La Babele del servizio sanitario regionale lombardo
Presentazione di Enzo Ferrara
“Senza un linguaggio comune a tutti, medici, malati, sani, uomini, donne; senza un modello comune di costruzione della salute, di difesa della capacità e della possibilità di vivere; e senza un modello comune di malattia, l’assistenza sanitaria diventerà una torre di Babele, una costruzione sempre più costosa, è sempre più inefficiente”. Con queste parole, nel suo libro Medicina preventiva e partecipazione (Editrice Sindacale Italiana, Roma 1975) Ivar Oddone – medico del lavoro e presidente della Commissione medica della Camera del lavoro di Torino negli anni ’60 e ’70 del ‘900 – descriveva la sua aspettativa di un sistema di tutela della salute. Come ha fatto notare Eleonora Artesio, Assessore alla Sanità in Piemonte dal 2007 al 2010, Oddone pronunciava quasi una profezia (https://sindacalmente.org/content/medicina-e-partecipazione-e-artesio-galassia-sanita0/). Chi si occupa di salute e sanità con prospettiva davvero collettiva e quindi pubblica, sa che in questo fondamentale e delicatissimo settore delle imprese sociali le politiche durature si strutturano se e quando prevedono e domandano la responsabilità delle persone coinvolte e che non è possibile nessuna valutazione attendibile sulla loro convenienza sociale ed economica senza spazi di partecipazione e di giudizio offerti ai professionisti così come ai titolari e destinatari dei servizi e delle prestazioni.
La riforma sfociata nelle legge 883/1978 costitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – come ricorda sempre Eleonora Artesio – “nacque ad opera del movimento operaio toccato e interessato dai rischi professionali, ma illuministicamente proiettato sulle tutele della salute per tutti, sostenibili attraverso la fiscalità generale. Il governo partecipato fu praticato attraverso la democrazia rappresentativa dei comitati di gestione delle unità sociosanitarie locali, ma fu – come dice il proverbio inglese su bambini e acqua sporca – buttato insieme agli episodi di corruzione; approdando così [con il D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502] alla direzione apparentemente sterilizzata delle aziende sanitarie, antenate del governo tecnocratico”.
Fondamentalmente, il dibattito ancora ruota su questi stessi temi, salvo che la regionalizzazione della sanità definita dalla riforma del Titolo V della Costituzione (Legge costituzionale n. 3 del 2001) ha aggiunto complessità per gli inevitabili conflitti inter-istituzionali tra Stato e Regioni e la costante tensione sulla presunta insostenibilità economica del SSN.
La devastante ma non imprevedibile vicenda del Covid-19 (a fine luglio 2020 stiamo andando verso il milione di morti accertati sull’intero pianeta) ha dimostrato che le controversie della medicina trattano argomenti che meritano di essere discussi pubblicamente, anche se per la loro tecnicità sembrano rivolti più a una platea di specialisti. Siamo rimasti “sorpresi” dalla pandemia anche perché negli ultimi decenni le “nuove” politiche sanitarie industriali e occidentali non si sono occupate di salute nel senso tradizionale – abbassando per esempio la soglia del diritto ai livelli essenziali di assistenza, fino a rendere inesigibile l’accesso anche ai più bisognosi senza mai dichiararlo – ma ne hanno incoraggiato una ridefinizione a partire dagli stili di comportamento delle persone (singoli), sistematicamente sottovalutando gli aspetti di prevenzione (collettivi) anche in campo educativo. Abbiamo assistito anche alla celebrazione di espedienti, sempre indirizzati al consumo dei singoli, spacciati per cure, per i quali sia i malati sia la pubblica opinione pretendevano il riconoscimento a carico del servizio sanitario. Una Babele, appunto, “come nella profezia del prof. Oddone”. Succede – spiega ancora Eleonora Artesio – anche perché “la partecipazione (che non c’è o volutamente è stata estromessa) non è più capace di definire priorità socialmente condivise sulla base di una diffusa conoscenza dei bisogni di salute di un territorio e di una comunità” in modo da garantire “l’appropriatezza” dei servizi e delle prestazioni.
In questo contributo – che integra interventi((“Niente è in grado di sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia” (marzo/aprile 2020) e “Riforma della sanità lombarda? D’ora in poi solo a carte del tutto scoperte” (giugno/luglio 2020).)) già apparsi sulle riviste “Gli Asini” e “Medicina Democratica” – Maria Elisa Sartor docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie alla Statale di Milano e collaboratrice di ‘saluteinternazionale.info’, riflette sulle profonde incongruenze del Sistema sanitario privato, affermatosi trionfalmente negli ultimi decenni in Lombardia e indicato da molti come modello per sostituire il SSN, ma dimostratosi invece inadeguato per la difesa della salute collettiva, come nel caso dell’emergenza da coronavirus. Nella prima parte, l’autrice si sofferma sulla logiche di fondo del Sistema sanitario lombardo, che rimandano a una visione della salute in chiave essenzialmente utilitarista, mentre i box inseriti nel testo offrono aggiornamenti cronologici sugli sviluppi della situazione nella regione italiana più pesantemente colpita dal Covid-19.
È comunque più semplice denunciare gli errori, le dimenticanze e le controproduttività dei modelli esistenti, pubblici e privati; ben più complesso è comprendere le cause profonde della loro inefficacia per riproporre 42 anni dopo la stessa visione unitaria della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” che univa in una sola prospettiva gli ambienti di vita e di lavoro, richiamati dalla legge 833/1978. Per questo, la seconda parte di questo contributo sulla riforma del Sistema Sanitario Lombardo prova a ribadire i principi di “coerenza unitaria” dei modelli sanitari universalistici mettendo in guardia da semplificazioni che, proponendo scorciatoie per affrontare separatamente i problemi della salute, rischiano – proprio come sta accadendo – di indebolire l’intera struttura sanitaria e sociale, che deve operare, certamente nell’interesse primario dell’individuo bisognoso di cure, ma con ancor più determinazione nell’interesse generale della società di cui l’individuo fa parte.
È anche grazie al contributo di politici, ricercatrici e ricercatori, giornaliste/i e attiviste/i come quelli qui citati, che da anni studiano e denunciano le storture del modello sanitario privatistico non solo in Lombardia se nel nostro Paese si moltiplicano gli appelli per una revisione dei sistemi sanitari nazionale (SSN) e regionali (SSR), per esempio di Medicina Democratica (La salute non è una merce, la sanità non è un’azienda), ATTAC (Agire locale e pensare globale per una sanità pubblica fuori dal mercato) e Sbilanciamoci (In salute, giusta, sostenibile: l’Italia che vogliamo). Le istanze che accompagnano la medicina dovrebbero essere fra le più meritevoli di attenzione da parte delle agenzie politiche nazionali e internazionali. I temi del disagio e della malattia appaiono fra quelli meglio capaci di plasmare assieme, in modo univoco, le società nel mondo globale. I contorni storico-sociali delle condizioni di salute o di malattia su scala mondiale hanno già forgiato le prime due decadi del terzo millennio e – come sta drammaticamente dimostrando la pandemia – ne influenzeranno la storia molto oltre.
Niente è in grado di sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia
Noi che abitiamo la Lombardia e che siamo i diretti utenti della sua organizzazione sociosanitaria avremmo un compito da svolgere, quasi un dovere verso noi stessi e i cittadini-utenti degli altri SSR del paese. Quello di tentare di conoscere meglio che si può e di far conoscere, senza giri di parole e paludamenti e in estrema sintesi come il Servizio Sociosanitario lombardo sia stato radicalmente trasformato negli ultimi decenni. Per allontanarci poi dal modo di comunicare tipico di questi tempi, dovremmo essere guidati da un ferreo orientamento di fondo: basarci solo su dati di fatto e non utilizzare/ripetere racconti non verificati, a priori elogiativi.
Questo contributo cade in un momento in cui tutte le strutture sanitarie pubbliche e private della Regione Lombardia sono ancora chiamate al massimo impegno per cooperare nell’individuare e nel curare le persone colpite dal coronavirus. È nel quadro di questa collaborazione che dovranno essere individuate anche tutte le nuove risorse da mettere in campo, a breve e in futuro. Tuttavia non possiamo non evidenziare fin d’ora una serie di fatti e di problemi che riguardano il “Sistema sociosanitario di Regione Lombardia” e che devono essere oggetto di valutazione nelle sedi e nei tempi opportuni.
Innanzitutto cominciamo col dire che al 29 febbraio 2020, a otto giorni da quando sono emersi i primi ricoveri per coronavirus in Lombardia, le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza coronavirus erano tutte pubbliche: Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo (LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo (PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS), Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale Carlo Poma (MN). Gli ospedali appena citati sono i presidi ospedalieri o gli ospedali delle ASST Aziende socio sanitarie territoriali – una sorta di organizzazione più ospedaliera che territoriale che ridefinisce e aggrega in genere ex aziende ospedaliere, e che svolge alcune funzioni di servizio che in precedenza erano delle ex ASL lombarde. Le ASST sono articolate in POT (Presidi ospedalieri territoriali) e in PRESST (Presidi sociosanitari territoriali), le unità organizzative territoriali anche a partecipazione privata previste dalla legge regionale. In teoria le ASST dovrebbero coordinare, ma sarebbe più corretto dire che tentano, non sempre con successo, di coordinarsi con i servizi erogati dai privati del loro territorio, facenti parte di quella che con una delibera del 2016 veniva denominata Rete integrata di continuità clinico assistenziale (R.I.C.C.A.). Fra le strutture di ricovero e cura pubbliche in prima linea nell’emergenza coronavirus fino alla fine di febbraio 2020 si contavano 11 ASST sulle 27 totali e 2 IRCCS pubblici (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, uno a Milano e uno a Pavia) sui 4 IRCCS pubblici della regione((Le ATS nel territorio delle quali lavorano gli ospedali pubblici in prima linea sono 7 sulle 8 totali: ATS della Città metropolitana di Milano, ATS della Val padana, ATS della Brianza, ATS di Pavia, ATS di Brescia, ATS della Insubria. Nell’elenco manca l’ATS della Montagna. Si tratta di strutture che in altre regioni potrebbero essere associate alle ASL, in quanto delle ASL svolgono le funzioni di prevenzione medica e veterinaria, le funzioni di convenzione e organizzazione della medicina di base e delle farmacie e, oltre a ciò, svolgono in buona parte le funzioni connesse all’autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento delle strutture sanitarie, e le funzioni di committenza dei servizi da acquistare presso gli erogatori pubblici e privati a contratto con il SSR, di negoziazione delle condizioni del contratto, e di controllo sia della permanenza nel tempo dei requisiti autorizzativi e di accreditamento sia di controllo del regolare svolgimento delle attività delle strutture a contratto, quindi parte del SSR.)).
L’informazione circa la “natura pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e nella cura dei contagiati dal coronavirus è quindi la prima notizia rilevante su cui soffermarsi. È stata ricavata dall’elaborazione delle frammentarie informazioni circolanti, in quanto non è stata esplicitamente fornita dai media, almeno fino alla fine del mese di febbraio. La seconda notizia, dedotta specularmente dalla prima, è l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia, e nel periodo considerato, di un ruolo rilevante della sanità privata. Una vacanza che si constata essersi prolungata fino ai primissimi giorni di marzo.
Con l’inasprimento della crisi, il 14 marzo sono poi partiti i lavori per una nuova terapia intensiva da campo dedicata all’emergenza Covid-19 all’Ospedale San Raffaele di Milano, grazie una campagna fondi lanciata dagli influencer Chiara Ferragni e Fedez. Il 16 marzo 2020 il governatore Attilio Fontana ha avviato l’iter per la realizzazione di un grande ospedale da campo in Fiera Milano, dedicato interamente all’emergenza Covid-19 chiamando come consulente l’ex responsabile della Protezione civile Guido Bertolaso.
Solo dopo l’istituzione della zona Rossa per l’intera Lombardia una delibera regionale, approvata il 4 marzo, ha stabilito l’impiego straordinario del personale sanitario e degli ospedali privati accreditati, individuati dalla direzione generale Welfare lombarda ““per il periodo strettamente necessario a fronteggiare l’emergenza Covid-19 e comunque non oltre 60 giorni dalla sottoscrizione del protocollo d’intesa, rinnovabili in caso di ulteriore necessità”. Gli uffici della Regione non hanno ancora fornito un elenco completo delle strutture private coinvolte nella situazione di emergenza coronavirus. Secondo l’Associazione italiana degli ospedali privati (Aiop) nelle loro strutture dislocate in Lombardia, dove sono a disposizione 2.621 posti letto per la degenza e 270 posti in terapia intensiva, Il 13 marzo, risultavano ricoverati più di 700 pazienti affetti da Civid-19 dei quali quasi 100 in terapia intensiva N.d.R.
