Introduzione: i musei, la storia, la tecnica
- In una società sempre più “astorica”, che non ha più un rapporto di continuità con il proprio passato, i musei si moltiplicano ad un ritmo impressionante. Molti hanno riflettuto su questo fenomeno singolare che caratterizza soprattutto gli ultimi due o tre decenni, non pretendiamo quindi di aggiungere molto di originale a quanto già detto (anche da parte nostra: cfr. Museo dell’Industria e del Lavoro. Una proposta per la città, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1989), solo richiamare l’attenzione su alcuni dati di partenza che servono a chiarire la scelta fatta più di un decennio fa all’interno dell’istituto di ricerche storiche sul mondo contemporaneo voluto da Luigi Micheletti in quel di Brescia, e assurto a qualche notorietà per le iniziative promosse in due campi apparentemente lontani e incomunicanti: la storia delle ideologie politiche novecentesche e l’archeologia industriale. Si è poi visto che qualche rapporto esisteva, e addirittura secondo alcuni quelle ideologie erano (sono) diventate archeologiche perché non hanno saputo prendere per tempo le distanze da un’industria produttrice di rovine piuttosto che di progresso, vuoi per scelte sbagliate vuoi per l’ineluttabilità di una distruzione creatrice – motore della modernità – che dissolve tutto ciò che appariva solido e destinato a durare nel tempo.
Il distacco crescente tra il nostro mondo – un presente in continua trasformazione – e il passato, anche quello temporalmente vicino, mette in crisi e costringe a riformulare il rapporto con la storia. Tutta quanta la storia, e con essa il passato che possiamo conoscere grazie ai testi, i documenti e i monumenti, perdono di profondità e di significato: essendo percepiti come totalmente separati dal presente e ad esso sempre più estranei, prendono la forma di un assemblaggio di materiali eterogenei, allineati uno accanto all’altro, in una sorta di bazar postmoderno, reso più rutilante e invadente dalle nuove tecnologie che consentono viaggi istantanei in ogni luogo e tempo: la storia viene consumata come qualsiasi altra merce, e siccome ha un mercato viene anche prodotta in funzione e secondo le esigenze dei consumatori, inducendo in loro dei bisogni ovvero cogliendone i desideri. Proprio in questo contesto si collocherebbe il successo dei musei: la rivitalizzazione di queste antiche e, per molto tempo, poco frequentate istituzioni culturali deriverebbe dall’essere funzionali ad un rapporto con il passato storico, e ad un suo utilizzo, che per brevità diciamo postmoderno.
Per le sue caratteristiche originarie, e grazie all’uso massiccio dei nuovi media e delle tecniche di marketing, il museo viene eletto a luogo in cui si conserva oggettivato il ricordo del passato, consentendone e incentivandone un consumo estetico. La novità e la vitalità derivano dal fatto che la fruizione non è riservata alle élite né imposta alle masse da indottrinare dei regimi totalitari, essa ha come bussola e scopo la soddisfazione dei gusti mutevoli dei consumatori individualisti, nerbo delle folle solitarie metropolitane.
Il discorso che qui si è accennato per la storia può valere in generale per la cultura e l’arte che verrebbero ad un tempo emarginate dalla società e dalla scuola e rese disponibili a pubblici sempre più vasti attraverso apposite istituzioni, i musei, ovvero i parchi a tema e gli science center, in grado di moltiplicarsi grazie alla loro virtualizzazione.
Ma la ridefinizione del rapporto con la storia, il venir meno di un rapporto vitale tra passato e presente, sino al limite della cancellazione della memoria, che farebbe precipitare la società non meno dei singoli in una condizione patologica, hanno il loro vero baricentro non tanto nel rapporto del presente con il passato bensì con il futuro.
La definizione di società “astorica”, a prima vista incomprensibile dato il proliferare di riferimenti alla storia in ogni discorso banale, a partire dalle chiacchiere politiche, acquista un senso pregnante se si sposta l’asse della riflessione sulla coppia presente-futuro. È su questo nodo che l’interpretazione post-moderna dell’età succeduta a quella dello sviluppo, fortissimamente voluto dai soggetti e non solo dalle ideologie, assume una accentuata curvatura pessimistica.
