Il socialismo della Comune. A partire da un libro di Kristin Ross
Negli appunti preparatori al suo Passagenwerk, Benjamin definì il rapporto tra forme simboliche e modo di produzione capitalistico col termine di espressione (e non con quelli tradizionalmente marxisti di struttura e sovrastruttura). In questa prospettiva egli considerò la relazione tra il linguaggio di Baudelaire e le forme di vita sociale del Secondo Impero. K. Ross segue un metodo per certi versi simile studiando il legame tra l’opera di Rimbaud e la Comune di Parigi: “…Per comprendere profondamente la poesia come prodotto di un’immaginazione storica” ((K. Ross, Rimbaud, la Commune de Paris et l’invention de l’histoire spatiale, Les Prairies ordinaires, Paris 2013. In questa edizione c’è un’introduzione nuova rispetto all’edizione americana, The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune, University of Minnesota Press, 1988. I numeri di pagina inseriti nel testo fra parentesi si riferiscono dunque a questa nuova edizione francese.))(185), bisogna leggerla in modo sincronico, in connessione coi linguaggi non letterari che la circondano, cercare le “strutture comuni della vita quotidiana -l’immaginario sociale dello spazio e del tempo-“(15) e del linguaggio poetico.
La poesia non è il riflesso o l’ornamento marginale di uno spazio sociale: essa ne è l’espressione, e cioè articola su un piano linguistico le scansioni, divisioni e contraddizioni, che lo percorrono. Senza articolazione linguistica lo spazio sociale resterebbe muto, solo potere fisico barbarico, e dunque in effetti non giungerebbe ad essere quello che è. Lo spazio sociale è tale perché simultaneamente dato come ordine economico e simbolico, che attraversa tutte le pieghe della vita quotidiana e ne disegna l’orizzonte di senso. Perciò Marx definiva la Comune come “esistenza in atto”, e Ross aggiunge: “Essa sposta la dimensione politica sui problemi apparentemente periferici della vita quotidiana: l’organizzazione dello spazio e del tempo, i mutamenti dei ritmi di vita e degli ambienti sociali…la lotta rivoluzionaria è insieme diffusa e orientata con precisione…si esprime in conflitti specifici e nelle numerose trasformazioni degli individui, piuttosto che in un’opposizione rigida e binaria tra capitale e lavoro”(56).
Il termine spazio sociale va del resto inteso in senso proprio. Le strutture di potere e il modo di produzione dominante (così come le esperienze che intendono combatterli) si inscrivono simbolicamente e materialmente negli spazi urbani, nella maniera in cui sono divisi e amministrati, nella forma (possiamo anche chiamarla biopolitica) entro la quale sono distribuite le vite individuali e le loro relazioni all’interno di essi. L’ “esistenza in atto” della Comune è una rivoluzione della geografia della città, che ha comportato, secondo H. Lefebvre, la “scomparsa dei luoghi privilegiati, a favore di uno scambio permanente tra luoghi distinti, di qui l’importanza del quartiere”. Durante l’assedio, compaiono “nuovi ambienti, nuovi modi di incontrarsi e di riunirsi”(68), conseguenza e causa di diverse condotte e comportamenti.
Nei romanzi di Balzac -come ha ricordato J. Rancière- le descrizioni lunghissime di case, mobili, arredi, quartieri urbani, corrispondono alla convinzione dell’autore che emergano in tal modo le strutture sociali profonde che dominano la vita. L’architettura, si potrebbe dire, è l’inconscio materializzato dell’ordine simbolico e del suo sistema di potere, e lo scrittore è l’interprete di questo rapporto espressivo, nel quale lo spazio si configura come prodotto sociale. La rivoluzione dello spazio sociale, che implica relazioni altre tra i soggetti, comporta anche una modifica della percezione del tempo. Innanzitutto la rivolta induce l’intuizione di un “tempo saturo”, in cui ogni istante acquista la potente densità di un possibile punto di svolta della storia.