Queste sono notizie di particolare importanza perché ci troviamo nella regione che ha fatto della cosiddetta “partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia (SSL)” il punto di forza e l’elemento distintivo del suo modello.
Qualcuno non si sarà sorpreso nel constatare questi fatti incontrovertibili, forse perché aveva già da tempo presupposto che le affermazioni di principio dei governi della Lombardia sul ruolo paritario del privato rispetto al ruolo del pubblico non potessero corrispondere alla realtà. Ma altri, che vi hanno da sempre creduto, si sarebbero dovuti per la prima volta – proprio in questi giorni – legittimamente porre la seguente domanda: che ne è del ruolo “paritario” delle strutture private accreditate della sanità nell’emergenza del coronavirus in Lombardia?
Richiamiamo a questo punto sinteticamente il percorso delle riforme sanitarie nazionali e lombarde perché pensiamo possa aiutare a spiegare con compiutezza i fatti di oggi.
Prima della riforma sanitaria di Formigoni del 1997, il Servizio sanitario di questa regione, come tutti gli altri in Italia, si articolava in strutture locali organizzate in distretti (in USSL, inizialmente su base comunale, poi, ridimensionate nel numero e divenute, nei primi anni ‘90, ASL). Strutture che svolgevano direttamente al proprio interno, attraverso le proprie unità organizzative (uffici amministrativi, unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori, ecc.) le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta dei servizi e di controllo delle attività svolte. Si trattava di un governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti (che in Lombardia si estendeva anche al socio-assistenziale), con un sistema organizzativo regionale che presentava una struttura di tipo modulare (che si ripeteva cioè secondo lo stesso modulo nelle diverse aree), una gestione strategica regionale unitaria, riconducibile a una linea di comando definita, che rispondeva, per lo più con efficacia, alle esigenze immediate e di medio-lungo periodo dei territori, attraverso l’integrazione delle funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione e controllo su una base locale.
La prima svolta nella configurazione del SSN, che ha prodotto un significativo cambiamento, si è avuta in ambito nazionale nei primi anni ‘90, con la cosiddetta controriforma sanitaria. Quelle che poi saranno identificate come le principali precondizioni della privatizzazione del SSN in generale e dei SSR sono state introdotte già da allora:
- aziendalizzazione: metodi e strumenti manageriali tipici delle aziende profit venivano applicati alle strutture pubbliche;
- regionalizzazione: misure che consentivano libertà di definizione delle politiche sanitarie a livello regionale e facilitavano quindi il differenziarsi delle finalità e delle politiche nelle diverse parti del paese (quindi il frazionamento del SSN e il decentramento legislativo, non solo amministrativo, avrebbero di fatto offerto la possibilità anche di eventuali sperimentazioni creative riferite ai processi di privatizzazione);
- a metà degli anni Novanta, introduzione di un nuovo sistema di pagamento dei servizi sanitari attraverso la definizione a livello regionale di tariffe per le singole prestazioni sanitarie (sistema di retribuzione che offriva ai nuovi potenziali entranti privati nel SSR – per riferirsi alla sola componente privata del Servizio sanitario regionale – la possibilità di commisurare l’entità potenziale del business, consentendo loro anche di stimare i compensi futuri).
Su questa base normativa nazionale, nel 1997, la Lombardia dà una sterzata decisa verso un modello pensato per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel SSR. Il modello da cui il governo della Lombardia trae ispirazione è la riforma britannica di qualche anno prima, che introduceva i quasi-mercati nella sanità di quel paese, cambiando consistentemente il modello Beveridge originario (1948). Il governo di Formigoni, al pari dei governi conservatori oltremanica, sceglie anche in Lombardia di separare le funzioni che prima erano integrate, in modo che la funzione di erogazione potesse essere contesa dal privato e affidata sempre più ad esso. La Regione, a partire da quel momento, programma – ma lo fa sempre meno nelle modalità della pianificazione, storicamente intese – e soprattutto fa da committente e quindi compra servizi dai soggetti erogatori, sia dalle strutture pubbliche del SSR (che diventano nella pratica “aziende” gestite via via in modo sempre più manageriale, e impropriamente, in modo contraddittorio, definite “autonome” dalla normativa) sia dai soggetti privati, che entrano nel quasi-mercato della sanità con orientamenti profit e una certa vis concorrenziale. In un primo momento, fra il 1997 e i primi anni del 2000, la Regione tralascia di accreditare i suoi fornitori in ambito sanitario, estendendo le convenzioni preesistenti e consentendo la fornitura dei servizi del SSR a strutture private che si auto-valutavano come idonee e che, per un certo lasso di tempo, di fatto non verranno controllate.
Ma non basta. Per far sì che questa riforma radicale in senso privatistico del modello organizzativo sanitario lombardo venisse accolta e approvata con il massimo del consenso della opinione pubblica, si è fatto ricorso a concettualizzazioni teoriche che legittimassero questa scelta, supportati da un’elaborazione accademica di pari orientamento ideologico. Le parole chiave maggiormente utilizzate nel corso dei decenni dal governo di centro destra per consentire al processo di privatizzazione di svilupparsi sono state: “sussidiarietà” (nella versione orizzontale), e – venendo al punto che più ci interessa qui, con riferimento alle strutture di erogazione sia pubbliche sia private – “pariteticità” di partecipazione al SSR e “parità” delle condizioni nella fornitura dei servizi sanitari.
La condizione di sostanziale parità degli erogatori pubblici e privati di servizi sanitari, accreditati e a contratto, secondo la Regione, andava considerata sotto diversi profili:
- parità di diritti: l’autonomia organizzativa, gestionale, amministrativa, tecnica delle strutture pubbliche, affermata dalla normativa, voleva corrispondere all’autonomia dal soggetto pubblico, naturalmente esistente per le strutture di natura privata. Ma se questa caratteristica risulta presente ed evidente per quanto riguarda il privato, nel caso del pubblico, l’autonomia – pur supposta e richiamata dalle delibere – è sempre stata solo apparente, e non poteva che essere così in un SSN dai caratteri pubblicistici, in particolare se la nomina dei direttori generali delle aziende pubbliche derivava da scelte politiche dell’Ente Regione. Anche da parte dei rapporti OASI della Bocconi in Lombardia si è constatata l’esistenza di una sorta di neocentralismo su base regionale, che non poteva lasciare molta autonomia alle strutture pubbliche facenti parte del sistema. Ossia, in Lombardia, mentre si combatteva il centralismo statalista, si realizzava un centralismo regionalista.
- parità di doveri delle strutture. Anche questo profilo di parità non può essere confermato: la committenza pubblica dei servizi vale sì sia per l’erogatore pubblico che per il privato, ma è più cogente per il soggetto pubblico, che deve garantire una gamma di funzioni e di servizi molto più estesa, anche se questo volume di attività corrisponde a volumi di ricompense per prestazioni mediamente unitariamente meno cospicui, perché il privato sceglie quali servizi intende offrire, e normalmente sono quelli che costano unitariamente di più al SSR; le strutture pubbliche poi devono sottoporre all’approvazione della Regione le loro decisioni strategiche, organizzative e di bilancio, che non sempre vengono approvate. Il che dimostra anche la non pari autonomia di gestione rispetto alle strutture della sanità private. Per la gestione delle strutture serve disporre dei fattori produttivi (risorse finanziare, risorse di personale, risorse tecnologiche, che non sempre sono a disposizione delle strutture pubbliche, in quanto il loro livello dipende dalle scelte delle istituzioni regionali e nazionali.
- parità di trattamento da parte della Regione: modalità di pagamento, interazioni, formalizzazione del rapporto tramite la negoziazione e il contratto fra committente pubblico ed erogatori privati e pubblici non sono gli stessi (schemi contrattuali uguali non comportano un pari trattamento contrattuale). Si riscontrano notevoli differenze nella realtà fra i trattamenti rivolti al settore pubblico rispetto al settore privato, a detta degli operatori. Un’area di differenziazione del trattamento riguarda le pratiche di accreditamento e di controllo.
- pari orientamento valoriale. La meno dimostrabile di tutte, e forse la più evocata, è la supposta sostanziale parità di orientamento valoriale o della finalità ultima fra i due soggetti pubblico e privato: l’utilità pubblica, affermazione che nega la fondamentale rilevanza del profitto per la sanità privata, anche nelle vesti di fornitore del SSL.
- pari dignità dei soggetti pubblici e privati, un modo per dire che al soggetto pubblico non dovrebbe mai essere assegnato – in automatico – un ruolo sovraordinato nei confronti del privato, senza verificare cosa è in grado di fare il soggetto privato.
Le teorie della parità pubblico e privato, che fanno ritenere coincidenti di fatto i due tipi di soggetti, perché quindi non dovrebbero farci naturalmente presupporre anche una pari disponibilità dei due soggetti a farsi carico delle emergenze sanitarie?
Ma questo SSR della Lombardia è davvero paritario? Da quanto detto in precedenza, pare proprio di no. Alla prova della prima emergenza, dovuta ad una minaccia epidemica, la realtà sembra smascherare del tutto l’ideologia. Soprattutto oggi le teorie appena richiamate risultano prive di ogni fondamento. E quindi lo sono anche le domande che ne vengono stimolate. Ma dove stanno i soggetti erogatori privati? Gli innumerevoli IRCCS privati e le strutture di ricovero di eccellenza private? In quale modo gli erogatori privati hanno contribuito fino ad oggi alla soluzione dell’emergenza coronavirus?
Ma ci sono altre importanti considerazioni da fare. Qui vengono in evidenza le contraddizioni di un modello di servizio sanitario regionale misto pubblico-privato, affiancato da un mercato diretto solo privato, retti sia quello interno al SSL sia quello diretto, dagli stessi operatori privati, che sono i fornitori del Servizio sanitario regionale e del libero mercato.
Uno dei due soggetti non risponde subito. Il che corrisponde a dire che la sua disponibilità è incerta ed è quindi da richiedere. La presenza di una disponibilità è sempre quindi da verificare. E il SSR deve sottostare – di conseguenza – alla volontà dei soggetti privati. La disponibilità poi ad offrire servizi extra-contratto costa ancora di più al SSR; si hanno quindi costi elevati di transazione: risorse di tempo spese nella negoziazione e risorse finanziarie aggiuntive per il carico straordinario del servizio richiesto.
Insomma il modello del “Sistema sanitario di Regione Lombardia”, come viene denominato nella normativa regionale per sottolineare la sua diversità rispetto a qualsivoglia altro Servizio Sanitario regionale del nostro SSN, mostra una certa rigidità, lentezza di risposta, ed è più costoso.
Proviamo ora a considerare il probabile punto di vista dell’erogatore privato, il grande gruppo della sanità privata. Innanzitutto ricordiamo che non si è reso disponibile fin da subito, dall’inizio della crisi. Come si spiega questo fatto? Primo, ciò che fa la sanità privata per il SSL è formalizzato in un contratto e in un budget di fornitura. E questo di per sé significa dover riconsiderare da parte dei due contraenti Regione e strutture della sanità privata, gruppo per gruppo, struttura per struttura, gli accordi già stabiliti. La sanità privata è un interlocutore che non si mette al servizio spontaneamente, ma contratta sempre le condizioni del suo servizio, naturalmente quanto più possibile a suo favore.
Ma un altro aspetto è che la sanità privata si sta trovando di fronte al fatto che la partecipazione all’emergenza sanitaria finisce per generare ed enfatizzare una delle più grandi contraddizioni del modello appena descritto. Contrappone tipi diversi di beneficiari. Il cittadino/paziente colpito dal coronavirus vs il cliente pagante. I due beneficiari del servizio sono su fronti opposti. L’ospedale privato, fornitore del SSR e player sul mercato libero, perché autorizzato a esserlo dalla istituzione pubblica (Direzione generale del welfare della Regione Lombardia e sue articolazioni organizzative), quale fra i due beneficiari citati dovrebbe principalmente servire? il cittadino paziente del SSR contagiato o i propri clienti paganti, che proprio perché pagano di tasca loro, o attraverso i loro intermediari (assicurazioni, mutue, ecc.), non intendono correre rischi ulteriori? con ogni probabilità non può fare congiuntamente l’uno e l’altro senza pregiudicarsi una quota del suo mercato, principalmente quello diretto (quello al di fuori dal SSN). In altre parole, se partecipasse all’emergenza correrebbe il rischio di perdere la sua clientela privata. È per questo, e non solo quindi per motivi strettamente medico-clinici, che la collaborazione che si prospetterà per risolvere l’emergenza del coronavirus avverrà probabilmente in modalità tali da non mescolare i due ambiti del servizio nei confronti delle due diverse classi di pazienti.
