La politica ecologica del movimento operaio

1.   Ecologia e politica in Italia*

Anche se il rapporta uomo-ambiente ha implicazioni universali (sia pratiche che culturali), può essere utile, per mantenere un ancoraggio alla realtà immediata, partire dal significato che va assumendo il termine ecologia nel linguaggio politico italiano.

Mi pare che esso stia surrogando, negli anni ‘70, il termine programmazione, che ebbe fortuna negli anni ‘60. Allora si giudico necessario «riparare alle di sardonie che sinora hanno accompagnato il progresso», il quale «non è garantito dalla semplice libertà economica» (Pantani, Napoli, Congresso Dc); ora invece è necessario esaminare «il grado di turbamento dell’equilibrio di fattori naturali, le prospettive di ulteriore deterioramento di tale equilibrio, i rimedi e le prevenzioni possibili» (Fanfani, Senato, 1971). Si parte, in ambedue i casi, dalla velata constatazione che il meccanismo spontaneo (capitalistico) genera nuovi conflitti, e si ricorre sempre a camuffamenti propagandistici, a consultazioni di esperti, a soluzioni meramente tecniche. In ambedue i casi, si prospetta lo stesso fallimento. Per la programmazione, sono occorsi alcuni anni perché perfino il documento preliminare al Programma 1971-1975 riconoscesse che si era ottenuto esattamente il contrario del «superamento degli squilibri settoriali, territoriali e sociali che caratterizzano lo sviluppo economico, italiano», posto a base del Programma 1965-1970. Chiunque può oggi constatare le difficoltà strutturali dello sviluppo stesso. Per l’ecologia, è bastata una stagione.

Dopo l’attiva primavera del presidente del Senato (il primo discorso sull’argomento fu pronunciato il 18 febbraio, quando gli consegnarono V Oscar dei giovani), e venuta l’estate con gli incendi dei boschi ed i furti delle opere d’arte, e poi l’autunno con i fiumi già straripanti d’acqua e le vie urbane straripanti d’auto.

E tuttavia, programmazione e politica ecologica (fra loro collegate) sono necessità del paese, Sono parole che alcuni governanti usano lanciare per aria come palloni, pieni di gas inerte e predestinati allo scoppio, ma sono anche concetti con intrinseca validità; particolarmente in un paese, come l’Italia, nel quale il rapporto uomo-ambiente si presenta con tonalità caratteristiche. Vorrei sommariamente elencarne alcune:

a. La condizione fisica e geografica della penisola. Mi pare che l’Italia sia tra i paesi più vulnerabili (ami, fra i più colpiti) dalla devastazione idrogeologica e dall’inquinamento dell’aria, del suolo, delle acque. Fa parte del continente più industrializzato, ed è immersa in un mare relativamente chiuso ed altamente contaminato. Ha una piattaforma continentale, in fondo marino fra i più vasti ed accessibili, e potrebbe quindi dilatare (pacificamente, industriosamente) i confini delle sue risorse, ma rischia invece di ridurre il potenziale biologico delle sue terre e delle sue rive, e di ridursi essa stessa di volume, per il franare dell’Appennino e delle Prealpi verso il mare.

b. L’intreccio profondo tra natura, lavoro e cultura. È difficile separare, in Italia, quanto è stato plasmato dalla natura e quanto dal lavoro e dall’ingegno umano. Soltanto una concezione aristocratica della cultura può distinguere le opere di difesa lagunari dall’architettura e dall’urbanistica della repubblica veneziana, o può ignorare nell’Umbria e nella Toscana il rapporto fra  lavoro agricolo, paesaggio ed arte del Rinascimento (cfr. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano), o può sottovalutare le radici economico-sociali della « dilapidazione obbrobriosa di quel bene comune del popolo italiano (e domani della società socialista) che e il nostro patrimonio artistico, di cui fra l’altro siamo responsabili di fronte al resto del genere umano» (Luporim).

c. La responsabilità delle classi dominanti. Le difficoltà di avviare una politica ecologica vengono oggi attribuite alla “sovrapposizione di competenze” fra organi dello Stato (e si invoca, tanto per evitare i mali della burocrazia, un nuovo Ministero ad hoc), ma è difficile evitare in tal modo il giudizio storico sulla miopia e sulla furia depredatrice della borghesia italiana. Esiste un filo nero tra la “ campagna del grano “, che convertì a coltura estensiva terre inidonee destinandole alla degradazione, ed il piano verde (ora, il piano Mansholt) che spinge all’abbandono delle colline. Esiste una coerenza tra la compera tradizionale di mano d’opera nel Mezzogiorno, per alimentare il sottosalario nel Nord, e l’invito che viene attualmente rivolto al Sud, meno congestionato, a “vendere ambiente” per nuove imprese del capitale, cioè a mettere all’incanto ed a sottoporre alle medesime rapine, dopo gli uomini, la natura stessa. Esiste una coincidenza nel fatto che le cronache riportino lo stesso giorno (6 gennaio 1971) la notizia della mite sentenza depositata in Appello per la catastrofe idrologica e umana del Vajont, e del severo rinvio a giudizio di 50 braccianti di Petralia Sottana (Palermo), rei di aver piantato col lavoro volontario (ma senza autorizzazione) dodicimila piantine di  rimboschimento in una collina dissestata, sostituendosi all’inerzia della Forestale.

d. La presenza del movimento operaio e democratico. Esso spicca, da tempo, nel paesaggio politico italiano. Posizioni un tempo isolate e perfino derise, come il “ ruralismo “, la priorità del trasporto collettivo, la concezione del Sud come problema nazionale anziché assistenziale, il rapporto fra riforma agraria e sviluppo industriale, la preminenza della prevenzione ambientale sulla terapia mutualistica, sono oggi largamente condivise, sebbene ancora eluse. Manifestazioni di lotta come quella pugliese per l’acqua e la terra, come quella genovese contro gli inadeguati provvedimenti post-alluvione, sono state definite dalla federazione Pro natura «i primi scioperi ecologici», Le esperienze delle amministrazioni popolari (dalla riviera romagnola alla provincia di Firenze) sono state fra le poche attività di governo che abbiano effettivamente mosso (o meglio; depurato o incanalato) le acque in Italia.

