Ivan Illich: l’economia, i bisogni, la convivialità
„Per l’economia mondo l’Italia ha un eccesso di prodotti e processi maturi. La deindustrializzazione si può evitare con una politica pubblica a sostegno di merci e servizi carichi d’innovazione.“ Da Sbilanciamoci.
„Nè le giungle e le paludi, nè le prevenzioni ideologiche hanno impedito che i poveri e i socialisti si lanciassero a capofitto nelle autostrade dei ricchi, le quali portano al mondo in cui gli economisti prendono il posto dei preti.“ Da Illich (Storia dei bisogni, 21).
„Ogni uomo s’ ingegna di procurare all’ altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica.“ Da Karl Marx (Manoscritti economico-filosofici).
Ivan Illich: l’economia, i bisogni, la convivialità.
1. Illich: Pensatore nella rete
È vero che Ivan Illich è una spina nel nostro fianco, come hanno detto appena Gianfranco Bettin e Guido Viale. Perché mette in crisi la nostra professionalità, il nostro sapere di esperti, il nostro ruolo. Un’ uomo politico, un operatore sociale, un’economista oggi non può che essere schizofrenico, come dimostra la citazione sopra, preso dal sito di “Sbilanciamoci”, un sito di opposizione bello e importante che consiglio a tutti. Per uscire dalla crisi dobbiamo produrre merci nuove. Mentre la tesi centrale del pensiero di Illich attacca proprio l’attività umana che si traduce in forma merce. Dobbiamo accettare e vivere in modo creativo questa contraddizione senza finire come sono finiti i francescani, quando Bonaventura nella sua grandiosa legenda del santo, ufficializzata e imposta come unica autentica nel 1266, scrisse: “una umiltà come quella si poteva, si, ammirare, ma non certo imitare” (Bonaventura, VI, 2)((Il papa nel 1230, appena 4 anni dalla morte del santo, dichiara non vincolanti le norme stabilite da Francesco nel suo testamento)). Noi non possiamo considerarci dispensati.
Illich non è un caso singolo, ma si colloca in una rete della quale fanno parte tanti altri nomi ancora. In ordine alfabetico: Bahro, Brecht, Fromm, Gorz, Gramsci, Keynes, Marcuse, Marx, Napoleoni, Pasolini, Polanyi. Chiedo scusa di non elencare tanti altri. Ho fatto una scelta.
Obiettivo di questo intervento è quello di superare un certo isolamento settario che colpisce ognuno di questi autori e di creare delle sinergie mettendo in rilievo quel che li unisce, anziché le loro differenze. Mi interessa in particolare la linea che riporta da Illich via Fromm a Marx. Su questa strada ricca di varianti, giri, scorciatoie e vicoli ciechi incontreremo poi tutti i nomi fatti appena e tanti altri.
Illich stesso non ha mai evidenziato questa linea((Nelle note all`articolo „Bisogni“ in: Wolfgang Sachs (a cura di): „Dizionario dello sviluppo“, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998, Illich chiama in causa questa „linea“ rifiutando però la sua „invenzione umanistica“ che si rifletterebbe nel concetto da lui rifiutato di „bisogni di base“)). La mia dunque è una ipotesi basata su due fatti: l’amicizia importante Fromm-Illich specialmente nella seconda metà degli anni ‘60, poco dopo che Fromm (1900-1980) aveva pubblicato una scelta dei “Manoscritti economico-filosofici” di Marx (“Das Menschenbild bei Marx”, 1963((Preceduto da „The sane society“, 1955))) e la lettura dell’articolo “Bisogni” nel bellissimo “Dizionario dello sviluppo” curato da Wolfgang Sachs (1992). In questo saggio Illich formula una vera e propria teoria dell’impoverimento in termini che ricordano e rimandano (secondo il mio avviso) direttamente ai “Manoscritti economico-filosofici”((Giorgio Barberis nel suo saggio „Il pensiero di Ivan Illich tra patogenesi della modernità e possibili vie di fuga“ in: Pier Paolo Poggio (a cura di): „L`Altronovecento.Comunismo eretico e pensiero critico.“ Vol. II, „Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989“, Jaca Book, Milano 2011, pag. 782, nota 29, vede anche lui „una singolare convergenza, tutta da indagare“ tra il testo marxiano e Illich)).
