La prima pan-sindemia

Intervista a cura di Mauro Boarelli e Enzo Ferrara

In questi ultimi anni è aumentata la consapevolezza della connessione tra intervento umano e mutamento climatico, mentre fa fatica ad affermarsi la percezione del nesso tra l’azione dell’uomo e le cause della pandemia. Questa consapevolezza è ancora più debole tra i decisori politici, e questo abbassa anche la percezione del rischio rispetto alla possibilità che, superata questa pandemia, se ne possano verificare altre, magari anche più gravi.

Nella storia umana le pandemie hanno sempre avuto un impatto enorme, tanto sul piano sanitario ed economico, quanto su quello psicologico e culturale. Nelle diverse culture le si è percepite e narrate come drammi epocali, manifestazioni dell’ira degli dei o dell’insondabile volontà (punitiva) di Dio o come eventi critici dotati di un significato metastorico e metafisico e in grado di costringere l’uomo a interrogarsi sul senso della propria vita. Questo tipo di riflessione oggi è quasi assente e si tende – soprattutto in Occidente, in una cultura dominata da una visione materialista e scientista – a presentare la pandemia come un incidente biologico, tutto sommato episodico e privo di significati “altri”. Si è materializzato un virus pericoloso e bisogna affrontarlo su un piano essenzialmente, se non esclusivamente “tecnologico”, combattendolo con farmaci e vaccini. Purtroppo si tratta di una interpretazione semplicistica, fuorviante e potenzialmente molto pericolosa.

Chi si è occupato degli allarmi pandemici negli anni 2001-2006 – gli anni dell’aviaria e della SARS – sapeva benissimo che l’arrivo di una vera, drammatica pandemia era solo questione di tempo ed era consapevole dei rischi legati ai virus provenienti dagli animali (zoonosi) che hanno fatto da poco lo spillover, il salto di specie. Proprio a causa di queste già drammatiche esperienze, quando è comparso il nuovo Coronavirus non solo medici e scienziati, ma anche i comuni cittadini nei paesi asiatici hanno subito capito il pericolo e non hanno atteso che l’allarme pandemico venisse certificato dall’OMS. In Occidente, invece, ci si è fatti trovare impreparati, nonostante i ripetuti allarmi lanciati dagli scienziati negli ultimi 15 anni e nonostante la pubblicazione, il 12 gennaio del 2020, della sequenza genetica del virus, dapprima da parte dei Cinesi e poi da importanti istituti di ricerca tra cui l’Istituto Pasteur. L’analisi della sequenza aveva infatti dimostrato che si trattava di un evento atteso e temuto ovvero di un Coronavirus di pipistrello che aveva fatto da poco il salto di specie e che presentava, a livello genetico, alcune mutazioni-chiave nella proteina Spike (quella che permette al virus di agganciare le vie aeree respiratorie umane) che lo rendevano particolarmente contagioso e probabilmente virulento.

I paesi asiatici, che avevano già affrontato rischi simili negli anni precedenti, hanno affrontato la sfida pandemica – grazie a una diversa impostazione culturale, politica e sanitaria – in modo corretto ed efficace mediante il rafforzamento della medicina territoriale e preventiva e la messa in campo di specifiche strategie per il contenimento dei contagi. In Occidente tutto questo non è stato fatto e ancora oggi sembra mancare la consapevolezza che una pandemia va fermata sul territorio e che in assenza di un definitivo controllo dei contagi una strategia esclusivamente fondata sull’utilizzo di vaccini e farmaci, anche potenti e sofisticati, potrebbe rivelarsi inefficace. Dobbiamo cercare di capire perché.

Partiamo col dire che soltanto i paesi che hanno messo in atto quello che da decenni è riconosciuto come il gold standard per fronteggiare qualsiasi emergenza epidemica (e a maggior ragione pandemica) – tracciamento e monitoraggio immediato e capillare dei casi e dei loro contatti, aree di quarantena per l’isolamento dei soggetti affetti o supposti tali, percorsi alternativi e aree sanitarie dedicate per evitare che il virus dilaghi proprio in ospedali, ambulatori e case di ricovero per anziani – hanno bloccato la pandemia (e salvato l’economia) e sono rapidamente tornati alla normalità. E questo non solo tra i paesi asiatici e in ragione di una gestione particolarmente autoritaria del problema, ma anche in paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Islanda.

