Il percorso italiano verso l’informatizzazione. Dal centro meccanografico al primo elaboratore elettronico
Il passaggio, nell’elaborazione delle informazioni, dalla meccanizzazione all’elettronica ha conosciuto in Italia – fra gli anni Cinquanta e Sessanta- sviluppi connotati da ritardi e mitizzazioni, diffuse diffidenze e improvvise accelerazioni. L’adozione in Italia dei primi calcolatori elettronici ha rappresentato il risultato di un percorso ancora troppo poco studiato nei suoi vari aspetti, per scelte che furono viceversa di grande “impatto” nell’economia come nella quotidianità degli italiani, paradigmatiche tappe delle vicende di una globalizzazione che già si andava pienamente dispiegando.
Nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, alcune macchine meccanografiche vengono installate presso gli uffici della Pirelli, a Milano, e presso l’Istituto Nazionale di Assicurazioni, a Roma. Quello stesso anno funzionavano già in Europa circa 150 macchine di quel genere, soprattutto in Germania ed in Gran Bretagna ((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, Milano 1985, p. 22)). L’elaborazione meccanizzata delle informazioni, che negli States aveva avuto avvio il secolo precedente, con l’invenzione di Hermann Hollerit della “macchina tabulatrice elettrica” per il censimento americano del 1890, inizia così anche in Italia il suo cammino, contraddistinto da quelle schede perforate scelte dal suo inventore nelle dimensioni della banconota da un dollaro.
Esattamente quarant’anni dopo, l’11 ottobre 1954, sbarcavano sulle banchine del porto di Genova alcune casse provenienti dagli Stati Uniti. Quelle casse contenevano le parti di un elaboratore elettronico che una decina di giorni dopo entrerà in funzione presso la sede provvisoria dell’Istituto di Elettronica generale del Politecnico di Milano. Il grande calcolatore (un elaboratore prodotto dalla Computer Research Corporation, esattamente il modello CRC102A) poi spostato presso il Centro di Calcoli Numerici, verrà ufficialmente presentato alla stampa ed ai cittadini il 31 ottobre 1955, lo stesso anno in cui entrava in funzione, presso l’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo (Inac) di Roma, un calcolatore Ferranti di costruzione inglese e, presso l’Università di Pisa, si stava studiando la realizzazione della macchina CEP, Calcolatrice Elettronica Pisana, base di partenza degli studi italiani nel settore. ((Sui computer dell’Inac di Roma cfr. D. Dainelli, Le attività dell’Inac consentite dall’impiego della calcolatrice elettronica Ferranti (Finac) e P. Ercoli, R. Vacca, Esperienze e problemi di manutenzione della calcolatrice elettronica Ferranti del CNR, entrambi in “Atti del convegno sui problemi dell’automatismo, Roma aprile 1956”, Milano 1958; per la Calcolatrice Elettronica Pisana cfr. AA.VV., La calcolatrice elettronica Cep del CSCE dell’Università di Pisa, in “Alta frequenza”, n. 30, pp. 873-876; CSCE, Documentazione 2, Pisa 1969. Una ricostruzione complessiva delle due esperienze in P. Ercoli, Sviluppo della cultura informatica: Roma e Pisa, in AA.VV., La cultura informatica in Italia. Riflessioni e testimonianze sulle origini 1950-1970, Torino 1993, pp. 39-66))
Un passaggio, nell’elaborazione delle informazioni, dalla meccanizzazione all’elettronica che in Italia ha conosciuto sviluppi e diffusioni a macchia di leopardo, fra ritardi e mitizzazioni, affabulazioni pubblicitarie e diffuse diffidenze. Un avvio “accademico” del computer ((Sulla “preistoria” dell’informatica italiana, e soprattutto sull’avvio di questi primi tre computer in Italia cfr. AA.VV., La cultura informatica in Italia. Riflessioni e testimonianze sulle origini 1950-1970, cit.; AA.VV., L’industria del computer, Milano 1977; L. Soria, L’informatica: un’occasione perduta, Torino 1979; Atti del convegno internazionale sulla storia e preistoria del calcolo automatico e dell’informatica, Siena 10-12 settembre 1991, Milano 1991; AA.VV., E il computer sbarcò in Italia, in “Sapere”, n. di ottobre 1997, pp. 64-77)), per un percorso verso l’informatizzazione aziendale (a cominciare dall’office automation, ma anche nell’automazione di processo vera e propria) rapido, con un grado di diffusione che può essere assunto come parametro di efficienza organizzativa e tecnica delle aziende, poiché, come noto, l’installazione di un elaboratore elettronico ha condizionato l’evoluzione stessa dell’organizzazione aziendale interna in termini di processi di gestione dei dati ma anche delle modalità produttive.
La meccanografia in Italia
Lo sviluppo della meccanografia nelle aziende italiane è piuttosto lento. Dopo un anno dal termine del primo conflitto mondiale i centri meccanografici italiani sono solamente quattro. Ai due già citati della Pirelli e dell’Ina, si sono aggiunti quello della Fiat e del Banco di Napoli. Alla fine degli anni Trenta in Europa funzionano un migliaio di installazioni, mentre in Italia, nel 1940, vengono segnalati operativi solamente 60 centri ((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. VII)). Il parco macchine si è andata frattanto allargando, consentendo alle aziende ed agli Enti dotati di un centro meccanografico di eseguire elaborazioni sempre più sofisticate, grazie a macchine ausiliarie come le duplicatrici, ripartitrici, riproduttrici, selezionatrici, trascrittrici, addizionatrici, ecc.
Fra i centri meccanografici italiani più importanti si segnalavano quelli attivati dalle Ferrovie dello Stato: nel 1928 venivano installate a Roma macchine a schede perforate per la contabilità di magazzino, la revisione generale delle giacenze e delle scorte inutilizzate, con l’estensione della meccanizzazione, alcuni anni più tardi, alla contabilità introiti ed alle statistiche sul traffico passeggeri e merci. Contemporanamente le FF.SS. attivano nuovi centri meccanografici a Firenze, per il Servizio Materiali a Trazione, ed a Torino, per il Controllo Merci. Ma anche altri Enti ed aziende avevano avviato la meccanizzazione dei loro uffici sin dall’anteguerra: dalle Linee di Navigazione Italia di Genova alle Ferrovie Nord di Milano, l’Azienda Tramviaria Municipale di Milano, la Società Romana di Elettricità, la Società Meridionale di Elettricità di Napoli, la Società Idroelettrica Piemonte di Torino, la Selt Valdarno di Firenze, la Società Esercizi Telefonici di Napoli, le Assicurazioni d’Italia di Roma, la Ras di Trieste e le Assicurazioni Generali, la Banca Commerciale Italiana, la Cariplo di Milano, la Cassa di Risparmio di Verona, quelle di Padova e Rovigo, i centri servizi clienti IBM di Milano e Torino, l’Eiar di Torino, l’Inam, l’Istituto Centrale di Statistica (che effettuò i conteggi del censimento nazionale del 1931 con macchine a schede perforate), la Montecatini (nei centri di Milano e Roma), la Snia di Milano, la Esso Standard Oil di Genova, la Olivetti a Ivrea, le piemontesi Officine Villar Perosa, l’Alfa Romeo a Milano, ecc. ((Idem, passim))
Ad assecondare (ed in buona misura a “sollecitare”) l’installazione di centri meccanografici erano state, da un lato, l’attività dell’Olivetti e della filiale italiana dell’IBM, e, dall’altro, il graduale diffondersi dell’organizzazione scientifica del lavoro. L’Olivetti commercializzava in Italia proprie macchine d’ufficio e, solo dopo l’accordo con la francese Bull sottoscritto nel 1949 (con la nascita della Società Olivetti-Bull con sede a Milano) attrezzature meccanografiche più sofisticate. L’IBM era presente in Italia sin dal 1928 (sotto la ragione sociale di Società Internazionale Macchine Commerciali), con una fetta di mercato non particolarmente ampia nel campo delle macchine d’ufficio, occupato sino ad allora soprattutto dall’Olivetti. Costituitasi in Spa col nome Hollerith italiana nel 1934, nel 1935 l’azienda americana aveva aperto a Milano il primo stabilimento per il montaggio di apparecchiature meccanografiche. Trasformatasi nel 1939 in Watson italiana e, nel 1947 nell’attuale denominazione di IBM Italia, iniziò anche qui, presso l’unità produttiva cittadina di via Tolmezzo della superficie di 6.000 mq, la produzione di unità a schede perforate ((Una storia dell’IBM in Italia in IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit. Accenni anche in AA.VV., Un minuto più del padrone. I metalmeccanici milanesi dal dopoguerra agli anni Settanta, Milano 1977, pp. 199-200; W. Rodgers, L’impero IBM, Milano 1971 (soprattutto alle pp. 308-334), Gruppo di studio IBM, IBM capitale imperialistico e proletariato moderno, Milano 1973.)):
Certo l’IBM e l’Olivetti non erano le uniche imprese sul mercato: soprattutto l’International, la Remington Rand e la Tabulating Machine Company rappresentavano concorrenti temibili, per clienti che noleggiavano tabulatrici, moltiplicatrici e selezionatrici per la propria attività a canoni mensili comunque elevati. ((Sulle mansioni delle macchine cfr. M. Manaira, Come lavorano queste macchine meccanografiche, in “Rivista di meccanica”, n. 292, 29 ottobre 1962, pp. 35-36. Cfr. anche Conferme e novità al padiglione forniture per uffici alla XXX Fiera di Milano, in “L’Ufficio Moderno”, n. 5, maggio 1952, pp. 433-434)) Ma, come vedremo, sarà soprattutto l’IBM a segnare con la propria organizzazione di vendita il percorso verso l’applicazione elettronica nella gestione delle informazioni aziendali.
