La salvaguardia del patrimonio culturale urbano. Il caso emblematico del capitale di archeologia industriale della città di Terni

Abstract((Sergio Dotto è vicepresidente del Centro Studi Franco Maria Malfatti. Danilo Stentella è direttore del Centro Studi Franco Maria Malfatti.))

Questo saggio non è una ricerca convenzionale sull’argomento delineato nel titolo, una celebrazione, un mero resoconto, è essenzialmente la denuncia della distruzione delle testimonianze dell’Italia proto industriale, della rivoluzione industriale di questa parte d’Europa, tardiva, rispetto al resto del continente, ma per certi versi raffinata, nelle ricercate e superbe architetture, nelle finiture delle fabbriche, che non cedevano nulla alla necessità di rapida modernizzazione.

Il ponte di Paderno D’Adda, il ponte di Ronciglione, la tour Eiffel, il Forth bridge, l’Iron bridge, la centrale Montemartini, il villaggio di Crespi D’Adda e tanti altri manufatti non sarebbero rimasti a testimoniare quell’epoca pionieristica se non fossero stati studiati da coraggiosi ricercatori, eruditi e professori e se non fossero stati tutelati da amministratori pubblici visionari, difensori del bene comune.

In questo contesto di saccheggio e riciclo del territorio si inseriscono, ancora, gli appetiti sfrenati dei costruttori, i quali non solo non tengono conto di alcun apparato teorico, men che meno se colto e strutturato, ma sono in grado di influenzare le decisioni dei dispositivi amministrativi, sempre più rappresentati da una classe politica che di politico ha sempre meno.

Allo studioso spesso resta soltanto la catalogazione di un patrimonio che scompare sotto i suoi occhi, giorno per giorno, eroso dal disinteresse e dalla speculazione, in contraddizione con i principi pomposamente enunciati in leggi, nazionali e regionali, e testi unici.

Il contributo metodologico proposto in questo breve saggio si basa su una serie di tentativi esperiti dal nostro centro studi per la conservazione e concreta valorizzazione di alcune emergenze culturali delle quali ci siamo occupati, incontrando ordinariamente una forte resistenza, anche da parte di quegli organi che sono istituzionalmente preposti allo scopo.

Premessa ((Cfr. Danilo Stentella, Forma urbis, in Indagini, n. 82, Terni, 2003.))

La questione della forma organizzativa urbana, fisica e metafisica, della destinazione funzionale dei suoi spazi per usi pubblici e privati, fu trattata fin dalla prima metà del XII secolo da Bernardo di Chiaravalle((Cfr. Bernardo di Chiaravalle, Epistule CVI: “Legni e pietre ti insegneranno ciò che non potresti udire dai maestri …“, in http://www.binetti.ru/bernardus/05_2.shtml)), il quale evidenziò come la città ponesse traguardi materiali e intellettuali che inducono a dimenticare che il soggiorno dell’uomo sulla terra è solo un passaggio, e addirittura suggeriscono comportamenti fatali.

Agli inizi del Quattrocento le città iniziarono a essere luoghi dello scontro sociale, poiché le élite urbane temevano l’affollarsi dei vagabondi, i quali erano respinti da una società cittadina rigidamente strutturata, in cui la mobilità sociale era fortemente ridotta.

Furono le città immaginate da Garnier, da Le Corbusier, da Hilbeseimer, da Wright e altri a tentare di esorcizzare questa paura delle folle, assegnando a ogni vita il suo posto. Anche un neo malthusianesimo diffuso e ingiustificato aveva sostenuto l’idea della concentrazione umana come promotrice di possibilità offerte dalle nuove tecniche costruttive e dalla scienza.

Nel 1904 Tony Garnier inviava all’Ecole des Beaux Arts di Parigi il progetto di una città industriale, esegesi di quella descritta da Zola in Travail, pubblicato tre anni prima. Nei disegni di Garnier la città preesistente è appena un modesto villaggio, sulle colline si trovano gli ospedali, i sanatori e le dighe delle centrali idroelettriche, in basso lo stabilimento metallurgico, da un lato e dall’altro, in un pianoro sopraelevato, le villette, le scuole e i quartieri residenziali, al centro i servizi collettivi e il municipio. L’assetto pensato da Garnier, e da Zola, ricorda quasi esattamente il tessuto urbano della Temi industriale, le sue acciaierie, i villaggi operai delle zone collinari e pedemontane, l’ospedale di Colle Obito, le colonie estive di Casali di Papigno, tutto raccolto in pochi chilometri. La città industriale di Garnier è un centro operaio dove la fabbrica è separata dalle abitazioni dei lavoratori, che vivono in quartieri giardino monoclasse, nei quali la casa comune sostituisce la chiesa, di fatto si tratta di un agglomerato urbano socialista fatto di Grand Travaux e di case, latte, carbone, carne, trasporti collettivi, a prezzi calmierati.

Dopo la prima guerra mondiale, la paura delle élite per le grandi masse era ormai definitivamente esorcizzata, essendo queste ultime andate al massacro senza ribellarsi. In questo clima di declino del socialismo, ridotto a fenomeno municipale, la città di Le Corbusier fu rigorosamente classista, ad alta intensità di edificazione, molto ricca di verde. Gli operai vivevano nelle città giardino della periferia, simili a quelle pensate da Garnier. Con la realizzazione del villaggio Regina Elena Milano sperimentava il primo quartiere giardino italiano fedele a quei canoni.