2. I miti del progresso
Già molto prima, alla fine degli anni ‘60, Illich ha distrutto i miti del progresso cari sia al capitalismo, sia al socialismo. Cerchiamo di riassumere il suo discorso.
L’aumento vertiginoso delle merci dovute al sistema industriale di produzione distrugge i valori d’uso che costituiscono la ricchezza degli uomini. Chi entra nel giro delle merci per soddisfare i suoi bisogni trova, da un certo punto in poi – frustrazione e dipendenza, anziché soddisfazione. Il lavoro di Illich cerca di individuare questa soglia e di chiarire il mistero dei valori di scambio che distruggono i valori d’uso. Il suo ragionamento parte dalla distruzione dell’economia di sussistenza che comporta l’espropriazione di saperi e di autonomia al punto che viene meno la capacità sia del singolo, sia delle comunità, di compiere scelte autonome, la capacità di attivarsi in forme umane di vita e di esistenza. Scrive Illich: …la divisione del lavoro, la molteplicazione delle merci e la dipendenza da esse hanno forzosamente sostituito con confezioni standardizzate quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé o fabbricava con le proprie mani((Ivan Illich: „Per una storia dei bisogni”, Mondadori, Milano 1981, 23)).
Ciò che altrimenti saprebbe fare benissimo: costruirsi una casa, curare le patologie più semplici, istruirsi, gestire le proprie controversie giuridiche e politiche, muoversi da un luogo all’altro((Roberto Mordacci nella prefazione a Ivan Illich: „Disoccupazione creativa“, Boroli editore, Milano 2005, 7; questo saggio di Illich si trova anche nel volume „Per una storia dei bisogni“, op. cit. come primo capitolo)).
Attività svolte una volta “in casa”, sul “letame proprio”, senza delega al mercato, attività che Illich chiama “vernacolari”((Ivan Illich: „Lavoro ombra“, Mondadori, Milano 1985, pag. 41 ss)).
Tuttavia dobbiamo guardarci bene dalla mitizzazione dell’economia di sussistenza. Credo che l’uomo dell’economia di sussistenza abbia sofferto e soffre anche oggi, nel terzo mondo, ristrettezze e limiti terribili che lo costringevano (costringono) a delegare, anche lui, la costruzione della casa, la salute, l’istruzione e la soluzione delle proprie controversie a poteri superiori per niente innocui. Il “saprebbe fare benissimo” è spesso un eufemismo. E per i servi della gleba antichi e moderni non esiste nemmeno la mobilità se non forzata.
Ma non sono certe provocazioni illichiane il punto cruciale((Un esempio di queste esagerazioni idealizzanti fornisce la conferenza di Majid Rahnema: „Ripensando il vernacolare“, in: AA.VV. „Politica senza il potere in una società conviviale“, L`Altra pagina, Città di Castello, 2007 (atti del convegno tenutosi a Lucca nel 2006). Leggete il romanzo „Fontamara“ di Ignazio Silone)). Quel che interessa Illich e a noi tutti è l’attacco alla divisione sociale e tecnica del lavoro (che sta a monte della questione delle merci) di cui gli effetti negativi vengono analizzati e discussi sin dai tempi di Adam Smith, la quale però viene accettata come destino inevitabile nel nome della molteplicazione miracolosa delle merci. Una specie di patto con il diavolo firmato da chi voleva uscire dalla propria ristrettezza scegliendo la libertà del mercato libero((„Il Faust“ di Goethe può essere letto come il grande dramma del capitalismo. E prima del “Faust”, in un famoso racconto della letteratura romantica, Peter Schlemihl vende la sua ombra al diavolo in cambio di una disponibilità illimitata di denaro (1813). L`ombra pare non gli serve, ma il denaro si. Non capisce che l`ombra è quella parte “inutile” senza la quale il corpo messo in luce rimane incompleto. Senza la propria ombra Schlemihl è un uomo segnato che viene escluso dalla convivenza civile. Si riscatterà come scienziato solitario. Tuttavia nella storia la scelta del patto diabolico è stata per niente libera come ha dimostrato Polanyi, bensì imposta dall`alto, dal potere politico, con la forza e con la violenza. Ma una volta istaurate le regole dell`economia di mercato queste hanno messo radici nell`anima degli uomini difficilmente da sradicare)). Infatti nel nome della produttività del lavoro non resiste valore che non viene sacrificato sull’altare dello sviluppo. E il sacrificio si presenta come “distruzione creativa”: Si distruggono tribu e comunità, ma si creano nazioni e società; si distrugge l’economia di sussistenza, ma si crea il mercato mondiale; alle antiche vie e modi di comunicazione si sostituisce il traffico moderno; al sapere popolare subentra la scuola e la scienza, alle cure in famiglia la clinica. I vantaggi dello sviluppo superano a gran lunga gli effetti collaterali negativi. Di questo è convinto tutt’ora il 99 % della popolazione dei paesi sviluppati, economisti di sinistra inclusi. Keynes, come prima di lui Marx, vede questa fede come un abbaglio storicamente necessario per risolvere i problemi economici dell’umanità. Il momento di togliere l’inganno, avverte Keynes nel 1930((John Maynard Keynes: „Prospettive economiche per i nostri nipoti“, in: “Keynes. Antologia“, a cura di Giacomo Costa, Il Mulino 1978, pag. 214-226)),
non è ancora giunto. Per almeno altri cento anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perchè quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perchè solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.