Più importante, soprattutto nell’ambito dell’adozione di queste macchine come strumenti per l’ottimizzazione del lavoro, fu la campagna stampa ed informativa intrapresa dall’Enios, l’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro ((Sull’organizzazione scientifica del lavoro in Italia fra le due guerre cfr. G. Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione in Italia fra le due guerre,Torino 1978; M. Vaudagna, L’americanisme et le management scientifique dans l’Italie des aneés 1920, in “Recherches”, n. 22-23, 1978; F. Steri (a cura di), Taylorismo e fascismo, le origini dell’organizzazione scientifica del lavoro nell’industria italiana, Roma 1979; G. Pedrocco, Fascismo e nuove tecnologie, Bologna 1980; A. Salsano, Fortuna dell’organizzazione scinetifica del lavoro in Italia, in “Le culture della tecnica”, n. dic. 1996;)), anche attraverso la pubblicazione della rivista “Organizzazione scientifica del lavoro”, il mensile diretto da Gino Olivetti ((Gino Olivetti, fondatore nel 1908 dell’omonima azienda, fu uno fra i primi assertori italiani dell’organizzazione scientifica del lavoro. Cfr. is uoi articoli, scritti anteriormente alla Grande Guerra: L’organizzazione scientifica del lavoro, in “Bollettino della Lega Industriale”, n. 5 e n. 11-12, 1913; n. 1-2 e n. 7, 1914)). Opuscoli divulgativi ((Enios, Il sistema elettrocontabile Watson nei problemi di magazzino, Roma s.d.)) ed articoli insistevano spesso sulla necessità dell’adozione delle macchine a schede perforate nelle aziende e nelle industrie. ((C. Folpini, L’impiego delle macchine Hollerith per contabilità e statistica, in “L’Organizzazione scientifica del lavoro”, n.3 del 1937))
Nel dopoguerra i centri meccanografici funzionanti in Italia conoscono una discreta accelerazione. Essi passano infatti dagli 80 segnalati nel 1948 ai 139 di due anni dopo ed ai circa 300 impianti attivi nel 1953. Sono soprattutto i Comuni delle maggiori città italiane (Roma nel 1946, Milano, Genova e Torino pochi anni dopo) e gli apparati statali a meccanizzare alcune delle proprie attività, ma anche le industrie seguono di pari passo. Nella sola Lombardia, per citare l’esempio regionale che vedeva il maggior numero di centri meccanografici funzionanti, si segnalavano imprese come la Magneti Marelli di Sesto San Giovanni (1946), la Dalmine sede di Milano (1947), la Radio Phonola di Saronno (1948), la Motta (1948), la Carlo Erba (1951), la Rizzoli (1952), la Cariplo (1953), la Franco Tosi (1953), l’Innocenti (1953), lo stabilimento bergamasco di Dalmine (1954), enti come l’Istituto Doxa (1946), l’Azienda Trasporti (1948), il Comune di Milano (1952), l’Amministrazione Provinciale di Milano (1953 ca), Consorzio Agrario Provinciale di Milano (1953), Centro IGE del Ministero delle Finanze di Milano (1953), l’Azienda Municipale elettrica (1954), che avevano, alle date indicate fra parentesi, provveduto a sostanziosi investimenti per l’installazione di un parco macchine meccanografiche, spesso all’avanguardia. In Lombardia risultava così operante al 1955 oltre un terzo di tutti gli impianti meccanografici italiani, regione seguita dal Lazio (24%) e dal Piemonte, distanziato però al 13% circa: Milano e Roma si suddividevano da sole quasi la metà di tutte le macchine a schede perforate funzionanti in Italia, anche se la quarantina di centri meccanografici operanti presso Istituti di credito rappresentava oltre un quarto del valore dei centri meccanografici (il dato è riferito al 1953) funzionante in Italia. ((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., passim e p. 87. Cfr. anche G. Nicoletti, Realtà e prospettive dell’elaborazione dei dati nel settore delle aziende municipalizzate, in Cispel, Atti del convegno. L’impiego dei calcolatori nei servizi pubblici degli enti locali, Roma 1971, pp. 72-75))
La stampa specializzata degli anni Cinquanta assecondava questo sviluppo, assicurando come “l’introduzione del mezzo meccanografico ha accertato delle economie: queste possono disntinguersi in accelerazione di consegna del lavoro (tempo) ed in vere e proprie riduzioni di costi /…/ accelerazione dei tempi del 50%, diminuzione del numero di personale del 20%, riduzione di costo del 20” ((P.S., Fatturazione ed analisi vendite con macchine a schede perforate, in “L’Ufficio moderno”, n. 7, luglio 1951, p. 510. Cfr. anche A.B., La perforazione elettrica nei sistemi contabili a schede perforate, in “L’Ufficio Moderno”, n. 1, gennaio 1951, pp. 37-39)),proprio mentre il settore complessivo delle macchine d’ufficio conosceva una nuova fase espansiva ((L’industria delle macchine per ufficio, in Confederazione generale dell’industria italiana, “L’Industria italiana alla metà del secolo XX”, Roma 1953, pp. 474-481)).
Quando un computer modello IBM 650 viene installato presso gli uffici milanesi della Dalmine alla fine del 1957 –primo elaboratore funzionante presso un’industria italiana- nella penisola funzionano circa 650 centri meccanografici, che diverranno 700 l’anno successivo.((G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13 IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. 78)) Pur essendo disponibili sul mercato diversi modelli di elaboratori elettronici (fra il 1954 ed il gennaio del 1958 ne vengono installati in Italia 19), importanti aziende ed enti continuano a investire in centri meccanografici: l’Alitalia inaugura il suo nuovo centro meccanografico romano nel 1956, la Federconsorzi avvia la meccanizzazione della sede centrale nel 1954, raggiungendo 25 sedi provinciali nel 1957; alla metà degli anni Cinquanta la Fiat e l’Einaudi potenziano il proprio centro, estendendo l’utilizzo delle schede perforate alla contabilità ed alla gestione, proprio alla metà degli anni Cinquanta, la Cassa Depositi e Prestiti viene meccanizzata a partire dal 1958, per citare solamente le date più recenti ed i centri più consistenti.
Eppure la rivista “Tecnica e Organizzazione” già nel febbraio del 1956 ricordava che “se siete un dirigente di un’azienda di medie dimensioni dovreste sapere che l’applicazione dei calcolatori elettronici per la direzione aziendale non è qualcosa che deve attendere di essere sviluppata in futuro, bensì una conquista del mondo d’oggi”. ((P. Sardi, Problemi sull’applicazione dei calcolatori elettronici nelle aziende, in “Tecnica e Organizzazione”, n. 25, gen-feb 1956, p. 29)) Ma la “prudenza” verso l’installazione dei nuovi calcolatori era ancora un dato distintivo dell’economia italiana alle prese con la ricostruzione, nonostante proprio il programma ERP americano prevedesse adeguati finanziamenti nel campo dell’innovazione tecnologica ((Cfr. E. Aga Rossi (a cura di), Il Piano Marshall e l’Europa, Roma 1983; R. Quartararo, L’Italia e il Piano Marshall, in “Storia Contemportanea”, n. 4, 1984; P.P. D’Attorre, Anche noi possiamo essere prosperi. Aiuti Erp e politiche della produttività negli anni Cinquanta, in “Quaderni Storici”, n. 58, 1985; Idem, Il Piano Marshall: politica, economia, relazioni internazionali nella ricostruzione italiana, in AA.VV., “L’Italia e la politica di potenza in Europa”, Milano 1990; S. Chillé, Il Productivity and technical assistance program per l’economia italiana (1949-1954): accettazione e resistenze ai progetti statunitensi di rinnovamento del sistema produttivo nazionale, in “Annali della Fondazione Giulio Pastore”, a. XXII, 1993. Cfr. Anche il numero di “Studi Storici”, n. 1, 1966 dedicato al Piano Marshall in Italia.)).
Le macchine “genio”
In Italia si era andato delineando un quadro di grande attesa nei riguardi dell’elaboratore elettronico ben prima del suo arrivo ((Sul tema del confronto con l’innovazione tecnologica introdotta dai computers cfr.R. Kling, Computerization and social transformation, in “Science, Technology and Human values”, n. 16, 1991, pp. 342-367; C. Dunlop, R. Kling, Computerization and controversy: value conflicts and social choiches, Boston 1991; S. Sismondo, Some social constructions, in “Social studies of science, n. 23, 1993, pp. 515-553)). Un’attesa che aveva preso il via sin dal 1946, quando il “Corriere della Sera” aveva pubblicato un breve articolo, con un titolo capace però di “bucare” la pagina: “Una calcolatrice mostro mille volte più rapida delle altre”. ((“Corriere della Sera” del 4 giugno 1946))Quelle poche righe annunciavano anche in Italia la realizzazione dell’ENIAC, completata un paio d’anni prima in Pennsylvania: una macchina “che occupa un intero locale, munita di 18.000 valvole elettroniche (un radio-ricevitore medio ne ha 10, il radar più complesso ne conta 400) il cui calore viene dissipato da un apposito impianto di ventilazione”. ((Idem)) Un’annuncio ripreso poi con curiosità ed a piena pagina dalla “Domenica del Corriere” di alcune settimane più tardi, che cercava di descrivere il funzionamento elettronico di questa macchina, impropriamente chiamata “cervello meccanico”, ovvero “un eniac che fa restare a bocca aperta con i suoi alati elettroni /…/ anche se per ora è roba per miliardari”. Il titolo dato anche a questo pezzo giornalistico era destinato ad incuriosire soprattutto i potenziali futuri fruitori, per la possibilità di un risparmio sui costi di gestione contabili aziendali. ((La macchina che sostituisce 2000 contabili, in “La Domenica del Corriere” del 7 luglio 1946))
Due i versanti intorno a cui si polarizzò l’attenzione verso i computers che in America si andavano realizzando e commercializzando: da un lato quella che potremmo definire l’applicazione scientifica, con la possibilità di elaborare con precisione un numero sempre più elevato di formule e di dati, contribuendo all’avanzamento dei centri di calcolo universitari ed allo studio di scienze quali la cibernetica, la matematica e la statistica; dall’altro l’interesse delle grandi aziende, soprattutto quelle caratterizzate dalla necessità di procedere alla elaborazione di una grande mole di dati prima che alla affinazione della propria produzione ((Stimolanti, ma forse non pienamente applicabili al caso italiano o lombardo le analisi di G.C. Chow, Technological change and the demand for computer, in “American Economic Review”, n. del 1967, pp. 1117-1130)). Versanti che si unificheranno quasi immediatamente nella visione delle case produttrici di calcolatori, interessate naturalmente all’incremento della vendita di elaboratori e che, come vedremo, troveranno nella stampa italiana un’accoglienza forse insperata, di certo dettata dalla ricerca della novità e, naturalmente, di nuovi investitori pubblicitari.
Gli strumenti del dibattito sui calcolatori si coagularono in alcuni meeting e pubblicazioni di carattere scientifico-divulgativo. Interprete delle prime illustrazioni delle scoperte che negli Stati Uniti si andavano compiendo nel campo dei computers fu, fra gli altri, Bruno de Finetti, ricercatore presso le Assicurazioni Generali e docente universitario prima a Milano, Trieste e poi a Roma. Già nel 1949 aveva pubblicato presso la rivista “Sapere” una breve illustrazione del calcolatore SSEC realizzato in America dall’IBM nel 1948 ((B. de Finetti, Come funzionano le calcolatrici elettroniche, in “Sapere”, n. 339-340, febbraio 1949. L’articolo era illustrato con una immagine dell’elaboratore “disposto entro e sulle pareti di una sala di m. 11 x 30”)), e nel 1949, aveva redatto qualche indicazione sui cervelli elettronici, pur in modo più semplificato, nell’articolo Le possibilità di una nuova macchina statistica elettronica, dedicato ad una perforatrice elettronica che avrebbe dovuto entrare in funzione per il Censimento nazionale del 1951.((“Rivista Italiana di Demografia e Statistica”, a. II, n. 1/2, 1949)). Proprio il passaggio “naturale” dalla perforazione elettronica alla elaborazione elettronica sarà la traccia seguita dalla pubblicistica italiana per indicare necessità e virtù dell’adozioni aziendale di un elaboratore, per “poter lavorare su enormi quantità di dati (ossia di schede) e ciò molto presto, ottenendo calcoli ancora più complessi, eliminando l’intervento dell’uomo”.((M. Manaira, Come lavorano queste macchine meccanografiche, in “Rivista di meccanica”, n. 292, 29 ottobre 1962, p. 36. Si veda anche, per restare alla stampa periodica specializzata, P.S., Fatturazione ed analisi vendite con macchine a schede perforate, in “L’Ufficio Moderno”, n. 7, luglio 1951 e A.B., La perforazione elettrica nei sistemi contabili a schede perforate, in “L’Ufficio Moderno”, n. 1, gennaio 1951, pp. 37-39))