Constatare, oggi, che l’impegno non è pari alla nuova dimensione politica e culturale del problema, che la sensibilità e la disponibilità delle masse sopravanzano spesso il movimento organizzato, non è sufficiente. Occorre ricercare insieme, coraggiosamente, i motivi profondi di queste carenze, è una “lacuna settoriale” o esprime difficoltà politiche e teoriche più ampie? Propendo per la seconda ipotesi.

Nello sviluppo politico, esprime la difficoltà di collegare in un disegno organico le riforme strutturali e sovrastrutturali, l’esigenza di trasformare indirizzi tecnologici finora considerati come oggettivi e immutabili, le incertezze nell’assumere con piena responsabilità il tema dello sviluppo, le sfasature fra essenziali lotte operaie (p. es. per la salute in fabbrica), contadine (p. es. per i patti agrari), urbane (p. es. per la casa) e l’obiettivo di un assetto globale del territorio e dell’ambiente.

Nello sviluppo teorico, esprime in Italia l’unilateralità dell’asse storico-umanistico (certamente fecondo) che ha dominato nel nostro movimento, la difficoltà di un’analisi sul rapporto fra le contraddizioni arretrate e quelle nuove del capitalismo (A, Minucci), ed esprime internazionalmente l’offuscamento di una prospettiva mondiale in conseguenza delle lacerazioni fra paesi socialisti, ed il tormentato confronto tra scienze della natura e pensiero marxista

2.   Sviluppo scientifico e mutamenti demografici

II superamento di  queste difficoltà passa per l’acquisizione dei nuovi dati collegati alla rivoluzione scientifico- tecnologica e nell’espansione demografica.

Le categorie «inquinamento planetario» e «sovrapopolazione», sebbene largamente diffuse, non esprimono la complessità dello sviluppo reale. Fin dal sorgere della borghesia nascono rischi, ma anche possibilità nuove di modifica del rapporto uomo-ambiente. Successivamente, la necessità di controllare socialmente la forza naturale (Marx) si manifesta su scala più vasta.

Proprio dall’esigenza di calcolare gli effetti remoti della nostra attività rivolta alla produzione (Engels), che è oggi condizione per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità, prendono slancio nuovi indirizzi scientifici:  l’ecologia, che consente di conoscere gli equilibri planetari della biosfera, e-la cibernetica, che permette di predisporre un sistema di regolatori dello sviluppo.

Il marxismo, come scienza economica e come movimento politico delle classi lavoratrici, come scienza e prassi della rivoluzione, ha per altro verso analoga potenzialità (espressa finora incompiutamente) di guidare il processo sociale verso traguardi lontani, mentre «la scienza borghese della società, l’economia politica classica, si occupa soprattutto degli effetti sociali immediatamente visibili dell’attività umana rivolta alla produzione e allo scambio» (Engels).

Gran parte però degli effetti naturali e sociali dell’intervento produttivo sfuggono tuttora alla previsione e al controllo, proprio mentre si ha un’accelerazione dello sviluppo e mentre l’uomo, che diviene “ fattore geografico “ e si avvia a diventare “fattore genetico”, segna ormai un’impronta che potrà essere negativa o positiva, ma comunque indelebile, nella sfera biologica e finanche geologica.

Le alternative si fanno, in ogni campo, più globali e più urgenti.

Nel campo energetico, per esempio, si ha un rapido consumo del combustibile fossile (carbone, gas, petrolio) ed una emergenza contemporanea di fonti fisiche (uranio e torio, reazioni termonucleari controllate, ecc.) quasi inesauribili, si ha cioè un ritmo delle scoperte che gareggia con quello dell’esaurimento o dell’indisponibilità delle sorgenti tradizionali di energia. Alla maggiore disseminazione di ossido di carbonio, di anidride carbonica, di anidride solforosa per l’uso incontrollato del petrolio fa riscontro la recente riduzione della contaminazione radioattiva, non ancora consolidata ne irreversibile, ma significativa come uno dei pochi esempi di quel che possano l’allarme degli scienziati, la pressione dell’opinione pubblica, gli accordi fra i governi.

Anche nel rapporto con l’acqua, il suolo e l’atmosfera vediamo possibilità nuove e rischi gravissimi. Gli oceani possono divenire fonte di alimenti in misura forse superiore all’agricoltura, ma vengono spinti verso la biodegradazione. II sottosuolo dei continenti e dei mari può fornire sostanze organiche e minerali a profondità crescenti, mentre prosegue però l’erosione e la contaminazione dei terreni coltivabili. Dimensioni sempre più vaste vengono esplorate oltre l’atmosfera e lo spazio terrestre, con un ricco fall out di scoperte utili per la metereologia, le comunicazioni, la tecnologia, la biologia, la cibernetica, ma contemporaneamente l’atmosfera si carica di prodotti catabolici e sembra profilarsi una carestia dell’ossigeno.

Nella regolazione dei cicli  biologici e nell’accrescimento delle disponibilità di cibo (e di acqua), scienza e tecnica rendono possibile nutrire una popolazione tripla dell’attuale; ma la fame (sconosciuta nella nomenclatura nosologica Oms delle cause di morte) uccide oggi dalle 50 alle 100 mila persone al giorno.

