La Resistenza contadina
Lo schema più diffuso con cui tuttora si interpreta la realtà sociale fa perno sulla opposizione tra arretratezza e modernità, e l’obiettivo apparentemente condiviso, la meta a cui giungere, è la modernizzazione (in ogni campo della vita). La vicenda storica dell’Occidente, e poi del mondo intero, è così rinserrata in un percorso obbligato e ineluttabile che, sia pure a costo di prezzi umani molto alti, produce come risultato il Progresso, o almeno l’agognata modernizzazione.
Attorno a questo schema si sono organizzate, e hanno combattuto tra di loro, le varie ideologie politiche otto-novecentesche, accomunate dall’opzione per il massimo sviluppo possibile della Tecnica, motore della storia. Chi si collocava fuori dal mega trend sviluppista e modernizzatore perdeva ogni seguito, fuoriuscendo dalla dimensione della politica e consegnandosi a quella della testimonianza e dello sterile dissenso.
Da qualche tempo le cose sono cambiate. Il grande racconto, che semplifica e sterilizza il nostro rapporto con il passato e svuota il futuro di ogni effettiva novità, sta perdendo colpi, la marcia in avanti, rispetto a cui non si danno alternative, non è più così sicura, anzi aumentano le minacce e paure di regressione. Accade che quel che doveva essere superato da tempo e travolto dall’avanzare del progresso – sia pure con la minuscola – riappaia, riemerga, o almeno torni ad essere visibile, e per alcuni indispensabile: è questo il caso dell’agricoltura contadina.
Un fenomeno che andrebbe indagato secondo molteplici prospettive, e tenendo conto della varietà dei contesti, senza eccedere in sopravvalutazioni o minimizzazioni. Questa seconda opzione sarebbe in linea con lo schema dominante, reso solo un po’ meno meccanico e unilineare, ma finirebbe con il banalizzare o nascondere una realtà che merita di essere non solo indagata ma valutata nel suo significato intrinseco e come spia di un continente di fatti e problemi che la politica non riesce a mettere a fuoco, così come del resto la società.
Non è passato troppo tempo da quando in Italia un referendum popolare ha abolito il Ministero dell’ Agricoltura – con la necessità di cambiargli nome – nella convinzione che l’agricoltura, in una società ipermoderna, proiettata sulle nuove tecnologie, fosse ormai superata, al più un reparto dell’industria governato dalla finanza e stimolato dalla tecno-scienza, cosa per altro in gran parte vera. Il che rende fastidioso, se non enigmatico, agli occhi di chi ha in mano la governance dell’esistente, il persistere di sacche di resistenza di cui i contadini costituiscono l’idealtipo perfetto, grazie ad una secolare, anzi millenaria, stratificazione di stigmatizzazioni negative, oggi estese a coloro che in nome di interessi egoistici e individualistici (ma non sono questi i valori fondanti per il buon funzionamento del capitalismo?) incarnano la famigerata sindrome “nimby”, capace di intralciare le infrastrutture su cui far marciare, con rinnovato slancio, la vecchia locomotiva della storia.
Lo stupore di fronte alla resistenza contadina, per non dire della conversione ideale o anche pratica di molti cittadini all’agricoltura, ha in primo luogo una motivazione storica. E’ un costrutto mentale forgiato nel corso del processo di industrializzazione, analizzato da Marx e consolidato dal marxismo, così come sull’altro fronte dal capitalismo liberale, mentre le forze intermedie, presuntamente filo-contadine, hanno condiviso lo stesso modello concettuale, imperniato sulla scomparsa dei contadini, propugnandone l’eutanasia piuttosto che l’eliminazione con metodi brutali: i contadini divenendo agricoltori moderni e imprenditori di successo avrebbero realizzato da sé la grande trasformazione.
Non è difficile trovare riscontri empirici a questo modello nella geografia storica della contemporaneità; anzi, in molti luoghi si tratta di processi pienamente in atto, anche se lo sradicamento delle popolazioni e la desertificazione di interi territori rurali sono sempre più affidati al funzionamento normale dell’economia piuttosto che alle espropriazioni e collettivizzazioni di natura politica. Se la “decontadinizzazione” è il portato di processi impersonali e rappresenta il prerequisito doloroso ma necessario per l’impianto di aziende razionali ed efficienti, aggiornate tecnologicamente, allora le pratiche dell’agro-business possono essere accettate anche dalle opinioni pubbliche più avvertite – in verità molto sonnolenti su questo tipo di problemi- e presentate come lo scotto necessario ai fini dell’ennesima “rivoluzione verde”, in grado di risolvere alla radice la questione della fame nel mondo.