La quasi totalità dei paesi occidentali non ha saputo invece controllare le catene dei contagi e ha lasciato che il virus si diffondesse proprio negli ospedali e nelle RSA (facendo letteralmente strage di anziani). Questo ha determinato la prima ondata e poi la cosiddetta seconda ondata in Europa, anche se a ben vedere anche la teoria delle “due ondate” deriva da un’analisi poco attenta dei dati. La percezione distorta è scaturita principalmente dalla diminuzione dei casi nella primavera del 2020, in Italia e in Europa, dovuta essenzialmente all’adozione di lockdown severi. Se si osservano i dati a livello globale, vediamo invece che non ci sono state due ondate, ma una crescita continua di casi e decessi per oltre un anno, e che soltanto da un mese a questa parte e nonostante il diffondersi di alcune varianti più contagiose si comincia a registrare una sostanziale riduzione di entrambi gli indici! Rimane il fatto che i paesi occidentali non erano preparati e non lo sono ancora, essenzialmente perché non è ancora maturata la consapevolezza dell’incombere di crisi pandemiche e si vuol mantenere l’assetto attuale di una sanità ospedale-centrica e soprattutto farmaco-centrica.

Perché il sistema sanitario occidentale è strutturalmente impreparato rispetto alle crisi sanitarie? Se guardiamo alla riforma sanitaria degli anni Settanta in Italia, vediamo che andava in una direzione diversa rispetto al modello che poi è diventato dominante. Il pensiero di Maccacaro, ad esempio, declinato intorno alla partecipazione, alla dimensione territoriale, all’accezione ampia del concetto di salute, ha rappresentato una delle basi del processo di riforma, poi snaturata nel decennio successivo.

Io la vedo in maniera leggermente diversa. Sono convinto che negli anni Settanta ci sono state élites culturali che hanno messo a fuoco il problema. In Italia, Giulio Maccacaro e un gruppo di epidemiologi, igienisti, esperti di salute pubblica erano riusciti – anche in relazione a grandi eventi internazionali come il Congresso di Alma Ata del 1978 – ad affermare una visione che non identificava la medicina con il contrasto alle malattie e tantomeno con la lotta a microrganismi e virus, ma con la creazione di condizioni sociali, culturali e sanitarie migliori. Questa visione, però, è rimasta sulla carta e soprattutto, negli stessi anni, si è verificata, a livello mondiale, un’altra rivoluzione che non dovrebbe essere sottovalutata: i grandi sviluppi della genetica molecolare e della connessa medicina hypertech hanno aperto la strada alla “medicina molecolare e personalizzata” che è oggi presentata come la “medicina del futuro”. A partire dai primi anni ’80 furono messe a punto le principali tecnologie di sequenziamento e manipolazione del genoma, che permisero la messa in campo di tecniche diagnostiche e terapeutiche molto sofisticate. In questa prospettiva, si investirono trilioni di dollari sul Progetto Genoma, nella convinzione che il DNA contenesse le chiavi per capire l’origine e per curare la gran parte delle malattie croniche, degenerative, infiammatorie e tumorali che stavano dilagando nel Nord del pianeta. Non so se per fortuna o per sfortuna – a mio parere è stata una fortuna – non è andata così. Infatti, il DNA si è rivelato qualcosa di molto diverso da quello che era stato prospettato e ci si è resi conto che le malattie complesse, endocrino-metaboliche, cronico-degenerative, immuno-infiammatorie e tumorali non sono la conseguenza di errori del DNA e non possono essere facilmente diagnosticate e curate mediante la medicina hypertech (in particolare mediante la terapia genica). Ovviamente, chi ha investito trilioni di dollari in questa direzione non può semplicemente dire “abbiamo sbagliato, fermiamoci”. Però, più si studiano queste malattie più si capisce che le loro cause sono in primis ambientali, visto che abbiamo trasformato in pochi decenni l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e le catene alimentari, e che viviamo in condizioni di stress. In estrema sintesi possiamo affermare che le malattie croniche non sono il risultato di “errori” del DNA (tracciabili e correggibili): il DNA ha miliardi di anni e non “sbaglia” ma, esposto a un bombardamento sempre più massiccio e precoce, cerca di reagire e di difendersi mettendo in campo modifiche potenzialmente adattative del proprio software, l’epigenoma. A questo punto dovrebbe essere evidente che l’unica soluzione corretta consisterebbe nel ridurre il bombardamento e nel rafforzamento di questi meccanismi difensivi, piuttosto che nella sempre più aleatoria correzione delle “modifiche terminali” del genoma, cioè delle mutazioni che non sono la “causa” delle malattie, ma semplicemente una loro componente a livello molecolare. Così, negli ultimi decenni abbiamo assistito al dilagare, in età sempre più precoce, di obesità, diabete 2, allergie, malattie autoimmuni, disturbi del neurosviluppo, malattie neurodegenerative e cancro. Ed è sempre più evidente che non sarebbe possibile combattere queste patologie riparando il DNA.