Nella primavera del 1952 la rivista “Tecnica e Organizzazione” ospitò due lunghi interventi del de Finetti, frutto di una precedente esperienza americana,((Per un elenco delle attività negli Usa del de Finetti cfr. la premessa al suo articolo pubblicato in “Tecnica e Organizzazione”, a. III, n. 2, mar-apr 1952, p. 14. Per alcuni tratti biografici cfr. anche A. Cuzzer, La diffusione dell’informatica in Italia, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., pp. 13-14. La sua biografia in G. Israel, Bruno de Finetti, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1987, vol. 33, pp. 783-786. Cfr. anche B. de Finetti, Scritti (1926-1930), Padova 1981, con ampia nota biografica e catalogo delle pubblicazioni.)) titolati entrambre “Macchine che pensano e che fanno pensare”((“Tecnica e Organizzazione”, a. III, n. 2, mar-apr 1952, pp. 14-31 e a. III, n. 3, mag-giu 1952, pp. 14-28.)). Un titolo ad effetto, che si assommava ad altre definizioni che in quelle stagioni andavano per la maggiore, indice di timori poco sottaciuti: “cervelli pensanti, cervelli elettronici, cervelloni, /…/ una paura che veniva spesso esorcizzata dicendo che per realizzare una macchina che potesse riprodurre almeno in parte il cervello umano occorreva uno spazio grande come la Basilica di San Pietro e per raffreddarla (allora i calcolatori erano a valvole) una portata d’acqua pari a quella che formava le cascate del Niagara.((A. Cuzzer, La diffusione dell’informatica in Italia, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., p. 13))
Di certo la percezione che de Finetti aveva della situazione italiana e delle “atmosfere” che si respiravano riguardo alla novità del calcolatore erano precise, anche in termini commerciali, pur se l’errore di valutazione sulla fine del periodo sperimentale, appare oggi evidente:
“E’ prevedibile che gli strumenti di calcolo elettronico e le possibilità di coltivarne lo studio cesseranno presto di essere tra noi quasi un mito. … Un motivo di perplessità, oltre alla elevatezza del prezzo, era inoltre costituito dal timore di prossimi ulteriori rapidi progressi che avrebbero fatto rapidamente invecchiare la macchina. Effettivamente nella fase dei “pionieri” solo i paesi più ricchi possono partecipare alla gara, e non quelli per cui uno sforzo notevole non riuscirebbe ripetibile a breve scadenza. Ma il periodo degli inizi si può considerare superato, né si può attendere che il progresso raggiunga un’inesistente meta. Non si può seguire l’esempio del pirandelliano villaggio di Milocca, privo di illuminazione perché “ogni amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini doveva stare in guardia dalle sorprese continue della scienza e su ogni progetto porre la sospensiva in vista dei nuovi studi e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca”. Arriva il momento in cui un ulteriore indugio rischia di far perdere il contatto con chi fa il battistrada sulla via del progresso: tale momento é forse giunto o almeno é vicino. Il rischio di rimanere tagliati fuori … é peggio di quello derivante dalla possibilità di accorgersi che un ritardo avrebbe aperto soluzioni più convenienti”.((B. de Finetti, Macchine che pensano e che fanno pensare, “Tecnica e Organizzazione”, n.2 mar-apr 1952, p. 31))
Lo sforzo divulgativo é evidente. Riviste come “Civiltà delle Macchine”, “La Ricerca scientifica”, “Scienza Illustrata”, “Ulisse”((La rivista “Ulisse” dedicò il suo n. 26, primavera-estate 1957, al tema “Che cos’è l’automazione”)), “Sapere”, ecc. oltre che la citata “Tecnica e Organizzazione” dedicarono numerosi servizi per spiegare il funzionamento degli elaboratori elettronici, la loro velocità di calcolo, le loro potenzialità, spesso senza rinunciare a chiosare con un certo vezzo giornalistico, le paure e le speranze per il futuro ((Fra gli articoli più significativi citiamo V. Somenzi, Paura delle machine, in “Ulisse” n. 19 del 1953; D. Insolera, Considerazioni sulla tecnica matematica richiesta dalle macchine calcolatrici ad alta velocità, “Tecnica e Organizzazione” n. 7, gen-feb 1953; A. Fontanesi, La nuova scienza: la cibernetica, “Sapere”, n. 461-462, mar 1954; P. Sardi, I traduttori elettronici, “Civiltà delle Macchine” n. 2, mar 1954. Traduzioni di testi stranieri videro la luce in quegli stessi anni. Citiamo, per il dibattito che ne seguì, l’uscita da Bompiani di N. Wiener, La cibernetica, Milano 1953 e l’einaudiano F. Pollock, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Torino 1956 (subito ristampato nel 1957). Su questo filone, con precisi accenni ai computers è anche il noto saggio di M. Reina, L’automazione e i suoi problemi, in “Aggiornamenti sociali”, n. 12 del dicembre 1956, pp. 331-346)). Addirittura lo stesso de Finetti, in un articolo del luglio 1953, dichiarava apertamente la possibilità, suggeritagli durante un Congresso internazionale in Inghilterra, di procedere anche in Italia alla costruzione di un elaboratore elettronico: “You must build your computer yourselfs! Comunque occorre che in un modo o nell’altro qualcosa si realizzi presto, perché si rischia di rimanere ultimi”, esclamava infatti l’autore riportando i consigli di esperti anglosassoni, precedendo analoghe considerazioni sviluppatesi poi al Politecnico di Milano ((“La Ricerca Scientifica”, n. lug 1953, riportato in A. Cuzzer, La diffusione dell’informatica in Italia, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., p. 19)).
Infine, due importanti congressi scientifici si tengono a Milano in quelle stagioni. Nel 1954, in concomitanza con l’annuale Fiera Campionaria e nell’ambito delle Giornate della scienza e della tecnica, il convegno “Elettronica e televisione”, che al suo interno prevede anche alcune sezioni come “Macchine elettroniche per il calcolo numerico” e “Macchine elettroniche per il calcolo analogico”. Agli incontri, tenutisi fra il 12 ed il 17 aprile, parteciparono circa 500 studiosi, compresi quelli che costituirono quello stesso anno il CIC, Centro Italiano di Cibernetica: gli atti di quel convegno milanese rappresentano la prima organica raccolta di studi italiani sull’argomento.((AA.VV., Elettronica e televisione, Atti del convegno organizzato dal CNR, Milano 1954, supplemento a “La Ricerca scientifica”, 2 voll., 1955))Nel 1956, fra l’8 ed il 13 aprile si tengono i lavori del “Convegno sui problemi dell’automatismo”, promosso dal CNR. Presso il Museo della Scienza e della Tecnica viene per l’occasione allestita una “mostra dell’automazione” ma, soprattutto, al congresso si tengono comunicazioni sulle macchine calcolatrici considerate come trasformatrici dell’informazione e lezioni da parte degli studiosi impeganti a Pisa nella costruzione della CEP ((“Civiltà delle Macchine” n. 3, mag-giu 1956, p. 64)).
Ma, accanto alle argomentazioni ed ai congressi di carattere scienfico e tecnico, l’aspetto commerciale dell’uso (e della vendita) di calcolatori elettronici, trovava attenzioni altrettanto esplicite. Riviste professionali e periodici di studi aziendali seguivano con pari attenzione convegni e presentazioni di nuove macchine. Testate come “L’Ingegnere”, “Rivista di meccanica”, “L’Ufficio Moderno”, “L’Industrialista” ed altre (nel febbraio del 1955 nascerà anche il periodico “Schede perforate e calcolo elettronico”) ricordavano ai lettori le magnificenze delle nuove macchine ed il loro “spettacoloso sviluppo”((Fra gli articoli comparsi segnaliamo: Macchine elettroniche, “L’Ufficio Moderno”, n. 4 del 1951; La macchina calcolatrice elettronica francese I.B.P., “L’Ufficio Moderno” n. 4 del 1951; Elogio della supercalcolatrice elettronica, “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1951; L’elettro calcolatore gamma, “Tecnica e Organizzazione”, n. 3 mag-giu 1952; Il cervello elettronico può fare in due secondi il lavoro di una giornata, “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1952; Calcolatrici automatiche, “L’Ingegnere”, n. gen 1953)) con anche Cinque o sei anni di anticipo sulle prime installazioni nella penisola. Per questo tipo di stampa le conclusioni erano simili a quelle determinate dagli scienziati (“Non é da dubitare che fra pochi anni le macchine calcolatrici moderne saranno indispensabili per ogni nazione che voglia essere in prima linea”, scriveva già nell’aprile del 1951 “L’Ufficio Moderno”((“L”Ufficio Moderno”, n. 4 del 1951, p. 300))), ma l’oggetto del “desiderio” era ben esplicitato, come ricordava la stessa testata, magnificando gli studi per un calcolatore francese:
“Quando si consideri che problemi astronomici la cui risoluzione richiederebbe mesi od anni di complicatissimi calcoli, una volta impostati possono essere risolti nel breve volgere di minuti, si resta meravigliati e confusi: logicamente chi legge può chiedersi quali applicazioni commerciali queste macchine potranno avere. Ciò appunto é ora pure oggetto di assidui studi; ed è lecito affermare, in base ai risultati già conseguiti, che il problema avrà prossime soddisfacenti risoluzioni”.((A. Poli, La macchina calcolatrice francese IBP, “L’Ufficio Moderno”, n. 4 del 1951, p. 301))
Un’orientamento commerciale insistito, capace di traghettare con immediatezza il potenziale acquirente italiano dall’olimpo universitario americano all’ufficio della propria azienda senza mediazioni apparenti, inculcando la sensazione che, davvero, sarebbe bastato premere un tasto per risolvere i problemi di magazzino e di gestione. Sempre nel 1951, in un articolo significativamente titolato “Elogio della supercalcolatrice elettronica”, si ricordava:
“Tra Einstein e Oppenheimer dunque é il costruttore tenace ed appassionato dell’elettronica supercalcolatrice. Non ne conosciamo, pur se generiche, le caratteristiche, ma dobbiamo ritenere che il congegno, reso finalmente reale ed operabile, dovrà sbalordire il mondo degli studiosi, dei tecnici aziendali, degli affari, apportandovi una vera rivoluzione di metodi, di esperienze, di applicazioni in ogni campo, sia nelle più sorprendenti affermazioni scientifiche che nelle più impensate e squisite organizzazioni d’imprese di qualunque tipo. /…/ Logicamente, soddisfatta la speculazione dottrinale, l’elettronica creatura, rapida più della luce e del pensiero, passerà nel mondo degli affari e delle aziende più complesse, sciogliendo i calcoli più duri, forse anche quelli economicamente pericolosi, cioé di bile di fegato aziendali”.((F. Calabrese, Elogio della supercalcolatrice elettronica, “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1951, p. 769))
Un vecchio mercato per un nuovo prodotto
Sono pagine, quelle delle riviste accennate, che paiono la meticolosa ed insistita preparazione all’accoglimento di una campagna pubblicitaria mirata ed efficace. Un invito prontamente raccolto dall’IBM, che sin dal 1951 e per alcuni anni ininterrottamente, si presenta alle aziende italiane con ripetute inserzioni pubblicitarie a pagamento, per presentare le meraviglie dell’elettronica applicate al mondo delle aziende. Una campagna che utilizza slogan ad effetto, immagini e grafica accurate, testi essenziali, semplici e diretti alle imprese commerciali, spesso nella evidente giustapposizione d’impaginazione fra inserzione e saggi all’apparenza imparziali.
L’IBM proponeva a lettori completamente ignari degli sviluppi della tecnica, ma sensibilmente interessati alla razionalizzazione del lavoro aziendale, “macchine elettroniche a schede perforate”, che a migliaia stavano “accelerando il corso degli affari in America”. ((Cfr. le inserzioni comparse in “L’Ufficio Moderno” nn. 1 e 4 del 1951, n. 3 del 1952 e n. 5 del 1953))La tecnica pubblicitaria è improntata da un lato all’emozione quasi fantascientifica che valvole e computers potevano evocare e, dall’altro, a comprimere in qualche misura il divario (tecnico e psicologico) esistente fra meccanizzazione ed elettronica applicabile all’ufficio. Fra disegni avveneristici, valvole come missili e slogan perentori (“Sollievo per la mente umana” o, riferito alla valvola, “Perfora l’ignoto”), l’azienda ricordava certo come “attraverso le macchine elettroniche IBM la mente umana é sollevata dal tedio di interminabili calcoli”, ma anche e soprattutto come “l’applicazione dei sistemi elettronici dà per risultato la riduzione dei costi nell’industria … non solo per grandi organizzazioni, ma per la maggior parte delle imprese”. Insomma, sempre per rammentare un’inserzione del marzo 1952, il calcolatore “svela i misteri della composizione dell’atomo; prevede il critico batter d’ali degli aerei veloci; calcola le traiettorie dei missili comandati; traccia la corsa dei pianeti per il navigatore,” ma anche, “calcola ruoli paga; inventari, costi e interessi; mette in evidenzia risparmi di tempo e di spesa”.