Gli uomini, smentendo il vecchio assunto vichiano, avrebbero ormai rinunciato al progetto che conferiva dignità alla loro esistenza individuale e collettiva: costruire liberamente la storia, pur nella consapevolezza dei propri limiti. Questa rinuncia, per altro, non deriverebbe da una sconfitta di fronte a barriere invalicabili; la “morte della storia” sarebbe piuttosto l’esito di due processi che sommandosi inducono i contemporanei a desistere dall’investire le loro energie in un compito velleitario ed inutile. Da un lato i progetti politici di trasformazione del mondo sono approdati ad un nulla carico di insopportabile sofferenza per un numero smisuratamente grande di persone; dall’altro la tecnica si è talmente sviluppata da ridurre la storia a sua ancella. Non solo le ideologie ma anche le religioni sono state soppiantate dalla tecnologia: è questa l’unica religione che lega a sé tutti gli uomini, sia dei paesi sviluppati che di quelli sottosviluppati. C’è un solo processo ancora in corso che abbia un significato storico ed è appunto quello che vede i paesi poveri impegnati ad entrare nel cerchio magico della tecnica, con ciò che ne consegue in termini di benessere e consumo. Un percorso grandioso e drammatico ma già predeterminato per mancanza di alternative: o il successo o l’annientamento, come dimostrano i casi opposti dell’Asia e dell’Africa.
In ogni caso il clima spirituale e i modelli di vita sono determinati dall’Occidente, che è sempre più un continente della tecnica, piuttosto che un luogo storico e geografico, nel quale la seconda natura si afferma illimitatamente e con una forza tale da rendere inutile la storia e dal mettere fuori gioco la libertà. Secondo questo scenario che assume i tratti dell’utopia negativa, tanto il rapporto con il passato che la proiezione sul futuro perdono di significato, gli uomini accettano di vivere in una quotidianità totalmente privatizzata, pur che sia garantito il livello crescente di consumi materiali e immateriali reso possibile e garantito dallo sviluppo incessante della tecnologia. La storia come è stata sinora intesa viene meno, lo strapotere della tecnica è tale che gli uomini si possono proporre solo dei modesti aggiustamenti, non certo un cambiamento di rotta storicamente rilevante. Oltre ai benefici variamente condivisi il dominio della tecnica comporta l’accettazione del rischio e del cambiamento continuo, connaturati al suo funzionamento. Resta sullo sfondo una paura più grande che deriva dal dislivello crescente tra le conoscenze e potenzialità dei singoli e quelle illimitate e schiaccianti dell’ultima divinità, anche se tra tutte questa è stata sicuramente forgiata dagli uomini.
Il museo di cui presentiamo in questo numero di “altronovecento” una sintesi complessiva e alcuni approfondimenti sulle esposizioni permanenti, ha a che fare con le problematiche che sono state evocate, con riferimento implicito ai numerosi pensatori (e qualche storico) che si sono interrogati sugli esiti della modernità novecentesca (uno dei più noti è, tra l’altro, il bresciano Emanuele Severino). Non intendiamo inoltrarci oltre su un terreno così impervio e però il nostro museo deve tener conto e in qualche modo situarsi rispetto alle tre questioni che concernono i musei, la storia e la tecnica, cercando di trovare delle risposte, o anche delle vie di uscita, rispetto ad analisi e diagnosi di cui non sottovalutiamo, al di là di un’esposizione sommaria, l’efficacia e la profondità. Quello che non ci sembra giusto e intellettualmente onesto è comportarsi come se i problemi non esistessero, evitando le discussioni e limitandoci ad un lavoro pratico. Siccome ci siamo mossi per molto tempo, e continuiamo a farlo, su un terreno prevalentemente documentario, collezionistico, filologico, crediamo sia giunto il momento di esplicitare alcune opzioni di fondo, anche per sollecitare critiche e osservazioni, sia d’ordine generale che nel merito.
2) Ripartiamo allora della decisione di puntare le poche risorse disponibili nella Fondazione sul progetto di un grande museo del lavoro industriale. Senza ripercorrere tutta la vicenda è però necessario rievocarne alcune tappe: la sua formulazione si può far risalire al 1987, quando venne organizzato un importante convegno sulle testimonianze storico-industriali, intese come beni culturali (cfr. Memoria dell’industrializzazione. Significato e destino del patrimonio storico-industriale in Italia, a cura di P.P. Poggio e A. Garlandini, Annali della Fondazione Luigi Micheletti, n. 3, Brescia, 1989).