Tornando alla gestione della pandemia, è evidente che l’Occidente sta usando questa stessa logica. Prima di tutto non è un caso che la si interpreti (come nel caso del cancro e delle altre malattie complesse) come una sorta di “incidente biologico”: ha fatto la sua comparsa un “nuovo virus” e noi dobbiamo mettere in campo presidi farmacologici in grado di combatterlo (farmaci antivirali, anticorpi monoclonali, vaccini). E questo non solo a causa degli enormi interessi economici di “Big Pharma”, ma anche per questo approccio riduzionista e per così dire “bellico” che domina incontrastato e determina tutte le scelte sia nel campo della ricerca, che nella prassi biomedica e nella politica sanitaria. Su queste basi possiamo affermare che occorre una vera e propria “rivoluzione” in medicina: per tornare a ragionare in termini di prevenzione, non è sufficiente tornare a pensare in termini di rafforzamento della medicina territoriale e di riorganizzazione dell’intero sistema sociosanitario, è necessario ri-orientare la prassi bio-medica sulla base delle scoperte più recenti nell’ambito della medicina molecolare e sistemica. In particolare sulla base dell’enorme mole di studi che dimostrano ormai da un lato come l’enorme e continuo incremento delle suddette malattie croniche sia essenzialmente la conseguenza di una s-programmazione epigenetica che interessa embrioni, feti e bambini esposti nei primi 1000 giorni della loro vita a una quantità enorme e sempre crescente di stressors ambientali; dall’altro come anche le sempre più probabili e temibili pandemie da malattie infettive siano la conseguenza di drammatiche trasformazioni ambientali in atto a livello globale. E in entrambi i casi la parola chiave è prevenzione primaria, non medicina molecolare.

Da un punto di vista epidemiologico possiamo affermare che, forse per la prima volta, le malattie croniche non trasmissibili (degenerative, infiammatorie, tumorali) e quelle acute, trasmissibili rischiano di allearsi. Fino alla prima metà del Novecento le malattie trasmissibili erano il grande male del mondo. Poi con l’affermarsi del “progresso tecnologico” c’è stato in Occidente una sorta di patto: si accettava il degrado ambientale causato dall’industria e le malattie degenerative associate perché c’era in cambio la garanzia che almeno le malattie trasmissibili sarebbero state bloccate grazie ai benefici della tecnica. Oggi invece troviamo questi due tipi di patologie insieme. Il concetto di sindemia esprime anche questo: le patologie interagiscono e si rafforzano tra di loro.

Sono stati fatti molti errori di valutazione in quegli anni fatidici di cui parlavamo (diciamo alla fine degli anni ‘70). Prima di tutto, le maggiori istituzioni sanitarie internazionali si erano convinte che la vittoria sulle malattie infettive fosse vicina e definitiva, che l’immunoprofilassi attiva di massa e l’antibioticoterapia, insieme al miglioramento delle condizioni igieniche, avessero risolto il problema. Questo è stato un errore enorme, e alcuni lo avevano sottolineato. In particolare, un grande storico della medicina, Mirko Grmek, in un libro prezioso, oggi purtroppo dimenticato, intitolato AIDS. Storia di un’epidemia attuale, aveva dipinto un quadro molto diverso. Nel momento in cui molti dichiaravano imminente la vittoria contro l’AIDS e le altre malattie infettive, Grmek avvertiva che così come in biologia vale la biocenosi (una condizione di equilibrio dinamico fra le diverse forme di vita, che non deve essere disturbata se si vogliono evitare disastri), così in ambito bio-medico si determina una condizione di equilibrio tra le varie malattie o patocenosi. Per quanto concerne l’AIDS, non si trattava di un virus passato accidentalmente dalle scimmie all’uomo, ma della conseguenza, sia pur indiretta, della nostra guerra a tappeto contro microrganismi e virus e, in particolare, della nostra vittoria su Variola major (il virus del vaiolo). L’AIDS allora dilagava soprattutto in USA ed Europa: a 40 anni di distanza il computo dei decessi è difficile: si calcola che i morti siano stati fin qui almeno 25 milioni, ma se ne parla sempre meno anche perché negli ultimi 20 anni a essere colpiti più duramente sono stati i paesi del terzo mondo.