E continua:
Vedo gli uomini liberi tornare ad alcuni dei principi più solidi e autentici della religione e delle virtù tradizionali: che l’ avarizia è un vizio, l’ esazione dell’ usura una colpa, l’ amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’ utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano (Matteo 6, 26-30).
Il passaggio dalla coscienza falsa e meschina a un ordine in cui non si sviluppa la produzione di merci, bensì l’arte della vita, passa per una “rivoluzione culturale” difficilissima che presuppone come prima tappa indispensabile la riduzione dell’orario di lavoro e la liberazione del tempo libero. Sono d’accordo su questo tutti i nomi fatti sopra, da Bahro a Polanyi e questa riduzione anche oggi rimane l’indicatore più significativo di civiltà.
Quel che non funziona nel ragionamento di Keynes e di altri “riformisti” (scusate l’etichetta) viene messo in luce proprio dalla radicalità del pensiero di Illich. L’accumulazione di merci non solo non risolve la condizione di miseria degli uomini, ma la aggrava modernizzando la povertà. Illich esprime questo concetto con due tesi chiave:
a) La mutazione antropologica “dell’homo sapiens in homo miserabilis”((Ivan Illich: „Bisogni“, in: Wolfgang Sachs (a cura di): „Dizionario dello sviluppo“, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998, p. 61)).
b) La controproduttività dei sistemi tecnologici-burocratici((Ivan Illich: „Per una storia dei bisogni”, Mondadori, Milano 1981, 60 ss)).
“L’alta intensità di mercato” ha cambiato i sensi e la mente degli uomini trasformando la natura dei desideri e della speranza del “homo sapiens” in aspettative e rivendicazioni dell’uomo bisognoso, uomo impotente e incapace di “usare in modo autonomo le dote personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali”((Ibidem, p. 8)).
Nelle società basate sul modo industriale di produrre si registra non solo una “disutilità crescente delle merci” aggravata da una dipendenza crescente dal consumo (cresce dunque una dipendenza da cose sempre più inutili), ma anche una controproduttività dei sistemi tecnologici-burocratici che Illich non si stanca di illustrare soprattutto nel campo della medicina, della scuola, dell’abitare, dell’ alimentazione e della mobilità. La maggior parte delle soluzioni offerte dal progresso produce ormai effetti negativi: Il consumo passivo dell’ospedale ci fa diventare malati, la scuola ci istupidisce, l’edilizia ci imprigiona, gli alimentari ci avvelenano e il traffico blocca la comunicazione e i rapporti umani.
