Il passato glorioso della canapa italiana

L’occasione per questa breve storia della canapa italiana nasce nell’ambito di un’importante iniziativa dell’Istituto dei Sistemi Agricoli e Forestali nel Mediterraneo del Cnr che in un convegno,  La filiera della canapa e il Consiglio Nazionale delle Ricerche, tenutosi a Roma il 21 ottobre2016, si è riproposto di rilanciare la produzione della canapa nel nostro Paese. In questo contesto è parso interessante rinverdire la gloriosa tradizione che fino al secondo conflitto mondiale faceva dell’Italia una dei più importanti produttori di canapa al mondo ed anche uno dei più apprezzati per la qualità delle specie autoctone e dei filati e tessuti commercializzati. 

Le fortune della coltivazione della canapa italiana si identificano storicamente con il ventennio fascista, con il programmatico ruralismo del regime ed in particolare con il quinquennio autarchico (1935-1940), quando fu massimo lo sforzo per render autosufficiente il Paese puntando sulle risorse del territorio, innanzitutto sull’agricoltura per l’alimentazione, per le fibre tessili e per l’energia (legna, carbonella, alcol combustibile) ((Si veda: M. Ruzzenenti, L’autarchia verde. Un involontario laboratorio di green economy, Jaca Book, Milano 2011, cui si rinvia per eventuali approfondimenti.)). In questa sede non c’è spazio per affrontare quel contesto politico ed ideologico, connotato, com’è noto, da un totalitarismo autoritario ed antidemocratico, razzista, ultranazionalista e imperialista, che inevitabilmente portò l’Italia alla catastrofe della seconda guerra mondiale. La storiografia è sterminata al riguardo e non si intende in questa sede neppure accennare al dibattito controverso su come quel periodo vada giudicato rispetto ai risultati economici conseguiti ((Si vedano a questo proposito: M. Maiocchi,Il ruolo della scienza nello sviluppo industriale italiano, inStoria d’Italia, Annali, vol. III, Scienza e tecnica nella cultura e nella società, Einaudi, Torino 1986, pp. 958-959; R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Il Mulino, Bologna 2002, pp. 142-143 e p. 183; G. Federico e R. Riannetti, Le politiche industriali, in Storia d’Italia, Annali, vol. XV, L’industria, Einaudi, Torino 1999, p. 1.143.)) . Ciò che interessa in questa sede rimarcare è che il comprensibile e largamente condiviso rifiuto di quel passato, spesso, ha impedito di riconoscere esperienze, anche di grande rilevanza, che in diversi campi (scientifico, tecnologico, agrario, letterario, artistico, musicale) furono in quell’epoca realizzate.

Nel caso dell’agricoltura occorre ricordare il clima di grande fervore innovativo segnato da tre straordinarie figure di agronomi.

Arrigo Serpieri ((G. Di Sandro, Arrigo Serpieri: tra scienza e praticità di risultati. Dall’economia agraria alla bonifica integrale per lo sviluppo del paese , Franco Angeli, Milano 2015.)) , bolognese, fu il geniale ideatore dei programmi di bonifica integra((Per avere un’idea della complessità e della rilevanza dell’opera di prosciugamento delle paludi pontine si veda: A. Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano 2010.)).

Alfonso Draghetti ((A. Berton, Alfonso Draghetti (1888-1960): le radici dimenticate (ma molto attuali) del movimento biologico in Italia, “Altronovecento”, n, 26, febbraio 2016.http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=28&tipo_articolo=d_persone&id=131)), precursore della bioagricoltura e dell’agro-ecologismo, dal 1927 fu chiamato a dirigere la prestigiosa Stazione Sperimentale di Agraria di Modena dove elaborò innovativi principi e pratiche colturali, che vennero sistematizzati, nel 1948, nel fondamentale trattato, Principi di fisiologia dell’azienda agraria.