La città di Terni, che forse solo casualmente somigliava sempre di più a quella di Zola, all’inizio del XX secolo aveva piani regolatori, sulla carta, che non trovavano operatività, anzi spesso l’iniziativa dei proprietari dei fondi era legittimata a posteriori con un piano regolatore accomodante. Il piano di ampliamento del 1886 aveva avallato a posteriori l’iniziativa edilizia privata dell’ingegner Cassian Bon, mentre il piano Beer del 1903 servì a regolarizzare le costruzioni dell’avvocato Pontecorvi. Nel 1919 fu redatto il piano regolatore Di Vella, in seguito approvato per stralci, che prevedeva anche la costruzione dei quartieri Giardino e Battisti, i primi al di fuori della cinta urbana. Fu un piano regolatore di basso profilo progettuale, sostanziale riproposizione degli schemi urbanistici del 1885 (Possenti) e del 1886 (Commissione Edilizia). Iniziò così la stagione delle grandi speculazioni e i nuovi quartieri, destinati ai ceti medi, furono prevalentemente costruiti su terreni di proprietà della famiglia Pontecorvi, il cui architetto di fiducia era il famoso accademico d’Italia Cesare Bazzani. In particolare il quartiere Giardino di Temi fu realizzato nel periodo di maggiore sviluppo di questa tipologia di insediamento in Italia, come una banalizzazione della sua idea originaria, non possedendo nemmeno un minimo di autonomia funzionale. Presto fu marginalizzato, sia dall’amministrazione comunale, sia dalla cultura urbanistica. Il piano regolatore di Ridolfi e Frankl, del 1960, ne prevedeva addirittura il completo abbattimento, per fare luogo all’edificazione di palazzi di oltre dodici piani.

La Città Giardino era stata evocata per sollecitare la borghesia colta a trasferirvi e concentrarvi le ambizioni fino allora sparse nelle grandi ville di fine secolo, mentre Le Corbusier continuava a scommettere su una città che sembrasse una campagna e una casa cittadina che sembrasse una casa rurale, sebbene non come Howard, per comporre i conflitti sociali.

Come accadde per tante città che divennero Provincia negli anni Venti del XX secolo, anche a Terni le classi al potere sentirono la necessità di adeguare la trama urbana al nuovo rango. Il podestà Almo Pianetti, impiegando una procedura molto simile a quella prevista dall’attuale ordinamento in materia di appalti pubblici, bandì nel 1932 un concorso nazionale per il piano regolatore, che fu vinto dalla cordata Bravetti, Lattes e Staderini. Il piano, presentato nel 1934, si caratterizzava per lo spostamento del centro da piazza Vittorio Emanuele a piazza Tacito.

In quel periodo, esattamente tra il 1927 e il 1933, i CIAM, Congressi Internazionali di Architettura Moderna, animati da Le Corbusier, redassero la Carta di Atene, che propose una proporzionalità tra la ripartizione funzionale urbana e quella delle attività giornaliere, 1/3 lavoro, 1/3 svago, 1/3 sonno. Fu introdotto un criterio di suddivisione dello spazio cittadino in industrie e uffici, attrezzature per il tempo libero e residenze. Il procedimento di disaggregazione seguito era simile a quello scelto da Kandinsky per le sue opere, basato sulla frammentazione dello spazio nelle sue componenti elementari, punto, linea e superficie, e della loro successiva ricomposizione dipendente dal punto di vista dell’artista architetto.

La città nuova era immaginata attraverso la disaggregazione in parti monofunzionali, e la ricomposizione, non secondo i classici criteri estetici ma secondo i bisogni della funzionalità o della nuova estetica delle avanguardie. L’urbs, la città fisica, si doveva legare alla città morale, alla civitas, assegnando a ogni cittadino una quota di felicità convenzionale. Gli architetti moderni sceglievano come tema favorito l’abitazione popolare minima, ma anche la casa razionale di tutti e pensavano la città come l’espressione dell’uguaglianza tra i cittadini, anche se le élite sapevano ritagliarsi i loro quartieri privilegiati. In realtà nell’urbs si gestivano le differenze della civitas, esaltandole, mentre la gente comune restava confinata nei quartieri periferici.

Tuttavia, nonostante l’esaltazione di quel periodo di grandi progettazioni urbanistiche, se non proprio grandi, estese, l’impianto teorico degli anni trenta fu concettualmente inconsistente e propagandistico, ciò che veramente resta è il culto dell’asse, Temi ne è ancora una volta una prova. Ridolfi ne disegnò la periferia all’antica, confermò gli assi di scorrimento del villaggio romano con la omotetia assiale del Corso del Popolo, abilmente sfalsato nei volumi e quindi distinto dalla tipologia dispositiva ottocentesca.

Nel frattempo gli architetti moderni erano penetrati nelle università diffondendo la tesi che l’architettura era una questione non estetica ma etica. Gli stili altri non avevano diritto di asilo poiché non brutti ma sbagliati e immorali. L’architettura moderna si professava antifascista, quindi doveva partecipare al successo storico della democrazia parlamentare. I principi moderni hanno dato luogo a un complesso di pratiche consistenti nell’individuare zone delimitate alternate a spazi non costruiti. Il paesaggio urbano progettato nella metà del XX secolo si caratterizza per queste isole separate da spazi liberi uniformi e legate da strade gerarchizzate solo dal traffico, che potrebbero appartenere a qualunque città. A questo soltanto sembra riducibile il contributo degli urbanisti. Esempio ne sono a Temi le torri incastrate tra via Turati e viale Trento, la tremenda Alcatraz di via Mola di Bernardo, il muro di via Rossini o il nuovo villaggio Matteotti. La città italiana in quegli anni fu ridotta a un cumulo di progetti urbani la cui dimensione e il cui sito dipendono soprattutto dalla consistenza degli imprenditori immobiliari. Gli architetti sono autorizzati a progettare qualunque insieme di edifici e piazze dei quali abbiano ottenuto un incarico professionale e i risultati purtroppo si vedono ovunque, anche a Londra, a Berlino e a Parigi. La dignità professionale dei grandi architetti ottocenteschi sembrò un ricordo mitologico, quella nuova razza di professionisti nulla aveva in comune con gli autori della Nuova Opera di Vienna e della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, i quali, estremizzando il sentimento della responsabilità, posero volontariamente fine alla propria esistenza sotto il peso delle critiche per le loro opere. Invece i progettisti delle conigliere cui si faceva riferimento prima, all’interno delle quali milioni di persone sono state costrette a vivere, non è dato sapere se abbiano provato almeno un po’ di rimorso.