La strategia è sottile e persistente, tenendo presente che l’IBM americana non manifestò alcun interesse per la produzione di computers commerciali se non ad iniziare dalla seconda metà del 1950, dopo che la concorrente statunitense Remington Rand aveva già piazzato 40 esemplari del suo modello Univac I negli USA. L’Industrial Business Machine commercializzava in Italia ancora macchine da scrivere e perforatrici: presso l’unità produttiva milanese di via Tolmezzo erano impiegati, nel 1952, circa 600 addetti.((B. Katz, A. Phillips, Pubblica amministrazione, opportunità tecnologiche e nascita dell’industria dei computer, cit., pp. 267 e 270. L’IBM fu una delle 17 aziende americane che, grazie al Piano Marshall, al 31 dicembre 1952, avevano effettuato investimenti diretti in Italia per un valore superiore ai 2 milioni di dollari: cfr. L. Segreto, Gli investimenti americani in Italia, in “Quaderni Storici”, n. 1, 1996, p. 290. Per l’impiego in Italia di quei finanziamenti cfr. almeno G. Toniolo, L’utilizzazione dei fondi Erp nella ricostruzione italiana: alcune ipotesi di lavoro, in E. Aga Rossi (a cura di), Il Piano Marshall e l’Europa, cit.))Le inserzioni IBM mantengono costantemente il rapporto figurativo fra uomo e macchina, fra mente e strumento, senza disdegnare affondi in campo sessuale (quella valvola che “perfora l’ignoto” è davvero inequivocabile, tanto quanto il sorriso delle avvenenti segretarie) e maschilista, proponendo le immagini di giovani manager o del classicismo iconografico statuario supportato dalla testa del David fiorentino. Su tutto la tecnica come simbolo di progresso: dai disegni della grandezza americana (strade trafficate e grattacieli) alla proposta del logo aziendale IBM in cui compare il simbolo atomico.
Se la pubblicità tratteggia il percorso verso il successo aziendale con messaggi tutti decifrabili nella simbologia della più avvertita advertising americana, quello che colpisce é il grande anticipo con cui l’IBM si mosse sul mercato italiano in tema di elettronica applicata alla elaborazione delle informazioni: pur pubblicizzando perforatrici elettroniche, e in seguito computer, l’IBM reclamizzava i propri prodotti almeno quattro anni prima del computer sbarcato in Italia al Politecnico milanese (fra l’altro nemmeno di marca IBM) e ben 7 anni rispetto ai primi computer IBM comparsi in aziende italiane, installati nell’ottobre e novembre del 1957 a Milano (Dalmine) e a Roma (Banca d’Italia e FF.SS.).((Per queste prime localizzazioni cfr. G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13))
Le espressioni e gli slogan comparsi sulle pagine di queste riviste formeranno le conoscenze e le fantasie dei primi acquirenti, ma l’insegnamento del marketing d’Oltreoceano appare evidente anche nelle altre mosse del colosso americano. Il 22 aprile del 1952 l’IBM apre a Milano, in via Monte di Pietà, il proprio showroom, quello che la stampa definirà il “nuovo salotto per la macchina genio … tutto luci e cristalli, svelte colonne e variegati marmi … degno della città nuova e della civiltà nuova”((P. Caleffi, Un nuovo salotto per la macchina genio, “L’Ufficio Moderno”, n. 5 del 1952. La sede IBM milanese venne inaugurata alla presenza del vice presidente della IBM americana, J. E. Brent, segno evidente dell’attenzione posta verso il mercato italiano)). L’International Businnes Machine of Italy partecipa annualmente, con grandi stands, alla Fiera campionaria di Milano. Nel 1947 sono esposte macchine sotto un grande cartello con la scritta “Perforazione elettronica” (ricordando che, a quella data, i centri meccanografici italiani sono complessivamente meno di 80), mentre nel 1952 alla XXX Fiera di Milano, il colosso americano è presente con uno stand che, accanto a nuovi modelli di perforatrici elettroniche, mette in mostra “La calcolatrice elettronica il cui funzionamento é interamente basato sui principi elettronici, dove i calcoli sono eseguiti dalle molte centinaia di tubi elettronici al ritmo di 50.000 impulsi al secondo”.((Conferme e novità al padiglione forniture per uffici alla XXX Fiera di Milano, in “L’Ufficio Moderno”, n. 5 del 1952, pp. 433-435))
L’IBM, che alla fine del 1952 aveva abbandonato i modelli SSEC e CPC realizzati nel 1949 e venduti comunque per centinaia di esemplari, per concentrarsi sulla produzione del modello 607, ((M. Campbell-Kelly, W. Aspray, Computer. A history of the information machine, cit., pp. 113-117)) inizia la progettazione dei primi modelli di nuovi calcolatori, il 701, il 702 ed il 604, gli ultimi due commercializzati negli States solo dal 1953.((Idem, pp. 125-127. Si veda anche AA.VV., IBM’s early computers, Cambridge 1986)) E’ un’azienda che aspira alla leadership, ma che deve anche guardarsi dalla concorrenza. La casa americana non era infatti la sola a muoversi sul mercato italiano, con l’Europa alla affannosa rincorsa del tempo perduto. Nel 1951 in Francia, la Bull aveva infatti realizzato un modello di calcolatore elettronico denominato Gamma (poi rapidamente evolutosi in altre versioni), mentre in Inghilterra la Ferranti aveva dato il via alla costruzione del modello Mark (evolutosi poi nel Mark* nel 1953), che verrà poi acquistato dall’Inac di Roma nel 1955.
La francese Compagnie des Machines Bull, legata come detto alla Olivetti, era partita con un certo anticipo. Il Gamma viene presentato agli studiosi italiani da un lungo articolo di Paolo Sardi ((Paolo Sardi, già dirigente IBM, dal 1952 venne assunto in Fiat come responsabile della Direzione Centri Meccanografici. Cfr. la nota biografica in “L’Industrialista” n. 4 del 1967, p. 272)) nel giugno del 1952, ben prima della sua disponibilità sul mercato italiano: un saggio tecnico-scientifico, che metteva in risalto i diversi principi ispiratori, la riduzione del numero di valvole necessarie al funzionamento e, soprattutto, il costo “veramente minimo, tenuto conto delle maggiori prestazioni”.
Ma l’autore non rinunciava, pur dopo pagine di formule matematiche, a chiudere il proprio articolo con una considerazione che diverrà in seguito una delle chiavi di accesso al mercato, capace di scardinare definitivamente gli assertori della semplice meccanizzazione del lavoro d’ufficio:
“Qui in Italia si vanno estendendo con rapidità crescente gli impianti a schede perforate, sia quelli cosidetti a base meccanica che quelli a base elettrica. Si tenga però presente che la tecnica di tali macchine é in continuo e rapido progresso. /…/ Le macchine elettroniche stanno vieppiù perfezionandosi e fanno ormai già parte della normale attrezzatura tecnica dell’ufficio moderno. E’ un principio nuovo, ma già sperimentato e collaudato, ed è facile prevedere non soltanto la sua affermazione, ma la sua rapida diffusione. Ciò significa, non solo poter disporre di macchinario veloce, ma anche doverne tener conto in fase di previsioni e di aggiornamento. Non si insisterà mai abbastanza nel mettere in evidenza che ciò comporta principalmente un cambiamento nella procedura”.((P. Sardi, L’elettro calcolatore gamma, in “Tecnica e Organizzazione”, n. 3, mag-giu 1952, p. 36. Sullo stesso tema della “rivoluzione dei concetti organizzativi delle aziende” l’autore tornerà ancora nel 1967 in un saggio dal titolo Prospettive per l’amministrazione delle imprese, in “L’industrialista”, n. 4 del 1967, pp. 283-289))
Il Mark Ferranti trova in Italia una prima descrizione in un articolo apparso nell’ottobre del 1952 in “L’Ufficio Moderno”; nient’altro che la ritardata traduzione di un promozionale aziendale edito in occasione della vendita del secondo esemplare costruito, destinato all’Università di Toronto (il primo funzionava presso l’Università di Manchester dal febbraio 1951, dopo l’avvio del prototipo sin dall’autunno 1949) ((M. Croarken, Early scientific computing in Britain, Oxford 1989. Si veda anche S.H. Lavington, A history of Manchester Computers, Manchester 1975)). Il lungo panegirico, in cui il calcolatore viene presentato come “la più perfetta macchina calcolatrice al mondo”, formato da 3.500 valvole e 12 tubi a raggi catodici, ricordava come il computer “può effettuare in 2 secondi i calcoli che fatti con una comune macchina calcolatrice occuperebbe un’intera giornata di lavoro”, solletticando già nel titolo l’idea per un suo impiego commerciale.((H. Hutchinson, Il Cervello elettronico può fare in due secondi il lavoro di una giornata, “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1952, p. 1027))
In attesa della possibile commercializzazione in Italia dei primi calcolatori costruiti in Europa (nel settembre del 1951 l’inglese Lyons annunciava la costruzione di un proprio computer, denominato Leo e nel 1953 altre università nord-europee rendevano nota la progettazione di propri elaboratori), l’IBM continua la propria opera di penetrazione, in buon anticipo rispetto ad altrti marchi americani ((Cfr. G.W. Brock, The U.S. computer industry: a study of market power, Cambridge 1975. Si veda anche J.W. Cortada, Before the computer: IBM, NCR, Burroughs and Remington Rand and the industry they created, 1865-1956, Princeton 1993 e Id., The computer in the United States: from laboratory to market 1930-1960, New York 1993)). Nel 1953 l’IBM metteva in mostra alla Fiera milanese il proprio modello 604: accanto alle perforatrici elettroniche, e nella significativa localizazione delle macchine per ufficio, il computer 604 rappresentò la vera attrattiva del padiglione fieristico, con i suoi “1400 tubi elettronici .. con generatore di impulsi che fornisce una corrente di 50.000 cicli al secondo, con la velocità di funzionamento indipendente dalla complessità del calcolo da eseguire, ed è di 6.000 schede all’ora”. ((XXXI Fiera di Milano, in “L’Ufficio Moderno” N. 5 del 1953))
Si trattava, per la verità, di una macchina che l’IBM americana considerava come tappa intermedia nel passaggio dalla meccanizzazione all’office automation elettronico, in piena sintonia col motto aziendale di “evolution, not rivolution” che come noto costerà caro al colosso americano nei decenni seguenti. Ma era, un possibile entry point per il mercato italiano, riservando ai modelli maggiori la vendita per Università e centri di calcolo accademici.
Paura dell’ignoto?
Nel fervore scientifico che la stampa dedicò in quelle stagioni alle nuove macchine (un certo rumore fece sulla stampa quotidiana e popolare il citato convegno meneghino del 1954 ((Non illudersi che la macchina riesca ad imitare il pensiero, in “Corriere della Sera” del 20 aprile 1954, articolo che ricordava nell’occhiello come si potesse senza dubbio “negare la possibilità di realizzare in un automa ciò che é proprio dello spirito umano”))) e nel tourbillon pubblicitario che accompagnò la presenza italiana dell’IBM, poche voci si levano mostrando qualche perplessità. Col timore di essere paragonati a reazionari e nemici della scienza, qualcuno timidamente si domandò, nel campo dell’applicazione commerciale degli elaboratori se “la mentalità tecnica che spinge a sempre più estese conseguenze la tendenza ad applicare procedimenti di indagine sistematica e scientifica ai più minuti problemi pratici … potrebbe far pensare talvolta a quel signore che per estrarre le spille delle pratiche d’ufficio si serviva di un’elettrocalamita da 20 quintali”. ((M. Manaira, Cibernetica la scienza del giorno, in “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1953))
E l’insensibilità ai progressi del calcolo elettronico restarono in alcuni casi lungamente inattacabili, tanto che “la domanda tipica di questi: che te ne fai di questa macchina così veloce?” restava sulla bocca di molti, senza possibilità di far capire “che queste macchine non erano state fatte semplicemente per sostituire il regolo calcolatore”. ((L. Dadda, Ricordi di un informatico, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., pp. 79-80)) Lo stesso pioniere dell’informatica mondiale, John Diebold, ricorderà poi come “nei primi anni del decennio ’50 ci fu molta freddezza da parte dei potenziali clienti. Si argomentava: non essere il primo a provare qualcosa di nuovo, né l’ultimo, sicché tu debba mettere da parte qualcosa di ormai vecchio”. ((Citato in Calcolatori elettronici per gli anni ’60, in “Mondo economico”, n. 37 del settembre 1965, p. 9))
In fondo, molti continuavano a pensare, anche all’interno delle aziende, alla sostanziale inutilità dell’impiego di un computer, dettato –si pensava- più dalla moda americana che da una effettiva necessità:
“Molti dirigenti si chiedono ancora oggi –1959- quale vantaggio ci sia a sostituire un centro meccanografico con un sistema./…/ Essi dicono: alle schede domandiamo un certo risultato; vale la pena spendere centinaia di milioni per avere macchine che, sia pure, lavorano più veloci, quando la velocità del sistema meccanografico ci è già sufficiente?”.((G. Vecchiato, Il fantastico impiegato del Banco di Roma, in “Civiltà delle macchine”, n. 2/3, mar-giu 1959))
La reazione a questi timori, legati si badi bene alle perplessità di un sovradimensionamento dello strumento (e dei suoi costi) rispetto alle esigenze aziendali, più che al funzionamento e alle “paure dell’ignoto”, non trovarono di meglio che un appiglio che potremmo definire “etico”: glissando sugli alti canoni di noleggio, si cercava di tranquillizzare le aziende ribadendo la necessità della modernizzazione e, soprattutto rassicurando sul pieno controllo di questi “cervelli pensanti”.