Forza e debolezza della Comune si esprimono in due gesti simbolici: l’assoluta determinazione di abbattere la colonna Vendôme e l’esitazione (forse fatale per la sua sconfitta) a impadronirsi delle riserve della Banca di Francia: quasi che l’atto immaginativo simbolico potesse sostituire interamente il peso volgare dell’oro. La Comune non è solo una rivoluzione politica, ma riarticola profondamente l’ordine simbolico entro cui avviene la vita quotidiana. Come nei rapporti sociali così nella distribuzione e nella codifica di nuovi spazi essa segue un principio rigorosamente egualitario e antigerarchico. La Comune ha messo in questione prima di tutto la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e la gerarchia di valori che ne conseguiva. Non per caso la distruzione della colonna Vendôme suscitò così tanto scandalo da divenire l’atto emblematico della Comune: segno, per alcuni, della sua barbarie e del suo disprezzo per il passato e per la storia. Ma la colonna era essa stessa nata come articolazione e fondazione e propaganda di uno spazio sociale politicamente determinato: essa celebrava le glorie militari dell’Impero e dunque una definita gerarchia di poteri, a cui veniva sottomesso lo spazio geografico. La colonna era il simbolo dell’incatenamento e dell’incantamento dei molti all’Uno verticale e convergente dello Stato. Distruggerla indicava la volontà di cancellare questa gerarchia, di sostituirla con una diversa distribuzione sociale della vita, di fondarla su basi totalmente rinnovate, rompendo i legami col passato dell’oppressione e della guerra. La distruzione della colonna Vendôme è atto d’inizio di un nuovo calendario, equivalente della presa della Bastiglia nella rivoluzione del 1789.
La rivolta della Comune procede dalla liberazione della vita quotidiana verso l’emancipazione economica (e non viceversa, come nella tradizione marxista). La liberazione della vita quotidiana investe la sfera dei rapporti di riconoscimento, dell’intersoggettività, la distribuzione degli spazi urbani, la gerarchia e la divisione del lavoro. E’ in opposizione assolutamente radicale al lavoro astratto. La liberazione individuale e l’emancipazione economica coesistono nell’esperienza della Comune. Come ha sostenuto Lefebvre, la vita quotidiana è una terra intermedia fra soggettività e oggettività, è in effetti il codice simbolico che definisce le forme di esistenza, di comunicazione, di relazione. Allo stesso tempo, è il modo specifico in cui l’individuo patisce dell’ordine sociale dominante: “La vita quotidiana non è la sfera del soggetto monadico e intenzionale caro alla fenomenologia; essa non risiede neppure nelle strutture obiettive -il linguaggio, le istituzioni, le strutture di parentela- percettibili unicamente se si mette fra parentesi l’esperienza del soggetto”(22-23). Essa consiste proprio nell’intessitura del soggettivo e dell’oggettivo: nella prassi con cui il soggetto è costituito passivamente dalle strutture esterne e al tempo stesse reagisce su di esse con un atto esistenziale di scarto e di trascendimento. Tale scarto diviene massimo nel gesto rivoluzionario della Comune. In questo senso le modalità della vita quotidiana sono esistenziali storici: orizzonti modificabili di comprensione, non leggi del destino, non voci dell’Essere.
Il rapporto tra il linguaggio poetico di Rimbaud e lo spazio sociale della Comune non si può definire come se il primo fosse un riflesso passivo del secondo: neanche però si può ricondurre all'”autonomia dell’arte” o ad una reciproca estraneità. Rimbaud non si riferisce sempre e necessariamente a fatti o episodi della Comune, non ne versifica l’ideologia, e comunque non è questo che ci interessa. La sua scrittura non è autonoma dallo spazio sociale, ma allo stesso tempo non è un suo effetto, un suo rimasuglio o una sua illustrazione.
La poesia fa parte delle strutture linguistiche in cui lo spazio sociale prende forma e dicibilità. Usando un termine di Benjamin si potrebbe definire tale rapporto come somiglianza immateriale; riferendosi invece alla teoria estetica di Adorno diremmo che nella forma poetica e non nell’enunciazione dei contenuti sta il nesso essenziale con la situazione data. In quanto forma la poesia non è solo passiva (riflesso, etc.) di fronte allo spazio sociale, ma attiva (dà forma ad esso, in essa quello acquisisce articolazione, dicibilità, si riconosce esistente). Si dà un’omologia di struttura tra poesia e spazio sociale, il che non vuol dire che uno dei due sia causa dell’altro, ma proprio il contrario: essi interagiscono nel definire l’ordine simbolico (ciò che avviene anche per l’arte, l’architettura, in generale i fenomeni di linguaggio).
La mimesi delle strutture dello spazio sociale da parte dell’arte, coesiste del resto con l’atto immaginativo con cui essa produce uno scarto e un trascendimento rispetto alla situazione esistente. Se Rimbaud può esser detto “il poeta della Comune” ciò non vuol dire che ci sia solo un rapporto mimetico tra i suoi versi e l’evento storico: essi trasfigurano inoltre, utopicamente, le forme di vita della Comune, al di là della sua stessa sconfitta e della sua imperfezione politica. L’arte non è in questo diversa per natura dalla soggettività della vita quotidiana: esistenza che emerge e produce uno scarto, sia pur minimo, rispetto alla necessità della situazione.