La perdita di autonomia diventa incapacità di libertà. L’uomo “miserabilis” è incapace di compiere la rivoluzione che lo dovrebbe liberare non solo dalla miseria, ma anche dalle costrizioni della legge economica((“Nella nuova era, la figura caratteristica è la persona che è stata presa da uno dei tentacoli del sistema sociale e inghiottita. Per questa persona non esiste più la possibilità di partecipare alla realizzazione di qualcosa in cui aveva sperato.” Illich in: “I fiumi a Nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley”, Quodlibet, Macerata, 2009, 173)). L’economia industriale non produce le condizioni materiali per la libertà dell’uomo senza modificare l’uomo profondamente. Ecco il senso del titolo marxiano di una “Critica dell’economia politica”. Muovendosi con i mezzi moderni che lo spostano come un pacco chiuso in un contenitore, il viaggiatore disimpara a viaggiare. Il trasporto minimizza lo spazio nel quale qualcosa di umano e di divino possa avvenire. O come diceva Rilke:
“Nulla più gli giunge, e nessun giorno gli accade,
e tutto ciò che incontra gli mente:
anche tu, mio Dio. E come pietra sei,
che ogni giorno lo trascina giù in fondo.”((„Dem kommt nichts mehr, dem stößt kein Tag mehr zu“. Traduzione leggermente ritoccata da me. Rainer Maria Rilke: „Il libro d`ore“ a cura di Lorenzo Gobbi, una bella edizione bilingue, Servitium editrice, Bergamo, 2008, 252. Ringrazio Fabio Perego per il suo regalo))
Per Illich non si tratta dunque di riforme da attuare: una migliore distribuzione della ricchezza, un maggiore risparmio di energia, un campionario di merci innovative- tutte cose sacrosante, ma che non rompono la sottomissione degli individui alle forze divinizzate del mercato e della produttività economica((Idem, pag. 32 ss. E` impressionante l`accettazione pressoché universale del potere del mercato che decide il destino della Grecia o del governo, l`uso del paesaggio, i programmi scolastici, le stanze e i giochi dei bambini, i nostri sogni ecc.)). Per Illich come per Fromm è in gioco l’uomo e che cosa intendiamo con “umano”((Erich Fromm: „Io difendo l`uomo“, Bompiani, Milano 2004)). Questa questione costituisce il filo rosso della linea che ho chiamato Illich-Fromm-Marx.
3. La ricchezza
Le questioni sollevate da Illich vengono affrontate da Marx in tre analisi: quella della merce e in particolare del feticismo delle merci nella prima sezione del primo volume de’ “Il Capitale”, quella dell’immiserimento e quella dell’alienazione ambedue svolte negli “Manoscritti economico-filosofici”. Le correnti maggioritarie del marxismo hanno sorvolato la questione del feticismo, hanno ritenuto falsa quella dell’immiserimento e hanno limititato lo studio dell’alienazione al lavoro in fabbrica. Fromm e altri come Korsch, Lukacs, Marcuse ecc. ritengono invece che proprio queste parti dell’opera marxiana siano quelle più attuali per comprendere la società moderna. Il pensiero di Illich getta una luce illuminante in particolare sulla teoria dell’immiserimento di Marx. In questa sede devo procedere con rapidi flash, ma penso che un approfondimento del rapporto Marx-Illich ci farà vedere anche le teorie di Illich in una nuova luce.
Il ragionamento di Marx può essere riassunto così:
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci.
Così inizia il primo volume de „IL capitale“. Qualche capitolo avanti leggiamo: Una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Ma dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici((Le citazioni sono tratte da: „Karl Marx, Antologia“, a cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer, Feltrinelli, Milano 2007, pagine 81, 89, 125, 129, 130)).
Un oggetto prodotto come merce assume, cosa incredibile, una vita propria come i tavoli che ballano, e
si contrappone (all’uomo, p.k.) come un essere estraneo, come una potenza indipendente da chi lo produce…. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali 1’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni.
Perchè, per poter vivere
ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica.
Questo processo di alienazione e di inganno si riassume nel risultato:
La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione delle cose.
Questa frase nel 1844 incomprensibile perfino ai filosofi, la metterei oggi su ogni fabbrica, su ogni scuola e su ogni edificio pubblico. Non solo che l’uomo davanti alle proprie opere diventa piccolo e incapace di controllarle, la sua stessa vita intesa come „attività vitale“ viene ridotta a un „mezzo di vita“, una strumentalizzazione che rende „all’uomo estraneo il suo proprio corpo“ , sia quello fisico, sia la natura, che è „il corpo inorganico dell’uomo“. L’ultima conseguenza è „l’estraniazione dell’uomo dall’uomo“.
Ecco l’effetto di una ricchezza che si presenta come una immane raccolta di merci: impotenza e rapporti disumani con sè stesso e con gli altri.