La lettura di tanti esercizi di riscatto e redenzione dei moderni architetti, giustamente entusiasti e determinati a riparare il disastro dell’omogeneizzazione delle nostre città, tuttavia difensori della mal concepita modernità che lo ha provocato, non è in grado di rassicurarci. L’urbanista del XXI secolo non assomiglia, giustamente, alle generazioni precedenti, ma di queste pare non possedere neanche il bagaglio culturale, politico o il sentimento sociale. Che cosa resta dell’approfondita, a volte fin troppo, ricerca teorica svolta fino alla metà del XX secolo da Cerda, Baumeister, Stubben, Unwin, Lavedan, Giovannoni, per citare solo alcuni nomi impegnati?

La morfologia delle città europee è stata consacrata all’inizio del XX secolo come città della giustizia sociale, sulla spinta delle utopie socialiste del XIX secolo, come città del ritorno alla natura, sotto le varie forme della città giardino, e come città dell’efficienza tecnologica. Il futuro sarà probabilmente influenzato da tre principali elementi: la storia di ciascun abitato, la densità della rete insediativa e la consistenza culturale dell’insieme paesaggio.

Telematica e globalizzazione, forse semplici disturbi del segnale della storia, hanno tentato di recente di imporsi come le forze che danno forma all’organizzazione economica e funzionale dello spazio. La città metafora della comunicazione, della flessibilità esterna, la cosiddetta plug in city, ha ridotto il peso della localizzazione delle funzioni, talvolta recuperato d’autorità da qualche regolamento comunale che spezza un certo edonismo diffuso. Sintesi della loro stessa capacità di integrazione tra le funzioni, i grandi centri abitati si confrontano con le possibilità offerte da mobilità, telecomunicazione di massa, telelavoro, teleconferenze, Internet.

Questo divenire, talvolta caotico, talvolta razionalmente piegato a certe dannose leggi del mercato di speculazione, è stato mirabilmente riassunto da Pierpaolo Pasolini nel suo film La forma della città, del 1974. Girato nell’abitato rupestre di Orte, nel Lazio settentrionale, permise al regista di evidenziare come esercizi urbanistici completamente privi di pianificazione abbiano potuto alienare dal proprio ambiente plurimillenario una cittadella di origine etrusca, con l’impianto di presenze estranee e stereotipate (V. Trione, 2006).

Quel progetto di distruzione dei nessi storici e antropologici dei territori non accenna a interrompersi, le cattedrali del XXI secolo saranno i grandi centri commerciali, poli di una moltitudine di servizi.

Una volta consumate, nei prossimi anni, le riserve costituite dalla dismissione di aree industriali e militari si esaurirà la possibilità di disegnare nuovi spazi urbani di rilievo all’interno della città. Forse una grande battaglia al quel punto si giocherà sul contrasto alla privatizzazione dello spazio pubblico. Tuttavia emergono e si distinguono tre filoni principali di idea di città: la tecnopoli, città computerizzata delle comunità virtuali (forse qui Temi ha perso una grande opportunità di fare avanguardia con il fallimento del suo ormai inutile Centro Multimediale), l’ecumenopoli, concepita da Dioxadis nel 1967 come città ecologica e sostenibile, armonizzatrice del rapporto uomo ambiente, l’antropoli, che pone i residenti e i loro bisogni al centro del proprio interesse, avvalendosi della tecnopoli e dell’ecumenopoli.

La forma della città del futuro continua a oscillare tra necessità e l’utopia urbana di Platone, Thomas More, Francis Bacon, Tommaso Campanella, fino al più recente torinese Paolo Soleri, con le sue megastrutture. La città futuribile dovrà passare da un sistema pianificato, sempre in ritardo sull’evoluzione scientifica e tecnologica, economica e sociale, a un sistema che apprende, quindi flessibile. Alla pianificazione si sostituisce un sistema di controllo e gestione, come negli organismi viventi.

In quest’ambito teorico alquanto rassicurante s’inseriscono, ancora, gli appetiti sfrenati dei costruttori, i quali, come scrivevamo sopra, purtroppo sono in grado di influenzare le decisioni dei dispositivi amministrativi.

Sembra chiudersi un ciclo, le città tendono a tornare allo status degli inizi del Quattrocento, luoghi dello scontro sociale, ben sintetizzato da Kathleen e Fowles: ” Quando la civiltà si è sviluppata nel mondo occidentale, è cresciuta dietro le mura, in castelli, monasteri e in piccole città affollate; mentre gli emarginati vivevano nelle foreste, (insieme a) pazzi e idioti, lebbrosi e schiavi fuggiti, fuorilegge e criminali, alcune vittime e alcuni predatori. Il cancello e il ponte levatoio erano simboli di sicurezza, perché la libertà era pericolosa. Quindi la posizione è stata invertita. Le foreste sono state abbattute, e il diritto dello Stato si è stabilito; e le vittime e i predatori sono stati a loro volta confinati dietro le mura, negli ospedali e nei manicomi, in ospizi e case di lavoro, nelle carceri e nelle case di correzione. A volte per cortesia, a volte per timore, …… Nella seconda metà del ventesimo secolo, le mura delle istituzioni sono state violate. Scienziati sociali hanno sostenuto l’abolizione dell’istituzione, perché pensavano che il sistema era al di là delle riforme. Politici e funzionari pubblici hanno promosso la cura della comunità, perché speravano che sarebbe stato meglio e sapevamo che sarebbe stato più conveniente . … Poi i soldi cominciarono a scarseggiare Come la recessione economica si ap profondì , la paura aumentò e la compassione svanì . I t agli alla spesa pubblica hanno fatto sì che le risorse per la cura delle istituzioni e della comunità sono stati limitati; politici e funzionari pubblici cominciarono a sostenere che l’esperimento sociale degli anni precedenti era una stravaganzainutile La società divenne più severa e punitiva C’era disoccupazione di massa e agitazione nelle città e la comunità non er a ( se mai lo era stata accogliente e solidale I ricchi tornarono a barricarsi dietro le mura , protetti da dispositivi di sicurezza elettronici per tenere lontani i predatori mentre le vittime erano lasciate al loro destino Lo stato di diritto divenne uno stato di Law and Order e c’era una esaltazione per la costruzione e il riempimento delle prigioni. ” (Kathleen Jones, A. J. Fowles, 1984).

