è Paul Arnheim, figura ispirata a Walter Rathenau, industriale e uomo politico di primo piano della Germania weimariana. Si tratta di un ingegnere (Musil stesso ha completato gli studi di ingegneria). Arnheim dovrebbe essere il portatore di una risposta «positiva» alle inquietudini dell’epoca, una risposta capace di coniugare scienza e senso, numeri e vita spirituale. Nel progetto del Museo dell’Industria e del Lavoro, Arnheim-Rathenau non è che il vertice alto di quella realtà tecnico-industriale che ha catalizzato a lungo pensieri, speranze e paure di un’intera civiltà. Il musil, infatti, concepisce industria e lavoro come la versione più visibile, e forse per questo meno osservata, del rapporto contraddittorio che ha legato uomo e tecnica nel «lungo Novecento». L’industria, infatti, è stata il vero centro simbolico delle società che, significativamente (ma è un’altra ovvietà spesso dimenticata), da essa hanno preso il nome («società industriale»). L’industria è stata pressoché unanimemente considerata come il fronte più avanzato della società, la sua avanguardia reale: la riprova è che la più forte critica alla civiltà industriale, quella marxista, è stata una critica interna, fondata sulla forza rivoluzionaria del proletariato (pleonastico aggiungere «di fabbrica»). Da questa prospettiva critica, ma anche da quella opposta, il problema musiliano della sintesi tra numeri e senso poteva essere trovata soltanto attraverso l’industria, cioè trovando un equilibrio sociale capace di sfruttare (ecco il «senso», declinato perlopiù come benessere individuale e collettivo) tutto il potenziale da essa messo a disposizione (i «numeri», cioè soldi e beni). Nel corso della sua evoluzione, questa società ha offerto a una serie di questioni di fondo (per esempio, la questione energetica e quella del benessere individuale) delle risposte non solo «realiste», ma apparentemente indiscutibili e auto-evidenti: dopo il petrolio, il nucleare; dopo la società della scarsità e del necessario, la società dei consumi.

Certo, abbastanza improvvisamente, verso la fine del Novecento, in una parte del mondo, tutto questo è mutato: industrie e operai sono cambiati, in parte si sono spostati. Ma questo mutamento è stato spesso più netto nelle rappresentazioni che nella realtà (dove, e il caso di Brescia e di Rodengo Saiano sono chiarissimi, spesso l’industria è ancora presente e in dose molto massiccia), e sarebbe comunque fuorviante pensare che questo mutamento faccia del museo dell’industria uno spazio dedicato alla celebrazione, più o meno nostalgica, del passato. Il musil, documentando passato e presente della parabola dell’industria e del lavoro, locali ma non solo, intende riportare al centro della riflessione la realtà complessa della società dell’industria – nascita, sviluppo, dinamiche interne, costi sociali e ambientali, prospettive. In particolare, nel musil il lavoro sugli attori del mondo industriale viene integrato da un’attenzione particolare a una dimensione, quella ecologica, che è silenziosamente cresciuta in parallelo allo sviluppo dell’industria. Così, se è vero che la storia dell’industria non è solo storia della tecnologia, ma anche storia dei diversi attori sociali che l’hanno vissuta, essa è anche storia di un rapporto, sempre più critico, con la natura. Con l’aumento del sapere e delle possibilità tecniche aumenta anche il non-sapere e il relativo rischio ecologico, quella sorta di ombra che accompagna lo sviluppo. In conclusione, adesso che la società non è più quasi inconsciamente appiattita sulla sua realtà industriale diventa possibile, per un verso, osservare meglio il suo passato, per l’altro, considerare le opzioni che le si aprono davanti: sullo sfondo del passaggio da una società industrialista a una società che si trova a dover coniugare in modo nuovo tecnica, industria e rischio ambientale, il museo dovrebbe suscitare curiosità, porre domande, suggerire linee di ricerca. Ed eccoci al «senso della possibilità».

Il musil intende stimolare il «senso del possibile» del visitatore attraverso una pluralità di esperienze, tra cui spicca l’incontro con artefatti reali singolari: oggetti rari, oggetti antichi, oggetti quotidiani ma presentati in una forma originale, oggetti solo ieri banali ma già stranianti (si pensi ai primi personal computer, ai primi fax etc.). Più in generale, il museo può essere visto come una riserva di possibilità in grado di arricchire la realtà circostante con quanto quella stessa realtà ha lasciato in eredità, dimenticato, dismesso o gettato. Il rapporto tra museo e ambiente circostante, infatti, è sempre dinamico, e il museo risponde alla sua funzione sociale custodendo o valorizzando quello che il resto della società, perseguendo altre logiche (economiche, politiche etc.), dimentica, svaluta o rischia di perdere.