Infine Nazareno Strampelli ((S. Salvi, L’uomo che voleva nutrire il mondo. I primi 150 anni di Nazareno Strampelli,Accademia georgica Treia, Treia (MC) 2016.)), il vero artefice della vittoria della “battaglia del grano”, agronomo e genetista di caratura internazionale, seppe selezionare “sementi elette” ibridando e incrociando varietà diverse, con l’obiettivo di sconfiggere le principali calamità del frumento, conseguendo così un aumento della produttività del 30%.

In questo contesto, la canapa ricevette indubbiamente una spinta rilevantissima a svilupparne anche qualitativamente sia la coltivazione che l’utilizzo per diversi impieghi, anche grazie all’istituzione del Consorzio Nazionale della Canapa, fin dal 1925, anno in cui il fascismo si fece stato e regime.

La canapa in verità era una coltura da molto tempo praticata, come attesta il dipinto di Giovan Battista Ferrari del 1873. Ma fu con il fascismo, ancor più dopo il 1935 e le “inique sanzioni”, che cominciò ad occupare un ruolo di primissimo piano, una sorta di “cotone nazionale” per la versatilità degli impieghi che si riuscirono ad ottenere. La canapa, com’è noto, è un arbusto che, nella varietà da “tiglio” destinata a produrre fibre, poteva raggiungere anche quattro metri di altezza, con le caratteristiche foglie del tutto simili a quelle della marijuana, la variante con più alta concentrazione di cannabinolo. Le fibre si ottenevano dopo opportuna macerazione, come in genere per le fibre di origine vegetale. L’Italia, nei primi decenni del Novecento, era una delle nazioni che producevano più canapa al mondo con l’ambizione, nel periodo autarchico, di sostituirla completamente al cotone ((La canapa, prodotto nazionale per eccellenza, “L’industria nazionale”, a. XXII, n. 3-5, marzo-maggio 1937, pp. 29-31.)) .

Questa era la produzione canapicola nel mondo a metà degli anni Trenta espressa in quintali ((Federcanapa, La Canapa italiana nell’esportazione e nell’autarchia. Relazione discussa nelle Sedute del 30 aprile e 25 luglio 1938, Roma 1938, p. 61.))

Oltre la metà della canapa italiana esportata nel 1937 (469.228 q.li) andava in Germania (287.538) ((Ivi, p. 17)) . La produzione italiana era, dunque, quasi un sesto di quella mondiale, ma si auspicava che venisse promosso ed incrementato un più largo consumo di tessuti di canapa da parte della popolazione civile perché gli impianti all’epoca installati avevano una capacità produttiva superiore del 50%, se avessero marciato a pieno ritmo, con la potenzialità quindi di garantire l’emancipazione del Paese in questo settore((G. Sessa, L’industria della canapa e del lino, in L. Lojacono, L’indipendenza economica italiana, Hoepli, Milano 1937, pp. 269-270.)).

L’area destinata alla coltura della canapa si aggirava intorno ai 90.000 ettari. Tre quinti circa della produzione di canapa erano localizzati nelle province di Bologna e di Ferrara, con punte nel Veneto ed in Pie­monte; gli altri due quinti nel Napoletano. In testa alle province che vantavano la maggiore produzione di canapa risultava quella di Ferrara, con q.li 419.667 presentati agli ammassi nel 1938 da 7.209 conferenti. Seguiva la pro­vincia di Bologna con q.li 242.602, da 6.058 conferenti; la provincia di Napoli con q.li 224.457 conferiti agli ammassi da 4.554 agricol­tori; ed infine, a grande distanza, le province di Rovigo, di Modena, di Torino e di Cuneo. Il 50 % circa della nostra canapa veniva di regola esportata in tutti i paesi del mondo. Quindi, tra le risorse tessili storicamente attive del nostro Paese, la ca­napa occupava senz’altro il primo posto. La canapa italiana, per i suoi requisiti di tenacia, finezza, morbidezza e lucentezza era classificata come la migliore del mondo, cosicché con provvedimento del 1935, proposto dalla Corporazione dei prodotti tessili, fu vietata l’esportazione del seme di canapa gi­gante italiana, per impedire la diffusione della coltivazione di questa varietà in paesi esteri concorrenti del nostro nell’esportazione della canapa. Contemporaneamente, per difendere la qualità della nostra produzione interna, la Corporazione propose pure il divieto della importazione di seme di canapa estero ((A. Tarchi, Prospettive autarchiche. Rassegna economica delle produzioni nazionali e lineamenti dei problemi autarchici, Editrice Cya, Firenze 1941, pp. 496-497.)).