Alla fine del secolo scorso, però, la teoria della patocenosi trovò una sorta di conferma quando una notizia del tutto inattesa sconvolse i virologi e gli infettivologi di tutto il mondo. Nell’estate del 1997 un bimbo a Hong Kong morì a causa di un virus (H5N1) che non aveva mai colpito l’uomo. La notizia era sconvolgente, perché si trattava di un flu-virus aviario. I virus influenzali che avevano colpito duramente l’uomo nell’ultimo secolo erano essenzialmente tre: H1N1/1918 della Spagnola, H2N2/1957 dell’Asiatica e H3N2/1968 della Hong Kong. I virus H5, H7 e H9 erano rimasti fino ad allora confinati nel loro grande serbatoio naturale, quello aviario. La notizia che uno di questi aveva fatto il salto di specie e alcuni episodi successivi di morie tra i volatili e di outbreak umani tennero tutti per anni col fiato sospeso, perché un analogo salto di specie era stato all’origine della Grande Spagnola che tra 1918 e 1919 aveva causato quasi 50 milioni di morti (5 volte più della Grande Guerra). È da allora che il mondo dei virologi e dei cosiddetti virus hunters è in subbuglio: anche perché era evidente che se negli ultimi decenni erano emerse alcune decine di virus letali (HiV, Ebola, Marburg, Nipah, Hendra…) e nuove zoonosi avevano causato pericolosi outbreak epidemici, ciò accadeva in conseguenza di stravolgimenti epocali a carico degli ecosistemi di tutto il mondo, della costruzione di sterminate megalopoli, di immensi allevamenti intensivi e wet markets, di deforestazioni selvagge. Negli stessi anni assunse dimensioni potenzialmente catastrofiche anche il problema dell’antibiotico-resistenza, che causa a sua volta centinaia di migliaia di morti ogni anno. E si cominciò a capire non solo quanto fosse infondata la previsione ottimistica di una imminente vittoria sulle patologie infettive/trasmissibili, ma anche che fino a quando non si fosse trovato il modo di fermare questa irresponsabile guerra alla natura avremmo rischiato di passare da un allarme pandemico all’altro.

Negli stessi anni, un’altra epidemia si andava espandendo inizialmente nel Nord, ma poi anche nel Sud del pianeta: quella delle malattie croniche non trasmissibili che oggi rappresentano di gran lunga la prima causa di morte: obesità e diabete 2, patologie cardiovascolari, allergie, malattie autoimmuni e neurodegenerative, cancro. Queste patologie vengono in genere interpretate come conseguenze negative del “progresso” e, in particolare, di stili di vita “innaturali” (sedentarietà, alimentazione malsana, fumo di sigarette, consumo di alcolici, esposizione a inquinanti, condizioni economiche disagiate…) che agirebbero da trigger su fattori predisponenti, almeno in parte geneticamente determinati: ipertensione, aumento del colesterolo e sovrappeso.

Su queste basi la maggior parte delle malattie non trasmissibili è considerata prevenibile essendo modificabili i fattori di rischio. Tanto più che l’ipotetico background genetico non può svolgere un ruolo importante, visto il rapidissimo aumento dei casi in tutto il mondo: un dato che viene in genere sottaciuto perché in contrasto con il modello dominante e con le finalità di Progetto Genoma (la gran parte della ricerca e della letteratura scientifica verte tuttora sulla ricerca di ipotetiche mutazioni e polimorfismi predisponenti).

Un contributo importante nell’interpretazione dell’attuale pandemia, soprattutto per quanto concerne la peculiarità delle sue manifestazioni cliniche e della sua epidemiologia, è arrivato da una riflessione del caporedattore di “The Lancet”, Richard Horton. Questi, in un breve editoriale che ha fatto il giro del mondo, ha criticato il nostro approccio alla COVID, affermando che non si tratterebbe di una “semplice” pandemia, ma di una sindemia, un termine coniato trent’anni fa da un antropologo che aveva notato come diverse malattie interagiscano tra loro in relazione a fattori sociali ed economici specifici di una data popolazione (una teoria che riecheggia, in parte, quella di Grmek). Per quanto concerne SARS-CoV-2 sarebbe evidente che il virus infierisce soltanto su soggetti affetti da patologie croniche non trasmissibili e in base a pattern di disuguaglianze tipici delle società occidentali.