Ecco un’altra evidente differenziazione fra pubblico e privato che è esplicativa di un impedimento di fondo dato dal modello.
Il modello della separazione delle funzioni alla base della privatizzazione spinta del SSR, con il suo corollario della supposta – ma non dimostrata – parità fra erogatore pubblico e privato, mette la Lombardia nelle condizioni di operare pienamente utilizzando ogni sua componente, pubblica o privata che sia? No.
In situazione analoga il 16 marzo il governo spagnolo ha messo l’intera sanità privata al servizio del Sistema Nacional de Salud, il sistema sanitario nazionale. Le aziende con materiale sanitario avranno 48 ore di tempo per informare l’esecutivo su cosa hanno a disposizione e le comunità autonome spagnole, corrispondenti alle nostre regioni, potranno disporre di “tutti i mezzi” necessari del sistema privato per far fronte all’epidemia comprese apparecchiature mediche come maschere chirurgiche, guanti e occhiali protettivi tenuti in stock da aziende o individui. Mentre anche per la già citata messa a disposizione dei posti letto della sanità privata si tratta di una disponibilità tardiva (un certo lasso di tempo dopo l’avvio della emergenza da coronavirus), obbligata di fronte all’opinione pubblica con la situazione fuori controllo e probabilmente, anche ben compensata visti gli ingenti stanziamenti promessi dal governo N.d.R.
Le ricadute in termini di gestione del SSL sembrano essere quelle di un non funzionamento pieno del modello, in certi casi. Soprattutto nelle emergenze di salute pubblica, ovvero durante eventi straordinari che riguardano tutti noi cittadini. E questo, nonostante le aspettative della opinione pubblica. Il cittadino lombardo “vede” infatti il privato (accreditato e a contratto) come fosse davvero “pari” al pubblico – e quindi parimenti coinvolto per principio e nella realtà nella sanità istituzionale regionale – anche perché è così che le istituzioni lo descrivono sui media. È emblematica la dichiarazione, all’interno di un programma televisivo di informazione del 1 marzo sulla Rete 4, pronunciata da un viceministro che lavora per il principale gruppo economico italiano della sanità privata: “La sanità privata (intendeva quella accreditata e a contratto, ndr) è il SSN.” Ma è proprio così? Se fosse davvero così, bisognerebbe chiedersi perché il governatore della regione Lombardia (lo stesso 1 marzo) ringrazia la sanità privata e le sue strutture per essere “entrate” con la loro disponibilità nel “nostro” sistema, nel momento in cui 14 medici danno la propria disponibilità a “collaborare” (Dire, Roma, 18:15 01 03 20).
D’altra parte, la “sanità privata” si autocelebra in tutti i modi invece come “settore privato”, in quanto è proprio quella in realtà la sua natura, ed è quella anche la sua prospettiva di espansione per quanto riguarda il business. Tanto è vero che anche in piena emergenza si occupa molto e bene del suo marketing strategico.
L’emergenza del coronavirus è una cartina di tornasole. Ma, se si va un po’ oltre potremmo anche ammettere che ci sono altre considerazioni che ci fanno esprimere preoccupazione dal punto di vista del paziente cittadino. Quanto ci rassicura la consistente presenza della sanità privata di fronte ad iniziative che per la loro criticità e gravità devono essere imposte da una istituzione pubblica agli erogatori e che richiedono, da parte del management e del personale sanitario, una abnegazione e una forte motivazione deontologica più che un orientamento al profitto o, per quanto riguarda il personale, una motivazione circoscritta ad interessi personali, economici o di altro tipo?
La garanzia della salute pubblica sembra venire da una sanità pubblica finanziata, integrata, ben organizzata e controllata, insomma ben governata. Esattamente la politica sanitaria opposta a quella realizzata nel corso degli ultimi decenni, basata sulla “governance”, cioè su un governo e un controllo laschi sugli aspetti maggiormente critici del sistema. Serve allora un altro modello organizzativo: molto integrato. Va decisamente invertita la rotta del SSR della Lombardia.
Riforma della sanità lombarda? D’ora in poi solo a carte del tutto scoperte
SSN e SSR: improvvisamente se ne discute
La pandemia Covid-19, dunque è stata anche un test di tenuta del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel suo insieme e nelle sue articolazioni regionali (SSR). Alla prova del virus, le persone hanno visto il Servizio Sanitario della propria regione reggere bene o soccombere, in parte o del tutto. Per la prima volta, anche chi non se ne era mai interessato, si è forse domandato se impianto e funzionamento del proprio SSR fossero adeguati. La risposta è stata negativa per qualcuno. Non erano adeguati. Ma non è stato così per tutti i SSR, alcuni sono stati del tutto all’altezza della sfida, almeno per ora.
Un po’ alla volta è stato possibile intendere che esistevano delle differenze, a parità o quasi di diffusione del virus. Si è capito che una configurazione di SSR era meglio di un’altra perché facilitava comportamenti di contrasto della pandemia opportuni ed efficaci e aveva risvolti positivi sulla velocità di intervento. Nei casi di una risposta apparsa appropriata a posteriori, giustamente non si è pensato che questi buoni risultati potessero essere dovuti ad una combinazione casuale di fattori positivi. Anche se, in un caso almeno, il fortunato ritorno in Italia e il contemporaneo incarico all’Università di Padova di un medico romano di fama internazionale, esperto nello studio e controllo delle epidemie, e disponibile a offrirsi come consulente del SSR, può essere stato un fattore decisivo, che si è aggiunto ad altri più strutturali, per il riconosciuto successo di una delle regioni del Nord fra le più colpite: il Veneto.
SSR Lombardia: cambiano le ragioni del suo stare alla ribalta
La Lombardia è stata forse la regione che ha stimolato il maggior numero di domande sull’efficacia del suo Servizio Sanitario sia presso i propri cittadini sia nel Paese. Come si potevano spiegare esiti così catastrofici al passaggio della pandemia in una Regione supposta eccellente nel settore della sanità? 16000 morti circa dall’inizio della pandemia ai primi giorni di giugno 2020. Dagli altari alla polvere, perché? Data per scontata l’impreparazione dovuta alla non disponibilità dei vaccini e di cure farmacologiche adeguate, comunque trasversale a tutte le regioni, per quanto riguarda altri tipi di impreparazione o di inadeguatezza, da identificare, si trattava di carenze gestionali o di carenze dovute ad aspetti più di fondo? Per esempio,l’insufficienza strutturale del modello.
Si è passati dal considerare – innanzitutto e prevalentemente – le caratteristiche del virus, e con esse la sua difficile identificazione, conoscenza, la possibile diffusione e le modalità opportune del contrasto, al considerare gli errori procedurali della Regione e, per finire, si è arrivati a porsi il problema di quanto avesse contato nel disastro la configurazione del modello misto pubblico-privato in una specifica versione. E poi, dallo spostamento di focus su aspetti diversi del problema si è passati alla considerazione delle evidenti connessioni fra tutti gli aspetti che erano stati considerati.
Si è compreso un po’ alla volta che gli errori procedurali (ormai accertati dalla ricostruzione giornalistica), l’insufficiente possibilità di intervento extra-ospedaliero (anche questa accertata nelle situazioni più drammatiche), il ritardato e limitato intervento della componente privata del sistema, e il mancato o insufficiente esercizio delle responsabilità da parte del governo regionale della sanità, non erano disgiunti da come era stato concepito e realizzato il modello di SSR.
Da qui, ha avuto origine una sacrosanta richiesta di informazione e di trasparenza (ancora purtroppo in certi casi disattesa) e si è imposto da più parti il tema di una riconsiderazione della macro-organizzazione dei SSR meno efficaci.
In particolare in Lombardia si sta sempre più affermando – sottotraccia, ma talvolta emerge in superficie – l’intenzione di una riforma del modello, anche da parte della maggioranza al governo della Regione. Questa svolta sarebbe stata del tutto impensabile fino a qualche settimana fa. Ma, se sta accadendo tutto questo, è anche per un incredibile combinarsi di eventi. Una fortuita opportunità di modifica del SSR della Lombardia sta fornendo da subito l’occasione di proporre una sua revisione durante la fase 3 della pandemia, e sta costringendo gli attori in gioco ad una accelerazione di tale processo, in quanto esiste un vincolo temporale stringente. La causadella considerazione di una possibile revisione della riforma del SSR è una disposizione di legge del dicembre 2015 (LR 41/2015). Essa prevede che entro l’11 agosto del 2020 si svolga la verifica della macro configurazione organizzativa del SSR derivante dalla legge regionale di riforma di Maroni (LR 23/2015), che include la verifica delle Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e delle Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST). Quella disposizione – che al governo della Regione Lombardia fino al 2019 era sembrata una iattura da evitare, tanto da indurre il Presidente della regione Maroni a sottoscrivere nel 2016 un protocollo con il Ministro della Salute Lorenzin, con cui si tentava di aggirare l’applicazione della disposizione stessa –, appare in questi giorni come un’opportunità per il governo Fontana, in quanto consente di riconfigurare in parte un modello risultato inviso ai cittadini lombardi. Si tratterà quindi di formulare una valutazione sulla riforma del 2015 entro la scadenza estiva, cui seguirà con ogni probabilità una proposta di riforma.
È al tempo stesso interessante e preoccupante notare che, per fornire idee di riforma, si stiano facendo avanti coloro che dal 1995 fino al 2013 (sono gli anni dei governi Formigoni) hanno ideato paradigmi, imposto principi costitutivi e costituito i presupposti strutturali del SSR di oggi. Non a caso la riforma Maroni si è auto-qualificata come “evoluzione” della Riforma Formigoni.
Riforma necessaria … Ma serve anche un metodo di verifica delle proposte in campo
Facciamo un passo indietro. Il SSN nelle regioni e nelle province autonome ha assunto forme diverse, e non persegue, in ogni sua realizzazione regionale, nello stesso modo, il dettato della Costituzione italiana. È il risultato di orientamenti politici dissimili e presenta gradi di privatizzazione diversi.
Se si tratta di proporre una modificazione del modello in Lombardia, non ci si può aspettare, qui come forse altrove, una ricomposizione miracolosa dei punti di vista e degli interessi in campo a livello regionale, tale da far nascere una sola proposta di riaggiustamento del modello di sanità che metta tutti d’accordo.
Molti sono i soggetti e le forze che si stanno predisponendo a proporre soluzioni ai gravi problemi di mancata tutela del cittadino evidenziati dal SSR della Lombardia, cercando di non perdere il terreno conquistato in termini di posizionamenti strategici nel quasi-mercato della sanità della regione o il consenso verso i propri elettori. E poi, non si tratta certo solo di qualche criticità cui contrapporre un rimedio, un correttivo parziale (per esempio, non sarebbe opportuno affermare “teniamo il modello misto pubblico privato così come è ora e aggiungiamo ciò che manca nella medicina di territorio…”). Di chiunque sia l’iniziativa, la proposta di riforma del SSR lombardo richiede prima di tutto la conoscenza dello stato di fatto e, in ogni caso, che venga formulato un vero progetto (di massima e dettagliato), come si trattasse di dover costruire un ponte. E come nel caso del ponte, è sulla base di un buon progetto che può essere costruito un efficace SSR e per effetto di una costante buona manutenzione, poggiata su efficaci controlli del suo funzionamento, che il SSR può continuare a svolgere al meglio le sue funzioni.
Il progetto di riforma
Quali sono i presupposti di un buon progetto? Il progetto deve essere qualcosa di unitario, coerente, logico. Ben costruito in ogni sua parte. Di massima e di dettaglio.
Nel caso del ponte, le funzioni sono molto chiaramente identificabili: collegare due porzioni di territorio consentendo e facilitando la mobilità (di persone e merci) in sicurezza, in entrambe le direzioni. Molto più articolate sono invece le funzioni da garantire nel caso del SSR, e meno evidenti le sue caratteristiche, trattandosi di un artefatto molto più complesso, che svolge le sue funzioni nel territorio regionale, e le cui realizzazioni sono spesso intangibili e difficilmente e compiutamente conoscibili negli esiti, nel loro complesso. Soprattutto per i cittadini (anche se questi sperimentano in modo diretto, e subito, ciò che non funziona). E, per finire, si presuppone che il Servizio sanitario regionale debba essere in armonia con altri SSR in ambito nazionale, essendo riconducibile al Servizio Sanitario Nazionale.