Tutto ciò purché i reazionari antimoderni, fautori dell’arretratezza contadina, non si oppongano al pieno dispiegarsi delle forze produttive. In tal modo, secondo un modello ben collaudato, le popolazioni contadine del mondo, principali vittime della fame, possono essere indicate come oggettivamente colpevoli della tragedia che le colpisce. Esse, in Africa e altrove, sono di ostacolo all’arrivo della modernità, ai grandi capitali che con poco si comprano continenti interi. Debbono semplicemente togliersi di mezzo, cosa che cercano di fare migrando e offrendosi come forza lavoro a poco prezzo, ma anche questo è considerato fastidioso o intollerabile da parte dei popoli alla testa del progresso.
E’ vero che il modello standard, egemonico, ancora massicciamente condiviso, entra in confusione di fronte alle urgenze e rischi del presente, finendo con il rivelarsi un ostacolo insormontabile per capire e agire, nondimeno dobbiamo essere consapevoli della sua forza e radicamento.
Il caso italiano è da questo punto di vista esemplare: un paese contadino si modernizza nel giro di un decennio. E’ un miracolo e un trauma mai veramente metabolizzati che, a qualche distanza dai fatti, Pasolini cerca di mettere a fuoco dicendo che con il “miracolo economico” si era verificata una trasformazione antropologica degli italiani. Pasolini, non unico ma con forza del tutto particolare, attira l’attenzione sulla fine della civiltà contadina ma proprio questo lato del suo discorso risulta inaccettabile, suscita un rigetto quasi unanime, e viene bollato di estetismo e passatismo. Non si vuole letteralmente vedere cosa stava succedendo, considerandolo acriticamente utile, necessario, inevitabile. Una frattura epocale dalle dirompenti conseguenze sociali e culturali venne banalizzata attraverso l’egemonia del linguaggio televisivo e pubblicitario. La fuoriuscita dalla miseria trova la sua celebrazione nei riti collettivi della nascente religione dei consumi, che incentiva la fuga dal Sud e dalle campagne, dal mondo contadino, simbolo di arretratezza, fatica, infelicità, stupidità.
L’accusa ricorrente nei confronti dei contadini, non senza fondamenti, era quella di vivere rinserrati nel loro piccolo ambiente, un microcosmo locale che abbandonavano solo per necessità e non senza traumi (come metterà in luce in modo magistrale Ernesto De Martino). Al contrario i lavoratori dell’industria, dando vita alla classe operaia, si presentavano o apparivano come l’incarnazione dell’internazionalismo e universalismo.
Questo nella fase iniziale dell’industrializzazione e per tutto il suo sviluppo, nonostante le successive e drammatiche divisioni del movimento operaio. Oggi però la situazione appare letteralmente rovesciata: il movimento operaio in pratica non esiste più, le divisioni all’interno del mondo del lavoro, in tutte le scale dimensionali, sono arrivate all’estremo della frantumazione e polverizzazione; impera la concorrenza reciproca, la competizione individualistica, con arretramenti vistosi in termini economici e politici, dei diritti e delle prospettive di futuro. L’unica via d’uscita sembra essere quella della collaborazione in posizione subalterna verso l’impresa, senza nessuna possibilità o velleità di metterne in discussione le finalità, il come produrre, e, tanto meno, il cosa produrre.
I contadini, dati per scomparsi, dimostrano invece di sapersi collegare attraverso i paesi e i continenti, si pensi a “Via campesina”, sia nei contesti dove sono ancora socialmente maggioritari, come in gran parte dell’Africa, America Latina, Asia, sia in realtà altamente industrializzate, come quella europea e italiana, dove la loro presenza numerica è rarefatta ma non priva di qualche incidenza, culturale più che politica.
Il fatto è che le questioni sollevate dai contadini di oggi, con la loro variegata e multiforme resistenza, hanno sì un forte e concreto radicamento nella terra, nel loro ambiente di vita e di lavoro, ma esprimono altresì istanze di valore generale, che concernono il pianeta, o almeno la vita della specie umana in un punto di svolta della storia naturale, alle prese con le conseguenze dell’industrializzazione, in quanto processo di illimitata artificializzazione del mondo. La resistenza contadina, nonostante la sua fragilità, debolezza economica e politica, costituisce un fatto di grande valore simbolico.
Il processo di convergenza, nel bene e nel male, è molto rapido, dobbiamo però aver presenti le differenze di cui si diceva tra parti del mondo in cui i contadini sono socialmente maggioritari, e in cui la modernizzazione deve ancora compiere il suo ciclo di trasformazione, se si vuole di distruzione creatrice di ricchezza monetaria, con i noti costi sociali e ambientali, e quelle zone in cui la riemersione dei contadini è un fatto di indubbio rilievo ma ancora privo di peso politico, apparendo ai più un fenomeno marginale se non snobistico ed élitario.