Il caso

Le preesistenze industriali ((Cfr. Danilo Stentella, Dalla ferriera pontificia alla Zecca di Terni alla SIRI, Terni, 1995.))

La città di Terni, una delle più industrializzate dell’Italia centrale durante il XX secolo, è stata anche testimone della rivoluzione industriale italiana della seconda metà del XIX secolo.

Fino alla prima metà del XIX secolo, gli interessi fondamentali della classe dirigente degli stati preunitari, composta prevalentemente dalla vecchia nobiltà fondiaria e dalla grande borghesia terriera, si fondavano sulla rendita agraria e sul commercio di prodotti agricoli. Difficilmente la produzione industriale italiana avrebbe potuto competere con quella dei paesi che avevano già acquisito un notevole sviluppo tecnico, con costi e prezzi assai competitivi. Solo l’industria tessile aveva una qualche consistenza, coprendo il fabbisogno nazionale, sebbene i telai di ferro mossi ad acqua avessero appena fatto la loro comparsa, mentre l’Inghilterra poteva già disporre di circa 5.000 telai meccanici.

Assai più arretrate erano le condizioni delle industrie metallurgiche e meccaniche, settori che altrove stavano assumendo un ruolo fondamentale nel processo di industrializzazione. Nel 1855 in Italia non si produceva acciaio industrialmente, mentre la quota della ghisa ammontava a non oltre 30.000 t, circa lo 0,30% della produzione mondiale. Le potenzialità del mercato dei metalli in Italia erano tuttavia notevoli, tenuto conto del fatto che nel 1861 furono importate nella penisola italiana 36.000 t di ghisa e poco meno di 60.000 di ferro. Maturò ben presto l’urgenza dell’autosufficienza nella produzione di ghisa, indotta principalmente dalla grande espansione della produzione mondiale dell’acciaio, che nel 1870 assommava a 400.000 t, nel 1880 a 4.200.000 e nel 1890 a 12.500.000 (G. Mori, 1977).

A Terni una preesistenza industriale siderurgica di una certa entità fu una ferriera, costruita dal marchese Marcello Sciamanna nel 1794, su commessa dello Stato Pontificio, della capacità produttiva di circa 235 t annue di metallo. La forza motrice necessaria era fornita all’opificio dal canale Pantano, della portata di 6 m3/s. Nel 1797 il marchese Sciamanna e Paolo Gazzoli ottennero l’autorizzazione a installare nel sito una zecca per la coniazione di monete di rame e di mistura (bassa lega di 208/1.000 di argento e 792/1.000 di rame). Un canale della potenzialità di 60 cavalli muoveva le macchine, di brevetto inglese e francese, del Lanificio Pianciani. Ancora l’acqua, tanto abbondante nella valle ternana, forniva forza motrice all’allora modernissimo Cotonificio Fonzoli, il quale disponeva di cento telai meccanici e impiegava circa quattrocento operai, prevalentemente donne e bambini((Cfr. L’Umbria manuali per il territorio, pp. 632, 722.)).

Nel 1861 l’industria ternana occupava 1351 unità lavorative, delle quali 142 nella Ferriera e 854 nel Lanificio, pari a quasi il 40% degli addetti all’industria dell’intera Umbria.

Questo apparente stato di isola felice entrò in crisi e declinò tra il 1860 e il 1870, anni nei quali la città fu una località di frontiera. Chiuse il lanificio dei frati francescani di Colle dell’Oro, sparirono le imprese artigiane della lavorazione del lino e della canapa e cinque delle dodici che conciavano pelli. L’azienda cotoniera Fonzoli fu venduta e trasformata in tessitura di flanella, sotto il nome di Lanificio Gruber & Co., che divenne poi una delle più grandi fabbriche cittadine e una delle più importanti del settore a livello nazionale.

Il Comune di Terni per favorire l’insediamento di grandi fabbriche pensò di realizzare una grande derivazione idraulica, costituendo nel 1873 il Consorzio del Canale Nerino. L’opera fu ultimata all’inizio del 1879, inaugurando una lunga stagione di sfruttamento intensivo della forza motrice disponibile nella valle (D. Stentella, 2009).

Nel 1875 erano iniziati i lavori per la costruzione della grandiosa règia Fabbrica D’Armi, nel 1884 era costituita la Società degli Altiforni, Fonderie e Acciaierie di Terni (SAFFAT), e poco tempo dopo, nel 1899 la piccola ex ferriera pontificia dava ancora lavoro a 315 tra operai tecnici e impiegati. In quegli anni iniziavano a operare a Terni, nel settore meccanico, anche le ditte Bosco, Monar e Ferraro, prendeva il via la grande rivoluzione industriale dell’Italia centrale, di cui Terni era capofila.