Marx nel 1844 è arrivato a queste conclusioni sulla via di una prima critica all’economia politica. Alla ricchezza definita in termini di valori di scambio Marx contrappone quella basata sullo sviluppo dei sensi e della sensibilità umana:
Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l’economia politica, subentri l’uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L’uomo ricco é ad un tempo l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, ‚l’ uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno. Facendo 1’ipotesi del socialismo, non soltanto la ricchezza, ma anche la povertà dell’ uomo riceve in egual misura un significato umano e quindi sociale. È il vincolo passivo che fa sentire all’uomo come bisogno la più grande delle ricchezze, l’altro uomo.“
In queste citazioni marxiane troviamo tutti i concetti fondamentali di Illich e non posso immaginarmi una definizione più bella del concetto di „convivialità“ di questa: „creare l’uomo bisognoso dell’uomo“.
4. Strategie
Illich difensore delle „attività umane originarie, quali imparare, camminare, abitare, curare, conversare“((Prefazione di Wolfgang Sachs in: Martina Kaller-Dietrich: „Ivan Illich. Vita e opere“, Edizioni dell`Asino, Roma 2011)) condivide con il giovane Marx un’immagine dell’uomo che non si sa se sopravivrà il 21esimo secolo. La natura umana è un progetto aperto e ormai è palese la forza finora irresistibile della manipolazione della natura umana effettuata dall’invasione delle merci in tutte le sfere della nostra vita. Le generazioni dopo di noi stanno davanti a questa scelta: o re-imparare ex nuovo le „attività umane originarie“ o subire i cambiamenti che si abbattono su tutti con la forza di un destino cieco. È quasi un miracolo che la coscienza di una scelta possibile sia rimasta viva ancora dopo tutte le sconfitte del Ventesimo secolo.
Penso che sia necessario di fare i conti con il secolo passato e di compiere senza paure ideologiche una analisi critica di tutti i tentativi, spesso straordinari, fatti a sottrarre l’attività umana ai dettati della produttività economica, della divisione del lavoro, della condizione di essere eterodiretti, del dominio dei mezzi sui fini; sottrarle alla passività rafforzata da tutti i tipi di droghe e illusioni. Negli ultimi anni della sua vita Illich si è dedicato ad una archeologia della civiltà del „homo sapiens“. Le domande cruciali mi pare siano queste: quanti reperti di questa civiltà troviamo nel mondo del homo miserabilis, sepolti sotto la valanga di consumi e forme consolidate di patologie moderne e come usare questi reperti per articolare la necessità più profonda della specie umana: il bisogno dell’altro uomo. È possibile ancora trarre da questo bisogno l’energia per una rivoluzione dei comportamenti, dei modi di vivere?
Illich insegna che questa strada passa per una critica degli esperti che certificano „i bisogni“, per una analisi dell’etica professionale degli intellettuali, per una riscoperta della necessità e della sofferenza, per l’uso dei valori d’uso e per un uso progressivo e non regressivo del corpo e della mente((Ivan Illich: „La perdita dei sensi”, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009 (“La perte des sens”, Paris, 2004))), o come diceva Marx, per una „umanizzazione dei sensi“.
Si tratta di bisogni non astratti o limitati a una classe o una elite culturale, ma di bisogni concreti che riguardano oggi ogni famiglia italiana. Faccio due esempi.
Il primo riguarda la distruzione dello spazio acustico e l’autodistruzione dell’udito dei giovani. La legge della controproduttività affermata da Illich si manifesta nel fatto, che la cosa che oggi si chiama musica e concerto distrugge l’udito. È un fenomeno di massa che riguarda anche gli altri sensi umani esposti a un stress mortificante in divertimentifici che non divertono.
Il secondo esempio riguarda la disoccupazione. Tutti ammettono che questa sia il destino di una massa crescente di giovani. Ma tutti fanno finta che si devono e si possono creare posti di lavoro pur ammettendo che quel che si produce è in misura crescente inutile e/o dannoso. La questione dell’occupazione è uno dei feticci più potenti della politica, un idolo che richiede sacrifici immensi, ma ai quali tutti pare siano disposti. Anche la sinistra si rifiuta di occuparsi nelle sue proposte giovanili dell’unico obiettivo realistico: quello indicato da Illich come „disoccupazione creativa“. Una specie di sciopero alla rovescio, un insieme di atti difficili da organizzare, un „volontariato“ tutto nuovo.