In un caso la dimensione che assume la questione contadina ha un’immediata incidenza sociale e politica, specie laddove si intreccia con il riscatto delle popolazioni indigene, nell’altro fatica ad imporsi finendo con l’assumere una connotazione prevalentemente culturale, come momento della difficile elaborazione di una teoria politica centrata sulla inaggirabilità della crisi ecologica.
E’ comunque su questo terreno che la contemporaneità del non contemporaneo può trovare una ricomposizione in positivo, purché i contadini non siano lasciati a se stessi, isolati dal resto della società, come è avvenuto in tutto il ciclo della industrializzazione–modernizzazione, quando la resistenza contadina venne interpretata come espressione della loro arretratezza culturale.
L’incidenza di un tale stereotipo, trasversale alle forze politiche, contribuisce ad oscurare la rilevanza che ha oggi la questione agraria, e della terra in generale, non solo per i paesi alle prese con la fame (e la sete), ma anche nelle nostre società ipersviluppate, devote alla religione dei consumi. Né si può attendere che la marcia delle cose compia il suo corso svelando il misero inganno che la sottende. Nel ripensamento del rapporto tra la società e la natura, l’agricoltura occupa uno snodo cruciale, il fatto che le forze politiche e intellettuali non lo capiscano e non vedano letteralmente il problema non deve affatto stupire, è solo la conferma di quanto ci dicono molti altri indicatori.
Agricoltura e ecologia
L’esistenza di settori agricoli ancora incentrati sul lavoro dei contadini coltivatori diretti, qualche fenomeno circoscritto di ritorno alla terra, la pluralità di esperienze di agricoltura biologica e ecologica, non debbono indurci ad una rappresentazione falsata della realtà. Non è in atto, soprattutto nel nostro paese, un’inversione di tendenza, la resistenza è importante ma fragile e limitata.
L’agricoltura che conta, che fa produzione, continua ad essere un fattore, invisibile ai più, dell’attacco distruttivo all’ambiente. La crisi ecologica non è causata solo dall’industria e dalle sue infrastrutture, dall’invasione e cementificazione delle campagne. L’agricoltura industriale incide in modo non meno pesante e diretto colpendo la biodiversità e la fertilità del suolo, consumando in modo squilibrato energia e risorse naturali, causando inquinamenti non inferiori a quelli industriali (si pensi alle porcilaie), il tutto per produrre su grande scala cibi di qualità scadente se non dannosi alla salute.
La Padania, non a caso diventata luogo simbolo del degrado, è un epicentro dell’industrializzazione dell’agricoltura, con la concentrazione della produzione in un numero ridotto di grandi aziende, a forte impatto ambientale, e largo impiego di manodopera immigrata priva di diritti. Il resto del territorio, non ancora occupato da strade e capannoni, è abbandonato. La concentrazione è particolarmente forte nell’allevamento del bestiame, con carichi insostenibili, ma anche la conversione delle aziende agricole in fabbriche di biocarburanti o in centrali a biomassa ha aspetti inquietanti se non assurdi. Nel giro di pochi decenni una delle agricolture più avanzate e ricche del mondo è stata progressivamente demolita dal pieno dispiegarsi della logica del capitalismo industriale.
Del resto le politiche comunitarie sono state improntate agli stessi principi, sostenendo le aziende economicamente “sane”, rispondenti al modello standard di azienda agraria ottimale, innestando una selezione darwiniana modernizzante, rivelatasi socialmente, ecologicamente, ed anche economicamente fallimentare.
L’agricoltura contadina, sia tradizionale che ispirata all’agro-ecologia, è sottoposta, non diversamente che in passato, ad una serie concentrica di attacchi da rendere sorprendente il fatto che esistano delle più o meno ampie sacche di resistenza. La caduta dei redditi agricoli, nel contesto di una crisi economica generale di lunga durata, spinge verso l’insostenibilità economica le aziende ecologicamente sostenibili. Una situazione da cui si può uscire solo con un diverso orientamento delle politiche agricole, accompagnato e stimolato dall’ampliamento dei circuiti virtuosi tra produttori, commercianti, consumatori, sul modello dei gruppi di acquisto solidale, sapendo affrontare i problemi conseguenti ad un salto di scala dimensionale. Le difficoltà in cui versano i contadini oggi, con quote sproporzionate di reddito a vantaggio dell’intermediazione, sono causa di fragilità finanziaria, indebitamento verso le banche, fallimento vero e proprio. Si perpetua quindi uno dei meccanismi secolari di subordinazione del mondo contadino.