“Ci dovremmo meravigliare”, si scriveva nel 1953 sulla stampa economica, “se i cibernetici, col satanico orgoglio della loro satanica ambizione soddisfatta, proclamano di aver costruito delle macchine che pensano, quando esse sono tali da reagire a stimoli interni ed esterni e quale farebbe un cervello umano? E che cosa possiamo opporre a ciò? Forse soltanto l’obiezione che questi cervelli non hanno la coscienza del proprio pensiero; e cioé in definitiva, non pensano, ma agiscono solo nell’identico modo come se pensassero”.((M. Manaira, Cibernetica la scienza del giorno, in “L’Ufficio Moderno”, n. 10 del 1953, p. 1274.))
Timori ed entusiasmi che contagiavano anche la stampa quotidiana, che dalle non sempre precise notizie che giungevano dagli Stati Uniti, elaborava servizi giornalistici quasi tutti imperniati su “La macchina che pensa meraviglia dell’avvenire”((“Il Corriere d’informazione” del 13 novembre 1950)) o sugli “Apparecchi pensanti”((“Corriere della Sera” del 24 gennaio 1951. L’articolo era firmato da Guido Piovene)), per citare due titoli fra i tanti simili comparsi in quegli anni che precedettero l’arrivo del computer in Italia.
Per il pragmatico mondo dell’industria erano riservati saggi e articoli riepiloganti le più moderne esperienze americane, tese alla dimostrazione di come un elaboratore elettronico rappresentasse strumento ormai necessario anche nelle piccole e medie aziende. Tre i passaggi chiave:
“Cominciare col convincersi che i calcolatori ad alta velocità sono oggi sfruttabili per le applicazioni d’ufficio, in secondo luogo bisognerà rendersi perfettamente conto dei problemi che si presenteranno per la loro introduzione ed infine sarà necessario scegliere il tipo di calcolatore più corrispondente alla soluzione dei problemi propostisi”.((P. Sardi, Problemi sull’applicazione dei calcolatori elettronici nelle aziende, in “Tecnica e Organizzazione”, n. 25, gen-feb 1956, p. 30))
Intanto, al Politecnico di Milano si lavorava per installare un calcolatore: sarà la prima località italiana ad ospitare un computer, una di quelle macchine che, come titolavano alcuni articoli apparsi su riviste specializzate, “pensano e fanno pensare”.
Il primo computer fra Università e industria
Il percorso seguito per l’acquisizione del primo calcolatore per l’Italia seguì in realtà un iter che solo in minima parte parve interagire con il dibattito sopra accennato, seguendo invece, come naturale in ambito accademico, le notizie che giungevano di prima mano dagli Stati Uniti.
L’ostacolo ad una rapida installazione, dopo una decisione già maturata a Milano alla fine del 1950, era esclusivamente di carattere finanziario, visti gli alti costi di acquisto e trasporto, ritenuti insostenibili dalla singola istituzione. Unica possibilità, il ricorso ai fondi ERP, l’European Recovery Program sviluppato dall’America verso i paesi coinvolti nel secondo conflitto mondiale: nell’anno 1951 Gino Cassinis, Rettore del Politecnico e Sindaco di Milano firmò -unitamente al Ministero della Pubblica Istruzione- la richiesta per l’ottenimento di un finanziamento, da utilizzare per la costituzione di un centro milanese di calcoli numerici.
Una domanda accolta dopo pochi mesi, che permise di esplorare il mercato dei modelli disponibili, soprattutto i più recenti, e che fissò la scelta sul modello CRC102A della Computer Research Corporation. Una macchina progettata e realizzata in California nel gennaio del 1952,((N. Chapin, An introduction to automatic computer, Los Angeles 1955, p. 234. Cfr. anche, NCR, NCR, 1952-1984, the computer age, Dayton 1984)) da un’azienda che solamente da un anno si stava dedicando alla costruzione di computer e che nel 1953 era già stata assorbita dal colosso della NCR, la National Cash Register ((M. Campbell-Kelly, W. Aspray, Computer. A history of the information machine, New York 1996, pp. 128-129)): la calcolatrice, come veniva comunemente chiamata in ambito milanese, aveva un costo di circa 120.000 dollari ((AA.VV., E il computer sbarcò in Italia, in “Sapere” n. di ottobre 1997, p. 67)) ed era composta da 650 tubi a vuoto, oltre 6.000 diodi a semiconduttore, una memoria a tamburo magnetico con capacità di sole 1024 parole da 42 bit. Velocità di funzionamento: 70 istruzioni al secondo.((L. Dadda, Ricordi di un informatico, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., p. 77 n. 5))
L’avvio avviene come detto nell’ottobre del 1954 ((Il Centro di Calcoli Numerici del Politecnico di Milano, Milano 1954)) e l’inaugurazione ufficiale il 31 ottobre del 1955.((Politecnico di Milano, Inaugurazione del Centro di Calcoli Numerici, Milano 1956))Accanto al fabbisogno universitario, il calcolatore milanese venne subito reso disponibile alle esigenze di alcune grandi industrie. Un’intuizione che aveva regioni ben precise: “Il centro”, spiegava la pubblicazione giubilare edita in occasione del centenario del Politecnico nel 1963, “venne messo a disposizione non solo di tutti gli Istituti, ma anche delle industrie. Fu così possibile affrontare la soluzione di problemi di concreto interesse applicativo e compiere opera di diffusione del nuovo mezzo tra tecnici e progettisti”. ((Il centenario del Politecnico di Milano 1863-1963, Milano 1964, p. 494. Un’intenzione che durante la fase di avvio del Centro di Calcoli Numerici era divenuta una sorta di insistita ricerca pubblicitaria di utenti interessati, per poter essere “centro di convergenza delle mille industrie lombarde, il consulente, l’avanguardia di nuove applicazioni, l’occhio aperto verso le invenzioni dell’esterno, il laboratorio di ricerche per chi non l’ha”. Cfr. Il Centro di Calcoli Numerici e la sua macchina elettronica, in “Corriere della Sera” del 17 febbraio 1955))
Fra le prime aziende ad approfittarne, la Società Edison, settore impianti idroelettrici, che utilizzò il CRC102A per la soluzione di equazioni algebriche lineari necessarie ai calcoli per la costruzione di grandi dighe; la Pirelli ((Interessante il caso della Pirelli, da sempre attenta all’evoluzione dei sistemi di calcolo: nel 1961 sarà una fra le prime aziende italiane a dotarsi di un computer, ma già nel 1914 era stata la prima industria italiana a dotarsi di un centro meccanografico)), per la determinazione dei campi elettrici passanti per cavi ad alta tensione, la Aermacchi, per calcoli strutturali ed aereodinamici. Impieghi industriali tutti evidentemente rivolti alla soluzione di problemi tecnico procedurali, che utilizzavano il computer milanese nelle ore notturne. Un’utilizzo che si allargò quasi immediatamente ad altre aziende, come la Magneti Marelli, la Montecatini, la Siemens, La Face Standard, la Franco Tosi, l’Innocenti, ecc. che dividevano il tempo di calcolo oltre che con il Politecnico, anche con istituti come gli Osservatori di Brera, Merate, Pino Torinese, l’Ismes di Bergamo, il Cise, ecc.((L. Dadda, Ricordi di un informatico, in AA.VV., La cultura informatica in Italia., cit., p. 80))
Un avvio contrassegnato da molto entusiasmo, ma anche da qualche contraddizione e, soprattutto, dalla evidente mancanza di personale altamente specializzato. Un solo corso introduttivo all’uso del computer venne tenuto da Luigi Dadda alla fine del 1954 e solo nel 1956 veniva avviato un corso di programmazione aperto agli studenti d’ingegneria milanese.
“Era ormai chiaro”, scriverà successivamente Luigi Dadda, “che la chiave di volta della diffusione del calcolo elettronico era costituita dalla preparazione di numerosi ed abili programmatori. Ciò traspare da un documento (1956) predisposto dai responsabili del centro sullo sviluppo delle attività. Vi si dice fra l’altro che la diffusione del calcolo elettronico nell’ambito del Politecnico non é quella che si si dovrebbe aspettare, in quanto si é verificata in alcune aree soltanto”.((Idem, p. 93))
Calcolatori elettronici per l’economia italiana
La disponibilità alle industrie dell’elaboratore elettronico del Politecnico milanese non parve convincere più di tanto l’utenza commerciale lombarda al noleggio in proprio, tanto che le prime imprese installarono, come vedremo meglio in seguito, un proprio computer solamente dopo oltre un paio d’anni. In fondo i centri meccanografici a schede perforate non parevano essere divenuti improvvisamente obsoleti, comprenendo spesso perforatrici elettroniche, e in alcuni casi, come visto, l’investimento datava anche di pochi mesi.
Una attesa che poteva apparire quindi più che giustificata, nonostante già dagli inizi del 1956 la stampa ricordasse come “il dirigente d’azienda deve innanzi tutto prepararsi ai compiti che gli aspettano familiarizzandosi con le calcolatrici elettroniche, ma soprattutto riesaminando le possibilità organizzative e amministrative dell’azienda per spianare la strada ai nuovi mezzi”. ((P. Sardi, Problemi sull’applicazione dei calcolatori elettronci nelle aziende, in “Tecnica e organizzazione”, n. 25, gen-feb 1956, p. 30))
Pubblicità e saggistica aziendale non mancavano, anche nel periodo successivo ai pionieristici primi anni Cinquanta, di sollecitare l’adozione immediata di un elaboratore elettronico. Nel dicembre del 1955 Paolo Sardi pubblicava un breve saggio dal titolo esemplificativo: “I calcolatori elettronici nelle aziende”, con un incipit che riassumeva e distillava tutte le ragioni sino ad allora dichiarate ai quattro venti:
“Due miliardi di dollari sono stati investiti da aziende statunitensi nella costruzione di calcolatori elettronici ed altri considerevoli immobilizzi sono previsti. Tali mezzi esercitano una profonda influenza nei settori economici, commerciali e scientifici che hanno di già adottato l’impiego di tali calcolatori. L’attenzione di tutti i business-men si é polarizzata sui lavori compiuti e su quelli in progetto e vi é chi ha preconizzato che questi calcolatori costituiranno una rivoluzione le cui ripercussioni non saranno di certo inferiori a quelle manifestatesi con la introduzione dei telai automatici nell’industria tessile. Potremmo citare dati precisi sui primi risultati conseguiti nel campo partico della vita aziendale”((P. Sardi, I calcolatori elettronici nelle aziende, in “Tecnica e organizzazione”, n. 24 nov-dic 1955, pp. 33-37))
Ovvero, ancora, miraggio americano e spirito d’emulazione, condito con il necessario pragmatismo per il campo degli affari, sgombrando il campo da ogni presunta disinformazione, per le “troppe persone /che/ parlano di questi mezzi con disinvolta incompetenza, alcuni esaltandone i risultati, altri invece relegandoli fra le utopie statunitensi”. Un esplicito invito alle industrie per accelerare l’ingresso di un computer in azienda, che il lasso di tempo fra pubblicazione di questo nuovo saggio e prima installazione (quasi due anni) testimonia essere -viceversa- ancora esigenza poco avvertita.