Ulrich-Musil, il protagonista del libro, non è «senza qualità» nel senso che manchi di talento o conoscenze (tutt’altro), ma perché queste qualità non bastano a farne un soggetto «padrone della realtà». Oggi, la nostra società del rischio e del non-sapere generalizza e radicalizza quell’incertezza circa le capacità di controllare gli esiti delle azioni umane e dei grandi meccanismi impersonali, burocratici e tecnici. Si tratta di un’incertezza trasversale, che attraversa e accomuna individui distinti per classe sociale, titolo di studio e opinione politica. Di qui l’idea che il musil debba essere pensato anche come fonte per una riflessione non elitaria (se non altro per l’assenza e forse la scomparsa irreversibile di un’élite riconoscibile e legittima) sul futuro della nostra società. In questo senso, il musil si rivolge a chiunque possa essere interessato da una riflessione su tecnica, industria e lavoro, a prescindere da ogni tipo di classificazione (sociale, etnica, generazionale etc.).

Alla luce di queste considerazioni, alla questione di quale sia il valore sociale del musil – «di chi è e per chi è il museo?» – si può rispondere nel modo seguente: il musil intende rivolgersi all’uomo senza qualità di oggi, cioè all’uomo ordinario che popola, senza padroneggiare e spesso senza capire, la società contemporanea. Nel dire che il musil si rivolge al «visitatore senza qualità» non si intende che il destinatario ideale del museo sia un visitatore «di basso livello», ma un visitatore che non viene prefigurato applicando una qualche griglia (o stereotipo) che pre-assegna a un determinato profilo sociale altrettanto determinati tipi di consumo, luoghi di incontro, temi di riflessione.

Si tratta della solita, obbligata ma pur sempre pia, intenzione, di un proposito campato per aria e destinato ad essere contraddetto dai fatti? In fondo, ogni museo dovrebbe essere «di tutti/e», ogni museo dovrebbe rivolgersi «a tutti/e» – e magari lo fa anche… Eppure, non tutti rispondono allo stesso modo. È un fatto, che qui non contesteremo, ma che non dovrebbe oscurare altri fatti e altre possibilità, ugualmente rilevanti per la vita di un museo. Il resto dell’articolo sarà dedicato a una riflessione sulle condizioni che rendono almeno plausibile l’acquisizione, da parte del musil di Rodengo Saiano, di un valore sociale riconosciuto e partecipato nella maniera più diffusa e trasversale possibile.

Il «visitatore senza qualità». La sfida del musil

Contro l’ambizione del musil di riuscire a interessare davvero, non solo sulla carta, individui dal profilo sociale e culturale eterogeneo, l’avvocato del diavolo di turno può anzitutto attingere a un noto lavoro di Pierre Bourdieu e soprattutto alle conclusioni (spesso discutibili, se non sbagliate) che ne sono state dedotte.

In generale, l’impostazione di Pierre Bourdieu si distingue, nella storia degli studi sociologici e culturali, per la capacità di porre in corrispondenza gusti culturali e appartenenze socioeconomiche non «malgrado», ma «attraverso» il consumo e l’industria culturale di massa. Bourdieu, cioè, sfugge a quella che fino a un certo punto è parsa essere una scelta obbligata: riconoscere la novità della «società dei consumatori» e dire addio al vecchio armamentario («classi sociali», «popolo» etc.) o mantenere le vecchie parole ma al prezzo di concentrarsi su ambiti o porzioni della società non dominati dalla logica del consumo.

«La distinzione. Critica sociale del gusto» è un fondamentale lavoro di Bourdieu pubblicato nel 1979. In esso l’autore contesta l’ideologia di impronta kantiana per cui il gusto estetico sarebbe una disposizione universale. L’opera è basata su una serie di ricerche empiriche sui consumi culturali dei Francesi promosse dal Ministero della cultura a partire dagli anni Sessanta. Bourdieu mostra, dati alla mano, che il gusto estetico ha un profilo diversificato e che le differenze a livello di scelte di consumo culturale corrispondono alle faglie che separano la classi sociali. Come sintetizza Tally Katz-Gerro, studiosa israeliana autrice di recenti ricerche sui consumi culturali in Italia, secondo la «tesi dell’omologia» di Bourdieu è possibile individuare una corrispondenza tra la posizione di classe occupata da un individuo e i suoi gusti e preferenze culturali. In particolare, mentre i gruppi delle classi superiori preferiscono la cultura «alta», i gruppi delle classi inferiori preferiscono la cultura «bassa». A loro volta, gli individui che desiderano far parte di un particolare gruppo sociale adottano lo stile di vita visibile che ne evidenzia l’appartenenza.