Nel 1896 la Società Italiana per il Carburo di Calcio Acetilene e Altri Gas, avendo acquistato dalla Aluminium Gesellschaft il brevetto per la produzione di carburo di calcio, installò un impianto sperimentale a Collestatte, vicino alla Cascata delle Marmore. Ottenuta dalla SAFFAT una subconcessione idrica per la produzione di circa 800 HP, l’impianto entrò in funzione l’anno successivo. Nel 1901 iniziò la produzione anche l’omologo stabilimento di Papigno, su una superficie di circa 30.000 m2, sulla sponda sinistra del fiume Nera, fornito di ampia autonomia energetica, che nel 1903 raggiunse la produzione record di 20.000 t di prodotto finito, nel 1907 di 25.000 t.

Nel 1897 prese il via l’attività industriale del pionieristico stabilimento tipografico Alterocca, progettato dal giovane architetto Cesare Bazzani, all’interno del quale fu ideata e commercializzata la cartolina illustrata.

Nel 1905 la Società delle Ferriere Italiane cessò definitivamente la propria attività metallurgica e metalmeccanica a Terni. Le sue strutture furono in seguito utilizzate da differenti imprese, tra le quali, dal 1910, la Società Anonima Cooperativa per l’Esercizio delle Arti Meccaniche e Metallurgiche di Terni. La Società IDROS, costituita nel 1916, iniziò la produzione chimica di idrogeno, ossigeno, azoto e perfino di energia elettrica(( Cfr. Archivio di Stato di Terni (AST), Archivio Società Terni, b. 49.)). Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, sia la IDROS che la Società Cooperativa per l’Esercizio delle Arti Meccaniche e Metallurgiche, ottennero commesse dall’amministrazione militare per forniture di bombe, ossigeno e gas per i dirigibili.

Presso la IDROS aveva lavorato Luigi Casale, il quale nel 1921 partecipò alla costituzione della SIAS, per la produzione nei locali della vecchia ferriera pontificia di ammoniaca, con un processo di sintesi semplice e competitivo ideato dallo stesso ingegnere. L’attività assunse grande rilievo industriale negli impianti di Nera Montoro, nel vicino Comune di Narni. Le due fabbriche assicuravano una capacità produttiva di 7 t/giorno di ammoniaca e 24.000 t/anno di azoto. Nel 1925 la SIAS fu incorporata nella Terni Società per l’Industria e l’Elettricità, nata nel 1922 dalla fusione tra la SAFFAT e Società del Carburo di Calcio, alla quale conferì il grande impianto di Nera Montoro. L’impianto ternano della ex Ferriera fu invece conferito nella neocostituita Società Italiana per le Ricerche Industriali (SIRI), che Casale continuò a guidare fino alla sua morte, avvenuta nel 1927, a soli 45 anni.

Dall’inizio del secolo XX si era andata sviluppando l’attività dell’industria chimica, che tra le attività industriali fu quella che realizzò il più alto saggio di crescita, prima della depressione del 1907, superiore anche a quello delle imprese meccaniche e metallurgiche. Aumentò la produzione di acido solforico, calciocianammide e carburo di calcio, settori nei quali l’Italia si attestò tra i massimi produttori mondiali (V. Zamagni, 1991).

Nel 1925 a Terni fu fondata la Società Umbra Prodotti Chimici, che operò in alcuni locali dell’ex Società Valnerina e due anni dopo, nel 1927, iniziò in un’area limitrofa alle officine Bosco la fabbricazione del solfuro di carbonio, impiegato dall’industria tessile per ottenere il rayon. La produzione ebbe un rapido successo, tanto che la società costruì un nuovo impianto a poca distanza dalla Cascata delle Marmore, attivo dal 1936, adiacente al primo elettrochimico della Società Carburo, che aveva cessato la produzione nel 1929, dopo la fusione per incorporazione nella Terni.

Durante il periodo autarchico, nel ventennio fascista, alcune materie prime d’importazione furono sostituite con prodotti nazionali. Il carbone, ad esempio, trovò il suo surrogato nella lignite, estratta a Terni nella miniera di Colle dell’Oro, e a Spoleto, nei pozzi di Morgnano.

Nel 1938 IRI e Pirelli costituirono la Società Agricola Italiana Gomma Autarchica (SAIGA), che realizzò un impianto a Terni, rimasto attivo fino al 1943. L’impianto fu rilevato nel 1949 dalla società Montecatini, la quale, anche grazie ai prestiti del piano Marshall, nel 1951 costituì la società Polymer e iniziò in questo sito la produzione di resine termoplastiche e cellulosiche, e del perborato di sodio. Alla fine degli anni cinquanta lavoravano in questo stabilimento circa 2100 addetti, aumentati a un massimo di 3100 nel 1976. Il suo sviluppatissimo centro di ricerca permise a Giulio Natta, Giorgio Mazzanti e Pietro Pino di brevettare il polipropilene isotattico.

Questo grande pionieristico fermento industriale ha fatto della valle ternana uno dei più poderosi ed eterogenei concentrati della prima industrializzazione in Italia e in Europa, con una elevata concentrazione di edifici industriali, quasi sempre progettati da architetti di grande raffinatezza operativa, a volte anche formale, che hanno resistito al tempo e agli eventi, praticamente intatti, fino ai primi anni ottanta del XX secolo. In quell’epoca, quando s’iniziava a discutere delle celebrazioni del centenario della Società Terni e più in generale di archeologia industriale, proprio allora iniziò una insensata, seppure spiegabile, campagna di distruzioni, abilmente mascherate dalle amministrazioni locali che si sono succedute, come operazioni di valorizzazione del patrimonio dismesso del lavoro umano ((Cfr., M. A. Petrucci, Le sedi dismesse del lavoro umano nella Provincia di Terni condizioni e fattori per il recupero, Terni, 1989.)).