La tesi di Horton è importante e almeno in parte condivisibile. Non ci sono dubbi infatti che l’attuale pandemia sia diventata quel disastro che sappiamo perché ha agito su organismi debilitati. Questo Coronavirus, infatti, non ha un tasso di letalità (LT) simile a quello di H5N1, che uccide il 50 per cento delle persone che infetta (un LT più alto del vaiolo, per intenderci), e neppure dei due precedenti Coronavirus potenzialmente pandemici, il SARS-CoV-1/2002 della prima SARS e il MERS-CoV/2012 della MERS che avevano LT oscillanti tra il 10% e il 30%. Pur essendo molto contagioso, SARS-CoV-2 ha un LT di circa 2% (circa 10 volte superiore ai comuni virus influenzali), ed è causa di poche forme gravi (5-10%) e di pochissimi casi critici (3-5%) e solo in soggetti già affetti da patologie croniche/complesse. Non è del tutto vero che uccide solo gli anziani, questa è una semplificazione: uccide i soggetti affetti da disfunzione endoteliale, che hanno cioè le arterie cronicamente infiammate. Essenzialmente obesi e diabetici (anche giovani) e persone affette da aterosclerosi sistemica (che, ormai si sa, è una patologia infiammatoria) e quindi da ipertensione arteriosa e patologie cardiovascolari. È evidente che per la gran parte si tratta di persone anziane, ma è anche vero che molti anziani sviluppano forme non gravi. SARS-CoV-2 aggancia infatti i recettori ACE-2 che si trovano non solo nelle vie aeree superiori e nei polmoni, ma nelle arterie e arteriole di tutti gli organi e tessuti, e se le trova già infiammate agisce letteralmente da trigger fino a scatenare reazioni immuno-infiammatorie sistemiche potenzialmente letali, spesso non controllabili con le terapie a nostra disposizione (forse soltanto il plasma dei guariti e/o dosi massive di IgG aspecifiche e di cortisonici possono fare qualcosa). Inoltre, tutto questo avviene più frequentemente in presenza di un secondo trigger, che da un lato prepara, dall’altro potenzia enormemente l’azione del virus: il particolato ultrafine (UP).

In questo senso la tesi di Horton ci aiuta a comprendere sia perché COVID colpisca più duramente gli anziani delle zone più inquinate del mondo occidentale (in Italia la Pianura Padana) esposti da decenni a questo secondo, potentissimo trigger infiammatorio, che già di per sé causa (secondo l’OMS) fino a 10 milioni di decessi ogni anno. E anche perché obesi e diabetici sono i soggetti più colpiti, trattandosi di endocrinopatie infiammatorie sistemiche causate da un’esposizione massiccia e precoce (già in utero) a UP e ad altri inquinanti (interferenti endocrini etc.) in grado di indurre alterazioni della programmazione di cellule e tessuti. Malattie epigenetiche, dunque, e non genetiche, al pari della gran parte delle malattie croniche infiammatorie e tumorali che stanno dilagando nel mondo, soprattutto nei più giovani. Ed ecco perché le città occidentali sono le più colpite: perché è qui che gli endoteli dei vasi di milioni di persone sono esposti da decenni all’UP, che amplifica la virulenza di SARS-CoV2 agendo sia come fattore predisponente sia come trigger associato (come dimostrano i picchi di COVID correlati ai livelli di inquinamento). Possiamo quindi affermare che quella in atto è una pandemia vera (in quanto SARS-CoV-2 è un virus sufficientemente contagioso e virulento da causare, in pochi mesi, milioni di morti in tutto il pianeta), ma anche una sindemia. Potremmo addirittura definirla la prima pan-sindemia del terzo millennio o, se si preferisce, dell’Antropocene, essendo una conseguenza della rapidissima e irresponsabile trasformazione da parte dell’uomo degli ecosistemi microbici e sociali e dell’altrettanto rapida s-programmazione epigenetica degli organismi in via di sviluppo, che caratterizza i paesi più ricchi e industrializzati, ma che si sta diffondendo rapidamente anche nelle megalopoli del Sud del pianeta. È per questo motivo che alcuni scienziati ci avvertono che potremmo essere entrati nell’era delle pandemie sia di malattie acute/trasmissibili sia di patologie croniche/non trasmissibili: conseguenze entrambe dello stravolgimento sempre più accelerato dell’ecosfera provocato da Homo sapiens, epifenomeni di una malattia cronica e ingravescente che interessa l’intera biosfera (e soprattutto la micro-biosfera) piuttosto che incidenti biologici risolvibili con rimedi specifici come farmaci e vaccini.