Per altro anche le innovazioni legate alla modernità e agli sviluppi tecnologici possono essere molto penalizzanti. La burocrazia, si pensi ai sistemi di certificazione, è causa di molteplici difficoltà per le aziende contadine, che avrebbero bisogno di strutture di servizio, invece che di essere abbandonate a se stesse, al punto da indurre produttori integerrimi a sottrarsi alle certificazioni cercando di instaurare un rapporto fiduciario diretto con i loro utenti.
La partita è ancora più complessa per quanto riguarda le normative sulla sicurezza e la salute, rispetto a cui sono molto più attrezzate aziende industrializzate tutt’altro che salubri. In ogni caso normative forgiate per l’agroindustria si sono rivelate micidiali per i piccoli agricoltori e allevatori. Una via d’uscita possono essere le cooperative, purché non esemplificate sul modello economico standard con cui competere, soggiacendo alle stesse logiche e regole.
Per quanto riguarda gli aspetti direttamente produttivi nella filiera agricola e dell’allevamento, il contrasto tra agricoltura industriale e contadina è netto e radicale. L’invasività dell’agricoltura industriale, a parte i metodi colturali, il tipo di meccanizzazione, di utilizzo dei prodotti chimici e farmaceutici, con tutte le forme intermedie che si possono riscontrare, risulta micidiale su alcuni decisivi passaggi: il controllo e il trattamento delle sementi; la trasformazione dei prodotti agricoli; la produzione dei mangimi.
La differenza tra agro-business industriale e agricoltura e allevamento contadini si gioca in buona misura a questo livello: se contadini e allevatori perdono il controllo su ciò che seminano e su quello che danno da mangiare ai loro animali, la partita è persa, quali che siano le forme di organizzarne del lavoro e le forme giuridiche di utilizzo della terra e delle risorse naturali. Lo stesso vale per la filiera della trasformazione dei prodotti di base, con la necessità di spezzare la separatezza e il monopolio dell’industria agroalimentare.
Come dimostrano le esperienze novecentesche le strutture collettivistiche e stataliste possono essere non meno distruttive della grande azienda capitalistica. In entrambi i casi si produce una rottura e l’eliminazione della dimensione contadina, ecologicamente sostenibile. Una sostenibilità pagata ad altissimo prezzo in termini di lavoro e di scarsità di risorse e consumi: l’impronta ambientale, ecologica, era lieve ma quella sui corpi di uomini e donne molto pesante. Una sostenibilità dovuta al fatto che ogni rottura dei limiti poteva essere sanzionata molto duramente. Questa storia è finita e non è auspicabile e giusto che ritorni. La nuova ruralità deve ancora far perno sui contadini, deve essere ecologicamente sostenibile, ma a un livello superiore di consapevolezza, dignità e libertà.
In linea di principio, sul piano teorico, la piena compatibilità ecologica delle varie economie contadine, incentrate sulla coltivazione diretta della terra, sia essa in proprietà, possesso o uso, può essere oggetto di discussione e critica visto che l’agricoltura segnò una profonda rivoluzione nel rapporto delle specie umana con la terra, dando vita ad un ambiente artificiale, mentre rendeva possibile la nascita delle città. Ci pare però che nell’orizzonte della crisi ecologica che segna il nostro tempo si debba far valere la compatibilità degli agro ecosistemi contadini rispetto all’accelerazione catastrofica dell’entropia derivante dalla generalizzazione dell’agricoltura industriale.
Si può dire che la civiltà contadina, nel suo estinguersi, abbia lasciato un’eredità che deve essere ripresa in termini riflessivi, e quindi conosciuta nella sua varietà e ricchezza, trasmessa in molteplici forme, contribuendo a sanare la frattura prodotta dal compimento e generalizzazione dell’industrializzazione.
Un punto molto delicato è quello della trasmissione dei sapere tecnici non codificati tra le generazioni, tenendo conto delle rotture storiche che si sono verificate nei decenni passati, mettendo in crisi il passaggio spontaneo delle conoscenze nei contesti famigliari. Per porvi rimedio è necessario un intenso lavoro culturale, la valorizzazione e rivitalizzazione di un patrimonio immateriale non folklorico ma operativo, cosa che è possibile solo attraverso esperienze concrete che vedano l’incontro di contadini e cittadini, tradizione e innovazione, il che in modo puntiforme ma troppo rarefatto sta avvenendo.