La canapa dunque continuò ad essere considerata la soluzione principe, “la fibra di gran lunga la più preziosa del patrimonio tessile italiano” e per questo si cercò di perfezionarne al massimo la lavorazione. La canapa come alternativa al cotone si affermò nel momento in cui si riuscì a produrre il fiocco di canapa, con caratteristiche analoghe a quello di cotone: la produzione industriale del fiocco di canapa fu avviata da Leonardo Cerini nel novembre del 1934 a Castellana, nell’azienda che assumerà il nome di Società fibra nazionale “CaFioc”. Inoltre, venne messo a punto, con la consulenza del Cnr, un metodo “italianissimo” di stigliatura in verde, cioè dalle piante appena colte, che aumentava la resa di fibre utilizzabili per ettaro; si perfezionarono la miscelazione con le altre fibre, in particolare il cotone, e le tecniche per ottenere il fiocco. Un’altra importante innovazione tecnologica portò al raffinamento dei titoli, passando dal titolo 25 alla filatura normale del titolo 40 ed in prospettiva al titolo 60. Cosicché la canapa sarebbe stata ormai in grado “di sostituire in modo superlativo lana, seta e cotone nel tessuto delle bandiere ed a fabbricare dei leggerissimi tessuti per vestiti”((Giulio Sessa, op. cit., pp. 270-271.)). Queste innovazioni erano il risultato di un programma di ricerche sollecitato dalla Corporazione dei prodotti tessili già nel gen­naio 1935, cui contribuì anche Camillo Levi direttore del Centro studi della Reale Stazione sperimentale per l’industria della carta e lo studio delle fibre tessili vegetali. Lo stesso Centro di Levi era stato investito dal Ministero dell’economia nazionale, fin dal 1927, di studiare anche la possibilità di ricavare dalla ginestra una fibra con buone caratteristiche ((L. E. Nesani, Per la nostra autarchia tessile. La ginestra, “L’industria nazionale”, a. XXII, n. 6, giugno 1937, pp. 18-19. Si vedano anche: Fibre e tessuti di ginestra, “L’industria nazionale”, a. XXIII, n. 4, aprile 1938, p. 18; Lando, tessili autarchici. La fibra di ginestra, “L’industria nazionale. Rivista mensile dell’autarchia”, a. XXV, n. 6, giugno 1940, pp. 26-27.))analoghe alla canapa. Nonostante questi importanti contributi scientifici, anche Camillo Levi fu rimosso dall’incarico con l’entrata in vigore, nell’autunno del 1938, delle leggi razziali antisemite, con un grave danno per il Paese ((Roberto Maiocchi, Razzismo e autarchia, in Luigi Parente, Fabio Gentile, Rosa Mario Grillo (a cura di), Giovanni Preziosi e la questione della razza in Italia, Rubettino, Saverio Mannelli (Cs) 2005,pp. 344-345.)).