Ed ecco perché dovremo tornare a riflettere su quanto avevano intuito Giulio Maccacaro, Benedetto Terracini e Lorenzo Tomatis, con la consapevolezza che l’intero percorso della medicina occidentale deve essere rivalutato criticamente perché basato su un approccio fondamentalmente errato (riduzionista anziché sistemico) alla salute e, in particolare, su una rappresentazione genetica/lineare piuttosto che epigenetica/complessa dei meccanismi patogenetici che sono all’origine sia delle malattie acute/infettive, sia croniche/degenerative, infiammatorie e neoplastiche e che sono la diretta conseguenza di una condizione disreattiva che caratterizza i nostri organismi fin dalle prime fasi della vita.

Da un punto di vista economico la prevenzione è un non-investimento. Non bisogna investire in prevenzione, ma non investire in altri tipi di azioni che possono produrre patologie. Prevenire significa non fare una cosa sbagliata, e investire per non fare la cosa sbagliata in un mondo incentrato sulla crescita e sullo sviluppo economico è contraddittorio. Come si fa davvero prevenzione? Come si possono convincere i politici a rinunciare a investimenti che non vanno nella direzione della prevenzione, intesa come eliminazione delle cause delle malattie?

Se quanto detto fin qui è vero, la pandemia in atto potrebbe trasformarsi in una grande occasione di riflessione critica sull’Antropocene: in pratica sull’idea, portata a chiara definizione da Paul Crutzen [premio Nobel per la chimica nel 1995 per gli studi dei meccanismi attraverso cui i clorofluorocarburi contribuiscono alla riduzione della concentrazione dell’ozono stratosferico, ndr], che l’accelerazione nel processo di sfruttamento delle risorse del pianeta da parte dell’uomo e, in particolare, del sistema tecnocratico/neoliberista, sta determinando una rapida trasformazione dell’intera ecosfera.

Il cambiamento climatico, la deforestazione, le alterazioni degli ecosistemi, gli allevamenti intensivi sono aspetti complementari di una guerra alla natura che si sta rivoltando contro di noi. Oggi il 65% della fauna terrestre è costituita da animali da allevamento trattati in modo mostruoso e, a volte, nutriti in modo tale che si ammalino di sindrome metabolica perché pesino e rendano di più. E probabilmente ancora peggiore è la situazione delle acquaculture e dell’agricoltura intensiva, che da sola minaccia l’86% delle specie a rischio di estinzione (24.000 su 28.000). Soprattutto, non dovremmo mai dimenticare che la gran parte della biomassa “viva” e della biodiversità terrestre sono costituite da microrganismi e virus. Ci sono migliaia di virus in grado o in procinto di fare il salto di specie, dagli allevamenti intensivi ai volatili liberi e ai pipistrelli che ormai orbitano attorno alle megalopoli e che vengono sempre più facilmente a contatto con milioni di esseri umani. Sappiamo che i grandi pipistrelli del Sud del pianeta ospitano decine di Coronavirus già in grado di infettare l’uomo, ma anche virus ancora più letali. Non possiamo immaginare di affrontare questa e le probabili pandemie a venire (che rischiano di terremotare i sistemi socio-culturali ed economico-finanziari di tutto il mondo, oltre alla salute psicofisica di miliardi di esseri umani) essenzialmente con farmaci e vaccini. Dobbiamo necessariamente organizzare e mettere in campo strategie di prevenzione e profilassi che vertano sia sulla riorganizzazione dell’intero comparto produttivo e commerciale (in particolare in ambito agroalimentare), sia sulla trasformazione complessiva dei sistemi sanitari.

Qui possiamo introdurre il tema del rapporto tra politica e scienza, tra politica e tecnici. Un rapporto schizofrenico: da un lato c’è una tendenza di lungo periodo di progressiva delega alla tecnocrazia, dall’altro il rifiuto di ascoltare il parere dei tecnici in situazioni cruciali. Come tu stesso hai ricordato poco fa, molti scienziati avevano messo in guardia contro la possibilità di una pandemia e sono rimasti inascoltati.

L’errore fondamentale è stato puntare sulla tecnologia per sfruttare le risorse del pianeta, senza preoccuparsi minimamente del fatto che queste sono limitate e che, soprattutto, il loro utilizzo altera profondamente tutti i cicli bio-geo-chimici naturali. Questo vale certamente in primis per l’Occidente. Ma è evidente che per sopravvivere anche gli altri popoli e le altre culture hanno dovuto ben presto adeguarsi e accettare il nuovo paradigma. È vero che oggi una gran parte della cultura socialista è molto critica nei confronti del capitalismo neoliberista, ma raramente ha assunto posizioni critiche su questa deriva ipertecnologica (e potenzialmente tecnocratica) della scienza: le ragioni dell’economia prevalgono su quelle dell’ecologia.