Nel 1955 sarà sempre la rivista “Tecnica e organizzazione” a pubblicare diverse traduzioni dalle riviste “The Manager” e “The Reporter” riguardanti proprio gli elaboratori “per ciò che interessa il lavoro amministrativo di ufficio” ((Cfr. per esempio Macchine calcolatrici elettroniche per la elaborazione dei dati; T. Whitwell, Calcolatori elettronci; W.G. Welchman, Origini e prosettive dei calcolatori elettronici, tutti in “Tecnica e Organizzazione” n. 23, set-ott 1955.)). Nel giugno 1955 de Finetti pubblica sulla rivista “Minerva bancaria” un lungo articolo sull’utilizzo dei computer nelle banche ((“Minerva Bancaria”, n. mag-giu 1955 (si trattava del commento ad un saggio apparso originariamente sulla rivista “Computers and Automation”).)) e nel febbraio del 1956 uscirà un nuovo articolo di Paolo Sardi ((Problemi sull’applicazione dei calcolatori elettronici nelle aziende, in “Tecnica e organizzazione”, n. 25 del gen-feb 1956)), (dal titolo Problemi sull’applicazione dei calcolatori elettronici nelle aziende) che invitava a non attendere oltre: Why wait for electronics? Se questo é un lavoro che si può fare oggi, perché attendere il macchinario che sarà solo disponibile in un vicino domani? (p. 33). Infine, con una tempestività degna di nota, a Milano usciva il volume espressamente destinato alle aziende titolato Glossario dei vocaboli usati nel campo dei calcolatori elettronici e dell’automazione, voluto dall’editore “in quanto anche in Italia i cultori e i tecnici in tale specifico campo sono sempre più numerosi”. ((Berkeley Enterprises Inc., Glossario dei vocaboli usati nel campo dei calcolatori elettronici e dell’automazione, Milano 1957, edizione a cura di “Tecnica e Organizzazione”))
È un avvicinamento difficile, per cercare di superare la diffidenza del mondo industriale, con scritti in netto anticipo sui tempi. Alla fine del 1957 infatti risultavano effettivamente installati in Italia solo 8 computers, secondo i modelli e gli anni (con trimestre) mostrati dalla tabella ((G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13. A questa data erano in ordinazione od in attesa di installazione altri 10 elaboratori)):
Ente e luogo modello data data disponibilità
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Università di Milano NCR CRC102A IV 1954 gen. 1952
Università di Roma Ferranti Mark* I 1955 1953
Università di Bologna Bendix DDA 1957 1955
Università di Napoli Bendix DDA 1957 1955
Controllo Merci FF.SS. Torino Bull Gamma ET IV 1957 1956
Dalmine di Milano IBM 650 IV 1957 dic. 1954
Banca d’Italia Roma IBM 650 IV 1957 dic. 1954
FF.SS. Roma IBM 650 IV 1957 dic. 1954
Accanto alle Università, alle FF.SS. ed alla Banca d’Italia, la milanese Dalmine risultava quindi la prima ed unica industria italiana dotata di un computer, dopo le positive esperienze compiute per circa tre anni con il Centro di Calcoli Numerici del Politecnico. Un IBM 650, che la casa americana noleggiava al prezzo di circa 3.250 dollari al mese (equivalente ad un prezzo d’acquisto di oltre 200.000 dollari del tempo): quasi un quarto rispetto al prezzo dei modelli della più potente serie 700 -acquistati poi nel 1958 e 1959 fra gli altri dal Banco di Roma, dal Cnen e dalla Banca Commerciale Italiana- ma comunque, circa il doppio di quanto pubblicizzato da altri costruttori americani ed europei per altri modelli.((M. Campbell-Kelly, W. Aspray, Computer. A history of the information machine, cit., p. 127. Il prezzo per la verità variava di molto secondo le politiche di presenza sui mercati nazionali: in alcuni casi esso giungeva anche a sfiorare i 9.000 dollari mensili. Cfr. F. Pollack, Automazione, conseguenze economiche e sociali, Torino 1976, p. 46. Sull’esperienza dell’utilizzo di un IBM 650 in un non meglio specificato “centro di calcolo milanese” (forse il Centro Servisi IBM) cfr. I.P., Meravigliose le macchine calcolatrici elettroniche, in “Sapere” n. 577/578 del gennaio 1959: il centro era utilizzato da “un Ente pubblico, studi statistici sulle frequenze dei gruppi sanguigni in Italia; per l’Università, esecuzione dei calcoli per la determinazione dei tempi di durata di un reattore atomico”.))La Dalmine lo utilizzerà per “la liquidazione di 2500 stipendi e 6000 paghe e cottimi, la contabilità generale e dei magazzini, la fatturazione, calcoli scientifici e tecnici”. ((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. 93))
Il modello 650, che negli States conosceva un buon successo di vendite (anche grazie alla politica di sconti verso i College che formavano così nuove schiere di tecnici IBM-oriented), costituì quindi il prodotto che permise alla marca americana di trovare il giusto ingresso nel mercato italiano, nonostante il periodo di circa tre anni trascorso dalla sua apparizione, servito soprattutto per guadagnare posizioni e vendite nel mercato americano: fra la seconda metà del 1957 e la fine dell’anno 1960 l’IBM piazzerà in Italia 28 unità di questo modello, ovvero circa il 40% del totale del venduto nella penisola in quel periodo (71 computers complessivamente). Se si considera che l’IBM, a partire dalla fine del 1959 commercializzò nella penisola anche altri calcolatori (totalizzando altre 25 vendite nel medesimo periodo), si desume che il solo colosso americano monopolizzò il mercato italiano di quelle stagioni. ((I dati sono desunti da G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13))
L’IBM 650 non era il computer più veloce allora sul mercato, ma certamente il più versatile e soprattutto, disponibile ad un prezzo relativamente basso, facile da installare, con brevi tempi di attesa dall’ordinazione: richiedeva inoltre poca manutenzione e, soprattutto – a differenza degli altri calcolatori- gli erano stati aggiunti una capacità alfabetica, una stampante veloce e gli assemblatori Symbolic Optimal Assembley Program (noto come SOAP) che permettevano una buona programmazione da parte di tecnici formatisi anche in Italia. Un elaboratore, venduto nel mondo in 1.800 unità già alla fine del 1959, che divenne noto come “la Ford T dei computers, che cambiò l’immagine dell’IBM da quella di semplice produttore a quella di leader dell’industria”((B. Katz, A. Phillips, Pubblica amministrazione, opportunità tecnologiche e nascita dell’industria dei computer, cit. pp. 275-277)).
Diverso il discorso per le Università italiane, dove ai modelli di Milano e Roma, davvero pionieristici e sperimentali, si associava la scelta compiuta a Napoli e Bologna per due Bendix analogici (detti Digital Differential Analyzer), di puro utilizzo scientifico. Il modello Bull Gamma ET adottato alla fine del 1957 dal Controllo Merci FF.SS. di Torino era fra gli ultimi nati, essendo stato installato ad un anno e mezzo circa dalla sua uscita e disponeva di una memoria a tamburo estesa: in Italia conoscerà una certa fortuna grazie all’iniziale coinvolgimento dell’Olivetti, giungendo alla fine del 1959 a 7 installazioni italiane (due ai Centri di Calcolo Olivetti di Ivrea e Milano, due al Banco di Sicilia, uno alle FF.SS., alla milanese S.A.E ed alla romana Te.Ti), a 13 nel 1960 e 17 nel 1961.
Il lungo accordo Olivetti-Bull aveva permesso alla casa italiana di entrare con buona tempestività nel campo delle perforatrici. Ed in attesa dello sviluppo dei modelli Elea, la società italo francese rappresentò lo strumento per la penetrazione nel mercato italiano delle origini, nonostante le prime avvisaglie della crisi finanziaria che coinvolgerà l’Olivetti. Solo con la realizzazione degli Elea l’Olivetti si presenterà con il proprio marchio, costituendo poi nel 1962 la divisione elettronica Olivetti. ((Indicazioni sul percorso informatico dell’Olivetti in G. Sacerdoti, F. Ranci, Aspetti industriali dell’informatica italiana, in AA.VV., La cultura informatica in Italia. Riflessioni e testimonianze sulle origini 1950-1970, cit., pp. 107-160. Come noto la Divisione Elettronica dell’Olivetti verrà ceduta nel 1964 all’americana General Electric))
L’Olivetti Bull si presenta sul mercato italiano con una campagna pubblicitaria che coinvolge le maggiori testate specializzate (in pratica le stesse individuate anni prima dall’IBM, ma con l’aggiunta di riviste istituzionali come “Mondo economico” o “Studi di Mercato”) a partire dal 1956. Il prodotto scelto é naturalmente il Gamma (anche nella evoluzione Gamma MT), presentato con un linguaggio sobrio e dalle studiate pretese scientifiche, con un tocco di antiamericanismo che, nel body text, si trasforma in indicazioni nemmeno troppo velate. Una pubblicità che comprendeva ben 36 righe di testo racchiuse in una grafica dal sentore Bauhaus, con l’asettica immagine scontornata del calcolatore:
“Il calcolatore elettronico MT a tamburo magnetico è un calcolatore decimale con codificazione binaria e trasmissione in serie, destinato all’esecuzione di lavori contabili e scientifici. Possiede memorie elettrodinamiche ad alta velocità e memorie magnetiche che vanno da un minimo di 49.152 ad un massimo di 196.608 posizioni. /…/ Realizzato tenendo presenti le necessità economiche e tecniche delle organizzazioni europee /…/ La sua utilizzazione non richiede personale altamente specializzato grazie alle particolari modalità operative e alla possibilità di autoprogrammazione. L’alto grado di automatismo, la selettività e capacità di autodecisione del calcolatore MT permette la sua applicazione oltre che nel campo contabile e scientifico, nella ricerca operativa e nella gestione razionale delle imprese industriali e comerciali secondo le concezioni della tecnica più moderna”.((Cfr. le inserzioni apparse in “Tecnica e organizzazione” del 1957 (p.es. nel n. 33 mag-giu e n. 36 nov-dic)))
Preistoria di una svolta
La crescita della diffusione dei calcolatori elettronici in Italia fu, come noto, estremamente rapida, anche se in valori assoluti non come in altri paesi europei: la tabella mostra la stima approssimata comparativa della crescita del parco macchine installato in alcune nazioni europee nelle primissime stagioni dell’informatica, alle date indicate ((L. Dadda, Il settore dei calcolatori, in Fast, La ricerca industriale per l’Italia di domani. Atti del convegno organizzato dalla Fast, federazione delle Associazioni scientifiche e tecniche, Milano giugno 1967, vol. I, Milano 1968, p. 551)):
nazione calcolatori installati e ordinati
1955 1956 1957
_________________________________________________________
Italia 2 4 16
Francia 5 10 15
Germania 5 10 20
Benelux 1 2 10
Gran Bretagna 15 35 75
Svezia – – 5
Svizzera – – 5
Al ruolo predominante della Gran Bretagna, partita con largo anticipo nella costruzione di un elaboratore e nella sua commercializzazione, l’Italia contrapponeva una situazione non troppo dissimile da quella francese: qui però la Bull aveva da tempo iniziato la sperimentazione di un proprio computer, mentre in Italia l’Olivetti ancora doveva dare inizio alla propria attività progettuale, in collaborazione con gli scienziati pisani alle prese con i primi passi della loro CEP.
Nel corso dell’anno 1958 vengon installati in Italia i seguenti computer, che si vanno ad aggiungere a quelli già funzionanti e precedentemente elencati:
Utilizzatore luogo modello data installazione
___________________________________________________________
Olivetti Ivrea Elea 9001 I 1958
Fiat Torino IBM 650 II 1958
Stanic Livorno IBM 650 III 1958
Olivetti Ivrea Gamma ET IV 1958
Banco di Sicilia Palermo Gamma ET IV 1958
Istat Roma IBM 650 IV 1958
Az. St. Telefoni Roma IBM 650 IV 1958
Az. St. Telefoni Roma IBM 650 IV 1958
Banco S. SpiritoRoma IBM 650 IV 1958
Cariplo Milano IBM 650 IV 1958
Edison Milano Univac SS90 IV 1958
Banco di Roma Roma IBM 705 IV 1958
Centro IBM Milano IBM 650 1958
Ovvero, alla fine di quell’anno 21 installazioni complessivamente, che già al 31 gennaio 1959 erano divenute 43. Nell’industria il computer é ancora presenza minoritaria: solo Fiat, Edison, Dalmine e Stanic (filiale italiana della petrolifera americana Standard Oil Co.) oltre alle aziende pubbliche telefoniche e ferroviaria. Il monopolio IBM non ha ancora raggiunto valori paragonabili a quelli che registrerà successivamente: alla fine del 1957 la quota era del 38% circa, mentre al termine dell’anno successivo era già aumentata al 57%, grazie soprattutto al successo di vendite del modello 650.