Su questo fronte esiste una sorta di duplice problema linguistico. La lingua naturale dei saperi contadini è il dialetto, che per tutto quel che riguarda la cultura materiale è molto più ricco, preciso e minutamente diversificato dell’italiano. D’altro canto i contadini del futuro saranno in gran parte lavoratori provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, il che aggrava il problema della lingua ma arricchisce di molto il patrimonio della tradizione. Su questi e altri problemi la questione contadina, riconosciutane la valenza strategica, ha bisogno di un intenso lavoro di ricerca, divulgazione, messa a punto politico-teorica.
Alcuni concetti stanno emergendo e sembrano persuasivi, a maggior ragione andrebbero analizzati più a fondo. Si prenda la “sovranità alimentare”, contrapposta alla linea della sicurezza alimentare su cui sono attestati gli organismi internazionali come la Fao. E’ evidente che la comunità internazionale, tanto più in un mondo globalizzato, dovrebbe mettere le popolazioni al sicuro dalla fame. Cosa che non avviene e diventa un motivo per spingere ancora di più lo sviluppo dell’agricoltura industriale, quali che siano gli impatti ambientali, per fornire alimenti ai diseredati. Naturalmente il massimo delle rese è possibile solo stimolando e applicando in modo sempre più spinto la tecno-scienza, la chimica e la genetica, dai semi ai prodotti finiti, alla loro trasformazione e commercializzazione, il tutto nelle mani di poche, sempre più grandi, società multinazionali, in simbiosi con i governi degli Stati più potenti. La sicurezza alimentare, per nulla garantita, diventa così uno strumento di espropriazione. D’altro canto il supersfruttamento della terra è distruttivo e irrazionale.
Di qui l’indicazione di un programma antitetico, facente perno sulla “sovranità alimentare”, vale a dire la capacità di ogni territorio di auto sostenersi, valorizzando al massimo le risorse locali, evitando gli sprechi, innanzitutto energetici, puntando sulla biodiversità e la sostenibilità ambientale. Tutte cose sacrosante ma che non possono tradursi nell’isolazionismo e nell’autarchia. L’insegnamento principale dell’ecologia è stato quello di imparare a concepire il pianeta come un tutto, un’ecosfera unitaria, quindi l’approccio deve essere universalistico; d’altro canto la Terra, come ambiente di vita, è fatta di una molteplicità di ecosistemi locali di varie dimensioni, con vocazioni produttive diverse, da cui la straordinaria varietà di prodotti locali – di contro alla serialità industriale –. L’azzeramento degli scambi, anche a lunga distanza, è assurdo, impossibile, negativo. Data l’importanza della posta in gioco non bisogna imbucare strade che non portano da nessuna parte.
La nuova ruralità ha bisogno di più intensi rapporti con le città, quindi i reticoli locali debbono infittirsi; né le campagne né le città possono essere autosufficienti. Ma anche su scala planetaria non possiamo pensare ad una frammentazione isolazionistica per porre rimedio ai disastri di una commercializzazione globale socialmente e ecologicamente inaccettabile. Se i produttori, in sostanza i contadini, potranno ricevere un reddito adeguato al loro lavoro e se le produzioni saranno ecologicamente equilibrate, molte delle follie dell’agricoltura mondializzata cadranno da sole. Al contrario il commercio equo e solidale non è solo moralmente encomiabile ma rappresenta una necessità per compensare carenze e deficit locali, e arricchire le diversità agroalimentari, in connessione tra di loro su scala planetaria. Il che è in perfetta sintonia con la vocazione internazionalista dei movimenti contadini di questi anni. Gli scenari sul futuro sono indispensabili per dare un senso a ciò che già esiste e cogliere le possibili prospettive, nel contempo bisogna confrontarsi costantemente con la dura realtà dei fatti.
Sulla base dei puri dati economici l’agricoltura contadina in Italia e in Europa appare in condizioni disperate. Il crollo dei redditi dei produttori diretti delle derrate, senza alcun beneficio per i consumatori, è un indicatore preciso del fallimento delle politiche comunitarie, per altro centrali in tutta la vicenda storica dell’Unione Europea. L’idea tuttora prevalente sembra essere quella di un’agricoltura senza contadini, che nei più oltranzisti diventa l’utopia negativa di una produzione di cibo senza terra fertile.
La speculazione finanziaria impazza e svolge un ruolo cruciale nel colpire gli agricoltori esposti alla volatilità incontrollata dei prezzi. Una delle conseguenze di tale situazione è la perpetuazione del processo di abbandono delle campagne, con le ben note conseguenze sulla tenuta dell’assetto complessivo del territorio, e l’invecchiamento degli agricoltori coltivatori, tra i quali solo il 7% ha meno di 35 anni. Tutto ciò mentre per molteplici motivi avremmo bisogno di un forte rilancio dell’agricoltura contadina, che invece resiste a fatica, nell’indifferenza delle forze politiche organizzate, del tutto carenti di una cultura che consenta loro di capirne l’importanza economica, sociale, ecologica.