Per limitarci alla problematica che stiamo affrontando in questa intervista, basterebbe riflettere sul tema delle biotecnologiche genetiche applicate sia in ambito agroalimentare, sia in ambito biomedico. Mi limito a sottolineare come, negli ultimi quarant’anni, l’approccio a questa problematica sia stato più ideologico che scientifico e che spesso proprio a sinistra ci si è schierati in modo abbastanza acritico in favore di queste tecnologie potentissime in nome del “progresso”. Molti esperti e semi-esperti si sono pronunciati a favore degli OGM in agricoltura e della terapia genica in medicina senza, a mio parere, riflettere a fondo sulla reale capacità dell’uomo di adoperare una tecnologia che potrebbe causare effetti potenzialmente catastrofici nel medio-lungo termine, in larga misura imprevedibili.

Hai più volte sottolineato come la risposta farmacologica e l’immuprofilassi siano risposte riduttive rispetto al problema. Tuttavia è in atto una campagna di vaccinazione a livello mondiale, quindi vorremmo capire di più sui vaccini attualmente disponibili, la loro efficacia e sicurezza, il ruolo delle multinazionali del farmaco nell’orientamento delle scelte politiche.

A questo proposito sono necessarie alcune precisazioni. L’immunoprofilassi attiva di massa è stata importantissima, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra (difterite, tetano, polio, ecc.). Negli anni ’50, ad esempio, la polio nel mondo dilagava essenzialmente a causa dell’“incontro” sempre più tardivo tra i bambini e il virus e il vaccino è stata una grandissima conquista. E non c’è dubbio che la scomparsa (speriamo definitiva) del virus del vaiolo, probabilmente il più micidiale microbo killer della storia umana, sia stato un risultato importantissimo. Eppure anche in questi casi ci sono state – e in particolare per quanto concerne la poliomielite ci sono ancora – criticità importanti. Bisogna inoltre sottolineare che da alcuni decenni i vaccini sono sempre più prodotti bio-tecnologici sofisticati e non sempre ben accetti. In generale le critiche sono certamente eccessive e scientificamente poco fondate. In questo caso però gli scienziati e le multinazionali hanno proposto piattaforme vaccinali particolarmente avanzate e almeno in parte sperimentali. È stato giusto? Difficile valutare oggi.

A mio parere, lo ripeto, sarà difficile fermare le catene dei contagi senza i sistemi di tracciamento e di rigido (ma breve) isolamento e lockdown applicati con successo in Cambogia, Vietnam, Cuba, Australia, Nuova Zelanda, Corea, Cina. Ed è un dato di fatto che in Occidente non si sia saputo agire in tal senso con sufficiente energia ed efficacia. Non posso credere (come sostengono alcuni) che non si sia voluto farlo. Penso piuttosto che, proprio perché da trent’anni puntiamo essenzialmente su una medicina hypertech, molti scienziati e medici siano realmente convinti che farmaci e vaccini siano le armi essenziali per risolvere anche questo problema. La situazione particolare li ha costretti o comunque indotti a “bruciare le tappe”: non si poteva rispettare il percorso “normale” che richiederebbe 10 anni e tutta una serie di sperimentazioni di prima, seconda e terza fase. Si è accelerato al punto tale che alcune soluzioni vaccinali sono state proposte/imposte nel giro di pochi mesi. Ormai sappiamo che le principali piattaforme vaccinali erano già pronte nel marzo 2020 e sono entrate subito in sperimentazione! Alcuni scienziati, per esempio Peter Doshi sul “British Medical Journal”, in autunno, quando si capì che il passaggio alla fase attuativa era imminente, cominciarono a sottolineare alcuni limiti e rischi inerenti a questa decisione. E in effetti è vero che non sappiamo ancora abbastanza sull’efficacia reale dei vaccini, sulla stabilità e durata dell’immunità indotta e soprattutto sulla loro sicurezza: quantomeno perché le sperimentazioni possono al massimo rilevare gli effetti collaterali a breve termine, ma non quelli a medio-lungo termine. Quando il BMJ pubblicò gli articoli di Doshi ci fu un coro di critiche, motivate con l’esigenza di non scoraggiare chi confidava in una scienza in grado di mettere in campo in pochi mesi un vaccino al contempo efficace e sicuro e di non incoraggiare le critiche, spesso scientificamente infondate, dei sempre più numerosi anti-vaccinisti.