Anche l’evoluzione demografica presenta segni ambivalenti, che meritano dal marxismo maggiore attenzione, se è vero che

«secondo la concezione materialistica della storia, l’elemento in ultima istanza determinante nella storia è la produzione e riproduzione della vita immediata. Ora, questa e essa stessa di due sorte. Da un lato produzione dei mezzi d’esistenza […] dall’altro produzione dei medesimi esseri umani, propagazione della specie» (Engels).

L’intreccio dei –rapporti di riproduzione con i rapporti di produzione è tale da giustificare la polemica di Marx verso Malthus:

«Ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide. Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella, misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia».

È vero che le estrapolazioni demografiche, oggi alla moda, sono tanto più dinamiche, fino a prevedere dodici miliardi di uomini fra un secolo, quanto sono statiche nella concezione dei rapporti sociali e politici. Ma proprio perché il marxismo è scienza del movimento storico in atto non può ignorare le leggi attuali della popolazione ed i mutamenti intervenuti dopo Marx, e dopo Lenin.

La prima novità (positiva) sta nel fatto che la morte può essere sottratta al capriccio della natura o alla selezione razziale e sociale, e che la procreazione può divenire un atto cosciente e programmato. In conseguenza assistiamo quasi ovunque, da alcuni decenni, ad una riduzione contemporanea della mortalità e della natalità. Ma poiché profilassi e terapia hanno mostrato, come fenomeni sovrastrutturali, una diffusibilità più immediata delle tecniche e della volontà del birth-control, che maggiormente dipendono dalle strutture sociali e dagli ordinamenti politici, si e avuto in molti paesi un incremento demografico eccezionalmente rapido.

La seconda novità (ambivalente) sta nel fatto che l’aumento della popolazione nei paesi che intraprendo ora il cammino dello sviluppo industriale è più intenso (3-4% annuo) di quello che fu in Occidente (intorno all’1% annuo) durante il decollo industriale, con le difficoltà che ciò implica sui processi di accumulazione e sulla distribuzione delle sussistenze, con le conseguenze che ciò provoca nello  spostamento  della popolazione mondiale verso nuovi rapporti geografici, economici, politici.

3.   Lo sfruttamento su scala planetaria

Lo sviluppo contemporaneo della scienza, della tecnica e della popolazione accresce il distacco fra il processo lavorativo semplice, nel quale l’uomo «mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita» (Marx) e la produzione sociale, nella quale «l’uomo non entra in rapporti con la natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica» (Gramsci). L’umanizzazione (o disumanizzazione) della natura si compie perciò attraverso rapporti sociali determinati, e la natura così trasformata, come fosse uno specchio, rinvia agli uomini l’immagine (oggi ingrandita e chiarita, come non mai) dei rapporti fra essi esistenti.

Questa immagine comprende classi sociali che considerano proprietà privata determinate porzioni del globo terrestre, che esercitano un diritto monopolistico su beni universali come il suolo, l’aria e le acque, ed altre classi fatte di uomini che non sono padroni neppure della propria corporeità. Comprende inquinatori e inquinati», sfruttatori e sfruttati.

Le condizioni del lavoro alienato permeano oggi a tal punto l’intera vita degli uomini, che le malattie professionali diventano malattie sociali, che la fabbrica contagia l’ambiente, che la nocività del lavoro industriale si allarga (in dosi più o meno diluite) a tutta la popolazione, che lo sfruttamento si estende su scala planetaria.

parvenus della protezione della natura, capaci di commuoversi giustamente per i guasti dell’aucupio o per la rarefazione di nobili pinnipedi, pronti a mobilitarsi quando rischia di scomparire una specie animale, hanno ignorato a lungo che la prima “natura” colpita è stata quella dell’uomo, dell’operaio, e continuano ad ignorare il fatto che scompaiono negli infortuni e nell’usura precoce i lavoratori; è forse perché la loro specie continua. a riprodursi, a garantire che .il lavoro vivo alimenti il lavoro morto, il capitale.

Oggi, tuttavia, la preoccupazione comincia a divenire universale. Il giovane Marx descriveva in questi termini l’habitat degli operai durante la prima rivoluzione industriale:

«La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più) per l’operaio. La luce, l’aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della  civiltà, diventa per l’operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta».

Oggi, il medesimo sistema sociale trasforma la putrefazione della natura in fenomeno universale. Il Marx della maturità, commentando lo sconforto degli ispettori di fabbrica nel constatare l’impossibilità di garantire il minimo di 500 piedi cubi d’aria per operaio, perché «attaccherebbe il modo di produzione capitalistico alla radice», scriveva che essi «in realtà dichiarano che la tisi e altre malattie polmonari sono una condizione della esistenza del capitale». Lo sconforto odierno degli ecologi, dei naturalisti, degli igienisti di fronte alla «spaventosa inerzia dell’industria nel  ridurre gli inquinamenti» sembrerebbe indicare che le tossicosi planetarie sono divenute la nuova condizione dell’esistenza del capitale.

Mi pare che, in queste condizioni, nasca un problema nuovo. L’aprés moi le déluge di ogni classe al tramonto assume un significato letterale, realistico. Nel passato, la cessazione del dominio di una classe coincise spesso con gravi crisi sociali e comportò mutamenti nel rapporto uomo-ambiente, a volte irreversibili, ma sempre geograficamente circoscritti. Ora, non solo va esaurendosi la funzione civilizzatrice del capitale nel “ dominio della natura “da parte degli uomini, ma il tramonto della borghesia pesa sull’intero pianeta, rischia di trascinare nel crollo la biosfera, deteriora l’ecosistema nel quale si svolge l’evoluzione dell’uomo.