 ale qui la pena sottolineare che, se tutto questo è vero, le intenzioni sottese al progetto complessivo del musil, ma in particolare la localizzazione della sede di Rodengo Saiano, risultano poco difendibili: per stare alla questione della sede, se il museo, in quanto aspetto paradigmatico della «cultura alta», è un bene culturale pre-assegnato al corrispondente segmento socio-culturale (cioè gli appartenenti alle classi superiori), avrà senso cercare di avvicinare il museo ai luoghi elettivi di quel pubblico, o comunque orientare la comunicazione pubblica esclusivamente verso quel tipo di visitatori potenziali.

Il fatto che il museo sia stato costruito vicino a un Outlet, di fianco a uno svincolo e in mezzo a una zona industriale, unito alla scelta di tarare gli orari di apertura e di focalizzare la campagna pubblicitaria, rispettivamente, sugli orari e sui visitatori dell’Outlet, rende difficile conciliare le scelte che hanno portato alla nascita del musil con la «tesi dell’omologia». Certo non possiamo escludere a priori che lo shopping all’Outlet possa diventare un consumo culturalmente «alto», ma, in ogni caso, possiamo escludere che la motivazione che ha portato all’apertura del museo sia stata quella di offrire un’opzione culturale alle classi superiori impegnate a fare acquisti nei negozi di fronte. Per quanto detto sopra, infatti, nella misura in cui l’Outlet fosse o diventasse una tappa obbligata dell’élite socio-economica (possibilità ad oggi abbastanza remota, essendo la forma-Outlet una sorta di collettore di disgusto culturale((Si veda, per una rassegna attenta e originale di studi e reazioni legate a questo fenomeno insieme economico, urbanistico e sociale, i materiali raccolti da Fabrizio Bottini nel sito: http://mall.lampnet.org/article/articleview/5359/1/187 (consultato il 13 luglio 2011)))), la sfida del musil perderebbe senso. Assumiamo quindi che l’Outlet non sia un luogo della distinzione. Ora, se la tesi dell’omologia fosse vera, perché mai costruire un museo in un contesto senza alcuna aura, senza alcun prestigio culturale, lontano dalla città, scomodo persino dai paesi limitrofi e, infine, pubblicizzato soprattutto nell’Outlet? Chi mai ci andrà?

Partiamo da un’obiezione, abbastanza ovvia ma importante. La «tesi dell’omologia» viene formulata sulla base di ricerche condotte in un tempo e in uno spazio specifici. Bourdieu non aveva certo la pretesa di aver elaborato un passe-partout valido per ogni società e in ogni tempo, e nulla ovviamente ci dice che la composizione sociale e i gusti del Francesi negli anni Sessanta-Settanta corrispondano alla realtà del futuro pubblico del musil (che con ogni probabilità sarà prevalentemente del Nord Italia e sarà nato in buona parte nato dopo le ricerche del Ministero francese, e spesso anche dopo il libro di Bourdieu).

Un’obiezione simile può essere sollevata riguardo quegli studi che, aggiornando la tesi dell’omologia, attribuiscono solo a coloro che abitano i «piani alti» culturali un’inedita predisposizione a mescolare prodotti culturali «alti» e «bassi»: questo «onnivorismo» porterebbe certi individui a mescolare musei e partite di calcio, concerti di musica classica e concerti rock, musei e sagre. Gli altri, cioè quelli che abitano quartieri sociali meno nobili, resterebbero fissati sulle «loro» cose (heavy metal((Cfr. Bryson (1996))), calcio etc.). In questo caso si tratta di tesi formulate originariamente negli anni Ottanta, e niente ci dice che questa allergia per i gusti culturali «alti» sia davvero, ora e a Rodengo Saiano e dintorni, così sistematica, a mano a mano che si scende di scala socio-culturale (e nulla ci dice, più in generale, che l’onnivorismo sia una realtà e non un’illusione spesso nutrita dalle persone stesse, che magari nelle interviste dicono di essere culturalmente «aperte» ma hanno invece di fatto gusti molto selettivi((Si tratta di una delle numerose, convincenti critiche mosse in Lahire (2004), pp. 255-260))).