Anche nella mentalità corrente la condizione contadina continua ad essere sentita come un peso intollerabile e la spinta prevalente è quella dell’abbandono e fuga, non certo del ritorno, chi resta la vive come una costrizione. Mutare questi atteggiamenti non è facile. Per la stragrande maggioranza è semplicemente assurdo, antistorico, pretendere di invertire una marcia che esprime il principale cambiamento sociale della modernità. Ci possono essere ragioni culturali che alimentano la resistenza, siano esse riconducibili alla forza della tradizione oppure alla critica variamente motivata della civiltà industriale-consumistica, per cui si ritengono più solide le ragioni e i valori dell’ “economia morale” rispetto a quelli della generalizzazione dei rapporti mercantili, monetari, puramente utilitaristici.
Senza sottovalutare l’incidenza di elementi che si inscrivono in una diversa visione del mondo rispetto a quella oggi dominante, crediamo che una valutazione dell’agricoltura capace di rovesciarne l’attuale marginalità possa e debba essere argomentata anche restando sul terreno dell’economia capitalistica vigente. Questa, come è noto, va incontro a crisi cicliche. A parte quella attuale dai caratteri indefiniti nonostante l’abbondanza di analisi, la più forte è stata quella scoppiata nel 1929 e la valutazione più diffusa è che tale crisi sia stata superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale. In definitiva il rimedio al disastro economico è stato trovato in una catastrofe politica, sociale, umana senza precedenti. Una ricetta così efficace che non sono pochi coloro che pronosticano (o propugnano) un’uscita dalla crisi grazie ad una nuova guerra, se non mondiale, tipo Cina – Usa, almeno continentale, tipo l’Occidente contro l’Iran.
Costoro e l’insieme dei governanti dimenticano che un disastro senza precedenti da “sfruttare” c’è già: quello ambientale, che colpisce in modo diretto e micidiale la terra, l’acqua, l’aria. Porvi rimedio vorrebbe dire mobilitare capillarmente l’economia in tutte le sue articolazioni; quest’opera segnerebbe la resurrezione dell’agricoltura. Solo che nulla di tutto ciò può essere fatto senza una conversione ecologica dell’economia e questo per il pensiero dominante è una contraddizione nei termini. In realtà l’intera partita si gioca attorno a questo nodo, ai tempi e modi con cui verrà sciolto o tagliato.
Ritorno alla terra
La nostra tesi è che l’agricoltura contadina abbia un ruolo imprescindibile per una strategia di fuoriuscita dalla crisi ecologica e che proprio il manifestarsi palese dell’insostenibilità della civiltà industriale abbia contribuito ad alimentare il sorprendente ritorno dei contadini. Ammettiamo però che si debbano tenere presenti anche altri fattori e spiegazioni. Si tenga poi conto che l’eliminazione dei contadini è di norma un processo storico di lunga durata; la rapidità traumatica in cui tutto è avvenuto in Italia è piuttosto l’eccezione che non la regola. In vari contesti, pur avendo avversari e nemici formidabili, l’economia contadina ha manifestato una sorprendente vitalità e capacità di ripresa.
Il sociologo olandese Jan van der Ploeg ha analizzato a fondo l’economia contadina europea contemporanea. A suo avviso le politiche di modernizzazione agricola perseguite dall’ UE sono da criticare per la loro insostenibilità economica e sociale. Il modello è quello dell’industrializzazione dell’agricoltura con lo sganciamento dai limiti degli ecosistemi locali, la standardizzazione dei metodi e delle produzioni, l’espropriazione-sostituzione delle conoscenze contadine, frutto di un mix eterogeneo di tradizione, esperienza, sperimentazione, da parte di agenzie esterne burocratiche, imprenditoriali, finanziare. Il contadino viene espropriato del controllo del ciclo produttivo e delle capacità di gestirlo. La modernizzazione, dice van der Ploeg, crea un agricoltore virtuale che esegue le operazioni che gli sono prescritte dall’esterno. Il successo di tali politiche è consistito principalmente nella eliminazione di un gran numero di aziende, specie di piccole dimensioni, ovvero, aggiungiamo, nella loro sopravvivenza fittizia dato che i principali lavori agricoli sono affidati a cottimisti e trattoristi che portano agli estremi una concezione industriale dell’agricoltura.
