La difficile memoria urbana dei disastri industriali: il caso di Broni e di Casale Monferrato
I disastri industriali, intesi sia come catastrofi tecnologiche acute sia come esposizioni prolungate ad agenti inquinanti tali da aver provocato danni gravi o gravissimi all’ambiente e alla salute di lavoratori e abitanti, hanno generato nel tempo e nelle comunità problemi di memoria e narrazioni conflittuali. Peraltro, ciò si evidenzia in molti casi di deindustrializzazione, anche al di là dell’evento catastrofico, per esempio sotto forma di nostalgia della comunità per fonti di impiego ben pagate e stabili((Roberta Garruccio, Chiedi alla ruggine. Studi e storiografia della deindustrializzazione , in Gabriella Corona (a cura di), Aree deindustrializzate, numero monografico di “Meridiana”, n. 85 (2016), p. 57.)) che possono tendere a “mettere nell’angolo”, a trascurare o minimizzare gli effetti dannosi di quelle produzioni, non denegati ma talvolta confinati in un processo di riconoscimento del danno del tutto individuale.
I sociologi hanno sottolineato come i disastri (naturali o industriali) possono essere alla base di un mutamento sociale a livello comunitario. Gli effetti e la profondità di tale mutamento dipendono dalla “vulnerabilità” della comunità locale: vulnerabilità fisica, sociale, economica, politica. Da qui discende la possibilità di reagire efficacemente al dramma, di interiorizzarlo in una visione collettiva tale da costituire persino un’opportunità, una «terribile occasione» di cambiamento o di resilienza. Ciò dipende da svariati fattori interconnessi: tra gli altri, la capacità della comunità di compattarsi di fronte al disastro; la presenza di forti legami di integrazione orizzontale, con un ampio capitale sociale diffuso tra i cittadini; relazioni robuste tra la comunità e il mondo esterno, le comunità confinanti, le istituzioni politiche sovraordinate((Michele Rostan, La terribile occasione. Imprenditorialità e sviluppo in una comunità del Belice , il Mulino, Bologna 1998, pp. 13-53.)). Tuttavia, sovente le catastrofi industriali tendono ad allargare fratture preesistenti e a provocarne di nuove, a generare conflitto sociale e politico all’interno della comunità, come nel caso del disastro di Seveso((Bruno Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale , FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 45-55.)) .
Il livello di fratture comunitarie indotte da un disastro industriale dipende, per esempio, dal ruolo e dall’importanza dell’insediamento produttivo nel tessuto cittadino e dal conseguente livello di identificazione della città nella “sua” fabbrica; dalla presenza di preesistenti mobilitazioni ambientaliste, dalla loro forza e dal loro radicamento; dal ruolo giocato dalla proprietà industriale, dal suo paternalismo, dalla sua capacità di influenzare l’opinione pubblica; dalla situazione economica circostante; dall’atteggiamento dei sindacati, delle amministrazioni comunali, delle strutture associative cittadine.
Il rifiuto dello stigma della contaminazione è una reazione di difesa classica delle comunità nei confronti della contaminazione ambientale((Sonia Stefanizzi, Bertam Niessen, Domingo Scisci, Seveso 30 anni dopo: costruzione sociale della memoria e rappresentazione del rischio , in Barbara Pozzo (a cura di), Seveso 30 anni dopo: percorsi giurisprudenziali, sociologici e di ricerca , Giuffrè, Milano 2008, pp. 55 ss.))così come, in generale, anche di fronte a eventi traumatici naturali o bellici (reazioni analoghe si sono riscontrate per esempio in alcune comunità vittime di stragi naziste nella seconda guerra mondiale). Tale rifiuto risulta particolarmente forte laddove gli imprenditori della memoria e gli enti intermedi (amministrazioni locali, associazioni, sindacati) hanno lungamente rinunciato a gestire il trade-off tra lavoro e salute, puntando alla difesa dei posti di lavoro e della produzione, soprattutto in zone depresse. Si è generata allora una forma di rimozione della memoria, di chiusura a riccio della comunità rispetto a conseguenze che, una volta “esplose”, non riescono a essere integrate nella percezione e nell’identità cittadina, all’interno di definiti «quadri della memoria» 5 , ma ne vengono espunte, ostracizzate ed esorcizzate, e la stessa elaborazione dei lutti resta confinata alla sfera privata e familiare, senza mai diventare collettiva. Si sviluppano allora narrazioni frammentate e conflittuali dell’evento, che possono emergere anche a distanza di molti anni.
È quello che si evidenzia per esempio nella differenza fra i casi di contaminazione di amianto di Casale Monferrato e di Broni. Nella prima città, l’opera dei sindacati ha consentito di mobilitare la cittadinanza e la politica locale in modo compatto già nei primi anni Ottanta, al fine di individuare un percorso di uscita da quella produzione (che cesserà nel 1986). E oggi Casale è diventata – non a caso – l’emblema nazionale e anche internazionale della lotta contro la “polvere grigia”. Nel caso – sconosciuto ai più – della cittadina dell’Oltrepò pavese, invece, nonostante una situazione sanitaria anche più grave di quella casalese (in termini relativi), sindacati e amministratori hanno difeso la fabbrica-città fino all’ultimo, tanto che lo stabilimento ha chiuso solo nel giugno 1993, sfruttando al massimo le deroghe previste dalla legge 257 del 1992, che metteva al bando l’estrazione e la lavorazione dell’asbesto nel nostro Paese. Insomma, in un territorio come quello oltrepadano, caratterizzato da una industrializzazione tardiva e da una deindustrializzazione precoce, il processo di rimozione è stato fortissimo e totalizzante, con ricadute serie anche sulla bonifica del territorio, sulle vicende processuali e sul tessuto associativo ambientalista e antiamianto. La stessa elaborazione dei lutti ha faticato molto a diventare collettiva, restando confinata nell’ambito privato((V. Bruno Ziglioli, “Sembrava nevicasse”. La Eternit di Casale Monferrato e la Fibronit di Broni: due comunità di fronte all’amianto , FrancoAngeli, Milano 2016; Id., Il nemico invisibile. La fabbrica e la città in Italia tra memoria e rimozione: il caso dell’amianto a Casale Monferrato e a Broni , in Id., (a cura di), Rivelare e nascondere. La città italiana come spazio di costruzione identitaria, politica e culturale dal XIX al XXI secolo , numero monografico di “Storia Urbana”, n. 154 (2017).)).
Queste due modalità quasi estreme, agli antipodi, di cristallizzazione delle memorie collettive, tendono a convivere e a sovrapporsi in modo conflittuale nei tessuti urbani e industriali più ampi e complessi, come per esempio nel caso di Taranto((Roberto Giannì, Anna Migliaccio, Taranto, oltre la crisi, in Gabriella Corona (a cura di), op.cit., pp. 155-180.)), con un ventaglio di visioni urbane che vanno dalla “invisibilizzazione” della fabbrica passata o presente, per esorcizzare lo spettro della sua chiusura e della conseguente disoccupazione, alla sua “ipervisibilizzazione” quale fonte di tutti i mali della città (trascurando magari fattori diversi e più risalenti di crisi ambientale e sociale). Anche in questi casi le ricadute concrete possono essere così forti da rendere inevitabilmente più complessa e delicata l’azione dei pubblici poteri nella gestione dell’emergenza e nella ridefinizione degli assetti urbanistici ed economici della città.
Bruno Ziglioli, Università di Pavia
3 Bruno Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale , FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 45-55.
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