La presenza dei primi elaboratori nelle aziende trova comunque collocazione secondo un percorso accelerato, per una situazione che si andò precisando con estrema rapidità e reattività dopo l’iniziale lentezza. Un percorso che può essere spiegato anche con la semplice constatazione che un calcolatore elettronico venne adottato inizialmente soprattutto da quelle aziende che già avevano installato un centro meccanografico e che, però, attendevano di averlo ammortizzato prima di finanziare l’acquisto di un elaboratore in sostituzione di macchine meccanografiche. Ovvero, un computer come modernizzazione di procedure e macchine già esistenti.
Le positive esperienze delle prime aziende (che naturalmente si guardavano bene dal divulgare difficoltà o imprevisti per far filtrare solamente atmosfere fantascientifiche ad uso di una stampa italiana del tutto impreparata alla narrazione scientifica) inducono all’ottimismo. Spiegava il direttore del centro di calcolo del Banco di Roma, che primo istituto bancario al mondo, aveva provveduto alla fine del 1958 ad installare un computer IBM 705:
“Lei deve andare da Roma a Milano per esempio; prende la sua macchina /…/ comincia a fare salite e discese per la Futa e la faticosa. Troppo tempo, troppa fatica. Sceglie allora l’aereoplano; ma che cosa fa? /…/ Salirà a tremila o cinquemila metri, punterà dritto su Milano. Il suo obiettivo cioè non è di fare con l’aereoplano quel che avrebbe fatto con l’auto: lei sceglie una via tutta diversa, che risponde molto meglio ai suoi fini. Questo è il paragone che può darle un’idea della differenza fra Centro elettronico e Centro meccanografico; beninteso il vantaggio dell’aereo sulle quattro ruote è molto minore, molto più circoscritto di quelli che produce un’installazione elettronica”.((G. Vecchiato, Il fantastico impiegato del Banco di Roma, in “Civiltà delle macchine”, n. 2/3, mar-giu 1959))
E la pubblicità, spesso mascherata da articolo scientifico, faceva il resto, rammentando, come nel caso del modello Univac 1004 della Remington Rand, che questi “è governato da una persona sola, alimlenta, legge ed incamera dati dalle schede perforate, calcola, controlla, stampa, riproduce, riepiloga. Tutte queste funzioni in un centro meccanografico tradizionale sono appannaggio di macchine diverse che operano a velocità difformi ed hanno necessità di essere sorvegliate ed alimentate da più persone specializzate. Appaiono evidenti perciò sia il risparmio, a volte notevole, di personale, sia la maggiore scioltezza nell’esecuzione del lavoro”. Ovvero, per l’interessato estensore dell’articolo, “se si esaminano i procedimenti meccanografici, /…/ risulta evidente la convenienza di adottare, anziché un centro meccanografico tradizionale, un elaboratore anche se il costo di noleggio dovesse risultare doppio”. ((A. Surano, Elaboratore elettronico o impianto meccanografico tradizionale? Considerazioni sull’elaborazione automatica dei dati nella media e piccola impresa, in “L’industrialista”, n.II semestre 1964, pp. 211-212))
I Convegni promossi a partire dal 1957 dalla Federazione delle Società Scientifiche e Tecniche di Milano e dalla Associazione Nazionale Italiana per l’Automazione (Anipla), su “Automazione e Strumentazione” svolgono analoghi compiti, traghettando all’uso del computer le aziende che già erano dotate di un centro meccanografico, con particolare riferimento anche al controllo dei processi produttivi ((Il V Convegno, tenutosi dal 22 al 29 novembre 1961, prevedeva per esempio una lettura sulla CEP pisana, una relazione su “applicazione di schede perforate al controllo della qualità nell’industria siderurgica” ed una su “le prospettive dell’automazione della gestione bancaria a mezzo di un elaboratore elettronico”. Cfr. Convegno automazione e strumentazione, in “Galpo”, n. 1, gen 1961)). Il clima di euforia che trae dal boom economico linfa essenziale, invade il mondo industriale italiano, anche se non tutti paiono lasciarsi coinvolgere. Fra i tratti distintivi sopra accennati, per questa rapida avanzata tecnologica, si intravedono anche le ragioni di future delusioni: l’ingenuità dell’atteggiamento che vede aziende optare per l’installazione di un elaboratore sovradimensionato, nella convinzione di risolvere in modo quasi automatico tutti i problemi ed aggiungere prestigio al balsone aziendale, viene individuata anche nella “scarsa conoscenza delle implicazioni conseguenti all’utilizzo del mezzo elettronico e ad una troppo facile divulgazione di cui si è resa responsabile una pubblicistica assolutamente impreparata ed abilmente alimentata dagli uffici stampa dei costruttori delle macchine che “aiutavano l’uomo a inviare un suo simile nello spazio ((G. Continolo, L’automazione dela gestione obiettivo degli anni 80, in “L’Industrialista”, n. 4, 1967, p. 292))”.
Nelle aziende italiane compare sempre più spesso un grande calcolatore centralizzato, con enormi memorie di massa esterne, periferiche di ingresso e uscita lente per la sola modalità di lettura di schede o nastri perforati; ma l’impatto è però minimo nelle procedure aziendali e nello sviluppo di nuove mansioni occupazionali. Non di rado le prime applicazioni di un elaboratore aziendale vanno incontro a fallimento, come ricorderanno alcuni osservatori qualche anno più tardi: “enormi quantità di dati rovesciate su uffici che non sono in grado di utilizzarli, elaboratori sottodimensionati o sovradimensionati, incapacità di definire cosa si vuole o approcci divergenti fra i vari reparti … le direzioni si sono persuase che il calcolatore non è il mago onniscente”. ((A. Dina, La “nuova automazione” tra realtà umana e sogni tecnologici, in “Problemi del socialismo”, n. 20, 1981, p. 50)) Si stimava che”il 40% delle installazioni di calcolo sono un fallimento, mentre le restanti sono, per il 90% sopravvissute ad una crisi e si accontentano di vivacchiare alla bell’e meglio”. ((G. Continolo, L’automazione della gestione obiettivo degli anni 80, in “L’Industrialista”, n. 4, 1967, p. 291))
Frattanto aveva fatto la sua comparsa sul mercato il primo computer interamente progettato e costruito in Italia dalla Olivetti. Si trattava dell’ultimo esponente della serie Elea (acronimo di ELaboratore Elettronico Automatico), il modello 9003, che la casa d’Ivrea aveva deciso di commercializzare al termine di un lungo percorso aziendale ((Per la storia del progetto Elea cfr. F. Filippazzi, G. Sacerdoti, Progetto Elea: il primo computer made in Italy, in AA.VV., Atti del convegno internazionale sulla storia e preistoria del calcolo automatico e dell’informatica, Siena 10-12 settembre 1991, cit., pp. 187-203. Cfr. anche AA.VV., E il computer sbarcò in Italia, cit. pp. 72-73)). L’Olivetti aveva infatti aperto sin dal 1955 a Barbaricina (Pisa) un proprio laboratorio per lo studio di un computer: nel 1957 aveva visto la luce un primo modello, detto “Macchina Zero” e l’anno successivo era già pronto il prototipo commerciale detto “Modello IV” a valvole, da cui discenderà il modello transistorizzato Elea. Quell’Elea 9001 installato al Centro Olivetti di Ivrea nella primavera del 1958 rappresenta anche il primo computer italiano che traghetta queste macchine dalla prima alla seconda generazione dei computer. La prima era rappresentata da calcolatori relativamente grandi, le cui valvole elettroniche dovevano essere raffreddate e sostituite con buona frequenza. All’Olivetti si lavora per sostituire le valvole con i transistors: dall’Elea 9001 si passerà presto all’Elea 9002, un modello ancora “misto”, ma con grande capacità degli organi di memoria a nucleo magnetico e padre del primo computer italiano commercializzato alle industrie.
Nel 1959 viene costruito l’Elea 9002, installato presso il Centro di calcolo Olivetti milanese. Nel 1959 le attività informatiche dell’Olivetti vengono trasferite a Borgolombardo -uno stabilimento che occupa bel 140 ingegneri e 160 periti industriali- e nel marzo del 1960 alla Marzotto di Valdagno viene consegnato il primo computer di fabbricazione italiana installato in un’azienda, l’Elea 9003. Una macchina tecnologicamente avanzata sia per le soluzioni circuitali adottate, ma anche per la concezione “a sistema”, con la capacità di operare in multiprogrammazione. Un modello che permetterà di contrastare con un certo successo lo strapotere IBM dei primi anni sessanta: l’Elea 9003 dell’Olivetti rappresentò infatti, con i suoi 170 esemplari installati fra il 1960 ed il 1963 (compresa l’ultima evoluzione, l’Elea 4-115), il 25% circa del parco elaboratori funzionanti in Italia.((G. Sacerdoti, F. Ranci, Aspetti industriali dell’informatica italiana, in AA.VV., La cultura informatica in Italia. Riflessioni e testimonianze sulle origini 1950-1970, cit., p. 134. Del modello Elea 9003 vennero costruiti solo 40 esemplari))
Anche per l’Elea 9003 la campagna di informazione fu ampia, sovrapponendosi nelle stagioni poste a cavallo del 1960, alla stessa pubblicità del modello Gamma dell’Olivetti Bull. Nell’estate del 1959 (un anno prima della consegna) inserzioni pubblicitarie ricordano la nascita del “primo calcolatore elettronico italiano”, con la head line che stimolava la fantasia, con quella frase a caratteri neretto: “La logica elettronica eleva il tempo a potenza”. Il target era preciso e ben mirato: la grande industria italiana. Il lungo testo accompagnatorio infatti, nel ricordare come “L’Elea 9003 elabora 100.000 informazioni al secondo”, informava i lettori come il computer fosse “la macchina necessaria al ciclo completo di automazione dei servizi per il quale la Olivetti é oggi in grado di fornire tutte le apparecchiature periferiche e centralizzate /…/ Tanto la ricerca tecnica quanto la direzione di un grande organismo produttivo o amministrativo hanno in questo strumento la possibilità di compiere in pochi secondi calcoli che altrimenti richiederebbero mesi di lavoro e decine o centiania di persone”.((Cfr. per esempio le inserzioni pubblicate in “Civiltà delle Macchine” (nn. lug. ago e set-ott 1959) o “Mondo Economico” (n. 5 gen 1960)))
Nella relazione al bilancio 1962 si legge tutto l’ottimismo dell’Olivetti per il settore elettronico: “con lo sviluppo del settore la Olivetti ha provveduto alla costituzione di un’apposita divisione cui é stata affidata la responsabilità della produzione e dell’assistenza alla clientela. Le lavorazioni avvengono negli stabilimenti di Borgolombardo e di Linate, ambedue nella provincia di Milano. Il laboratorio ricerche elettroniche é stato tarsferito a Rho /…/ Nuovi progetti riguardano strumenti di elaborazione che permettono alla società di conseguire essenziali progressi in questo settore d’avanguardia. /…/ Nel 1962 la Olivetti che già possedeva il 50% della Olivetti Bull ha rilevato dalla Machines Bull di Parigi una ulteriore quota pari al 45%, per cui ora controlla il 95% del capitale”.((Cfr. ing. C. Olivetti e C., Note all’assemblea dell’11 marzo 1963))
Intanto il computer è ormai definitivamente entrato nei centri elaborazioni dati aziendali, equamente diviso nella sua acquisizione fra noleggio, acquisto e, successivamente, per appalto a terzi dei servizi di elaborazione.((Conviene comprare, affittare o noleggiare un calcolatore per la gestione di uno stabilimento?, in “Rivista di meccanica”, n. 354 del 24 maggio 1965, pp. 69-73))E per la prima volta compaiono elaboratori utilizzati anche in alcuni passaggi dei processi di produzione. Se per esempio, alla Dalmine l’IBM 7070 veniva utilizzato ancora per elaborare paghe e stipendi per 11.000 addetti, la contabilità di magazzino per circa 110.000 movimenti mensili e per calcolare i costi di 2000 commesse ecc. ((Il più moderno centro di calcolo elettronico inaugurato ieri presso la sede centrale della Dalmine, in “L’Eco di Bergamo” del 19 luglio 1961)), alla Siae Marchetti di Vergiate (Varese), l’elaboratore IBM 1620 verrà utilizzato, sin dall’inizio del 1962, per determinare le caratteristiche di volo ed i problemi dinamici per la progettazione dell’aereo anfibio FN33 Riviera; alla Pirelli, il nuovo IBM 1620 installato nel 1962 verrà utilizzato per la progettazione dei pneumatici;((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. 107. Sempre nel 1961 il “Secolo XIX” annunciava come “con 180 istruzioni un nuovo calcolatore elettronico ha fatto compiere 8 mila operazioni a una fresatrice a Milano”. Cfr. Un quarto del tempo per una lavorazione, in “Il Secolo XIX” del 28 settembre 1961)) la linea di trasmissioni dati fra Milano e Terni organizzato dalla Montecatini nel 1962 fu la prima comunicazione dati su via telefonica italiana.((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. 120 e 126))
La casa americana IBM è ormai padrona del mercato e trova in Italia particolari soddisfazioni già alla fine del 1961, soprattutto grazie ai modelli 1401 (119 le installazioni italiane in quel solo anno) e al piccolo ma flessibile 305 Ramac che con 27 installazioni rappresentava il 18% di quel modello dell’intera quota esportata fuori dagli Stati Uniti. Un successo bissato poi da altri computer, mentre la grande concorrente, la Remington Rand, otteneva in Italia solo 15 installazioni del modello Univac, che rappresentavano comunque l’11% dell’esportato complessivo dell’azienda americana.((Computer census, in ”Businnes Automation”, n. di gennaio, 1962, p. 39 e n. di aprile, 1962, p. 40))
L’organizzazione delle statistiche numeriche disponibili circa le sole installazioni, con dati relativi al 31 gennaio di ogni anno, permettono un diverso raffronto a tali scadenze col panorama nazionale ed internazionale, capace di mettere in luce con una certa omogeneità comparativa le diverse velocità dell’informatizzazione italiana e mondiale delle origini((Elaborazione da G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13; Cfr. anche I calcolatori elettronici in Italia, in “Galpo” n. 6 del giugno 1961)):
31/1/1957 31/1/1958 31/1/1959 31/1/1960 31/1/1961
__________________________________________________________________________________
Italia 4 19 43 93 137
Gran Bretagna 39 90 204 223 430
Stati Uniti 2.518
Al 31 gennaio 1960 l’industria italiana aveva installato od ordinato il 40% del parco nazionale, contro il 27% del settore credito e assicurazione, il 10% circa della Pubblica Amministrazione, il 7,5% del settore Trasporti e comunicazione, il 4% del commercio, mentre l’11,5% era in centri di calcolo ed università.