La proposta è presentata come lo sbocco dell’intensa attività svolta sull’archeologia industriale, con la consapevolezza più o meno avvertita della portata del cambiamento in atto, mentale e fisico, prodotto da un nuovo modo di produrre e di vivere che, in mancanza di meglio, si continua a designare con la formula del passaggio dal fordismo al postfordismo (come recita il titolo del seminario organizzato dal museo nel 1989, cfr. Postfordismo e nuova composizione sociale, CNEL, Roma 2000). Il che dovrebbe sollevare non pochi interrogativi storiografici, visto che ancora negli anni ’60 e ’70 l’ottica prevalente era quella della difficile affermazione del fordismo in un Paese povero di cultura industriale (cfr. U. Scassellati, I primi cinque anni della Fondazione Giovanni Agnelli di Torino 1966-1970, in “Società e storia”, n. 90, 2000). Un caso esemplare di accelerazione del tempo storico, accompagnato dalla perdita della prospettiva e della profondità, ovvero di sovrapposizione di temporalità diverse all’interno dello stesso periodo; in ogni caso una sfida per chi voglia affrontare il racconto del Novecento partendo dalla storia della tecnica, dai cambiamenti nel modo di produrre. Giacché questa era l’impostazione originaria su cui ci si muoveva e che abbiamo cercato di mantenere, anche se nel frattempo l’interesse della storiografia italiana per queste problematiche, invece di crescere su sollecitazione di quel che stava avvenendo nella scienza e ancor più nell’impatto sociale della tecnologia, scemava ulteriormente, lasciando il campo ad un ritorno egemonico della storia politica più tradizionale (terreno d’elezione del dibattito sul revisionismo).
L’obiettivo che ci si poneva, certamente ambizioso ma rispetto a cui cominciavano ad esserci dei riscontri in sede internazionale, era diametralmente opposto: ovvero battere la dicotomia, riconducibile a consolidate matrici culturali, e far interagire, piuttosto che cortocircuitare, ideologia e tecnologia. La proposta, individuabile attraverso i materiali di presentazione del museo, il fatto che esso dedichi le sue esposizioni permanenti ad un lungo Novecento, che fa perno sul sistema delle macchine e delle comunicazioni, rappresentano la conferma del tentativo di ricomporre e mettere a frutto i due filoni di ricerca di attività culturale, lungo i quali è cresciuta e si è affermata, pur tra grandi difficoltà, la Fondazione Micheletti.
Il secondo obiettivo tenacemente perseguito, anche a causa della scarsa attenzione se non dell’ostilità dei decisori politici, è stato quello di trovare un “pubblico” per il museo, prima che questo fisicamente esistesse e fosse visitabile. I musei, anche quelli della scienza, della tecnica, del lavoro, per i motivi altamente problematici esposti all’inizio, si moltiplicano e spesso hanno successo. Nel nostro caso questa considerazione e il riferimento ad altre esperienze, non ebbero per alcuni anni alcun effetto positivo. Il fatto che l’Italia fosse priva di un vero grande museo del lavoro industriale non veniva assunto come un incentivo a realizzarne uno dove esistevano tutti i presupposti per il suo impianto bensì come una conferma della sua inutilità. In un contesto produttivistico-calvinista, l’obiezione si riassumeva nella tesi che il museo sarebbe stato anti-economico, uno spreco di denaro pubblico.