Le stesse amministrazioni regionale, comunale e provinciale, insieme a fondazioni bancarie, finanziavano in quegli anni costosissime organizzazioni che si ponevano sul mercato dei finanziamenti pubblici come istituti di ricerca sulla storia aziendale e l’archeologia industriale, spendendo denaro pubblico per la stampa e diffusione di pubblicazioni sull’argomento, mentre nello stesso tempo somme irrisorie erano realmente impiegate per il recupero dei preziosi immobili o degli archivi, con interventi a volte discutibili, in altri casi ridicoli ((R. Covino, G. Gallo, Terni storia e progetto, Milano, 1986; G. Gallo,Ill.mo Signor Direttore. Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Foligno, 1983; G. Giani, Donne e vita di fabbrica a Terni, Perugia, 1985; R. Covino, G. Gallo, Terni 1884 – 1984 dalla storia al museo della città, Terni, 1985; AA. VV., Archivi industriali del comprensorio ternano – narnese – amerino, Terni, 1994; M. T. De Nittis, S. Quadraccia, E. Tanzarella, La chimica in archivio. Catalogo della biblioteca ex S.I.R.I., Terni, 2000; AA. VV.,La conca ternana e i monumenti della produzione. Per un parco archeologico – industriale, Terni, 1998; M. R. Porcaro, P. Pentasuglia,Tessuto urbano, equilibri territoriali e industria a Terni nella seconda metà dell’ottocento, Terni, 1986; G. Giani, Terni cento anni d’acciaio. Bibliografia dell’industrializzazione, Terni, 1984. La lista sarebbe ancora lunghissima, quasi sterminata, e per ragioni di spazio la esauriamo in questa breve ma emblematica rassegna.)). Nessuna seria e decisa opposizione ai dissennati piani urbanistici di distruzione del patrimonio di archeologia industriale si è mai pubblicamente levata da quelle organizzazioni, che anzi hanno di fatto giustificato ogni nefasto tipo di intervento, smantellamento, riuso incongruo, ecc., descrivendoli al massimo come una procedura di degrado controllato (R. Covino, 2014).

Il TICCIH, in collaborazione con l’AIPAI, nel 2006 ha organizzato il XIII Congresso mondiale degli archeologi industriali tra Terni e Roma.

Lo sviluppo dell’industria idroelettrica nella valle del Nera ((Cfr. Sergio Dotto, L’acqua motore dell’industria, Terni, 2011; AA. VV., Atti del convegno di archeologia industriale siderurgica, Terni, 1985.))

L’insediamento dell’industria idroelettrica nella valle del Nera, iniziato alla fine dell’Ottocento deve essere necessariamente studiato secondo le due direttrici parallele di sviluppo, quella pubblica con protagonisti i comuni, che cercavano di favorire l’insediamento di piccole e medie industrie nei propri territori e quella della grande industria, inizialmente soltanto chimica, che necessitava già allora di grandi quantità di energia per i propri processi produttivi. Tuttavia lo sforzo delle municipalità era volto anche a fornire servizi essenziali ai cittadini, quali l’illuminazione delle strade principali, delle piazze e degli edifici pubblici, estendendo lentamente ma progressivamente questa possibilità anche all’ambito delle utenze domestiche((Cfr. Legge 29 marzo 1903, n. 103 sulla municipalizzazione dei pubblici servizi.)).

L’Umbria meridionale, favorita dalla presenza dalla confluenza Velino-Nera presso la celebre Cascata delle Marmore, con portate d’acqua costanti nel corso dell’anno e un salto geodetico ragguardevole, si collocava inevitabilmente a pieno diritto tra i territori più interessanti per i pionieri italiani dell’idroelettrico, al pari delle cascate dell’Aniene a Tivoli, delle aste fluviali dell’Adda e del Ticino, della Valtellina e della Val D’Ossola, giusto per citare alcuni degli esempi storicamente più rilevanti (O. Selvafolta, 1998). Grazie ad una convenzione stipulata tra il Lanificio Gruber e il Comune, Terni fin dal dicembre del 1883 poteva vantare l’illuminazione di piazza Vittorio Emanuele, oggi piazza Solferino, situata sul retro del palazzo comunale, divenuto negli anni recenti biblioteca. Si trattò di un evento di portata eccezionale, poiché prima della grande industrializzazione Terni era un piccolo centro con meno di 25.000 abitanti((Cfr. http://dati.istat.it/Index.aspx)), mentre solo pochi mesi prima, nel marzo dello stesso anno, Milano aveva inaugurato la sua centrale, quella di Santa Radegonda, primo esempio di officina del genere in Europa. Tuttavia si trattava di un impianto termoelettrico, mentre a Terni la scelta era inevitabilmente caduta sull’acqua, abbondantemente disponibile a basso costo. La produzione e la distribuzione di energia nella città umbra passarono poi alla Segheria Idraulica Bizzoni e dal 1887 alla Società Industriale Elettrica della Valnerina, dell’ingegnere belga Cassian Bon, grazie al quale l’illuminazione pubblica fu estesa a tutto il centro urbano ((Cfr. Archivio di Stato di Terni, Archivio Storico del Comune di Terni II, b. 15, Deliberazioni del consiglio dal 25 novembre 1886 al 25 maggio 1888, seduta del 25 novembre 1886.)).

Nel volgere di pochi anni entrarono in funzione le centrali del Comune di Rieti, 1896, del Comune di Spoleto, 1899, del Comune di Terni, 1909 (Fig. 5), mentre il Comune di Narni costruì addirittura due impianti, Stifone, 1892, e Morica, 1895. Ci troviamo difronte a realizzazioni con potenze ancora modeste, che a livello nominale non superavano i 4 MW complessivi, con una netta prevalenza di gruppi Francis ad asse orizzontale. Per quanto concerne l’industria privata, la Carburo poteva contare complessivamente su quasi 13 MW, prodotti tra Collestatte (1899) e Papigno (1901), mentre la Società degli Altri Forni Fonderie e Acciaierie di Terni con il suo canale motore derivato (5 m3/s) dal Velino a Marmore fin dalla sua costituzione (1884), utilizzava nel 1902 ben settantasei gruppi idroelettrici collegati meccanicamente ai vari macchinari. Ciò era inevitabilmente determinato dall’impossibilità di trasportare l’energia a distanza, una limitazione tecnica alquanto restrittiva ancora esistente negli anni in cui era stato concepito e realizzato il grande stabilimento siderurgico, nei cui sotterranei si dipanava una fittissima rete di tubazioni per alimentare le numerose turbine Girard ad asse orizzontale, con potenza oscillante tra i 15 e i 750 kW, destinate all’azionamento dei vari magli, del treno laminatoio universale, di quello per le rotaie e i grossi profilati, per i cerchioni, per i profilati medi, per i profilati piccoli, delle gru, delle pompe, delle cesoie grandi e piccole e infine per il laminatoio lamiere (L. Candiani, 1887). Dunque la SAFFAT non aveva ancora interesse a produrre energia elettrica in centrali idroelettriche vere e proprie, poiché era in grado di essere autosufficiente.