Il capitale universalizza lo sfruttamento, lo proietta alle basi naturali della vita, minaccia resistenza delle future generazioni. Soltanto la cecità di fronte a questi fenomeni può giustificare la diffusione del termini “razionalizzazione” e “sistema”, applicati all’attuale fase del capitalismo; soltanto un’ottica angusta può ignorare, nell’alternativa “crisi o sviluppo”, che insieme alla compressione ed alla distorsione delle forze produttive sociali è in atto una vasta distruzione delle forze produttive naturali; soltanto le difficoltà dell’affermarsi universale di una forza alternativa, del proletariato e dei suoi alleati, possono spiegare la persistente sopravvalutacene delle “capacità di integrazione” da parte della borghesia.

Il ricorso  alle armi del genocidio e del biocidio, il napalm ed i defolianti sulla penisola indocinese, il gas nervino nell’Atlantico, la sterilizzazione degli indiani, non sono inspiegabili atti criminosi: rappresentano disperati tentativi di frenare il declino di un dominio di classe, ed esprimono, nella forma eccezionale di atti deliberati dell’imperialismo, do che è forma regolare del suo essere. Genocidio e biocidio rappresenterebbero infatti l’orizzonte probabile, la proiezione quasi inevitabile dello sviluppo anarchico e predatorio del capitalismo, se non fosse in atto nel mondo il rivolgimento politico che ebbe inizio nel 1917.

4.   Orientamenti culturali e politici

Drammaticità della situazione e complessità delle prospettive concorrono a scuotere opinioni consolidate, a suscitare ripensamenti profondi, a stimolare con nuove motivazioni l’interesse alla politica (oppure, a spingere con nuove paure alla passività). Vorrei perciò esaminare, in modo sommario e frammentario, alcuni orientamenti culturali e politici che emergono

in questo periodo.

a. Il mondo cattolico. Il  disorientamento è qui profondo, e produce una divaricazione crescente. Esistono (per il volgo) interpretazioni estensive dell’enciclica Humanae vitae, come nell’opuscolo La famiglia cristiana:

«La fecondità è un bene per la Nazione. Un popolo numeroso è la sua più grande ricchezza; e se la patria è in pericolo, non ha bisogno di andare a mendicare da altri popoli umilianti alleanze, per difendere le proprie frontiere».

Ed esiste l’invito, invece, ad un «mutamento radicale nella condotta dell’umanità, se questa vuole essere sicura della sua sopravvivenza» (Paolo VI). Predomina fra i cattolici il giudizio negativo sulla distribuzione mondiale delle risorse, come critica iniziale, ancora timida, dell’economia capitalistica, ma si affaccia anche una critica dei rapporti di produzione e di scambio.

Il nucleo positivo dell’evoluzione del pensiero cattolico sta nella constatazione (raramente esplicita) che la Chiesa ha legato le proprie sorti ad una formazione economico-sociale rovinante, transeunte e perdente. È frequente però la tentazione di una rivincita medioevale o sismondiana, di ritenere che «nella mentalità edonistica sta il vero pericolo» (Sorge), e che il male risiede nella «frenesia produttivistica » e nella «corsa al benessere materiale» (Nebbia). Alcune espressioni di Paolo VI si mantengono su questa linea, altre richieggiano talora il giovane Marx (la priorità dell’essere sull’avere), talaltra Engels («non è più soltanto questione di dominare la natura: oggi l’uomo deve imparare a dominare il suo stesso dominio sulla natura»), e giungono perfino ad auspicare « il passaggio dalle economie di profitto, egoisticamente separate, ad un’economia solidaristica dei bisogni volontariamente assunti», Ma più spesso, nell’attività pastorale corrente e nelle scelte essenziali, funge da guida la citatissima lettera di Paolo a Timoteo; «è veramente fonte di guadagno grande la pietà, accompagnata dal contentarsi di quello che si ha». E poiché gli uomini stentano ad accontentarsi, si rinverdisce l’incubo dell’Apocalisse.

b. La catastrofe imminente. L’ultimo libro del Nuovo testamento, le sette visioni di San Giovanni, potrebbe divenite un best seller, tanto è diffusa, con fini disarmanti, la visione catastrofica del pianeta. La società suicida (Taylor), Stiamo distruggendo la terra (L’Espresso), L’apocalisse sulle ali del progresso (A. Buzzati Traverso) ed analoghi titoli si inseguono nelle edicole. Torna il ricordo dell’anno 1000:

«un’ecatombe universale dell’umanità è tra le cose certe nel termine dei prossimi decenni. Testi scritturali degli inizi dell’era volgare stanno per trasformarsi, da profezie religiose, in anticipate descrizioni scientifiche» (Fanfani).

Ogni catastrofe ha anche i suoi salvatori, Non so se sia questo il motivo per cui l’on, Andreotti, noto per la sua intelligente malizia, ha dichiarato a un giornale che lo spettacolo da lui preferito quest’anno è Alleluja, brava gente: garbata rivista ambientata nell’anno 1000, protagonisti un avventuriero lungo (Proietti) ed uno corto (Rascel), che terrorizzato un paese con l’imminente fine del mondo fanno man bassa di ricchezze e di potere.

Ma oltre all’uso strumentale del catastrofismo, che possono tentare un Nixon o un Pantani, vi è la sostanza di una crisi irreversibile dell’idea borghese di progresso, la quale ha significato «che la civiltà s’è mossa, si muove e continuerà a muoversi in una direzione desiderabile» (Bury); vi è la diffusa ma paralizzante sensazione che il crollo di una data prospettiva storica rappresenti il crollo di ogni prospettiva, la fine stessa della storia. Alle idee-forza che hanno agito precedentemente (la provvidenza, poi la libera intrapresa) non si riesce a sostituire nuove idee, nuove forze motrici del progresso.