L’anno successivo l’industria era già salita al 48%, mentre gli altri comparti (esclusi i centri di calcolo), diminuivano la loro importanza percentuale. In particolare, al gennaio 1961 erano attivi 22 computer nel settore agricolo-manifatturiero (alimentari, tessile, abbigliamento, legno, ecc.), 58 nel settore estrattivo-manifatturiero (metallurgico, meccanica, ecc.), 32 macchine nel settore chimico, petrolio fibre artificiali, carta, gomma, ecc. e 16 computer nei servizi energia, gas, acqua. E in quella stessa data l’IBM aveva distribuito il 73,3% del parco macchine italiano, seguita dalla Bull, col 10,9%, dalla Remington Rand col 7,7% e dall’Olivetti, attestatasi ad un iniziale 5,1%.((G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, p. 4))
La modalità di diffusione dei centri meccanografici mostra una quasi perfetta comparabilità con la diffusione dei computer. Alla data di fine 1955 in Italia il valore del parco macchine meccanografiche era così distribuito: 39,8% industrie manifatturiere; 26% banche ed assicurazioni; 20,5% pubblica amministrazione; 10,5% settori vari, 3,2% agricoltura.((IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., passim))Unica regressione significativa, fra le rilevazioni del 1955 (per i centri meccanografici) e del 1960 (per i computer) è quella registrata dalla Pubblica Amministrazione, che avviatasi con buon anticipo sulla via della meccanizzazione, tarderà invece alla informatizzazione elettronica dei propri servizi.
Certo l’utilizzo del computer per il controllo dei processi produttivi in tempo reale è ancora una chimera, e la scelta dell’utilizzo informatico è quasi esclusivamente legata alle applicazioni sull’amministarzione e la contabilità, ovvero per grandi quantità di dati con elaborazioni relativamente semplici. Gli stessi costruttori iniziavano a pensare di aver preceduto di gran lunga gli utenti, registrando evidenti sottoutilizzi delle sempre più sofisticate apparecchiature proposte da un mercato in continua evoluzione. Gli studi per l’installazione di un computer in azienda, seguivano gli standard proposti dalla precedente meccanizzazione, col mantenimento di procedure ed abitudini d’ufficio praticate da tempo e solo velocizzate dalle macchine. Spesso il computer veniva impiegato per perfezionare procedure già avviare, con poche analisi della determinazioni di esigenze globali, con scarsa valutazione degli elaboratori esistenti e delle loro diverse applicazioni.
Nei primi anni Sessanta
All’orizzonte si stava profilando intanto il vero balzo in avanti, per mano soprattutto del nuovo modello realizzato dall’IBM nell’estate del 1960 e subito presentato anche al mercato italiano, il 1401, seguito nel 1963 dal modello 1440 (che per la prima volta presentava dischi estraibili e quindi intercambiabili).((Enciclopedya of Computer Science and Engineering, New York 1983, p. 704))Il 1401 venderà in Italia, fra il 1961 ed il 1964, ben 400 unità (il primo venne installato all’Alitalia di Roma), grazie soprattutto alle sue possibilità di risolvere, come annunciava il lancio pubblicitario, “problemi di natura contabile ed amministrativa”. Soprattutto, per la prima volta un computer era espressamente adatto “alle piccole e medie aziende /che/ lo possono utilizzare per la soluzione dei loro problemi, macchine dotate di caratteristiche proprie dei grandi complessi, pur essendo di costo e dimensioni notevolmente inferiori”.((Dall’inserzione pubblicitaria apparsa -sempre con un certo anticipo rispetto all’effettiva disponibilità- in “L’Ufficio Moderno” del giugno 1960))
La conferma di un allargamento del target viene indirettamente dal dato del 1961 (48% del parco computer italiano installato nelle industrie), che mostra come il noleggio o l’acquisto di un elaboratore aziendale sia ora “obbligata” scelta anche per le piccole e medie imprese, talvolta prive di una precedente esperienza meccanografica.
La concorrenza si evolve con rapidità ed aggressività: se infatti, sino al 1958, le aziende costruttrici di computer erano solamente al mondo 7, esse diverranno ben 30 agli inizi degli anni Sessanta: nove americane, nove inglesi, tre tedesche, una italiana, olandese, svedese ed altre cinque nel resto del mondo. Ma l’IBM resta incontrastata dominatrice in Italia, se si pensa che dal 1957 al 1961 aveva conquistato il 73,4% dell’intero parco macchine nazionale. In date simili, in Germania il 39% circa dei 563 calcolatori installati era di produzione tedesca; la presenza della Machine Bull sul mercato francese ammontava a circa il 40%, in Inghilterra il primo posto “è occupato da un’impresa inglese”.((F. Pollock, Automazione, conseguenze economiche e sociali, cit., pp. 151-152. Sulle vicende IBM e la presenza sui mercati europei cfr. W. Rodgers, L’impero IBM, cit., Gruppo di studio IBM, IBM capitale imperialistico e proletariato moderno, cit., R.T. DeLamarter, Big Blue: IBM’s use and abuse of power, New York 1986)) Lo strapotere IBM appare evidente, ma nel nostro paese cresceva l’attesa per i computer medio-piccoli da destinare alle aziende legate ai soli mercati nazionali e, soprattutto con un pizzico di nazionalismo, verso le serie Elea dell’Olivetti: dopo la consegna nel marzo 1960 alla Marzotto, nel 1961 sono installati modelli Elea 9003 al Monte dei Paschi di Siena, alla Fiat di Torino, All’INPS ed al Ministero del Tesoro a Roma, alla Motta di Milano nel gennaio 1962.((G.F. Alessandrini, G. Bortone, I calcolatori elettronici in Italia, in “Rivista di Organizzazione aziendale”, n. 2, mar-apr 1961, pp. 6-13))
Ma nel 1964 dei circa 930 calcolatori installati o ordinati in Italia, il 70% circa era ancora di marca IBM. Dalla sede milanese venivano commercializzati i modelli noti, mentre dal 1965 verrà anche costruito il nuovo modello, l’IBM 360, lo stesso anno in cui l’azienda annunciò il nuovo stabilimento di Vimercate, nei pressi di Milano, inaugurato poi nell’anno 1967. Una posizione raggiunta e mantenuta nel tempo grazie a macchine dal buon rapporto prezzo/prestazioni, ma soprattutto per un battage pubblicitario senza cedimenti, oltre che per quella che possiamo definire una funzione “di traino culturale”: l’IBM organizzerà per esempio nel 1960 una esposizione a Milano della propria produzione, porterà all’Esposizione Nazionale del Lavoro “Italia 61” di Torino un modello Ramac 305 interrogato per l’occasione da Giovanni Agnelli e Edward Kennedy ((Calcolatore elettronico attrazione di Italia 61, in “La Notte” del 16 maggio 1961; Ramac risponde a tutte le domande, in “La Gazzetta dell’Emilia” del 30 luglio 1961. Cfr. inoltre IBM, Tre secoli di elaborazioni dei dati, a cura di R. De Prà, cit., p. 111)), nel 1961 organizzerà un convegno nazionale sull’utilizzo del computer nell’industria tessile ((IBM, Convegno nazionale. L’automazione e la ricerca operativa per l’industria tessile, s.l. 1961)) e nel 1962 la prima convention dedicata espressamente alla stampa, tal titolo “Nuovi orizzonti della elaborazione elettronica dei dati”((IBM, Nuovi orizzonti della elaborazione elettronica dei dati. Atti del convegno informativo per la stampa, Firenze febbraio 1962, Milano 1962)), subito trasposto nei titoli giornalistici in “Elaboratori: macchine intelligenti?”.((G. Sacerdoti, F. Ranci, Aspetti industriali dell’informatica italiana, in AA.VV., La cultura informatica in Italia. Riflessioni e testimonianze sulle origini 1950-1970, cit., pp. 137 e 139. Per la verità i maggiori quotidiani italiani evidenziarono ancora il senso di “curiosità” che i computer emanavano: si passò quindi da un titolo come Appartiene alla fantascienza il mito delle macchine pensanti del “Corriere della sera” del 24 febbraio 1962 ad un Prodigiosi ma privi di carattere i cervelli elettronici dell’uomo del “Il Secolo XIX” del 27 febbraio 1962, a La macchina che in due secondi legge la Divina Commedia editato da “La Stampa” del 24 febbraio 1962))
Nonostante le favolose previsioni di chi credeva nel rinnovamento proposto dai computer nelle aziende, i primi anni dell’informatizzazione dell’economia nazionale destavano, a distanza di dieci anni dal primo elaboratore installato alla milanese Dalmine, conclusioni minimaliste:
“Sulle enormi possibilità di rinnovamento offerte dai calcolatori elettronici grava la pesante ipoteca del passo falso iniziale rappresentato dalla trasposizione delle vecchie procedure sui nuovi mezzi. /…/ L’istinto di conservazione dell’apparato burocratico ha avuto il sopravvento anche sul progresso tecnologico”.((G. Continolo, Organizzazione ed automazione, in “Leader”, n. 1/2, gen-feb 1967, p.71))