Contemporaneamente, il Comitato corporativo centrale, accogliendo la proposta della Corporazione, raccomandò al Consiglio nazionale delle ricerche di preparare sollecitamente, d’accordo coi Ministeri e con le Confederazioni interessate un piano di lavoro scientifico spe­rimentale, allo scopo di ricercare e determinare i processi industrial­mente attuabili, che consentissero di ricavare nel modo più economi­camente possibile la fibra tessile dalla canapa e di rendere eco­nomicamente e tecnicamente possibile un più largo impiego delle fibre della canapa nella fabbricazione dei filati e dei tessuti misti, in sostituzione di altre fibre importate. Effettivamente l’attenzione dei tecnici si accentrò sui molti problemi di surrogazione nel campo tessile, che per la canapa riguardavano la macerazione industriale, la filabilità, la canapa verde. Questi problemi ebbero adeguata soluzione. La canapa elementarizzata, detta anche fiocco o cotonizzata, derivava da una sgommatura molto più spinta di quella che si verificava nella ordinaria macerazione, con lo scopo di suddividere le filacce in aggrup­pamenti minori, pur senza giungere all’isolamento delle fibre ele­mentari. I risultati tecnici ottenuti filando la canapa fino al 70, aprirono vasti campi di utilizzazione. In quanto alla canapa verde, il prodotto, stigliato direttamente dagli steli secchi non macerati, poteva essere utilizzato o per ottenere canapa fiocco oppure per ottenere filati puri o misti per saccheria o cordame. Inoltre col perfezionamento della tecnica colturale si cercava di migliorare la qualità e di ridurre il costo di produzione sul campo, mentre con la tra­sformazione delle operazioni intese a ricavare la fibra dai fusti (processi biologici, chimici e meccanici) si cercava di diminuire il costo delle ope­razioni stesse e, con la dissociazione delle fibre elementari (elementarizzazione, disintegrazione o, inesattamente, cotonizzazione), si mirava ad ottenere una materia atta a maggiore varietà di usi e idonea ad essere lavorata in associazione con altre fibre (cotone, lana, raion) e in surrogazione di esse negli impianti di filatura e di tessitura già esistenti. Per ridurre i costi di produzione, i processi di dissociazione delle fibre elementari utilizzavano anche scarti e cascami di canapa, altri­menti non utilizzabili per la filatura. Il fiocco si presentava sotto l’aspetto di una massa soffice, fioccosa, risultante da un aggregato di fibre elementari o semi-elementarizzate, sciolte o riunite in fascetti semiaperti con tendenza all’intreccio ed alla arricciatura. Dopo le normali operazioni di battitura e cardatura, da solo, o misto, esso assumeva definitivamente l’aspetto di fiocco simile al cotone, con le forme di velo e di nastro, specifiche delle prime fasi di filatura. Permanevano tuttavia alcune differenze fisiche che caratterizzavano e distinguevano le due fibre (canapa e cotone), sopratutto per quanto si riferiva alla lun­ghezza ed al diametro oltre che alla loro elasticità. Questa ultima caratteristica si riuscì a migliorarla per la canapa ricorrendo ad una particolare disintegrazione tesa a liberare il minor numero possibile di fibre corte e troncando opportunamente quelle eccessivamente lunghe, in modo che la massa potesse contenere una grande percentuale di fibre medie, nei limiti da 20 a 30 mm. La tecnologia si andava comunque alquanto raffinando, in particolare per la fase cruciale della disintegrazione, decisiva anche per rendere possibile una miscela con le fibre di cotone:

Perché il problema dell’utilizzazione della canapa a fiocco è e rimane es­senzialmente un problema di adattamento, strettamente legato alla bontà del processo disintegrativo ed allo sfruttamento intelligente delle caratteristiche di filabilità delle due materie prime impiegate per la mischia ((A. Margotti, Per l’autarchia del cotone, in Isca, Atti II convegno nazionale di studi autarchici,Isca, Milano 1940, p. 338.)).

Con l’utilizzazione dei residui legnosi, detti canapuli, per la produzione di cellulosa, non solo si valorizzò una fonte di questa materia indispensa­bile alle industrie nazionali, compresa la produzione del raion, ma anche si conseguì un alleggerimento del costo di produzione del prodotto principale (canapa) mercé il maggior ricavo del sotto­prodotto (canapuli).