Il nucleo razionale di questi orientamenti sta nella coscienza di un rischio nuovo, reale, vicino; nell’invito a collocare se stessi nel quadro complessivo del destino dell’umanità; nel condurre ciascuno (noi compresi) a ripensare se la mèta verso cui si cammina sia quella desiderabile. La concezione corrente dell’ecocatastrofe esclude però, come una delle variabili dell’ecosistema, la volontà organizzata e la lotta politica delle grandi moltitudini umane, ed implica l’immutabilità degli attuali rapporti sociali. Essa può perciò generare il fatalismo, l’irrazionalità, e perfino l’aperta reazione. Per mettere fine a! disordine della natura, può apparire necessario ripristinare il vecchio” ordine” della società, anziché ricercare nuovi sistemi sociali che consentano il progresso ordinato dell’umanità.

c. II malthusianesimo demografico e produttivo. La tesi è che «la pressione demografica è la causa, fuma. della .distruzione dell’ambiente, sia nei paesi poveri che nei paesi ricchi» (IPP News), che il male sta quindi nel numero, non nei rapporti esistenti fra gli uomini. Una variante consiste nell’accusare gli oggetti di essere troppo numerosi, trascurando di valutare quali oggetti siano in eccesso e quali in difetto, dimenticando che «quel che assume per gli uomini la forma di. un rapporto fra le cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi» (Marx). Le conclusioni vengono tratte da Mac Namara, che non essendo riuscito a frenare l’emancipazione del Vietnam si dedica ora a frenare la natalità nel terzo mondo, o dal suo agente all’Unesco, secondo il quale bisogna «mettersi sulla strada del de-sviluppo, consumando meno energia, e meno di tutto, rispetto ad oggi», ma bisogna soprattutto «convincere i popoli in via di sviluppo che essi non potranno mai raggiungere un livello di vita paragonabile a quello degli Stati Uniti».

Ho già accennato alle nuove leggi della popolazione, con le quali il movimento operaio deve fare i conti con maggiore chiarezza. II nucleo valido della “pianificazione familiare” è che l’impegno per una regolazione cosciente della natalità dovrebbe costituire in tutti I paesi parte integrante del programma rivoluzionario, e che l’impegno per una limitazione cosciente delle natalità (fino a livelli del 30-20 per mille abitanti) rappresenta in alcuni paesi una delle condizioni-conseguenze dello sviluppo e della trasformazione della società. Dico alcuni paesi, non tutti e non certo (salvo qualche situazione) l’Italia, dove la natalità è al 17 per mille contro una mortalità generale del 10 per mille, ed i soli fenomeni demografia che abbisognano di freni immediati sono la mortalità infantile e l’emigrazione.

Regolazione e limitazione della natalità non possono tuttavia trasformarsi in fenomeni coatti, in pretesti per nuove forme di oppressione; anzi, l’esperienza mostra che soltanto dove esiste progresso economico-culturale si creano nuovi equilibri della popolazione. II malthusianesimo postula invece un’incompatibilità fra sviluppo e sopravvivenza, e predica la conservazione o il regresso dell’attuale società.

d. La tecnica avversa e la natura amica. Erasmo, almeno, aveva posto in bocca alla pazzia la tesi che sono infelici quelli che «nati uomini […] a mo’ dei giganti muovono guerra alla natura, e le scienze son le loro macchine da guerra», mentre «poco o nulla sono infelici quelli che più si avvicinano al naturale delle bestie, alla loro sconsideratezza, e si guardano bene dal tentar cose oltre l’umano», Ora si afferma con la massima serietà che «quelli che hanno più probabilità di uscire indenni dall’avventura sono i pigmei delle foreste africane» (Dorst). Si esalta ogni specie vivente, compresa magari Glossina palpalìs e Pasteurella pestis, si dimenticano le civiltà scomparse a causa

della natura ostile, si ignora che solo nel XX secolo la maggioranza degli uomini ha cominciato ad avvicinarsi al compimento del proprio ciclo vitale, mentre prima la natura amica provvedeva ad interromperlo prima di un terzo o di metà del cammino. Si trascura l’avvertimento di Wiener:

«noi non siamo liberi di ritornare al nostro stato primitivo […] il modo di sopravvivere non deve essere ricercato nel passato […] dobbiamo continuare a inventare nuove tecniche e a guadagnarci il pane non soltanto con il sudore dei nostri muscoli, ma con il metabolismo del nostro cervello».

Il nucleo realistico del –naturismo può consistere nel riaffermare la distinzione (spesso dimenticata) fra dominio e depredamento dell’ambiente, nel rammentare che, fra i molti equilibri che si creano in quel processo di conservazione-distinzione che è la storia della natura, uno solo (sia pure dinamicamente inteso) è idoneo alla vita di Homo sapiens. Ma l’invito a non mutare l’omeostasi della natura sottintende, quasi sempre, l’appello a non modificare l’omeostasi della società, il richiamo a non turbare la pace sociale con la lotta di classe.

e. Il doppio affare dell’inquinamento. Negli Stati Uniti si va sviluppando, all’insegna della protezione dell’ambiente, «un disegno strategico che la creazione di una nuova struttura industriale e un incentivo alla domanda globale, che si affianchi, con gli stessi protagonisti industriali, al già fiorente complesso militare-industriale», e si va creando «un intreccio indissolubile, una vera integrazione, fra le aziende produttrici di prodotti inquinanti e quelle che fabbricano sistemi di deinquinamento» (Santoro). Anche in Italia si ha questo incesto, dal quale nascono società miste, richieste di esenzioni fiscali e proposte di tasse sull’acqua potabile (10 lire al me) per costruire gli impianti di depurazione.