Pur non nascondendo che la linea della modernizzazione resta quella dominante, van der Ploeg e con lui molti altri studiosi del mondo agricolo forniscono elementi preziosi a sostegno della scoperta di una diffusa e multiforme resistenza contadina. L’analisi empirica dimostra che il modello obbligato (unico, efficiente, economicamente razionale) non si è affermato ovunque. In molti contesti il pluralismo e le specificità locali hanno retto all’urto congiunto della tecnica e del mercato. L’eterogeneità intrinseca all’agricoltura ha alimentato molteplici “stili aziendali”; la differenziazione, in molti casi, si è dimostrata vincente rispetto a livellamento. Questa nuova agricoltura, tutt’altro che marginale, se non sarà lasciata a se stessa, può essere una risorsa per attraversare la crisi economica globale e contribuire alla transizione verso un’economia sostenibile.
L’agricoltura in Europa e non solo, argomenta ancora van der Ploeg, potrebbe compiere un vero salto di qualità, anche dal punto di vista della redditività, una volta che fosse fondata sulla biodiversità e la connessione alla società attraverso l’offerta di prodotti tipici. Oggi invece l’agricoltura è in difficoltà perché è scollegata sia dalla natura e che dalla società.
La costruzione di un nuovo paradigma, antitetico a quello della modernizzazione, deve partire dal dato fondamentale: la fertilità del suolo indispensabile per alimentare la biodiversità. Il sociologo olandese per indicare il reticolo vitale che consente alle forme viventi, e alla specie umana in particolare, di esistere, parla di “food web”, ma su tutta questa partita è necessario rimandare al formidabile e misconosciuto lascito intellettuale di Giovanni Haussmann, grande conoscitore, dal suo osservatorio di Lodi, dell’agricoltura padana (prima che venga distrutta), teorico di un profondo riorientamento del rapporto tra la “società e il suolo” imperniato sul ruolo dell’agricoltore “simbionte”, in relazione organica con il suolo, le piante, gli animali.
L’indicazione è verso uno sviluppo rurale che comporti una ristrutturazione globale dell’agricoltura, con un forte incremento dell’occupazione e un drastico riequilibrio delle risorse a favore del settore primario, passando da un’agricoltura ultra specializzata ad aziende miste, integrate, multi produttive, autosostenentesi. Un modello di agricoltura auspicabile per motivi economici e sociali e però indispensabile se si vuole affrontare la crisi ecologica, che governi balbettanti tentano inutilmente di aggirare. Un’agricoltura in grado di assicurare il miglioramento qualitativo dei prodotti e di presidiare gli ecosistemi (suolo, biodiversità, paesaggi).
Nella sintesi di Jan van der Ploeg il nuovo paradigma dovrebbe poggiare su tre assi: la tipicità attraverso cui ricollegare l’agricoltura alla società assicurando l’approvvigionamento di prodotti genuini, del territorio; la biodiversità, rifondando l’agricoltura sulla natura, l’ecologia, i saperi contadini, la consapevolezza culturale dei cittadini; l’autoregolazione, sottraendo l’agricoltura alla presa del capitale finanziario e ai suoi giochi speculativi, attraverso la partecipazione attiva, cooperativa e solidale, dei contadini, spezzando la gabbia culturale dell’isolazionismo e individualismo, riscoprendo, ad un livello superiore, le pratiche comunitarie inscritte nella loro lunga storia.
La sopravvivenza in alcune situazioni e la ricerca in altre di un’agricoltura in grado di sottrarsi all’industrializzazione, le cui ricadute negative diventavano sempre più percepibili e non più considerate ineluttabili, almeno da una parte della popolazione, ha reso possibile uno sviluppo significativo dell’agricoltura biologica, in sostanza a coltivare facendo a meno dei prodotti chimici industriali. L’analisi delle molteplici forme – con le relative accanite discussioni – che ha assunto l’agricoltura biologica richiederebbe un’analisi a parte. La prospettiva di fondo dovrebbe essere quella dell’agro-ecologia, cioè di un’agricoltura ecologica, mirante al massimo di compatibilità con l’ambiente inteso nella sua globalità. Questa come idea regolativa di fondo.
Stabilito che la strada è quella giusta le diversità possono e debbono esserci, evitando settarismi e scomuniche. I rischi maggiori, inevitabili dato il contesto, sono l’affarismo e le truffe, nonché gli attacchi di un sistema della comunicazione ai servizi dell’agro-business, delle multinazionali, delle speculazioni finanziarie. Quando l’attacco diretto non funziona e l’agricoltura biologica continua a svilupparsi il capitalismo tende ad appropriarsene, come avviene per tutto ciò che concerne lo sviluppo sostenibile o green economy. Il tentativo dell’economia di sussumere l’ecologia è in qualche misura il fronte avanzato di una lotta culturale e politica probabilmente decisiva e dagli esiti incerti. In tale orizzonte la resistenza contadina può giocare un ruolo importante, dobbiamo però essere in grado di coglierne le valenze e il forte potere di contestazione nei confronti degli esiti della modernità, entrando in rotta di collisione con i suoi stessi grandi interpreti.