Nel tempo stesso, un’attiva propaganda a favore dell’uso dei ma­nufatti puri o misti di canapa, si proponeva di stimolarne la domanda sul mercato italiano e sui mercati esteri ancora accessibili ((A. Tarchi, op. cit., pp. 496-501.)). A questo proposito va tenuto presente che con i tessuti di canapa si potevano confezionare anche abiti di tutte le fogge, ma anche le bandiere, le tute di lavoro ed i cappotti imper­meabili della Marina, i rivestimenti per le strutture alari degli aero­plani, persino le corde con le quali venivano ormeggiati i transa­tlantici ((E. Garda, Il buxus. Storia di un materiale autarchico fra arte e tecnologia, Marsilio, Milano 2000, p. 66.))ed anche il famoso “canape” del Palio di Siena. Le «tute fatica» dei mi­litari di ogni categoria erano ormai interamente di pura canapa ((A. Marescalchi, L’agricoltura italiana e l’autarchia, Einaudi, Torino 1938p. 56.)). Un ramo di attività che merita un cenno particolare era quello della fabbricazione delle reti, e particolarmente delle reti da pesca, eserci­tato da maestranze specializzate, e che alimentava anche discrete cor­renti di esportazione. La materia prima impiegata in queste lavo­razioni generalmente manuali era soprattutto la canapa. La produzione delle reti si valutava ammontasse in media a 15-20 mila q.li annui, di cui circa tre quarti di canapa ((A. Tarchi, op. cit. p. 526.)).

Spesso, negli stessi impianti industriali, alla filatura e tessitura della canapa si affiancavano quelle del lino.

Come si è già detto l’attrezzatura tessile disponibile avrebbe potuto raddoppiare la produzione.

Al 31 dicembre 1938 l’industria del lino e della canapa risultava esercitata da 420 unità produttive con 37.257 dipendenti. Il principale centro dell’industria era rappresentato dalla Lombar­dia, con l’80% degli stabilimenti ed il 65% circa della maestranza; seguivano il Veneto, l’Emilia e la Campania con il rimanente 35% di addetti.

L’industria era finanziariamente concentrata per oltre metà in un solo gruppo (Linificio e Canapificio Nazionale) con un totale di 23 stabilimenti, 105 mila fusi di filatura, 17.000 di torcitura, 1.800 telai meccanici. Questo gruppo era preponderante so­pratutto nel ramo filatura, perché controllava i due terzi dei fusi ita­liani e della produzione di spaghi e di corde. Il valore della produzione lino-canapiera poteva essere valutato nel 1939 a circa mezzo miliardo di lire. Il consumo nazionale di prodotti di lino e di canapa era alimentato quasi esclusivamente dalle nostre manifatture: l’acquisto dei tessuti di lino e di canapa sui mercati stranieri era pressoché trascurabile, e riguardava sopratutto filati di lino e ristrette quan­tità di tessuti di lino. Si esportavano, invece, largamente filati di canapa, cor­dami, spaghi e non rilevanti quantità di tessuti ed altri manufatti di canapa. L’esportazione era ripartita fra un gran numero di paesi di ogni continente. I cordami e lo spago erano particolarmente diretti in Argen­tina; i principalissimi mercati di sbocco dei filati erano rappresentati dall’Argentina, dal Brasile, dalla Germania, Gran Bretagna e Norvegia ((Angelo Tarchi, op. cit., pp. 520-526. Si veda anche G. Sessa, Canapa e lino nel quadro autarchico, “L’industria nazionale”, a. XXIII, n. 6-7, giungo-luglio 1938, pp. 21-23.)).

Nel secondo dopoguerra il periodo d’oro della canapa italiana si esaurì rapidamente. Il declino fu segnato dall’invasione competitiva delle fibre sintetiche, il nylon in particolare, e dal cotone, cui s’aggiunse l’ossessione proibizionista per la possibile commistione con l’ insidiosa sorella marijuana.

Ma finalmente questo meraviglioso arbusto sembra si stia riscoprendo.

Dunque, bentornata canapa!

Figura 1: Giovan Battista Ferrari (1829-1906), Macerazione della canapa in Val di Sole. 1873. Collezione Spazio Aref , Brescia. 
Figure 2, 3, 4: da “l’industria nazionale”, numero dedicato alla Mostra del tessile italiano, a. XXII, n. 10-11-12, ottobre-dicembre 1937, XVI.