L’argomentazione meriterebbe di essere approfondita, anche perché le stesse persone, enti, imprese, investono sempre più in azioni culturali, sia sotto forma di beneficenza o di autentico mecenatismo ovvero in base a criteri economici applicati all’arte e alla cultura. Ne consegue che l’ostilità o l’indifferenza era dovuta a motivi più profondi, più o meno consapevoli. Per alcuni un museo dell’industria novecentesca è un controsenso: l’industria è precisamente il contrario della cultura, se poi si tratta di industria contemporanea non può scattare nemmeno la molla della nostalgia. È una posizione molto diffusa, che si salda alle istanze “astoriche” che emergono dalla società, accomunando persone di idee diversissime e di ogni ceto. Secondo altri è inconcepibile che si conservino, si attribuisca un valore e si spendano dei soldi per delle macchine, strumenti, oggetti, che se hanno avuto un’utilità nel passato, sino a che sono stati interni al ciclo produzione-consumo, in quanto reperti museali sono il simbolo stesso dell’antieconomicità; conservarli è un puro lusso, uno spreco, forse anche un esempio anti-educativo dato che uno degli sforzi maggiori del nostro sistema di vita consiste nel cancellare il più rapidamente, completamente, e a minor costo, tutto ciò che è stato prodotto e utilizzato. Ci sono delle eccezioni, costituite dagli oggetti feticcio o da altre merci rare, ma la filosofia e la sfida del museo va nella direzione opposta: conservare e far “rivivere” macchine e prodotti normali, testimonianze della produzione di massa, del lavoro e dell’esistenza della gente comune, anonima, che è entrata nella storia solo come parte infinitesima di grandi processi e movimenti collettivi.
Sembrava di essere in un vicolo cieco ma proprio il lavoro di recupero di macchine, utensili, oggetti e, quando possibile, delle testimonianze ad essi relative, ci convinse che il museo aveva un suo pubblico e dei sostenitori: erano innanzitutto coloro stessi che per vari motivi avevano conservato e che conoscevano perfettamente quel patrimonio storico-industriale di cui si parlava in qualche convegno, ma che nella sua materialità, serialità e meccanicità, spesso indecifrabile, trovava scarsa attenzione anche da parte dei cultori di archeologia industriale – a meno che non avessero il background di un Kenneth Hudson o la curiosità intellettuale di Eugenio Battisti –. Vi erano barriere culturali e di conoscenza da superare, c’era una concezione della storia da contrastare, ma esistevano persone che credevano nell’utilità del museo, che lo concepivano come uno strumento per riappropriarsi del proprio passato e forse per comunicarlo a generazioni prive di memoria. Le poche uscite pubbliche compiute in occasione di una giornata del FAI, in cui fu possibile far visitare alcune nostre collezioni, una piccola mostra presso il MUAP nel centro fieristico di Montichiari, l’attuale mostra “Fabbriche” aperta presso Palazzo Martinengo a Brescia, ci confermarono che era possibile coinvolgere un pubblico adulto in un viaggio nel tempo dell’industrializzazione, e che anche con le scuole si poteva stabilire un rapporto. Il vero problema era quello di trovare un linguaggio, delle chiavi espositive, dei percorsi narrativi non senza approfondimenti analitici, per un’utenza segmentata e differenziata, sottoposta ad un surplus di offerta di consumi immateriali livellati verso la bassa qualità. Siamo quindi consapevoli che il pubblico che abbiamo trovato muovendoci nel territorio, e che anche in altre situazioni si è espresso in un movimento dal basso di riappropriazione della cultura materiale, rappresenta solo una nicchia, una risorsa destinata ad esaurirsi – come è avvenuto per il primo ciclo “spontaneo” di diffusione dei musei contadini –. Per questo motivo il museo deve valorizzare il rapporto costruito con la cerchia degli interlocutori più vicini, allargandola e consolidandola, ma da subito, nella sua impostazione, deve anche porsi obiettivi e traguardi più lontani e ambiziosi. E ciò non per una mania di grandezza ma perché è l’unica strategia con delle possibilità di successo, in una dimensione necessariamente europea e internazionale.
Da queste considerazioni ha preso corpo il progetto di un museo fortemente radicato e proiettato nello spazio provinciale e regionale (alcune delle collezioni più importanti provengono da imprese milanesi), articolato in sezioni, poli, percorsi che consentono di rievocare memoria e storia dell’industrializzazione nei luoghi stessi dove è sorta e si è affermata, attraverso un lungo processo, con accelerazioni, crisi, trasformazioni che ci conducono all’oggi e lo rendono leggibile. Ma come il locale rimanda al globale nelle dinamiche economiche così il museo punta ad una sede centrale che per dimensioni e contenuti sia in linea con le migliori realizzazioni esistenti, e soprattutto espressione di un progetto originale. La struttura a rete, con un centro sistema particolarmente avanzato in dotazioni tecnologiche e capitale umano, persegue obiettivi tra loro interdipendenti:
a) realizzazione di esposizioni innovative sui percorsi dell’industrializzazione italiana;
b) creazione di un museo in cui l’industria e la tecnica, a partire dalla loro storia, siano calate nella società e nella cultura del presente;
c) qualità ed economia nella produzione di servizi (dalla formazione, alla pubblicizzazione, alla presenza in rete);
d) studi e ricerche ad alto livello, con apporti significativi al dibattito culturale internazionale;
e) costituzione e valorizzazione di un vasto archivio documentario sui temi di interesse del museo;
f) presentazione e discussione delle più significative innovazioni tecnologiche.