I filosofi che hanno indagato il sorgere e dispiegarsi dell’industria, in primo luogo Hegel e Marx, consideravano i contadini fuori dalla grande corrente della storia perché erano troppo interni alla natura e ai suoi cicli; il loro faticoso lavoro era fondamentalmente ripetitivo e governato da meccanismi intangibili e misteriosi; la terra era un padrone molto più potente dei signori a cui ubbidivano e contro cui si ribellavano. La loro sconfitta era inscritta nel dislivello incolmabile tra ciò che erano in grado di fare e la potenza creatrice o distruttrice della natura.
Il progresso era nelle mani dell’industria e degli operai che ne erano il motore; liberandosi dei padroni essi avrebbero potuto padroneggiarne e dirigerne gli sviluppi, integrando le campagne trasformate in fabbriche agricole.
Di tutto ciò qui ci interessa solo un aspetto: la questione della conoscenza dei contenuti del lavoro. Attraverso peripezie storiche siamo arrivati a esiti molto diversi se non antitetici rispetto a quelli propugnati da Hegel e Marx (ma l’ultimo Marx aveva intuito che tutto dipendeva da come si sarebbe risolta la questione contadina). In effetti i contadini sembrano in grado di padroneggiare l’intero ciclo e sono costretti ad avere tale visione se vogliono continuare a produrre, tanto più se in termini agro-ecologici. Al contrario gli operai, ma in realtà tutti gli addetti all’industria, hanno perso ogni controllo sulla produzione. Solo i mistici del “general intellect” la pensano diversamente, ma nemmeno troppo visto che la ricomposizione della conoscenza avviene a livelli intangibili per gli uomini comuni, in carne e ossa.
In tutti i contesti industriali, per non parlare dei servizi, il lavoro si intellettualizza incessantemente ma ciò avviene nella forma di una non meno incessante parcellizzazione e specializzazione. La massa complessiva di sapere aumenta continuamente ma contemporaneamente aumenta il non-sapere, di tutti, e in primis di coloro che sono interni ai circuiti dell’innovazione tecnologica, della comunicazione, della politica.
Questo spiega perché, nel migliore dei casi, trovate degli uomini-macchina che perseguono indefessamente e ciecamente i loro ristretti obiettivi. Mancando di ogni visione del mondo, avendo perso il contatto con la terra e i cicli vitali, non padroneggiando lo stesso artificio che hanno edificato, quelli che dovevano essere le guide del nostro tempo si rivelano esseri vacui e pericolosi. In essi il non-sapere assume la forma dell’idolatria della tecnica e del denaro, il che, in combinazione con la corrosione del carattere, ci espone, come genere umano, a rischi mortali.
L’unica via d’uscita è il ritorno alla terra, l’unica possibilità di contrastare la follia è la riconciliazione con la natura, l’abbandono del sogno irrealizzabile di farne uno zimbello sottomesso alla nostra volontà.
Sull’ecologia esiste ormai una letteratura immensa, di valore diseguale. Nessun altro ha però espresso con altrettanta forza la centralità della questione della terra e dei contadini quanto Aleksandr Solzenicyn, le cui posizioni politiche possono e debbono essere criticate, riconoscendo però la sua capacità di sintetizzare al meglio l’attualità della grande cultura russa, travolta dal bolscevismo e stalinismo.
E’ necessario che gli uomini tornino alla terra per motivi pratici, per contrastare la logica del capitalismo, per impedire la distruzione dell’ecosfera. Ma ancor prima, dice Solzenicyn, viene la salute mentale, la saldezza del carattere. Gli uomini travolti dalla velocità compiono azioni insensate perché non c’è tempo per capire e pensare. Gli uomini non pensano e si illudono in tal modo di cancellare la paura della morte, ma è vero il contrario: l’Occidente è attanagliato dalla paura della morte, i ricchi, coloro che vivono nel lusso, nella prosperità, sono ossessionati dalla paura di invecchiare e di morire; pretendono di essere immortali e si istupidiscono per sfuggire alla verità. Per i contadini a contatto con la realtà del ciclo della vita, la morte è la transizione da una vita ad un’altra. Essi, nota Solzenicyn, “l’hanno sempre saputo e sono morti tranquilli”.
Troppo sbrigativamente e violentemente abbiamo pensato di fare i conti con la loro civiltà e liquidarla. Un ripensamento è necessario da più punti di vista: sorprendente e inaspettata, la resistenza contadina lo rende possibile.