La buona salute è l’esito atteso di questo artefatto, il mantenimento in vita delle persone in buone condizioni di salute. Nella fase più acuta della pandemia è proprio quello che è mancato, e non solo perché il virus era sconosciuto e senza una specifica cura. È mancata la capacità del Servizio sanitario lombardo di prendersi cura adeguatamente (per quanto possibile, data l’assenza di vaccini e di farmaci per la cura) degli operatori sanitari e di coloro che avevano la necessità di essere comunque assistiti. Sono stati abbandonati invece a loro stessi e per questa ragione moltissime persone sono tragicamente decedute.
Quando dico che serve un progetto vero e proprio, intendo dire che la proposta di riforma che si racchiuderà in un progetto, pur stimolata da una pluralità di idee, non potrà essere una ricomposizione scomposta di una miscellanea di idee diverse. Un pezzo della proposta A di una certa fonte che si combini con una frazione della proposta B di un’altra fonte, giusto per accontentare tutte le parti che vogliono dire la loro. Il progetto non potrà essere costituito da frammenti così procurati. Se così fosse, sarebbe come se al progetto di un ponte basato sulla logica costruttiva della tensione (struttura a tensione) si aggiungessero elementi costruttivi di un ponte ideato su altri principi costruttivi (per esempio, quelli di una struttura ad arco). Difficilmente il ponte potrebbe stare in piedi.
Se ci sarà più di una proposta da discutere, che contiene un modello di SSR coerente al suo interno, questa, dovrà essere considerata o scartata nel confronto con un modello altrettanto coerente, di altro tipo, contenuto in un’altra proposta, sua concorrente.
Vorrei soffermarmi ancora un po’ di più sul progetto e su cosa renda diversa una proposta di riforma da un’altra: il suo rispondere o meno pienamente al dettato costituzionale; la sua efficacia nel garantire i diritti di salute; la misura effettiva della centralità del paziente; l’intrinseca capacità di realizzare sia le funzioni che servono a prevenire gli stati di malattia o di infortunio sia le funzioni che consentono di erogare le prestazioni rivolte al cittadino/paziente necessarie alla sua salute; l’appropriatezza dei servizi offerti; in quale quota mantiene in mano pubblica l’erogazione dei servizi; il grado di controllo effettivo delle prestazioni degli erogatori, soprattutto privati, nel caso di modello misto. Essendo i servizi pagati dal contribuente, i due ultimi aspetti risultano fondamentali.
Spero che gli attori che si sentono chiamati alla realizzazione di una proposta di riforma capiscano che la fase che attraversiamo di pandemia – che ha prodotto un numero impensabile di vittime in Lombardia, e anche per gli impatti che essa avrà nel futuro di tutti noi – richiede loro, diversamente che per il passato, un gioco a carte scoperte fra “giocatori” evoluti e responsabili. Almeno, è augurabile, responsabili fino al punto di dichiarare gli obiettivi che intendono perseguire.
I principi costruttivi del SSR potrebbero essere quelli già usati per gli SSR “integrati” e maggiormente pubblici (Servizi Sanitari Regionali che, alla prova del virus, hanno dimostrato di funzionare meglio – e in questo caso non occorrerebbe cercare molto altrove) o, teoricamente, se ne potrebbero proporre anche di nuovi. Prima però di scegliere una proposta, tutti i principi costruttivi alla base di tutti gli eventuali progetti di riforma in campo (per il ponte: tecnica a tensione o ad arco? o quale altra?) dovranno essere – e si dovrà pretendere che siano – esaustivamente esplicitati. E questo per avere preventivamente un’idea degli effetti che i principi, una volta implementati, tenderanno a produrre.
Per capirci: affermare, come hanno fatto gli ultimi due governi lombardi, che la politica della Presa in Carico dei cronici e/o fragili dei governi Maroni e Fontana (nota come la politica della PIC) è una mera innovazione di servizio rivolta ai malati cronici basata su una delle due logiche di People Health Management (PHM) di derivazione statunitense utilizzate in Italia, non è esplicitare del tutto i criteri costruttivi della proposta, mentre completare tali dichiarazioni aggiungendo che la politica della PIC realizza molteplici sottosistemi autonomi all’interno del SSR – integrati, in prevalenza privati, indipendenti e non sottoposti a uno stretto controllo pubblico –, lo è. Si potrebbero, per esempio, dimostrare ampiamente i principi costruttivi di questa politica realizzando una mappa che evidenzi le funzioni che vengono riaggregate e integrate in capo ai gestori della PIC.
Nel caso della PIC, i criteri costruttivi di tale politica, che modificano l’impianto complessivo del SSR lombardo e non sono stati mai esplicitati da chi li ha proposti, sono i seguenti: “integrare la quasi totalità delle funzioni tipiche del SSR alla sua base, dentro organizzazioni “gestori della PIC”, nuove o già entrate nel SSR, collocate al livello della medicina di base, in una porzione del Servizio Sanitario Regionale molto critica, quella che consente ai cittadini l’accesso ai servizi”. Le funzioni/attività integrate dei gestori della PIC sono: dimensionamento del volume dei servizi di presa in carico erogabili; reclutamento dei cronici tramite i Medici di medicina generale (MMG); stipula di un contratto privatistico con il paziente: il “patto di cura”; pianificazione dell’assistenza caso per caso; committenza ad altri erogatori e/o auto-committenza dei servizi per i propri assistiti. In altre parole, i gestori e le loro filiere diventano una molteplicità di piccoli o grandi Servizi sanitari a sé stanti in un più esteso Servizio Sanitario Regionale.
Se i criteri costruttivi del modello non venissero esplicitati – come nell’esempio appena fornito – coloro che li dovrebbero comprendere per discuterli nelle sedi istituzionali (i politici e i loro staff tecnici) dovrebbero esser chiamati a ricavarli per deduzione dalla proposta, e dovrebbero fare il massimo per rendere note ai cittadini le conseguenze delle loro applicazioni. I principi/criteri costruttivi vanno esplicitati per quello che sono in realtà e, una volta esplicitati, si devono poter discutere e, avendoli ben compresi, il passo successivo sarà quello di misurarli e verificarli, soprattutto osservandoli nelle realizzazioni già disponibili in altri SSR. O, se nuovi, adoperarsi perché vengano messi alla prova.
Se ritenuti validi e quindi approvati, da questi principi si può consapevolmente dar forma ad un progetto che li realizzi, che sia coerente al suo interno. Progetto che non può essere ulteriormente trasformato nella fase di implementazione, non rispettando i principi costruttivi stessi (anche in questa fase, si rende indispensabile una sorveglianza).
La riforma, insomma, deve nascere da una sorta di progetto architettonico. Deve far in modo che si possano realizzare le funzioni che consentono di attuare i principi costituzionali di tutela della salute. Non tutte le proposte di riforma realizzano pienamente i principi costituzionali e non è sempre facile comprendere quali siano le proposte che davvero li realizzano. Ci sono modelli di SSR che facilitano la privatizzazione, modelli che la contengono, modelli che tendono ad escluderla. Per esempio, la privatizzazione del Servizio, con un ruolo istituzionale del pubblico debole, realizza o contrasta i principi costituzionali? Una volta inteso quali finalità e quali principi cardine del modello si intendano sostenere, si può procedere alla definizione di dettaglio del progetto/proposta.
Nel passato della Lombardia, quali riforme da Formigoni in poi e quali ricadute per l’oggi
La sanità in Lombardia oggi soffre soprattutto degli esiti di lungo periodo dell’impianto e degli interventi realizzati dai governi Formigoni (4 mandati, uno interrotto prima della scadenza naturale per motivi giudiziari). Brevemente tento di riassumerli qui, rimandando gli approfondimenti ad altri successivi contributi:
Babele del servizio sanitario regionale lombardo
di Maria Elisa Sartor
Presentazione di Enzo Ferrara
“Senza un linguaggio comune a tutti, medici, malati, sani, uomini, donne; senza un modello comune di costruzione della salute, di difesa della capacità e della possibilità di vivere; e senza un modello comune di malattia, l’assistenza sanitaria diventerà una torre di Babele, una costruzione sempre più costosa, è sempre più inefficiente”. Con queste parole, nel suo libro Medicina preventiva e partecipazione (Editrice Sindacale Italiana, Roma 1975) Ivar Oddone – medico del lavoro e presidente della Commissione medica della Camera del lavoro di Torino negli anni ’60 e ’70 del ‘900 – descriveva la sua aspettativa di un sistema di tutela della salute. Come ha fatto notare Eleonora Artesio, Assessore alla Sanità in Piemonte dal 2007 al 2010, Oddone pronunciava quasi una profezia (https://sindacalmente.org/content/medicina-e-partecipazione-e-artesio-galassia-sanita0/). Chi si occupa di salute e sanità con prospettiva davvero collettiva e quindi pubblica, sa che in questo fondamentale e delicatissimo settore delle imprese sociali le politiche durature si strutturano se e quando prevedono e domandano la responsabilità delle persone coinvolte e che non è possibile nessuna valutazione attendibile sulla loro convenienza sociale ed economica senza spazi di partecipazione e di giudizio offerti ai professionisti così come ai titolari e destinatari dei servizi e delle prestazioni.
La riforma sfociata nelle legge 883/1978 costitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – come ricorda sempre Eleonora Artesio – “nacque ad opera del movimento operaio toccato e interessato dai rischi professionali, ma illuministicamente proiettato sulle tutele della salute per tutti, sostenibili attraverso la fiscalità generale. Il governo partecipato fu praticato attraverso la democrazia rappresentativa dei comitati di gestione delle unità sociosanitarie locali, ma fu – come dice il proverbio inglese su bambini e acqua sporca – buttato insieme agli episodi di corruzione; approdando così [con il D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502] alla direzione apparentemente sterilizzata delle aziende sanitarie, antenate del governo tecnocratico”.
Fondamentalmente, il dibattito ancora ruota su questi stessi temi, salvo che la regionalizzazione della sanità definita dalla riforma del Titolo V della Costituzione (Legge costituzionale n. 3 del 2001) ha aggiunto complessità per gli inevitabili conflitti inter-istituzionali tra Stato e Regioni e la costante tensione sulla presunta insostenibilità economica del SSN.
La devastante ma non imprevedibile vicenda del Covid-19 (a fine luglio 2020 stiamo andando verso il milione di morti accertati sull’intero pianeta) ha dimostrato che le controversie della medicina trattano argomenti che meritano di essere discussi pubblicamente, anche se per la loro tecnicità sembrano rivolti più a una platea di specialisti. Siamo rimasti “sorpresi” dalla pandemia anche perché negli ultimi decenni le “nuove” politiche sanitarie industriali e occidentali non si sono occupate di salute nel senso tradizionale – abbassando per esempio la soglia del diritto ai livelli essenziali di assistenza, fino a rendere inesigibile l’accesso anche ai più bisognosi senza mai dichiararlo – ma ne hanno incoraggiato una ridefinizione a partire dagli stili di comportamento delle persone (singoli), sistematicamente sottovalutando gli aspetti di prevenzione (collettivi) anche in campo educativo. Abbiamo assistito anche alla celebrazione di espedienti, sempre indirizzati al consumo dei singoli, spacciati per cure, per i quali sia i malati sia la pubblica opinione pretendevano il riconoscimento a carico del servizio sanitario. Una Babele, appunto, “come nella profezia del prof. Oddone”. Succede – spiega ancora Eleonora Artesio – anche perché “la partecipazione (che non c’è o volutamente è stata estromessa) non è più capace di definire priorità socialmente condivise sulla base di una diffusa conoscenza dei bisogni di salute di un territorio e di una comunità” in modo da garantire “l’appropriatezza” dei servizi e delle prestazioni.
In questo contributo – che integra interventi1 già apparsi sulle riviste “Gli Asini” e “Medicina Democratica” – Maria Elisa Sartor docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie alla Statale di Milano e collaboratrice di ‘saluteinternazionale.info’, riflette sulle profonde incongruenze del Sistema sanitario privato, affermatosi trionfalmente negli ultimi decenni in Lombardia e indicato da molti come modello per sostituire il SSN, ma dimostratosi invece inadeguato per la difesa della salute collettiva, come nel caso dell’emergenza da coronavirus. Nella prima parte, l’autrice si sofferma sulla logiche di fondo del Sistema sanitario lombardo, che rimandano a una visione della salute in chiave essenzialmente utilitarista, mentre i box inseriti nel testo offrono aggiornamenti cronologici sugli sviluppi della situazione nella regione italiana più pesantemente colpita dal Covid-19.