La prima grande derivazione nell’area ternana fu il Canale Nerino (Fig. 1), frutto di una geniale intuizione degli amministratori del Comune di Terni, che costituirono apposito consorzio per favorire l’insediamento di nuove industrie nel territorio comunale, autorizzato dal regio decreto del 27 ottobre 1873. Il successivo rogito notarile del 3 dicembre 1875 comprendeva il regolamento consortile e la ripartizione dei 27 m3/s della derivazione tra la Regia Fabbrica d’Armi per 8,5 m3/s, lo Iutificio Centurini 7,5 m3/s, la Fonderia Giovanni Lucowich & Co. 4 m3/s, il Lanificio Gruber 3,5 m3/s e la Società Industriale della Valnerina 3,5 m3/s (( Cfr. Archivio di Stato di Terni, Archivio Storico Società Terni, b. 15, f. 11.)). Nel 1904 il Nerino, dimensionato per 40 m3/s, raggiunse la portata complessiva di 35 m3/s grazie alla quale alimentava le due centrali dello Jutificio Centurini costruite rispettivamente nel 1886 e nel 1904, mentre nella Fabbrica d’Armi, analogamente alle Acciaierie, otto gruppi Girard azionavano attraverso un complesso sistema di alberi meccanici e cinghie le ottocentocinquanta macchine utensili dello stabilimento militare (1874).

Il quadro delle utenze servite dal canale era completato dagli impianti del Lanificio (1878), Società Industriale Elettrica della Valnerina (1886), San Martino (1901) e Fonderia (1883), ma in tutti i casi va rilevato come le potenze in gioco, poche centinaia di kW, fossero ancora una volta piuttosto basse e che l’acqua oltre che per la forza motrice era impiegata anche per le lavorazioni effettuate nelle numerose industrie citate.

In quel periodo Cassian Bon fu il primo imprenditore dell’energia elettrica ad operare a Terni che concepì l’attività in senso moderno, conscio delle enormi potenzialità del mercato industriale e privato. Nel giro di pochi anni l’ingegnere di Liegi costruì due centrali in località Cervara (Fig. 2), a circa 3 km da Terni, la seconda delle quali, attiva a partire dal 1906, rappresentò il primo impianto di rilievo sul Nera. L’imponente edificio, ospitava cinque turbine ad asse orizzontale tipo Francis costruite dalla Riva da 1850 kW e due da 736 kW, per una potenza complessiva di oltre 10 MW, senza dubbio significativa per l’epoca.

L’Italia spinta dalla volontà di ridurre le importazioni di carbone da Francia e Inghilterra, che avevano dei costi ingenti, nel 1905 divenne la prima nazione in Europa per potenza idroelettrica installata, fatto che ebbe delle ricadute sociali immediate, se è vero che nel 1912 il nostro paese conquistò anche il primato continentale per la lunghezza delle linee ferroviarie elettrificate. Nel 1914 ben il 74% dell’energia prodotta traeva origine dell’acqua e consentì la nascita delle grandi imprese italiane (V. Marchis, 2011), gli anni pioneristici, come vedremo, cedettero ben presto il passo sotto la spinta di una rapidissima innovazione tecnologica, che consentì la costruzione di macchinari sempre più potenti.

La Valnerina recitò un ruolo da protagonista anche per il valore dei tecnici che operarono nella realizzazione e nella gestione degli impianti, tra essi va sicuramente ricordato Lorenzo Allievi che in seguito allo scoppio di una condotta forzata avvenuto il giorno di Pasquetta del 1902, presso il primo impianto idroelettrico di Papigno, formulò la “Teoria generale del moto perturbato dell’acqua nei tubi in pressione”, nota come “Teoria del colpo d’ariete”((Cfr. Lorenzo Allievi, Teoria generale del moto perturbato dell’acqua nei tubi in pressione (colpo d’ariete), Annali della Società degli ingegneri e degli architetti italiani, vol. 17°, n. 5, Roma, 1902, pp. 285-325; Atti dell’Associazione elettrotecnica italiana, Vol. 7, n. 2-3, 1903, pp. 140-196; Atti del Collegio degli ingegneri ed architetti di Milano, giugno 1903, pp. 35-88.)).