«La legge sull’acqua – dettava Platone – dunque sia questa: Chi corrompe con veleni l’acqua altrui, sia citato in giudizio […] se riconosciuto colpevole di danneggiamento con veleni, oltre alla multa sia condannato a purificare le fonti o il deposito dell’acqua».

Da noi, invece, multe e citazioni in giudizio rischierebbero di colpire i danneggiati.

Tuttavia, quando l’impegno dell’industria nella lotta agli inquinamenti non è soltanto fumo negli occhi (che si aggiunge al fumo nei polmoni), un nucleo utilizzabile esiste anche Ìn questo caso: dimostrare che è possibile impiantare produzioni “pulite”, che esistono anche soluzioni tecniche, quando si cambia la politica ecologica. L’orientamento dominante è però di ricercare tecnologie che sostituiscano (o meglio, che impediscano) le trasformazioni sociali storicamente mature. Qualora gli uomini stentino a piegarsi, anche per essi si  approntano tecniche di manipolazione: genetiche o enzimatiche domani, pubblicitarie e propagandistiche per oggi.

f. Il boomerang di Nixon. Il messaggio nixoniano del 22 gennaio 1970, salutato da alcuni come una speranza per il mondo temuto da altri come una ricetta efficace per l’ipertensione politica, ha rivelato presto la sua natura contraddittori a; espressione di una crisi reale, e tentativo di sortirne con nuovi mezzi. Come mossa propagandistica, efficacissima all’inizio, è colata a picco col gas nervino nell’Atlantico. Come nuovo business, prosegue il suo corso. Come surrogato della contestazione rischia di giustificare il proverbio cinese; i reazionari alzano grandi sassi, e li lasciano ricadere sui propri piedi. Anche se Nixon aveva attribuito la responsabilità «a tutti gli uomini», ed aveva ammonito che «la lotta contro gli inquinamenti non deve essere una caccia al colpevole, in America e altrove è sorta la domanda; perché una società cosi ricca tecnologicamente produce una vita di qualità così povera? E le risposte sono state severe. Biocidio, razzismo e Vietnam sono state ricondotte ad una matrice comune.

E così, perfino l’iniziativa di Nixon ha mostrato (lui malgrado) un risvolto positivo, ha spinto alla riflessione, ha segnalato che natura e politica non sono termini antitetici, bensì comunicanti. Il governo statunitense cerca ora all’interno di deviare verso un’azione individuale («ognuno deve pulire un pozzetto d’America») l’impegno dei cittadini, come al tempo (a noi noto) degli orticelli di guerra; e cerca, insieme, di esportare le proprie contraddizioni all’esterno. II gioco dell’inquinamento, messo in vendita per i bambini Usa nel Natale 1970 (vince chi riesce a pulire al massimo il proprio ruscelletto buttando l’immondizia nel lago vicino), viene attuato su scala mondiale, non senza successo. Anche questo porta a concludere che un’alternativa efficace deve avere dimensioni e respiro internazionale.

5.   Problemi del movimento operaio

Mentre si manifesta la più profonda crisi di fiducia che abbia mai investito la borghesia, mentre si anemia come coscienza di massa l’incompatibilità fra le leggi del massimo profitto e quelle della sopravvivenza, il movimento operaio e democratico stenta ad esprimere compiutamente (nella politica e nella cultura) la propria capacità di guida. Il problema della soggettività rivoluzionaria – ha scritto Badaloni commentando Marx – è il problema della abbreviazione delle doglie del parto della nuova società. Vorrei aggiungere che tale abbreviazione si presenta oggi come una necessità letteralmente vitale.

Fra le ragioni delle nostre difficoltà credo sia da porre in primo piano una divaricazione tra il bisogno del comunismo, che particolarmente nell’ultimo decennio e emerso nella vita sociale (ed anche, direi, nell’evoluzione della  biosfera), e la fiducia nel socialismo come realtà statualmente organizzata.

Altri aspetti di questo problema (sviluppo della democrazia e della cultura, rapporto tra vie nazionali e internazionalismo, concezione del socialismo come fase di transizione, ecc.) hanno avuto ampia trattazione in altre sedi del nostro movimento.

Sul tema specifico di questo Convegno, pur essendo stato accusato di  manicheismo, continuo a ritenere falso, oltre che disarmante, lo slogan “tutti uguali nel distruggere l’ambiente”. Qualche differenza esiste fra la tutela di Leningrado e quella di Venezia, fra l’aria di Mosca e quella di Tokio. Uno scarto di 1 a 10, perfino, di 1 a 50 esiste fra i Mac sovietici e quelli statunitense (nelle leggi italiane, i Mac non esistono affatto); ma forse, l’atmosfera di fabbrica non ha rilevanza per chi concepisce l’ambiente solo in funzione del week end.

Discorsi più fruttuosi sono quelli sulle differenze e sulle analogie tra la legge del massimo profitto e la legge della massima produttività immediata (che ha prevalso per esempio in alcuni piani sovietici e nella Cina del «grande balzo»); sulla necessità di orientare i consumi in modo più coerente alle finalità del comunismo; sulla validità della recente autocritica sovietica («prima, sull’onda dell’entusiasmo tecnico, volevamo ottenere il massimo dalla natura; ora deve esservi un uso meditato, che limiti gli scarti e crei risorse per il futuro», ha detto Keldyš), sull’esigenza che la superiorità dei paesi socialisti si dispieghi con assoluta evidenza in questo campo.

Un’occasione di confronto viene data dal Convegno italo-sovietico sull’ecologia (Bologna, 13-15 gennaio 1972), promosso da Italia-Urss. Ma anche altre esperienze vanno criticamente acquisite: non solo per avere una visione mondiale del problema, ma per compiere noi stessi le scelte più idonee.