Personalmente non condivido questo modo di procedere e penso che i condizionamenti che i decisori politici (in senso lato) hanno subito e accettato siano stati troppi e pericolosi. Ma penso anche che, a questo punto, non possiamo che sperare che le cose vadano nel migliore dei modi, ovviamente mantenendo alta la vigilanza concernente le molte criticità connesse a questa scelta. Anche perché, in una situazione in cui si lascia che siano le leggi del mercato a decidere e che le multinazionali produttrici impongano le proprie scelte tecnologie e le proprie regole, è inevitabile che si verifichino iniquità e storture. Anche l’impossibilità del singolo di decidere liberamente se, quando e come vaccinarsi rischia di causare problemi, quanto meno perché, man mano che le campagne vaccinali procedono, si vanno rivelando le diverse criticità inerenti all’efficacia e alla sicurezza delle diverse tipologie di vaccino.

Tra le diverse piattaforme vaccinali attualmente disponibili, le principali sono quella a base di RNA (Pfizer e Moderna) e quella a base di vettori virali ricombinanti (Astra-Zeneca, Johnson & Johnson, Sputnik). La prima tecnologia consiste nel disegnare al computer una sequenza di RNA simile a quella di SARS-CoV-2, per così dire depotenziata mediante alcune modifiche. Sulla carta si tratta di una soluzione geniale, anche perché la bio-sintesi di questo RNA virtuale avviene in condizioni asettiche, senza bisogno di colture cellulari. Il vettore è costituito da nanoparticelle lipidiche che vengono iniettate in un muscolo e dovrebbero rimanere nella zona di inoculo creando un’infiammazione locale e liberando lo pseudo-RNA che dovrebbe utilizzare le cellule umane per produrre una proteina simile a quella Spike del Coronavirus che, esposta sulle membrane cellulari, dovrebbe indurre la produzione di cloni linfocitari di memoria. Già in fase di sperimentazione sono state registrate molte reazioni allergiche (probabilmente dovute a eccipienti presenti nel vettore) e alcune infiammatorie sia locali, sia sistemiche (ma anche questo è stato interpretato – in parte a ragione – in modo positivo, perché se non si producesse una reazione infiammatoria non si avrebbe l’immunizzazione). Al momento attuale sono state inoculate centinaia di milioni di dosi nel mondo e non sembra che le reazioni gravi siano state eccessive, anche se è molto difficile orientarsi sulla base dei pochi dati ufficiali e delle molte notizie allarmanti probabilmente infondate. La seconda piattaforma vaccinale attualmente in uso in Italia e in molti altri paesi occidentali si basa invece su vettori virali (in genere Adenovirus) ricombinanti, cioè geneticamente modificati mediante inserimento di parte della sequenza di SARS-CoV-2 codificante per la proteina Spike. AstraZeneca ha utilizzato come vettore un adenovirus di scimmia, per eludere l’eventuale attacco da parte di anticorpi anti-Adenovirus probabilmente presenti nel nostro sangue. Gli scienziati russi hanno optato per una soluzione leggermente diversa: utilizzano, per eludere la sorveglianza immunologica, due diversi Adenovirus umani. Sembrerebbe però che rispetto ai vaccini a RNA, quelli a vettore ricombinante siano meno efficaci (soprattutto verso le recenti varianti) e causino più effetti collaterali. I Cinesi utilizzano essenzialmente vaccini più tradizionali, essenzialmente Coronavirus inattivati. I Cubani vaccini proteici a sub-unità che potrebbero essere più sicuri ed efficaci e che sono prodotti e distribuiti gratuitamente dallo Stato: una soluzione difficilmente proponibile nei paesi che fanno parte del grande circuito controllato dalle multinazionali, anche se qualora si affermasse la consapevolezza che nel mondo attuale le vaccinazione dovrebbe interessare l’intera popolazione umana la scelta dovrebbe cadere inevitabilmente sulle tipologie di vaccino più sicure, efficaci, facili da produrre e distribuire e meno costose. Il che potrebbe sembrare un’idea utopica, mentre si tratta di una urgente necessità, visto che qualora le regole e criticità attuali permanessero sarebbe impossibile vaccinare in breve tempo miliardi di esseri umani in tutto il mondo nei confronti di virus che hanno la tendenza e capacità di mutare con notevole frequenza.

Dovrebbe essere comunque chiaro che l’immunoprofilassi di massa non può che essere parte di una strategia globale e che le strategie di controllo delle catene dei contagi, di tracciamento e monitoraggio e le aree di quarantena restano il gold standard e sono necessarie anche per rallentare la continua formazione di varianti, inevitabilmente promosse anche dalla pressione selettiva indotta dai vaccini.