È comunque più semplice denunciare gli errori, le dimenticanze e le controproduttività dei modelli esistenti, pubblici e privati; ben più complesso è comprendere le cause profonde della loro inefficacia per riproporre 42 anni dopo la stessa visione unitaria della salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” che univa in una sola prospettiva gli ambienti di vita e di lavoro, richiamati dalla legge 833/1978. Per questo, la seconda parte di questo contributo sulla riforma del Sistema Sanitario Lombardo prova a ribadire i principi di “coerenza unitaria” dei modelli sanitari universalistici mettendo in guardia da semplificazioni che, proponendo scorciatoie per affrontare separatamente i problemi della salute, rischiano – proprio come sta accadendo – di indebolire l’intera struttura sanitaria e sociale, che deve operare, certamente nell’interesse primario dell’individuo bisognoso di cure, ma con ancor più determinazione nell’interesse generale della società di cui l’individuo fa parte.
È anche grazie al contributo di politici, ricercatrici e ricercatori, giornaliste/i e attiviste/i come quelli qui citati, che da anni studiano e denunciano le storture del modello sanitario privatistico non solo in Lombardia se nel nostro Paese si moltiplicano gli appelli per una revisione dei sistemi sanitari nazionale (SSN) e regionali (SSR), per esempio di Medicina Democratica (La salute non è una merce, la sanità non è un’azienda), ATTAC (Agire locale e pensare globale per una sanità pubblica fuori dal mercato) e Sbilanciamoci (In salute, giusta, sostenibile: l’Italia che vogliamo). Le istanze che accompagnano la medicina dovrebbero essere fra le più meritevoli di attenzione da parte delle agenzie politiche nazionali e internazionali. I temi del disagio e della malattia appaiono fra quelli meglio capaci di plasmare assieme, in modo univoco, le società nel mondo globale. I contorni storico-sociali delle condizioni di salute o di malattia su scala mondiale hanno già forgiato le prime due decadi del terzo millennio e – come sta drammaticamente dimostrando la pandemia – ne influenzeranno la storia molto oltre.
Niente è in grado di sostituire la sanità pubblica, nemmeno in Lombardia
Noi che abitiamo la Lombardia e che siamo i diretti utenti della sua organizzazione sociosanitaria avremmo un compito da svolgere, quasi un dovere verso noi stessi e i cittadini-utenti degli altri SSR del paese. Quello di tentare di conoscere meglio che si può e di far conoscere, senza giri di parole e paludamenti e in estrema sintesi come il Servizio Sociosanitario lombardo sia stato radicalmente trasformato negli ultimi decenni. Per allontanarci poi dal modo di comunicare tipico di questi tempi, dovremmo essere guidati da un ferreo orientamento di fondo: basarci solo su dati di fatto e non utilizzare/ripetere racconti non verificati, a priori elogiativi.
Questo contributo cade in un momento in cui tutte le strutture sanitarie pubbliche e private della Regione Lombardia sono ancora chiamate al massimo impegno per cooperare nell’individuare e nel curare le persone colpite dal coronavirus. È nel quadro di questa collaborazione che dovranno essere individuate anche tutte le nuove risorse da mettere in campo, a breve e in futuro. Tuttavia non possiamo non evidenziare fin d’ora una serie di fatti e di problemi che riguardano il “Sistema sociosanitario di Regione Lombardia” e che devono essere oggetto di valutazione nelle sedi e nei tempi opportuni.
Innanzitutto cominciamo col dire che al 29 febbraio 2020, a otto giorni da quando sono emersi i primi ricoveri per coronavirus in Lombardia, le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza coronavirus erano tutte pubbliche: Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo (LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo (PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS), Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale Carlo Poma (MN). Gli ospedali appena citati sono i presidi ospedalieri o gli ospedali delle ASST Aziende socio sanitarie territoriali – una sorta di organizzazione più ospedaliera che territoriale che ridefinisce e aggrega in genere ex aziende ospedaliere, e che svolge alcune funzioni di servizio che in precedenza erano delle ex ASL lombarde. Le ASST sono articolate in POT (Presidi ospedalieri territoriali) e in PRESST (Presidi sociosanitari territoriali), le unità organizzative territoriali anche a partecipazione privata previste dalla legge regionale. In teoria le ASST dovrebbero coordinare, ma sarebbe più corretto dire che tentano, non sempre con successo, di coordinarsi con i servizi erogati dai privati del loro territorio, facenti parte di quella che con una delibera del 2016 veniva denominata Rete integrata di continuità clinico assistenziale (R.I.C.C.A.). Fra le strutture di ricovero e cura pubbliche in prima linea nell’emergenza coronavirus fino alla fine di febbraio 2020 si contavano 11 ASST sulle 27 totali e 2 IRCCS pubblici (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, uno a Milano e uno a Pavia) sui 4 IRCCS pubblici della regionei.
L’informazione circa la “natura pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e nella cura dei contagiati dal coronavirus è quindi la prima notizia rilevante su cui soffermarsi. È stata ricavata dall’elaborazione delle frammentarie informazioni circolanti, in quanto non è stata esplicitamente fornita dai media, almeno fino alla fine del mese di febbraio. La seconda notizia, dedotta specularmente dalla prima, è l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia, e nel periodo considerato, di un ruolo rilevante della sanità privata. Una vacanza che si constata essersi prolungata fino ai primissimi giorni di marzo.
Con l’inasprimento della crisi, il 14 marzo sono poi partiti i lavori per una nuova terapia intensiva da campo dedicata all’emergenza Covid-19 all’Ospedale San Raffaele di Milano, grazie una campagna fondi lanciata dagli influencer Chiara Ferragni e Fedez. Il 16 marzo 2020 il governatore Attilio Fontana ha avviato l’iter per la realizzazione di un grande ospedale da campo in Fiera Milano, dedicato interamente all’emergenza Covid-19 chiamando come consulente l’ex responsabile della Protezione civile Guido Bertolaso.
Solo dopo l’istituzione della zona Rossa per l’intera Lombardia una delibera regionale, approvata il 4 marzo, ha stabilito l’impiego straordinario del personale sanitario e degli ospedali privati accreditati, individuati dalla direzione generale Welfare lombarda ““per il periodo strettamente necessario a fronteggiare l’emergenza Covid-19 e comunque non oltre 60 giorni dalla sottoscrizione del protocollo d’intesa, rinnovabili in caso di ulteriore necessità”. Gli uffici della Regione non hanno ancora fornito un elenco completo delle strutture private coinvolte nella situazione di emergenza coronavirus. Secondo l’Associazione italiana degli ospedali privati (Aiop) nelle loro strutture dislocate in Lombardia, dove sono a disposizione 2.621 posti letto per la degenza e 270 posti in terapia intensiva, Il 13 marzo, risultavano ricoverati più di 700 pazienti affetti da Civid-19 dei quali quasi 100 in terapia intensiva N.d.R.
Queste sono notizie di particolare importanza perché ci troviamo nella regione che ha fatto della cosiddetta “partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia (SSL)” il punto di forza e l’elemento distintivo del suo modello.
Qualcuno non si sarà sorpreso nel constatare questi fatti incontrovertibili, forse perché aveva già da tempo presupposto che le affermazioni di principio dei governi della Lombardia sul ruolo paritario del privato rispetto al ruolo del pubblico non potessero corrispondere alla realtà. Ma altri, che vi hanno da sempre creduto, si sarebbero dovuti per la prima volta – proprio in questi giorni – legittimamente porre la seguente domanda: che ne è del ruolo “paritario” delle strutture private accreditate della sanità nell’emergenza del coronavirus in Lombardia?
Richiamiamo a questo punto sinteticamente il percorso delle riforme sanitarie nazionali e lombarde perché pensiamo possa aiutare a spiegare con compiutezza i fatti di oggi.
Prima della riforma sanitaria di Formigoni del 1997, il Servizio sanitario di questa regione, come tutti gli altri in Italia, si articolava in strutture locali organizzate in distretti (in USSL, inizialmente su base comunale, poi, ridimensionate nel numero e divenute, nei primi anni ‘90, ASL). Strutture che svolgevano direttamente al proprio interno, attraverso le proprie unità organizzative (uffici amministrativi, unità di prevenzione, presidi ospedalieri, ambulatori, consultori, ecc.) le funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione diretta dei servizi e di controllo delle attività svolte. Si trattava di un governo diretto della sanità in tutti i suoi aspetti (che in Lombardia si estendeva anche al socio-assistenziale), con un sistema organizzativo regionale che presentava una struttura di tipo modulare (che si ripeteva cioè secondo lo stesso modulo nelle diverse aree), una gestione strategica regionale unitaria, riconducibile a una linea di comando definita, che rispondeva, per lo più con efficacia, alle esigenze immediate e di medio-lungo periodo dei territori, attraverso l’integrazione delle funzioni di prevenzione, programmazione, erogazione e controllo su una base locale.
La prima svolta nella configurazione del SSN, che ha prodotto un significativo cambiamento, si è avuta in ambito nazionale nei primi anni ‘90, con la cosiddetta controriforma sanitaria. Quelle che poi saranno identificate come le principali precondizioni della privatizzazione del SSN in generale e dei SSR sono state introdotte già da allora: 1) aziendalizzazione: metodi e strumenti manageriali tipici delle aziende profit venivano applicati alle strutture pubbliche; 2) regionalizzazione: misure che consentivano libertà di definizione delle politiche sanitarie a livello regionale e facilitavano quindi il differenziarsi delle finalità e delle politiche nelle diverse parti del paese (quindi il frazionamento del SSN e il decentramento legislativo, non solo amministrativo, avrebbero di fatto offerto la possibilità anche di eventuali sperimentazioni creative riferite ai processi di privatizzazione); 3) a metà degli anni Novanta, introduzione di un nuovo sistema di pagamento dei servizi sanitari attraverso la definizione a livello regionale di tariffe per le singole prestazioni sanitarie (sistema di retribuzione che offriva ai nuovi potenziali entranti privati nel SSR – per riferirsi alla sola componente privata del Servizio sanitario regionale – la possibilità di commisurare l’entità potenziale del business, consentendo loro anche di stimare i compensi futuri).
Su questa base normativa nazionale, nel 1997, la Lombardia dà una sterzata decisa verso un modello pensato per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel SSR. Il modello da cui il governo della Lombardia trae ispirazione è la riforma britannica di qualche anno prima, che introduceva i quasi-mercati nella sanità di quel paese, cambiando consistentemente il modello Beveridge originario (1948). Il governo di Formigoni, al pari dei governi conservatori oltremanica, sceglie anche in Lombardia di separare le funzioni che prima erano integrate, in modo che la funzione di erogazione potesse essere contesa dal privato e affidata sempre più ad esso. La Regione, a partire da quel momento, programma – ma lo fa sempre meno nelle modalità della pianificazione, storicamente intese – e soprattutto fa da committente e quindi compra servizi dai soggetti erogatori, sia dalle strutture pubbliche del SSR (che diventano nella pratica “aziende” gestite via via in modo sempre più manageriale, e impropriamente, in modo contraddittorio, definite “autonome” dalla normativa) sia dai soggetti privati, che entrano nel quasi-mercato della sanità con orientamenti profit e una certa vis concorrenziale. In un primo momento, fra il 1997 e i primi anni del 2000, la Regione tralascia di accreditare i suoi fornitori in ambito sanitario, estendendo le convenzioni preesistenti e consentendo la fornitura dei servizi del SSR a strutture private che si auto-valutavano come idonee e che, per un certo lasso di tempo, di fatto non verranno controllate.
Ma non basta. Per far sì che questa riforma radicale in senso privatistico del modello organizzativo sanitario lombardo venisse accolta e approvata con il massimo del consenso della opinione pubblica, si è fatto ricorso a concettualizzazioni teoriche che legittimassero questa scelta, supportati da un’elaborazione accademica di pari orientamento ideologico. Le parole chiave maggiormente utilizzate nel corso dei decenni dal governo di centro destra per consentire al processo di privatizzazione di svilupparsi sono state: “sussidiarietà” (nella versione orizzontale), e – venendo al punto che più ci interessa qui, con riferimento alle strutture di erogazione sia pubbliche sia private – “pariteticità” di partecipazione al SSR e “parità” delle condizioni nella fornitura dei servizi sanitari.
La condizione di sostanziale parità degli erogatori pubblici e privati di servizi sanitari, accreditati e a contratto, secondo la Regione, andava considerata sotto diversi profili:
1) parità di diritti: l’autonomia organizzativa, gestionale, amministrativa, tecnica delle strutture pubbliche, affermata dalla normativa, voleva corrispondere all’autonomia dal soggetto pubblico, naturalmente esistente per le strutture di natura privata. Ma se questa caratteristica risulta presente ed evidente per quanto riguarda il privato, nel caso del pubblico, l’autonomia – pur supposta e richiamata dalle delibere – è sempre stata solo apparente, e non poteva che essere così in un SSN dai caratteri pubblicistici, in particolare se la nomina dei direttori generali delle aziende pubbliche derivava da scelte politiche dell’Ente Regione. Anche da parte dei rapporti OASI della Bocconi in Lombardia si è constatata l’esistenza di una sorta di neocentralismo su base regionale, che non poteva lasciare molta autonomia alle strutture pubbliche facenti parte del sistema. Ossia, in Lombardia, mentre si combatteva il centralismo statalista, si realizzava un centralismo regionalista.