            Purtroppo, ed è questo un elemento da tenere in grande considerazione, i dati sui consumi culturali in Italia per vari motivi sono poco soddisfacenti((Il che non significa che non esistano studi attenti e articolati (il più recente è Santoro 2009), ma che i dati di partenza sono meno ricchi che in altri Paesi, europei e non, e che questo fatto limita la portata empirica degli studi corrispondenti)). Inoltre, non sono disponibili (perlomeno a mia conoscenza) studi aggiornati sull’area di Brescia o della Lombardia. Ne segue che il contributo del sapere sociologico tende a essere parziale (e cioè focalizzato su aspetti determinati: TV, canzoni etc.) o teorico, utile quindi soprattutto per inquadrare concettualmente il problema.

            Le conclusioni del lavoro sopra accennato sui consumi culturali in Italia ci portano a un secondo «purtroppo». L’autrice, infatti, vi afferma che, sulla base dei dati dell’Eurobarometro  (esempio di dati non soddisfacenti, se non altro per l’esiguità del campione: 998 persone), i tipi di consumo culturale risultano fortemente strutturati sulla base di variabili socio-economiche e demografiche. I dati, in particolare, offrono sostegno empirico sia alla tesi dell’omologia, sia alla tesi dell’onnivorismo (che l’autrice incrocia con un ulteriore parametro, quello della voracità culturale, indicante non l’eterogeneità dei prodotti culturali consumati, ma la frequenza del consumo((Sullivan, Katz-Gerro (2007)))). Nel contesto del ragionamento qui condotto, però, le interpretazioni di Katz-Gerro offrono anche uno spunto incoraggiante e in parziale contrasto con le altre conclusioni citate: in Italia la posizione di classe sembra non influenzare in maniera significativa i vari indicatori di consumo culturale e comunque, quando l’effetto è rilevante, esso va sempre nella direzione di una distinzione tra la classe inferiore e tutte le altre, e non tra la classe superiore e le altre. Il che, tradotto, significherebbe che in Italia musei o biblioteche sono pratiche socialmente piuttosto diffuse (o comunque più diffuse che in molti altri Paesi europei), ad unica esclusione delle classi che stanno in fondo alla gerarchia sociale((Viene quindi confermato quanto già sostenuto in Katz-Gerro (2002))). Se questo fosse vero, per il museo il pubblico dell’Outlet potrebbe rivelarsi molto meno difficile di quanto ipotizzabile perché lo spettro dei segmenti sociali potenzialmente interessati risulterebbe allargato (e distribuire dépliant del musil all’Outlet non sarebbe quindi inutile salvo miracoli). 

Ma è il lavoro di Bernard Lahire, «La culture des individus. Dissonances culturelles et distinction de soi» (2004), la prospettiva sociologica che più conforta, perlomeno nel suo impianto teorico di fondo, la scelta di collegare il musil di Rodengo Saiano ai tempi e al pubblico dell’Outlet. Si tratta di un lavoro che critica e modifica in maniera significativa le categorie tradizionalmente utilizzate negli studi sui consumi culturali. Ai nostri fini, l’interesse di quest’opera consiste soprattutto nella capacità di portare il fuoco dell’analisi dei gusti culturali non sulle aggregazioni statistiche, ma sugli individui. In tal modo, gli stessi dati utilizzati da Bourdieu, integrati da ricerche successive e da una serie di interviste, portano Lahire a sostenere come il rapporto tra gusti raffinati ed élite, da una parte, e gusti popolari e plebe, dall’altra, diventi  molto più sfumato e contrastato una volta assunta come scala di analisi il livello individuale. Così, anche se è molto più probabile che al museo d’arte contemporanea ci vada un professore universitario che uno spazzino, resta che dobbiamo aspettarci una serie innumerevole di sorprese – cioè il muratore che apprezza il jazz sperimentale o il professore di estetica che non si perde una puntata della soap opera preferita. Il raggruppamento per classi tende ad amplificare le differenze e, soprattutto, a sottostimare tutti quei casi in cui un individuo, per esempio, pur coltissimo e dai gusti prevalentemente «legittimi» o «ultra-legittimi», ha magari una passionaccia per i western – è il caso di Ludwig Wittgenstein, con cui il libro si apre. Dati (francesi) alla mano, Lahire sostiene che questi casi di «dissonanza culturale» sono la regola, e non l’eccezione: «non c’è niente di più ordinario e centrale che i margini statistici, niente di più normale statisticamente per i membri dei differenti gruppi sociali che di avere una parte delle loro pratiche e delle loro preferenze culturali fuori dai registri più frequentemente associati ai loro gruppi»((Lahire (2004), p. 255)).