Proprio perché vediamo la rivoluzione come processo storico, non come palingenesi, consideriamo perciò disarmante rispondere alla domanda di V, Bettini «Che colore ha l’ecologia?» con il manifesto estremista apparso a Milano; «Ecologia = scienza borghese».

In termini biologici, si potrebbe dire che è difficile concepire un comunismo senza clorofilla. In termini politici, che ogni problema rinviato a dopo la rivoluzione significa ritardarne la vittoria e pregiudicarne i contenuti. In termini culturali, che abbiamo già donato alla borghesia, più scienze (relatività, genetica psicoanalisi, cibernetica, ecc.) di quel che meritasse. In termini teorici, che quanto più una scienza analizza equilibri complessi e prospetta soluzioni di lungo periodo (come dovrebbe fare l’ecologia), tanto più facile è il conflitto pratico-culturale con la borghesia, e tanto più possibile è l’incontro con il marxismo quale « scienza di prospettive » (Luporini).

«Altre relazioni al convegno (Prestipino, Aloisi, Di Siena, Misiti e Castelfranchi, ecc,), con maggiore competenza, esaminano perché questo incontro è stato finora ostacolato, spiegano come il rapporto uomo-natura-società è stato visto dal pensiero marxista, suggeriscono quali indirizzi di ricerca possono colmare il solco esistente fra gli odierni sviluppi delle scienze naturali ed umane e il marxismo teorico. Io vorrei soltanto segnalare la perdurante sottovalutazione di questi temi nel marxismo italiano e commentare i risultati (più che le radici filosofiche) dell’impoverimento derivante dall’intendere in senso assoluto due affermazioni: quella secondo cui l’uomo è soltanto «l’insieme dei rapporti sociali», e quella secondo cui nel marxismo «la natura appare sempre e soltanto nell’orizzonte della storia umana, in relazione alla produzione sociale».

II rischio sta innanzitutto nel relegare in un ghetto le scienze specifiche dell’uomo e della natura: sta poi nell’ignorare i danni prodotti (ed i pericoli di modificazioni irreversibili) sia alla naturalità dell’uomo, sia a quell’unico ecosistema dinamico in cui può svolgersi la storia degli uomini; sta inoltre nel trascurare (nella polemica sulla validità o meno di una dialettica della natura} il fatto che una storia della natura esiste, e va intersecandosi in modo profondissimo con la storia della società; sta infine nel chiudersi alla comprensione ed anche (quel che più conta) all’intervento sul nuovo livello storico e sociale al quale è giunto il rapporto fra l’uomo e l’ambiente naturale.

Mi pare che tale riduzionismo sia alla lunga paralizzante, quanto lo e stato il dogmatismo di quell’interpretazione del materialismo dialettico nell’Urss che è definita come diamat,quanto può esserlo l’idea di una natura che incombe sull’uomo e sovrasta la storia, Inoltre, una concezione dell’uomo che prescinda dalla sua storia naturale apre il varco alle interpretazioni di tipo biologico dei vizi dell’attuale società. II nuovo socialdarwinismo (in chiave regressiva, non più evolutiva) ha oggi una diffusione di massa, quasi incontrastata, mentre proprio gli sviluppi della scienza consentirebbero oggi di definire i passaggi e l’interdipendenza fra l’uomo naturale e l’uomo sociale; di costruire cioè su basi solide un’antropologia marxista; di dare un fondamento materialistico al “mondo dei valori”; di definire meglio una “teoria comunista dei bisogni”; di recuperare al processo rivoluzionario la duplice e contemporanea esigenza di umanizzare la natura e di naturalizzare l’uomo; di garantire che il mutamento dei rapporti sociali consenta ad ogni individuo di appropriarsi «del suo essere onnilaterale in modo onnilaterale» (Marx).

6.   Rivoluzione e progettazione

II movimento operaio e democratico ha avuto la capacità, nel ventennio trascorso, di dare scacco alla strategia del ricatto atomico, di impedire conflitti generalizzati, di ostacolare e mantenere aperte le vie dell’emancipazione. Lo sottolineo non per retorica, ma per mostrare che esiste una forza in grado di proporsi scopi universali, e di raggiungerli. Può oggi questa forza dare alla “battaglia ecologica” lo stesso respiro e la stessa capacità di mobilitazione di massa che ha avuto e che ha la lotta per la pace o la solidarietà internazionalista col Vietnam?

Le analogie fra lotta per la pace e lotta per l’ambiente (e le interconnessioni fra i due temi) sono evidenti. Gli avversari del genere umano sono gli stessi. L’indivisibilità della pace è simile all’unitarietà della biosfera: ogni turbamento ha ripercussioni mondiali. La salvezza degli uomini dalla guerra o dell’ecocatastrofe non può avvenire mantenendo lo status quo, esige trasformazioni dell’assetto sociale e dei rapporti internazionali, richiede lotte inevitabilmente aspre e contrastate. Gli interessi delle classi e delle nazioni oppresse coincidono, in ambedue i casi, con quelli complessivi dell’umanità.

In termini politici attuali, si può porre la domanda; quali contenuti avrà la nuova fase internazionale di lotta-coesistenza che si è aperta quest’anno? Se guardiamo alla prospettiva generale, risulta evidente che la socializzazione cosciente della biosfera e la progettazione scientifica delle risorse sono possibili soltanto in un sistema internazionale di rapporti socialisti, e che perciò la fine del capitalismo e la rivoluzione mondiale rappresentano la sola possibilità, per gli uomini, di sopravvivere nei prossimi secoli su questo pianeta, di assicurare lo sviluppo, di godere delle immense possibilità offerte dalla rivoluzione scientifico-tecnologica. Ma il processo politico reale deve già ora incorporare questi contenuti.