2) parità di doveri delle strutture. Anche questo profilo di parità non può essere confermato: la committenza pubblica dei servizi vale sì sia per l’erogatore pubblico che per il privato, ma è più cogente per il soggetto pubblico, che deve garantire una gamma di funzioni e di servizi molto più estesa, anche se questo volume di attività corrisponde a volumi di ricompense per prestazioni mediamente unitariamente meno cospicui, perché il privato sceglie quali servizi intende offrire, e normalmente sono quelli che costano unitariamente di più al SSR; le strutture pubbliche poi devono sottoporre all’approvazione della Regione le loro decisioni strategiche, organizzative e di bilancio, che non sempre vengono approvate. Il che dimostra anche la non pari autonomia di gestione rispetto alle strutture della sanità private. Per la gestione delle strutture serve disporre dei fattori produttivi (risorse finanziare, risorse di personale, risorse tecnologiche, che non sempre sono a disposizione delle strutture pubbliche, in quanto il loro livello dipende dalle scelte delle istituzioni regionali e nazionali.
3) parità di trattamento da parte della Regione: modalità di pagamento, interazioni, formalizzazione del rapporto tramite la negoziazione e il contratto fra committente pubblico ed erogatori privati e pubblici non sono gli stessi (schemi contrattuali uguali non comportano un pari trattamento contrattuale). Si riscontrano notevoli differenze nella realtà fra i trattamenti rivolti al settore pubblico rispetto al settore privato, a detta degli operatori. Un’area di differenziazione del trattamento riguarda le pratiche di accreditamento e di controllo.
4) pari orientamento valoriale. La meno dimostrabile di tutte, e forse la più evocata, è la supposta sostanziale parità di orientamento valoriale o della finalità ultima fra i due soggetti pubblico e privato: l’utilità pubblica, affermazione che nega la fondamentale rilevanza del profitto per la sanità privata, anche nelle vesti di fornitore del SSL.
5) pari dignità dei soggetti pubblici e privati, un modo per dire che al soggetto pubblico non dovrebbe mai essere assegnato – in automatico – un ruolo sovraordinato nei confronti del privato, senza verificare cosa è in grado di fare il soggetto privato.
Le teorie della parità pubblico e privato, che fanno ritenere coincidenti di fatto i due tipi di soggetti, perché quindi non dovrebbero farci naturalmente presupporre anche una pari disponibilità dei due soggetti a farsi carico delle emergenze sanitarie?
Ma questo SSR della Lombardia è davvero paritario? Da quanto detto in precedenza, pare proprio di no. Alla prova della prima emergenza, dovuta ad una minaccia epidemica, la realtà sembra smascherare del tutto l’ideologia. Soprattutto oggi le teorie appena richiamate risultano prive di ogni fondamento. E quindi lo sono anche le domande che ne vengono stimolate. Ma dove stanno i soggetti erogatori privati? Gli innumerevoli IRCCS privati e le strutture di ricovero di eccellenza private? In quale modo gli erogatori privati hanno contribuito fino ad oggi alla soluzione dell’emergenza coronavirus?
Ma ci sono altre importanti considerazioni da fare. Qui vengono in evidenza le contraddizioni di un modello di servizio sanitario regionale misto pubblico-privato, affiancato da un mercato diretto solo privato, retti sia quello interno al SSL sia quello diretto, dagli stessi operatori privati, che sono i fornitori del Servizio sanitario regionale e del libero mercato.
Uno dei due soggetti non risponde subito. Il che corrisponde a dire che la sua disponibilità è incerta ed è quindi da richiedere. La presenza di una disponibilità è sempre quindi da verificare. E il SSR deve sottostare – di conseguenza – alla volontà dei soggetti privati. La disponibilità poi ad offrire servizi extra-contratto costa ancora di più al SSR; si hanno quindi costi elevati di transazione: risorse di tempo spese nella negoziazione e risorse finanziarie aggiuntive per il carico straordinario del servizio richiesto.
Insomma il modello del “Sistema sanitario di Regione Lombardia”, come viene denominato nella normativa regionale per sottolineare la sua diversità rispetto a qualsivoglia altro Servizio Sanitario regionale del nostro SSN, mostra una certa rigidità, lentezza di risposta, ed è più costoso.
Proviamo ora a considerare il probabile punto di vista dell’erogatore privato, il grande gruppo della sanità privata. Innanzitutto ricordiamo che non si è reso disponibile fin da subito, dall’inizio della crisi. Come si spiega questo fatto? Primo, ciò che fa la sanità privata per il SSL è formalizzato in un contratto e in un budget di fornitura. E questo di per sé significa dover riconsiderare da parte dei due contraenti Regione e strutture della sanità privata, gruppo per gruppo, struttura per struttura, gli accordi già stabiliti. La sanità privata è un interlocutore che non si mette al servizio spontaneamente, ma contratta sempre le condizioni del suo servizio, naturalmente quanto più possibile a suo favore.
Ma un altro aspetto è che la sanità privata si sta trovando di fronte al fatto che la partecipazione all’emergenza sanitaria finisce per generare ed enfatizzare una delle più grandi contraddizioni del modello appena descritto. Contrappone tipi diversi di beneficiari. Il cittadino/paziente colpito dal coronavirus vs il cliente pagante. I due beneficiari del servizio sono su fronti opposti. L’ospedale privato, fornitore del SSR e player sul mercato libero, perché autorizzato a esserlo dalla istituzione pubblica (Direzione generale del welfare della Regione Lombardia e sue articolazioni organizzative), quale fra i due beneficiari citati dovrebbe principalmente servire? il cittadino paziente del SSR contagiato o i propri clienti paganti, che proprio perché pagano di tasca loro, o attraverso i loro intermediari (assicurazioni, mutue, ecc.), non intendono correre rischi ulteriori? con ogni probabilità non può fare congiuntamente l’uno e l’altro senza pregiudicarsi una quota del suo mercato, principalmente quello diretto (quello al di fuori dal SSN). In altre parole, se partecipasse all’emergenza correrebbe il rischio di perdere la sua clientela privata. È per questo, e non solo quindi per motivi strettamente medico-clinici, che la collaborazione che si prospetterà per risolvere l’emergenza del coronavirus avverrà probabilmente in modalità tali da non mescolare i due ambiti del servizio nei confronti delle due diverse classi di pazienti.
Ecco un’altra evidente differenziazione fra pubblico e privato che è esplicativa di un impedimento di fondo dato dal modello.
Il modello della separazione delle funzioni alla base della privatizzazione spinta del SSR, con il suo corollario della supposta – ma non dimostrata – parità fra erogatore pubblico e privato, mette la Lombardia nelle condizioni di operare pienamente utilizzando ogni sua componente, pubblica o privata che sia? No.
In situazione analoga il 16 marzo il governo spagnolo ha messo l’intera sanità privata al servizio del Sistema Nacional de Salud, il sistema sanitario nazionale. Le aziende con materiale sanitario avranno 48 ore di tempo per informare l’esecutivo su cosa hanno a disposizione e le comunità autonome spagnole, corrispondenti alle nostre regioni, potranno disporre di “tutti i mezzi” necessari del sistema privato per far fronte all’epidemia comprese apparecchiature mediche come maschere chirurgiche, guanti e occhiali protettivi tenuti in stock da aziende o individui. Mentre anche per la già citata messa a disposizione dei posti letto della sanità privata si tratta di una disponibilità tardiva (un certo lasso di tempo dopo l’avvio della emergenza da coronavirus), obbligata di fronte all’opinione pubblica con la situazione fuori controllo e probabilmente, anche ben compensata visti gli ingenti stanziamenti promessi dal governo N.d.R.
Le ricadute in termini di gestione del SSL sembrano essere quelle di un non funzionamento pieno del modello, in certi casi. Soprattutto nelle emergenze di salute pubblica, ovvero durante eventi straordinari che riguardano tutti noi cittadini. E questo, nonostante le aspettative della opinione pubblica. Il cittadino lombardo “vede” infatti il privato (accreditato e a contratto) come fosse davvero “pari” al pubblico – e quindi parimenti coinvolto per principio e nella realtà nella sanità istituzionale regionale – anche perché è così che le istituzioni lo descrivono sui media. È emblematica la dichiarazione, all’interno di un programma televisivo di informazione del 1 marzo sulla Rete 4, pronunciata da un viceministro che lavora per il principale gruppo economico italiano della sanità privata: “La sanità privata (intendeva quella accreditata e a contratto, ndr) è il SSN.” Ma è proprio così? Se fosse davvero così, bisognerebbe chiedersi perché il governatore della regione Lombardia (lo stesso 1 marzo) ringrazia la sanità privata e le sue strutture per essere “entrate” con la loro disponibilità nel “nostro” sistema, nel momento in cui 14 medici danno la propria disponibilità a “collaborare” (Dire, Roma, 18:15 01 03 20).
D’altra parte, la “sanità privata” si autocelebra in tutti i modi invece come “settore privato”, in quanto è proprio quella in realtà la sua natura, ed è quella anche la sua prospettiva di espansione per quanto riguarda il business. Tanto è vero che anche in piena emergenza si occupa molto e bene del suo marketing strategico.
L’emergenza del coronavirus è una cartina di tornasole. Ma, se si va un po’ oltre potremmo anche ammettere che ci sono altre considerazioni che ci fanno esprimere preoccupazione dal punto di vista del paziente cittadino. Quanto ci rassicura la consistente presenza della sanità privata di fronte ad iniziative che per la loro criticità e gravità devono essere imposte da una istituzione pubblica agli erogatori e che richiedono, da parte del management e del personale sanitario, una abnegazione e una forte motivazione deontologica più che un orientamento al profitto o, per quanto riguarda il personale, una motivazione circoscritta ad interessi personali, economici o di altro tipo?
La garanzia della salute pubblica sembra venire da una sanità pubblica finanziata, integrata, ben organizzata e controllata, insomma ben governata. Esattamente la politica sanitaria opposta a quella realizzata nel corso degli ultimi decenni, basata sulla “governance”, cioè su un governo e un controllo laschi sugli aspetti maggiormente critici del sistema. Serve allora un altro modello organizzativo: molto integrato. Va decisamente invertita la rotta del SSR della Lombardia.
Riforma della sanità lombarda? D’ora in poi solo a carte del tutto scoperte
SSN e SSR: improvvisamente se ne discute
La pandemia Covid-19, dunque è stata anche un test di tenuta del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nel suo insieme e nelle sue articolazioni regionali (SSR). Alla prova del virus, le persone hanno visto il Servizio Sanitario della propria regione reggere bene o soccombere, in parte o del tutto. Per la prima volta, anche chi non se ne era mai interessato, si è forse domandato se impianto e funzionamento del proprio SSR fossero adeguati. La risposta è stata negativa per qualcuno. Non erano adeguati. Ma non è stato così per tutti i SSR, alcuni sono stati del tutto all’altezza della sfida, almeno per ora.
Un po’ alla volta è stato possibile intendere che esistevano delle differenze, a parità o quasi di diffusione del virus. Si è capito che una configurazione di SSR era meglio di un’altra perché facilitava comportamenti di contrasto della pandemia opportuni ed efficaci e aveva risvolti positivi sulla velocità di intervento. Nei casi di una risposta apparsa appropriata a posteriori, giustamente non si è pensato che questi buoni risultati potessero essere dovuti ad una combinazione casuale di fattori positivi. Anche se, in un caso almeno, il fortunato ritorno in Italia e il contemporaneo incarico all’Università di Padova di un medico romano di fama internazionale, esperto nello studio e controllo delle epidemie, e disponibile a offrirsi come consulente del SSR, può essere stato un fattore decisivo, che si è aggiunto ad altri più strutturali, per il riconosciuto successo di una delle regioni del Nord fra le più colpite: il Veneto.