3) Se questa è l’impostazione da perseguirsi attraverso gli obiettivi che sono stati indicati, conviene cominciare ad esplicitare come ci si colloca rispetto alle diagnosi evocate in apertura, tenendo conto che il lavoro sinora fatto e le azioni compiute costituiscono una prima risposta e una scelta di campo controcorrente rispetto a tendenze ritenute dominanti, ma che tali forse non sono per una caratteristica peculiare della nostra epoca: vale a dire la compresenza di una pluralità di opzioni culturali differenti e anche opposte, che si sviluppano contemporaneamente in una società capace di alimentarle – o forse di neutralizzarle – senza che una o l’altra prevalga in modo duraturo.
Così sulla questione della tecnica, mentre è difficile trovare chi la sottovaluta, per cui solo la rinuncia a pensare può farne discendere l’irrilevanza, accanto ad una passività pericolosamente maggioritaria si confrontano opzioni differenti; in un dibattito che non può essere ignorato da un progetto che si propone di diffondere almeno la consapevolezza del problema.
Rispetto a chi sostiene che il soggetto della storia non è più l’uomo ma la tecnica, o viceversa nei confronti di chi pensa che lo sviluppo delle più recenti tecnologie fornisca all’uomo la possibilità di realizzarsi pienamente, l’obiettivo del museo non può essere ovviamente quello di prendere partito, ma neppure quello di fungere da semplice cassa di risonanza di queste e molte altre diagnosi e prognosi emesse da filosofi e scienziati, sociologi e tecnologi. Il punto di attacco e il piccolo ma concreto contributo che il museo dovrebbe proporsi concerne precisamente la dimensione storica del problema: il quando, il dove e il come si sarebbero impiantati: i processi in cui siamo immersi, per altro tra loro difficilmente conciliabili, pur senza scartare, proprio sulla scorta dell’esperienza storica, l’emergere di ibridi sorprendenti. Come si vede, anche rimanendo ad un livello forse troppo astratto dell’argomentazione, la questione della tecnica rimanda a quella della storia. Se avesse ragione sino in fondo Günther Anders, il quale, all’indomani del fatidico 1968, prognosticava l’avvento di una società compiutamente “astorica”, ovvero totalmente tecnologizzata, allora il destino del museo non potrebbe che essere segnato in anticipo. Ma queste stesse diagnosi ad un tempo brillanti, disincantate e pessimistiche, esprimono una forma di resistenza e sono vicine, anche se in altro linguaggio, ad una domanda di senso storico che continua ad emergere, in forme elementari o colte, di norma incapaci di dialogare tra di loro.
Nonostante un certo terrorismo ideologico che viene esercitato da chi affronta questi temi in termini che dovrebbero essere riflessivi, ci pare che lo scavo del nodo tecnica-storia possa fornire molti materiali, dai più semplici ai più sofisticati, ad una istituzione che coniughi ricerca-documentazione-divulgazione, e che in definiva sia possibile rivendicare al museo una vera funzione conoscitiva e non puramente estetico-ornamentale. Si prendano come banco di prova due temi che sono ineludibili nel nostro lavoro: il Novecento e l’emergere della questione ecologica, vale a dire il passato storico in cui si radicano tutte le principali e più assillanti problematiche del presente e tra queste quella che sarà sempre più ultimativa per la specie umana e la materia vivente.
Le cesure radicali che vengono proposte dalla gran parte degli interpreti alimentano la cancellazione: forse le macchine possono andare oltre il Novecento e oltre l’ambiente, catapultandoci in un “mondo nuovo”, ma ciò per gli uomini non è possibile né conveniente. Il museo che stiamo cercando di costruire vorrebbe dare la possibilità, che deve essere sempre riconquistata, di guardare sul futuro senza cancellare la memoria e dilatando le dimensioni della storia.