Troveremo molti alleati su questa strada e ne abbiamo bisogno. Utilizziamo la forza di questi alleati ufficialmente dichiarati cani morti. Riprendiamo di Brecht la sua idea (e certo non solo sua) sulla funzione del teatro: „Deve divertire senza nessun obbligo di insegnare, se non il sapere come ci si muova piacevolmente, sia col corpo che con lo spirito“. Vorrei finire leggendo una delle sue ultime poesie intitolata „Piaceri“. Suona così:
Il primo sguardo dalla finestra il mattino
il vecchio libro ritrovato
volti entusiasti
neve, il mutare delle stagioni
il giornale
il cane
la dialettica
fare la doccia, nuotare
musica antica
scarpe comode
capire
musica moderna
scrivere, piantare
viaggiare
cantare
essere gentili.
IO, UMILMENTE, MI SENTO DISPENSATO (DI MARCO FERRI)
mi permetti di esprimere qualche dubbio?
a) che Illich abbia distrutto i miti del progresso : mi fa venire in mente una frase di Marx su quelli che pensano di conquistare l’Alsazia e la Lorena saccheggiando la filosofia francese…
b) sul fatto che la moltiplicazione delle merci abbia sostituito, con confezioni standardizzate, quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé… io ricordo che il vino del contadino faceva letteralmente schifo, e faceva anche male, mentre oggi una cultura del vino (cioè una conoscenza di quello che si fa, sulla base di conoscenze di agraria e di chimica ) sembra essersi diffusa … questo non evita eccessi di sofisticazione, ma dovrebbe evitare visioni elegiache di merci fatte con le proprie mani…
c) le cure in famiglia…. impacchi con la carta gialla etc. … bello, e buona fortuna…
d) non credo ci siano dubbi sul fatto che questo tipo di sviluppo capitalistico, cioè guidato dai profitti, e quindi da chi vuole farli, possa portare alla catastrofe, una catastrofe apocalittica, vista la proliferazione esponenziale dell’umanità e il limite delle risorse… mi sembra condivisibile che dovremmo riconsiderare fini e mezzi, e se uno vuol fare il giglio del campo, non seminare e non filare, e sorella acqua e fratello lupo… perché no? ma stanno davvero così le cose? Non è per caso che la natura sia un po’ matrigna, come umilmente suggerisce Leopardi?
e) Che l’homo sapiens sia quello del passato, dove le donne contavano meno di una capra e i figli venivano scannati per far piacere a dio… mi spiace ma proprio non riesco a immaginarlo…
f) Non riesco a vedere queste sostanziali differenze tra homo sapiens e homo miserabilis… entrambi mi sembrano piuttosto miserabili, tra chi credeva nei feticci e chi nella merce come feticcio, boh, che differenza c’è?
g) L’homo miserabilis dovrebbe liberarsi dalle costrizioni delle leggi economiche… certo, questo è palese, esiste un totalitarismo del mercato, ma chi ci guiderà verso la terra promessa, gli angeli di Rilke? Alì dagli occhi azzurri?
h) Più le cose (ormai solo merci) hanno valore meno ha valore il mondo umano… sì, è tristemente vero, ma c’è stato un periodo in cui questo non è stato vero? Una società alla quale potremmo ispirarci per ridefinire il concetto di umano? La natura umana è davvero un ‘progetto aperto’ o è talmente aperto che non esiste alcun progetto? La domanda è terribile. Perché le ‘attività umane originariÈ potrebbero essere state semplicemente ‘quello che si è pensato di fare in condizioni datÈ, e quindi sono tutte da reinventare in altre condizioni… forse potremmo far ‘tesoro’ della convivialità evangelica, vivere per la natura e per gli altri, distinguere ciò che fa male da ciò che fa bene, e qui sono d’accordo su tutto, anche sulla poesia finale di Brecht … che mi sembra esprima un bisogno di sussistenza molto umano e moderno, senza pregiudiziali antitecnologiche e antiscientifiche che stanno da decenni inquinando i cervelli almeno quanto la plastica…
i) Purtroppo, né Francesco d’Assisi né Pasolini possono essere d’aiuto, bisognerà farsene una ragione, perché l’alternativa è un fastidioso torcicollo…
Questo lo dico (anche con il timore di apparire ridicolo) per un prospettiva politica, perché in una prospettiva individuale potrei anche farmi francescano, sarebbe un’esperienza ‘utile’ (e comunque transitoria) …
Pubblicato in «Lo straniero», n. 137, anno 2011