SSR Lombardia: cambiano le ragioni del suo stare alla ribalta
La Lombardia è stata forse la regione che ha stimolato il maggior numero di domande sull’efficacia del suo Servizio Sanitario sia presso i propri cittadini sia nel Paese. Come si potevano spiegare esiti così catastrofici al passaggio della pandemia in una Regione supposta eccellente nel settore della sanità? 16000 morti circa dall’inizio della pandemia ai primi giorni di giugno 2020. Dagli altari alla polvere, perché? Data per scontata l’impreparazione dovuta alla non disponibilità dei vaccini e di cure farmacologiche adeguate, comunque trasversale a tutte le regioni, per quanto riguarda altri tipi di impreparazione o di inadeguatezza, da identificare, si trattava di carenze gestionali o di carenze dovute ad aspetti più di fondo? Per esempio, l’insufficienza strutturale del modello.
Si è passati dal considerare – innanzitutto e prevalentemente – le caratteristiche del virus, e con esse la sua difficile identificazione, conoscenza, la possibile diffusione e le modalità opportune del contrasto, al considerare gli errori procedurali della Regione e, per finire, si è arrivati a porsi il problema di quanto avesse contato nel disastro la configurazione del modello misto pubblico-privato in una specifica versione. E poi, dallo spostamento di focus su aspetti diversi del problema si è passati alla considerazione delle evidenti connessioni fra tutti gli aspetti che erano stati considerati.
Si è compreso un po’ alla volta che gli errori procedurali (ormai accertati dalla ricostruzione giornalistica), l’insufficiente possibilità di intervento extra-ospedaliero (anche questa accertata nelle situazioni più drammatiche), il ritardato e limitato intervento della componente privata del sistema, e il mancato o insufficiente esercizio delle responsabilità da parte del governo regionale della sanità, non erano disgiunti da come era stato concepito e realizzato il modello di SSR.
Da qui, ha avuto origine una sacrosanta richiesta di informazione e di trasparenza (ancora purtroppo in certi casi disattesa) e si è imposto da più parti il tema di una riconsiderazione della macro-organizzazione dei SSR meno efficaci.
In particolare in Lombardia si sta sempre più affermando – sottotraccia, ma talvolta emerge in superficie – l’intenzione di una riforma del modello, anche da parte della maggioranza al governo della Regione. Questa svolta sarebbe stata del tutto impensabile fino a qualche settimana fa. Ma, se sta accadendo tutto questo, è anche per un incredibile combinarsi di eventi. Una fortuita opportunità di modifica del SSR della Lombardia sta fornendo da subito l’occasione di proporre una sua revisione durante la fase 3 della pandemia, e sta costringendo gli attori in gioco ad una accelerazione di tale processo, in quanto esiste un vincolo temporale stringente. La causa della considerazione di una possibile revisione della riforma del SSR è una disposizione di legge del dicembre 2015 (LR 41/2015). Essa prevede che entro l’11 agosto del 2020 si svolga la verifica della macro configurazione organizzativa del SSR derivante dalla legge regionale di riforma di Maroni (LR 23/2015), che include la verifica delle Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e delle Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST). Quella disposizione – che al governo della Regione Lombardia fino al 2019 era sembrata una iattura da evitare, tanto da indurre il Presidente della regione Maroni a sottoscrivere nel 2016 un protocollo con il Ministro della Salute Lorenzin, con cui si tentava di aggirare l’applicazione della disposizione stessa –, appare in questi giorni come un’opportunità per il governo Fontana, in quanto consente di riconfigurare in parte un modello risultato inviso ai cittadini lombardi. Si tratterà quindi di formulare una valutazione sulla riforma del 2015 entro la scadenza estiva, cui seguirà con ogni probabilità una proposta di riforma.
È al tempo stesso interessante e preoccupante notare che, per fornire idee di riforma, si stiano facendo avanti coloro che dal 1995 fino al 2013 (sono gli anni dei governi Formigoni) hanno ideato paradigmi, imposto principi costitutivi e costituito i presupposti strutturali del SSR di oggi. Non a caso la riforma Maroni si è auto-qualificata come “evoluzione” della Riforma Formigoni.
Riforma necessaria … ma serve anche un metodo di verifica delle proposte in campo
Facciamo un passo indietro. Il SSN nelle regioni e nelle province autonome ha assunto forme diverse, e non persegue, in ogni sua realizzazione regionale, nello stesso modo, il dettato della Costituzione italiana. È il risultato di orientamenti politici dissimili e presenta gradi di privatizzazione diversi.
Se si tratta di proporre una modificazione del modello in Lombardia, non ci si può aspettare, qui come forse altrove, una ricomposizione miracolosa dei punti di vista e degli interessi in campo a livello regionale, tale da far nascere una sola proposta di riaggiustamento del modello di sanità che metta tutti d’accordo.
Molti sono i soggetti e le forze che si stanno predisponendo a proporre soluzioni ai gravi problemi di mancata tutela del cittadino evidenziati dal SSR della Lombardia, cercando di non perdere il terreno conquistato in termini di posizionamenti strategici nel quasi-mercato della sanità della regione o il consenso verso i propri elettori. E poi, non si tratta certo solo di qualche criticità cui contrapporre un rimedio, un correttivo parziale (per esempio, non sarebbe opportuno affermare “teniamo il modello misto pubblico privato così come è ora e aggiungiamo ciò che manca nella medicina di territorio…”). Di chiunque sia l’iniziativa, la proposta di riforma del SSR lombardo richiede prima di tutto la conoscenza dello stato di fatto e, in ogni caso, che venga formulato un vero progetto (di massima e dettagliato), come si trattasse di dover costruire un ponte. E come nel caso del ponte, è sulla base di un buon progetto che può essere costruito un efficace SSR e per effetto di una costante buona manutenzione, poggiata su efficaci controlli del suo funzionamento, che il SSR può continuare a svolgere al meglio le sue funzioni.
Il progetto di riforma
Quali sono i presupposti di un buon progetto? Il progetto deve essere qualcosa di unitario, coerente, logico. Ben costruito in ogni sua parte. Di massima e di dettaglio.
Nel caso del ponte, le funzioni sono molto chiaramente identificabili: collegare due porzioni di territorio consentendo e facilitando la mobilità (di persone e merci) in sicurezza, in entrambe le direzioni. Molto più articolate sono invece le funzioni da garantire nel caso del SSR, e meno evidenti le sue caratteristiche, trattandosi di un artefatto molto più complesso, che svolge le sue funzioni nel territorio regionale, e le cui realizzazioni sono spesso intangibili e difficilmente e compiutamente conoscibili negli esiti, nel loro complesso. Soprattutto per i cittadini (anche se questi sperimentano in modo diretto, e subito, ciò che non funziona). E, per finire, si presuppone che il Servizio sanitario regionale debba essere in armonia con altri SSR in ambito nazionale, essendo riconducibile al Servizio Sanitario Nazionale.
La buona salute è l’esito atteso di questo artefatto, il mantenimento in vita delle persone in buone condizioni di salute. Nella fase più acuta della pandemia è proprio quello che è mancato, e non solo perché il virus era sconosciuto e senza una specifica cura. È mancata la capacità del Servizio sanitario lombardo di prendersi cura adeguatamente (per quanto possibile, data l’assenza di vaccini e di farmaci per la cura) degli operatori sanitari e di coloro che avevano la necessità di essere comunque assistiti. Sono stati abbandonati invece a loro stessi e per questa ragione moltissime persone sono tragicamente decedute.
Quando dico che serve un progetto vero e proprio, intendo dire che la proposta di riforma che si racchiuderà in un progetto, pur stimolata da una pluralità di idee, non potrà essere una ricomposizione scomposta di una miscellanea di idee diverse. Un pezzo della proposta A di una certa fonte che si combini con una frazione della proposta B di un’altra fonte, giusto per accontentare tutte le parti che vogliono dire la loro. Il progetto non potrà essere costituito da frammenti così procurati. Se così fosse, sarebbe come se al progetto di un ponte basato sulla logica costruttiva della tensione (struttura a tensione) si aggiungessero elementi costruttivi di un ponte ideato su altri principi costruttivi (per esempio, quelli di una struttura ad arco). Difficilmente il ponte potrebbe stare in piedi.
Se ci sarà più di una proposta da discutere, che contiene un modello di SSR coerente al suo interno, questa, dovrà essere considerata o scartata nel confronto con un modello altrettanto coerente, di altro tipo, contenuto in un’altra proposta, sua concorrente.
Vorrei soffermarmi ancora un po’ di più sul progetto e su cosa renda diversa una proposta di riforma da un’altra: il suo rispondere o meno pienamente al dettato costituzionale; la sua efficacia nel garantire i diritti di salute; la misura effettiva della centralità del paziente; l’intrinseca capacità di realizzare sia le funzioni che servono a prevenire gli stati di malattia o di infortunio sia le funzioni che consentono di erogare le prestazioni rivolte al cittadino/paziente necessarie alla sua salute; l’appropriatezza dei servizi offerti; in quale quota mantiene in mano pubblica l’erogazione dei servizi; il grado di controllo effettivo delle prestazioni degli erogatori, soprattutto privati, nel caso di modello misto. Essendo i servizi pagati dal contribuente, i due ultimi aspetti risultano fondamentali.
Spero che gli attori che si sentono chiamati alla realizzazione di una proposta di riforma capiscano che la fase che attraversiamo di pandemia – che ha prodotto un numero impensabile di vittime in Lombardia, e anche per gli impatti che essa avrà nel futuro di tutti noi – richiede loro, diversamente che per il passato, un gioco a carte scoperte fra “giocatori” evoluti e responsabili. Almeno, è augurabile, responsabili fino al punto di dichiarare gli obiettivi che intendono perseguire.
I principi costruttivi del SSR potrebbero essere quelli già usati per gli SSR “integrati” e maggiormente pubblici (Servizi Sanitari Regionali che, alla prova del virus, hanno dimostrato di funzionare meglio – e in questo caso non occorrerebbe cercare molto altrove) o, teoricamente, se ne potrebbero proporre anche di nuovi. Prima però di scegliere una proposta, tutti i principi costruttivi alla base di tutti gli eventuali progetti di riforma in campo (per il ponte: tecnica a tensione o ad arco? o quale altra?) dovranno essere – e si dovrà pretendere che siano – esaustivamente esplicitati. E questo per avere preventivamente un’idea degli effetti che i principi, una volta implementati, tenderanno a produrre.
Per capirci: affermare, come hanno fatto gli ultimi due governi lombardi, che la politica della Presa in Carico dei cronici e/o fragili dei governi Maroni e Fontana (nota come la politica della PIC) è una mera innovazione di servizio rivolta ai malati cronici basata su una delle due logiche di People Health Management (PHM) di derivazione statunitense utilizzate in Italia, non è esplicitare del tutto i criteri costruttivi della proposta, mentre completare tali dichiarazioni aggiungendo che la politica della PIC realizza molteplici sottosistemi autonomi all’interno del SSR – integrati, in prevalenza privati, indipendenti e non sottoposti a uno stretto controllo pubblico –, lo è. Si potrebbero, per esempio, dimostrare ampiamente i principi costruttivi di questa politica realizzando una mappa che evidenzi le funzioni che vengono riaggregate e integrate in capo ai gestori della PIC.
Nel caso della PIC, i criteri costruttivi di tale politica, che modificano l’impianto complessivo del SSR lombardo e non sono stati mai esplicitati da chi li ha proposti, sono i seguenti: “integrare la quasi totalità delle funzioni tipiche del SSR alla sua base, dentro organizzazioni “gestori della PIC”, nuove o già entrate nel SSR, collocate al livello della medicina di base, in una porzione del Servizio Sanitario Regionale molto critica, quella che consente ai cittadini l’accesso ai servizi”. Le funzioni/attività integrate dei gestori della PIC sono: dimensionamento del volume dei servizi di presa in carico erogabili; reclutamento dei cronici tramite i Medici di medicina generale (MMG); stipula di un contratto privatistico con il paziente: il “patto di cura”; pianificazione dell’assistenza caso per caso; committenza ad altri erogatori e/o auto-committenza dei servizi per i propri assistiti. In altre parole, i gestori e le loro filiere diventano una molteplicità di piccoli o grandi Servizi sanitari a sé stanti in un più esteso Servizio Sanitario Regionale.
Se i criteri costruttivi del modello non venissero esplicitati – come nell’esempio appena fornito – coloro che li dovrebbero comprendere per discuterli nelle sedi istituzionali (i politici e i loro staff tecnici) dovrebbero esser chiamati a ricavarli per deduzione dalla proposta, e dovrebbero fare il massimo per rendere note ai cittadini le conseguenze delle loro applicazioni. I principi/criteri costruttivi vanno esplicitati per quello che sono in realtà e, una volta esplicitati, si devono poter discutere e, avendoli ben compresi, il passo successivo sarà quello di misurarli e verificarli, soprattutto osservandoli nelle realizzazioni già disponibili in altri SSR. O, se nuovi, adoperarsi perché vengano messi alla prova.