Gli individui, in tale prospettiva, sono resi plurali da quella pressoché inaggirabile molteplicità di influenze (politiche, religiose, generazionali, etniche etc.) che contribuisce a formarne il gusto. Questa indicazione è da confrontare con uno dei passi più noti e rappresentativi dell’opera di Robert Musil, in cui l’autore, con la sua inconfondibile ironia sospesa, pare offrire la base psicologica e letteraria delle dissonanze captate da Lahire:

«[…] l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato. Li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose tranne una: prender sul serio quello che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò che lo potrebbe riempire. Questo spazio che, bisogna ammetterlo, è difficile a descriversi, in Italia ha un colore e una forma diversi che in Inghilterra, perché ciò che risalta ha un’altra forma e un altro colore, e tuttavia è uguale nell’uno e nell’altro luogo, appunto un vuoto spazio invisibile, entro il quale sta la realtà, come una piccola città d’un gioco di costruzioni abbandonata dalla fantasia»((Musil (1930), p. 30)). 

Il decimo carattere, quindi, come principio di indeterminazione rispetto a istanze di prevedibilità sociali, demografiche etc. Ma non basta onorare l’autore con un acronimo perché le sue frasi divengano empiricamente vere, qui e ora. D’altro canto, ovviamente anche per le tesi di Lahire vale quanto detto a proposito dei lavori collegati alla prospettiva di Bourdieu: Rodengo Saiano non è in Francia e non avrà pubblico prevalentemente francese. Resta che il cambio di scala qui proposto ci offre la categorie per rimettere in gioco i termini di un dibattito che rischia di chiudersi ancor prima di cominciare.

Conclusione

Il discorso fin qui condotto può essere riassunto in una battuta: «… perché no?». Perché, cioè, il musil di Rodengo Saiano non dovrebbe puntare sul pubblico dell’Outlet?

Come abbiamo visto all’inizio, in linea di principio per il musil qualsiasi bacino di pubblico deve andare bene – anzi, più la sfida pare difficile, più essa risponde al senso di questo museo a vocazione «democratica». Fino a qui i voti e i valori. Ma la realtà? Perché, lo abbiamo visto, questo è il punto: stante il carattere necessariamente pubblico di ogni museo, quello che fa la differenza è la capacità o meno di rompere l’equilibrio vizioso tra principi universalisti e circuiti reali ristretti quanto abbastanza prevedibili.

Per la particolarità del contesto e degli obiettivi, il musil di Rodengo Saiano va visto e valutato come un esperimento. Nell’attesa del riscontro fornito dai visitatori reali del musil, ci è parso comunque utile definire i principi, gli obiettivi e le attese rispetto a cui misurare il successo di questa progetto culturale.

Sulla base di quanto detto, uno dei criteri centrali dovrà essere più o meno di questo tenore: il progetto del musil di Rodengo Saiano avrà tanto più successo quanto più i suoi visitatori si discosteranno dall’identikit del frequentatore abituale di musei. In questo senso, partire dall’idea che la realtà circostante sia costituita da un gran numero di individui «dissonanti» pare essere un postulato almeno euristicamente utile, perché costringe a non dare per perse intere categorie di persone e perché spinge a cercare nuove forme di comunicazione, dirette a individui che appaiono più complessi e stratificati di quanto spesso immaginato. 

Certo esiste un’altra strada, forse un’autostrada, per portare nuovi pubblici al museo: fare del museo qualcosa che finora i musei sono stati poco o marginalmente, cioè un luogo principalmente deputato allo svago disimpegnato e agli acquisti. Ad avviso di chi scrive, rispetto a tale opzione va fatta valere la particolarità del rapporto che unisce, e al contempo distingue, museo e realtà circostante. Restando al caso di Rodengo Saiano, la sfida del musilha senso nella misura in cui essa prevede obiettivi e strumenti distinti, e solo così complementari, rispetto a quelli che caratterizzano l’Outlet. Banalmente, se obiettivi e strumenti diventano quelli correnti nel mondo commerciale, la sfida del musil non ha più senso, né ha senso l’esistenza di un museo (se non come etichetta decorativa, peraltro forse dannosa).

Tra torre d’avorio e appiattimento sulla logica commerciale, le possibilità non mancano.

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