Se è vero, per esempio, che la contaminazione ambientale è condizione dell’esistenza del capitale (come era la tubercolosi ai tempi di Marx), allora ogni lotta contro gli inquinamenti vinta con la mobilitazione di massa colpisce gli attuali rapporti sociali e organizza le forze antagoniste del capitalismo. Se è vero che la corsa agli armamenti di storce le risorse e minaccia l’umanità, allora ogni lotta per il disarmo (che sia, insieme, lotta per l’indipendenza e per la crescita economica dei popoli oppressi) fa parte dello sforzo necessario «per salvare, sviluppare ed abbellire il nostro pianeta» (U Thant). Se è vero che la proprietà privata della natura (da parte di classi sociali e, al limite, di singoli Stati) è di ostacolo alla conservazione-trasformazione dell’ambiente nell’interesse di tutti gli appartenenti all’indivisibile specie Homo sapiens, allora ogni sviluppo della proprietà pubblica, dell’accesso universale e del controllo sociale sui beni naturali e culturali vale ad intaccare i privilegi esistenti e ad estendere i diritti dei singoli uomini.

Gli esempi potrebbero proseguire. In ogni campo sono possibili risultati parziali, sono necessari accordi interstatali, sono inevitabili compromessi legislativi. Ma è indispensabile che il fare complessivo sia sempre esplicito, e che ad esso sia subordinata ogni scelta. II tema planetario del rapporto uomo-ambiente può costituire perciò uno dei terreni d’iniziativa del movimento operaio, dello schieramento antimperialista e degli Stati socialisti negli anni settanta, quando la lotta-coesistenza si presenta in forme nuove, potenzialmente più avanzate. Accordi fra governi diversi, azione negli organismi internazionali finalmente ricondotti all’universalità, mobilitazione delle grandi masse e delle forze culturali, ma più di ogni altra cosa un nuovo, operante internazionalismo possono concorrere allo sviluppo di questa iniziativa.

Anche il movimento operaio italiano può arricchire i suoi rapporti europei e internazionali con proprie proposte politiche e culturali in questo campo. Ma può contribuire, innanzitutto, mediante l’azione che svolge in Italia.

Altre relazioni al convegno esaminano, con maggiore profondità, le carenze e le necessità nostre sul piano politico, legislativo, istituzionale, culturale e scientifico. Vorrei soltanto sottolineare quanto sia giusto affermare che la politica ecologica non è soltanto “un nuovo problema”, bensì una nuova dimensione di molti problemi (forse, di tutti) della nostra politica. La politica ambientale costituisce innanzitutto una cornice ed un sistema di collegamenti fra le riforme; la sanità, la casa, l’agricoltura, il Mezzogiorno, l’istruzione, le istituzioni culturali, i poteri locali”, e così via. Essa può influire sugli sviluppi produttivi non solo per la dislocazione e la salubrità degli impianti, ma per la scelta delle tecnologie e dei beni da produrre. Essa consente di valorizzare pienamente la soggettività del movimento saldando non solo il “sociale” al “politico”, ma anche il “biologico” al “sociale”, e collegando il movimento di massa all’iniziativa culturale ed all’intervento nelle istituzioni. Essa impone alle classi lavoratrici di collegare in modo più esplicito le proprie rivendicazioni allo sviluppo generale del paese, e permette di costruire un ampio schieramento di forze sociali e politiche.

Esistono anche difficoltà, e nodi aggrovigliati che spero il Convegno aiuterà a sciogliere. Come superare per esempio la contraddizione (non antagonista, ma comunque complessa) fra il mantenimento dei già precari livelli di occupazione e la necessaria riconversione produttiva? Come evitare che la concorrenza per gli insediamenti urbani, turistici e industriali tra le varie zone del paese sia un gioco al ribasso sulla pelle dell’ambiente? Come conciliare le autonomie regionali .con la necessità di una legislazione protettiva nazionale, che per alcuni aspetti  deve  anzi essere internazionale? Come contemperare: l’ormai indispensabile principio della proprietà pubblica di tutti i beni naturali con la necessaria politica delle alleanze, verso quei ceti intermedi che posseggono una parte di questi beni? Quali casi tipici e quali temi trainanti (p.es., da un lato, Venezia, dall’altro, la sistemazione forestale e idrogeologica, particolarmente nel Sud) possiamo trasformare in grandi lotte nazionali che abbiano carattere esemplare e che stimolino altre iniziative? Come possiamo «attrezzare» il Partito comunista e le altre forze della sinistra al centro e nelle province, i suoi centri culturali, i suoi organi di stampa per dare continuità al movimento? È possibile promuovere in Italia un’assemblea nazionale delle forze sociali, intellettuali e politiche interessate, che raccolga anche quel che vi è di positivo in altre esperienze (Italia nostra, Pro natura, Arci, ecc.), che ne corregga i limiti e che valga a fare della politica ambientale uno dei temi del dibattito corrente e (perché no?) delle elezioni del 1973? Come si possono integrare efficacemente i temi dell’ecologia nei movimenti di massa che sono in atto nel paese, e come suscitare nuovi movimenti specifici?

Vorrei terminare con queste domande, essendo partito dalla politica italiana, ed a questa essendo ritornato, dopo varie digressioni. Ma credo che qualunque divagazione sull’uomo e sulla natura porti sempre a riscoprire che la natura specifica dell’uomo è, in fondo, la politica; e che dalla politica, se raggiunge il livello oggi necessario, si ha anche uno straordinario feedback ed un’indispensabile verifica per la ricerca scientifica e per lo sviluppo teorico.

     * Relazione introduttiva al Convegno dell’Istituto Gramsci su Uomo natura-società ecologia e rapporti sociali, svoltosi a Roma dal 5 al 7 novembre 1971, tratto da Critica Marxista, a.IX, n.5-6, settembre-dicembre 1971