Se ritenuti validi e quindi approvati, da questi principi si può consapevolmente dar forma ad un progetto che li realizzi, che sia coerente al suo interno. Progetto che non può essere ulteriormente trasformato nella fase di implementazione, non rispettando i principi costruttivi stessi (anche in questa fase, si rende indispensabile una sorveglianza).
La riforma, insomma, deve nascere da una sorta di progetto architettonico. Deve far in modo che si possano realizzare le funzioni che consentono di attuare i principi costituzionali di tutela della salute. Non tutte le proposte di riforma realizzano pienamente i principi costituzionali e non è sempre facile comprendere quali siano le proposte che davvero li realizzano. Ci sono modelli di SSR che facilitano la privatizzazione, modelli che la contengono, modelli che tendono ad escluderla. Per esempio, la privatizzazione del Servizio, con un ruolo istituzionale del pubblico debole, realizza o contrasta i principi costituzionali? Una volta inteso quali finalità e quali principi cardine del modello si intendano sostenere, si può procedere alla definizione di dettaglio del progetto/proposta.
Nel passato della Lombardia, quali riforme da Formigoni in poi e quali ricadute per l’oggi
La sanità in Lombardia oggi soffre soprattutto degli esiti di lungo periodo dell’impianto e degli interventi realizzati dai governi Formigoni (4 mandati, uno interrotto prima della scadenza naturale per motivi giudiziari). Brevemente tento di riassumerli qui, rimandando gli approfondimenti ad altri successivi contributi:
istituzione del quasi-mercato della sanità((Si veda Marco Brando di Striscia rossa on line – 20 aprile 2020. Una mia breve ricostruzione della svolta formigoniana è riportata nell’articolo http://www.strisciarossa.it/tag/maria-elisa-sartor/)). A posteriori il quasi-mercato appare come una realizzazione costosa e forzata che si basa sulla idea – sbagliata, in quanto nella sostanza impraticabile – di una parità di diritti e doveri e di trattamento da parte di un ente regolatore pubblico riferiti a soggetti organizzati, pubblici e privati, che erogano servizi per il SSR;
centralismo regionale che, ad una analisi approfondita degli interventi realizzati nei 18 anni ininterrotti di governo, si è scoperto che è servito a perseguire al meglio il depotenziamento degli erogatori pubblici e il potenziamento e la legittimazione degli erogatori privati;
un eccesso di logica economicistica portata alle estreme conseguenze, avara con il pubblico e sperperante con il privato;
un discutibile gioco “io vinco/tu perdi” fra erogatori (win/lose) che ha fortemente ridimensionato la necessaria attenzione all’epidemiologia e, con essa, ha svuotato le funzioni di programmazione e di prevenzione in senso lato, mantenendole solo in parte, e consegnato interi ambiti della sanità ai soli privati (insieme alla odontoiatria, tanti altri servizi sono stati del tutto privatizzati in misura assolutamente non paragonabile a quella di altri governi regionali della sanità);
la desertificazione della infrastruttura pubblica territoriale;
il non ripristino della compagine dei Medici di medicina generale – che, ai tempi, era già noto si stesse via via impoverendo – e il connesso avvio del progetto di aziendalizzazione e privatizzazione della medicina di base tramite le sperimentazioni CReG (Chronic Related Group) riferite ai pazienti cronici. Tali sperimentazioni sono state possibili ricorrendo alla consolidata collaborazione con le cooperative dei MMG, viste come sostitutive del singolo professionista della medicina generale. Le cooperative di MMG nelle vesti di gestori della PIC, o di gestori delle articolazioni territoriali delle ASST, sono cosa diversa dalle strutture dell’associazionismo fra medici di base, oggetto della normativa nazionale e la loro analisi richiederebbe uno specifico approfondimento.
Non si può criticare la politica dei governi di Formigoni per una incoerenza complessiva del suo progetto di riforma, anche se alcuni aspetti del disegno non sono del tutto congruenti. Pur trattandosi di un progetto, dal mio punto di vista, non condivisibile nelle finalità, non posso non ammettere una lucidità strategica ed operativa da parte di un gruppo di politici, funzionari, accademici nel trasformare il Servizio Sanitario Regionale. Ma, al di là degli slogan pronunciati dagli ideatori del modello, e delle apparenze che potrebbero distoglierci da un’indagine mirata su ciò che non veniva messo in evidenza nella comunicazione ma era di maggior rilevanza (è questo che intendo quando dico che serve esplicitare!), la domanda che ci si dovrebbe fare è la seguente: quanto quei lunghi anni di governo ininterrotto hanno spostato l’attenzione dell’Ente Regione (e non di un singolo protagonista apicale) dall’utente del SSR (il cittadino) a specifiche categorie di portatori di interesse: i soggetti erogatori della sanità privata soprattutto profit e le cooperative della medicina di base (privato non profit)?
Quel modello rispondeva a paradigmi nuovi (sussidiarietà orizzontale), ad una strategia/finalità ben delineata (di privatizzazione del servizio), a principi costruttivi specifici che realizzavano quella finalità, quindi coerenti con essa e di grande impatto nel modificare il modello (separazione delle funzioni di erogazione dei servizi dalle altre funzioni, per far entrare massicciamente nel settore gli erogatori privati; svuotamento della territorialità e della funzione dei distretti con il trasferimento presso gli ospedali di alcuni dei servizi territoriali; innovazione dei servizi in modalità che consentissero di classificare come territoriali servizi che venivano comunque erogati negli ospedali; sviluppo di nuove aree di servizio esclusivamente affidate ai privati).
Posto che la coerenza delle finalità del progetto con i passaggi che lo realizzano passo dopo passo non è sufficiente a fare di una riforma un buon modello di SSR, serve in ogni caso ribadire l’importanza di tale coerenza per due ragioni fra loro collegate.
In generale, perché la coerenza serve a perseguire e a raggiungere gli obiettivi. Se non c’è coerenza/congruenza, qualsiasi siano le finalità del modello, difficilmente questo riuscirà a raggiungere gli obiettivi per cui è stato realizzato. E quindi, ad una eventuale inaccettabilità dei fini di uno specifico modello di sanità proposto, si aggiungerebbe anche il caos derivante da comportamenti disfunzionali che derivano dalla incoerenza del modello stesso. La seconda ragione è che la mancata coerenza del modello – di cui sono disponibili esempi al limite del paradosso – è dannosa di per sé, in quanto non fa funzionare bene il modello, nemmeno in periodi di ordinaria amministrazione. Le proposte di riforma vanno quindi rifiutate sia quando non perseguono un certo tipo di fini che si ritengono assolutamente da perseguire (costituzionali, in primis), sia quando sono intrinsecamente incoerenti nel modello e per questa ragione producono confusione e paradosso.
Il modello realizzato dopo i governi Formigoni, da Maroni in poi, non solo non ha cambiato l’orientamento di fondo precedente (ha mantenuto il quasi-mercato in versione privatizzante), segnando così una continuità con i governi precedenti, ma ha anche mostrato ampiamente l’incoerenza dei suoi principi costruttivi. Presenta infatti criteri costruttivi disomogenei e incompatibili, che sono il frutto di logiche contrapposte, alcuni dei quali forse inclusi in sede di discussione politica nel Consiglio regionale, in forma di emendamenti alla proposta presentata alla discussione dalla maggioranza di governo o da una delle sue componenti. In ogni caso, nel passato, nessuno ha rilevato che costituissero qualcosa di incompatibile con qualche altro elemento o aspetto già deciso del SSR.
Esempi di incongruenze dell’attuale modello di SSR
Riporto qui, fra gli altri che potrei esporre, un esempio di incongruenza/paradosso nell’impianto attuale di SSR lombardo.
Da un lato, mantenere il modello di quasi-mercato per la funzione di erogazione dei servizi, laddove sono in concorrenza gli erogatori pubblici con gli erogatori privati su un supposto piano di parità (realizzando la negazione del principio della sovra-ordinazione del pubblico sul privato: che detto in altri termini, significa che si nega che il pubblico resti l’attore più importante, quello che ha l’ultima parola). Dall’altro, attribuire all’erogatore pubblico dei servizi (ospedalieri e territoriali), le Aziende Socio-Sanitarie Territoriali, le ASST, il coordinamento della rete di erogazione del loro territorio, costituita dagli erogatori pubblici (che sono sue articolazioni) e costituita anche da tutti gli erogatori privati, soggetti di fatto del tutto autonomi, anche se posti formalmente su un piano di parità con le ASST, in quanto esse stesse strutture erogatrici. Insomma, stando alle regole del quasi-mercato, le ASST dovrebbero coordinare i soggetti con cui sono chiamate a competere.
Un altro esempio ci fa entrare in un problema organizzativo di macro divisione del lavoro incongrua: la politica della presa in carico dei cronici (PIC), già ampiamente impostata in precedenza da Formigoni pensando in primis ad un ruolo forte delle cooperative dei Medici di Medicina Generale (istituzione dei CREG), realizza in una certa misura la aziendalizzazione della medicina di base già ipotizzata, ma in una modalità diversa rispetto al passato, burocratizzando e ridimensionando (soprattutto nelle sue prime intenzioni, in parte corrette per la protesta dei medici di base stessi) il ruolo del medico di base. La politica va nel senso di cedere a nuovi soggetti privati, non sempre già accreditati, la facoltà di prendere in carico pazienti cronici e/o fragili e di obbligare i pazienti a sottoscrivere un contratto privatistico con loro (anche quando si tratta di ASST, quindi in ambito pubblico): il cosiddetto “patto di cura”. La fonte di incongruenza, in questo caso, è che i Medici di medicina generale della Lombardia devono instaurare rapporti con le ASST, gestori pubblici della PIC, e con i numerosi gestori privati della PIC, per la gestione dei propri assistiti malati cronici e con la ATS per la regolazione dei rapporti amministrativi burocratici e gestionali riferiti a tutti i loro pazienti. Troppi interlocutori, a quanto pare.
La riforma Maroni, in senso lato, ha aggiunto logiche, finalità, principi incompatibili con il SSN tradizionalmente inteso e anche inefficaci di per sé, nella inconsapevolezza – pare- di ciò che questo fatto avrebbe potuto produrre: improvvisazione e ingestibilità.
Nel formulare e verificare le proposte di riforma del SSR della Lombardia – che cominciano embrionalmente già in questi giorni a fioccare sui media – dovranno entrare in campo per la verifica della completezza, proponibilità, sostenibilità e tenuta del modello coloro che sono in grado di analizzare i problemi di coerenza interna dei macro modelli organizzativi. I medici e gli operatori sanitari dovranno fare lo sforzo di occuparsi a 360 gradi del SSR (non solo di un circoscritto spaccato, il loro), tenendo conto della finalità ultima del modello decisa con il contributo indispensabile dei cittadini e portata avanti dai politici che li rappresentano.
A carte scoperte, per i cittadini
Ci si deve preparare a formulare solo proposte coerenti, che tengano anche conto del contesto (senza dover per forza co-progettare con gli stakeholder, soprattutto se i cittadini intendono appoggiare proposte che si prefiggano il contenimento degli stakeholder più ingombranti). È il cittadino che deve essere sentito e non gli erogatori privati che sono stati chiamati a servirlo. Altrimenti dove sta la tanto declamata centralità dell’utente? Ci si deve anche preparare a contrastare con efficacia le proposte di partiti, gruppi politici e stakeholder, anche per il tramite di studiosi o accademici, che non rispettino ciò che si ritiene irrinunciabile per un SSN.
Proposte che – come si diceva – possono essere non accettabili in toto per le finalità che perseguono (frammentazione e disaggregazione del Servizio, difficoltà di controllo, privatizzazione presupposta, orientamento a far crescere le disuguaglianze fra territori) e/o per incoerenza interna (affermazione di principi che risultano incompatibili all’interno dello stesso modello; incompletezza del disegno con riferimento alle funzioni; non raccordo fra le parti del Servizio, difficoltà di funzionamento, delimitazione dei confini dei territori disfunzionali in quanto rendono meno possibile il controllo).
Ecco i quattro ambiti da analizzare delle proposte che verranno messe in campo: finalità ultime, principi costruttivi su cui si basano, configurazione strutturale macro del modello (complessità e modularità), dettagli di implementazione del modello (da prefigurare e poi controllare, verificando la coerenza con i principi affermati).
Nelle precedenti proposte di riforma, il confronto, ammesso si sia davvero svolto nelle modalità opportune, è stato su singoli aspetti del macro-modello, presi singolarmente. Per esempio, numero delle articolazioni organizzative del Servizio, modalità di fusione fra unità operative, denominazione delle unità operative. Ma non è questo il punto.