Alcuni esempi significativi mostrano in cosa consista la “somiglianza immateriale” o l’omologia di struttura tra lo spazio sociale della Comune e la poesia di Rimbaud. Se la colonna Vendôme è espressione verticalizzante e gerarchica del potere imperiale, una forma di vita definibile come sciame caratterizza sia lo spazio sociale della Comune, che lo stile di Rimbaud. Lo sciame è la pluralità della moltitudine assunta positivamente, così come il termine plebe serve quasi sempre a indicarla negativamente. Lo sciame è una plebe divenuta connessione simbolica di differenze. Esso ha la molteplicità polimorfa del desiderio, è un movimento coordinato di diversità: “La poesia di Rimbaud è la musica dello sciame: un’agitazione, una vibrazione, rapide e ripetute, un campo di forze di frequenze oscillanti tra la minaccia e la quiete”(155).
A sciame, non come colonne militari, si muovono le masse di Parigi, “in fraterno disordine”, nei mesi della Comune. A ciò corrisponde un movimento ritmico della poesia di Rimbaud. L’ordine gerarchico delle frasi è rovesciato e sostituito dal montaggio parattatico del disparato. La paratassi di Rimbaud è il montaggio di materiali inizialmente incongrui. Con una certa audacia, la Ross la considera come l’equivalente stilistico delle barricate erette nelle vie di Parigi, e lo sconvolgimento della sintassi nell’ultimo Rimbaud sarebbe in analogia col rifiuto delle gerarchie sociali: “Le poesie sono organizzate in modo paratattico, a immagine dell’organizzazione militare adottata dai Comunardi, ‘fantasia guerriera’ -per riprendere l’espressione di L. Barron- che moltiplica talvolta il disordine…Le proposizioni sono ‘associate’ le une alle altre, ma la loro associazione non è gerarchica”(187-188).
Non a caso Rimbaud attinge i suoi materiali linguistici agli slogan, a forme argotiche, o a detti popolari, che si ribaltano improvvisamente in cifrario esoterico della rivolta, ma che con essa mantiene comunque una relazione definibile. La poesia trasforma, ma non rinnega i suoi contenuti reali. Si può forse intendere come una paratassi allusiva della Comune questa illuminazione di Rimbaud?: “Fiori incantati ronzavano. I declivi lo cullavano. Circolavano bestie di un’eleganza favolosa. Le nubi si ammassavano al largo del mare, fatto di un’eternità di calde lacrime” (Infanzia II). Ovviamente il rapporto è più diretto nel Canto di guerra parigino: “Thiers et Picard sono ‘Zeroi’,/rapitori d’eliotropi;/fanno Corot al petrolio:/esercito di maggiolini, i tropi”((Nell’originale: sont des Eros, gioca con un significante il cui suono può avere significati multipli: degli eroi, degli Amori, degli Zero. Hannetonner leurs tropes, gioca linguisticamente sull’assonanza tropes-troupes, le truppe di Versailles si muovono come tropi-insetti, che devastano insieme il territorio e il linguaggio.)). Qui è evidente l’uso di slogan ironici o poetici sottoposti a un montaggio, che opera un détournement, uno spiazzamento, del loro senso originario.
Nella poesia di Rimbaud avviene un continuo ri-uso, détournement di termini inizialmente usati per denigrare l’operaio pigro, insolvente, renitente al lavoro. Così ivresse non indica più l’ubriachezza molesta dell’ozioso, ma l’esaltazione della rivolta e l’impulso dionisiaco dell’essere in comune. La “pigrizia” diviene un momento di riappropriazione del corpo, di dilatazione del tempo, e l’opposizione radicale al tempo di lavoro cronometrato e astratto del capitale. Il rifiuto del lavoro astratto e parcellizato è del resto una delle intenzioni più profonde della rivolta della Comune. L’operaio “lussurioso” diventa il profeta di un corpo utopico, capace di prefigurare una indefinita possibilità di liberazione del vivente.
Il Bateau ivre diviene allegoria della liberazione dalla merce (il grano fiammingo ed il cotone inglese) e dagli “equipaggi”, che trattengono e soffermano sotto il potere: “Io ero incurante di tutti gli equipaggi,/portavo grano fiammingo e cotoni inglesi./Quando coi miei trainanti ((Sono quelli che trainano il battello dalle rive del fiume. Nella strofa precedente “pellirossa chiassosi” li avevano inchiodati a “pali variopinti”.)) lo schiamazzo è finito/ i fiumi mi hanno lasciato scendere dove più volevo”.