Nel 1911 la Carburo inaugurò la seconda centrale di Papigno, una perla tecnologica e architettonica sotto molteplici aspetti. Innanzitutto la sala macchine fu ricavata scavando per molti metri la roccia, cosicché era seminterrata, allo scopo di aumentare il salto utile, circa 190 m, inoltre era dotata di due officine distinte, la Velino alimentata dalle acque dell’omonimo fiume e la Pennarossa in cui erano utilizzate quelle del Nera. Complessivamente le strutture avevano la caratteristica forma di una grande V, al vertice della quale fu realizzato un vero e proprio centro di controllo in grado di gestire le cabine di trasformazione e delle centrali di Collestatte, del vecchio impianto di Papigno “Ganz”, di quella di Cervara e delle due sale adiacenti. Cento anni fa doveva trattarsi di qualcosa di straordinario, che preludeva ai moderni sistemi di teleconduzione, probabilmente con pochi eguali sia in Italia sia all’estero al punto tale che la centrale di Papigno era costantemente meta di visite di delegazioni di tecnici ((Società Italiana per il Carburo di Calcio, Visita della Società degli Ingegneri ed Architetti Italiani e dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, sezione di Roma, agli impianti idroelettrici della Società Carburo di Calcio il 28 aprile 1912 , Papigno, 1912.)). Da un punto di vista prettamente impiantistico la sala Velino utilizzava due turbine Francis ad asse orizzontale fornite dalla Riva, della potenza di 7.000 kW ciascuna, sviluppata facendo uso di 5 m3/s per gruppo, mentre nella Pennarossa i due gruppi idroelettrici, da 7.000 kW, nella configurazione a quattro turbine Riva orizzontali accoppiate per ognuno, il salto utilizzato era di 37 m, con una portata di 27 m3/s. Come si nota, la potenza totale toccava i 28 MW ma negli anni successivi con l’installazione di altri turbo alternatori arrivò alla soglia dei 70 MW.

Il secondo decennio del Novecento segnò, com’è evidente dai dati riportati, un salto di qualità che avrebbe caratterizzato l’inizio della costruzione dei grandi impianti infatti, lungo il corso del Nera, alla fine delle Gole a valle dell’abitato di Narni, nel 1915 entrò in produzione la centrale di Nera Montoro (Fig. 3), equipaggiata con tre gruppi Riva doppi ad asse orizzontale da 4,5 MW in grado di turbinare quasi integralmente i 72 m 3/s della concessione. Si trattava di un edificio dal rigore monumentale, lungo ben 130 m, ulteriormente abbellito nel 1929 dall’architetto Palazzesi per celebrare l’acquisto dell’impianto da parte della SELT-Valdarno, progettato per l’installazione di altre turbine. All’inizio degli anni Trenta la disposizione della sala macchine presentava quattro turbine Riva doppie ad asse orizzontale, ciascuna delle quali capaci di utilizzare fino a 22,5 m3/s e di erogare una potenza di 4.500 kW, in seguito l’innalzamento della portata in concessione a 120 m3/s consentirà di attivare una turbina Riva, tipo Kaplan ad asse verticale, da 2.944 kW ed infine il sesto gruppo da 10.306 kW, una Francis ad asse verticale dello stesso costruttore, anche se a causa del secondo conflitto mondiale i lavori furono ultimati sono nel 1949 ((Cfr. Società Elettrica SELT-Valdarno, I cinquant’anni della SELT-Valdarno. Firenze 1905-1955, Milano, 1956.)).

Durante la prima guerra mondiale la SAFFAT, completamente orientata sulle commesse militari, era riuscita a gestire le produzioni nelle sue officine con l’energia meccanica erogata per mezzo del canale motore e acquistando energia dalla Carburo o addirittura prendendo in affitto una delle due centrali di proprietà dello Jutificio Centurini. Le Acciaierie potevano inoltre contare anche sulle centraline della Fonderia e di San Martino, tuttavia era ormai palese che uno stabilimento siderurgico di tali dimensioni avesse bisogno di ben altre forniture. La SAFFAT costruì il suo primo impianto, la cosiddetta centrale di Marmore perché sorgeva poco a monte della famosa cascata, a partire dal 1919 e lo immise in produzione nel 1922. La sala macchine ospitava due turbine Francis ad asse orizzontale da 10 MW, di cui una tenuta di riserva.

Negli anni Trenta il fascismo, teorizzando l’autarchia, investì nei mega impianti produttivi, il più famoso dei quali, ancora una volta, sorse a Papigno, poco lontano dall’elettrochimico, per opera della Società Terni: la centrale di Galleto (Fig. 6). Questa realizzazione segnò una tappa fondamentale per la tecnologia impiegata, la complessità del progetto idraulico, la bellezza austera da tempio dell’energia del grande edificio, la potenza installata e la rapidità della costruzione, l’affermazione della Terni come grande produttore di energia. La progettazione delle opere idrauliche fu affidata all’ingegner Angelo Omodeo, ormai famoso a livello internazionale, l’Accademico d’Italia Cesare Bazzani curò la parte prettamente estetica delle architetture mentre l’ingegner Giovanni Devoto si occupò dell’aspetto strutturale.

La centrale, inaugurata nel 1929, ospitava nella sala macchine quattro gruppi tipo Francis ad asse verticale, ciascuno dei quali era in grado di utilizzare 22,5 m3/s d’acqua su un salto di 197 m per erogare 37 MW, dunque la potenza complessiva erogabile era di 148 MW, elemento che per alcuni anni ne fece l’impianto più potente d’Europa. La Terni impiegò la tecnologia più moderna allora disponibile, basti pensare che ogni turbo-alternatore era dotato di regolatore a pressione d’olio che comandava anche lo scarico sincrono della turbina, ricavato sulla spirale di quest’ultima, in modo da poter riversare nel canale di scarico dell’impianto l’intera portata, per limitare i rischi delle sovrappressioni nella condotta forzata. Vicino ai regolatori si trovava, all’epoca della costruzione, un quadro che raccoglieva al centro lo schema di distribuzione e i diversi organi di comando, quali le valvole rotative con segnalazione meccanica ed elettrica di apertura e chiusura, il comando del freno idraulico, la segnalazione luminosa di circolazione d’olio nei supporti della turbina, dell’alternatore e del perno di sospensione, infine gli indicatori del tachimetro, del manometro e del vuotometro. Gli elettricisti potevano monitorare strumentalmente il funzionamento e in caso di necessità arrestare i gruppi operando indipendentemente dal personale addetto presente in sala macchine. La Escher Wiss forni` le otto valvole rotative poste a coppia sui tratti di condotta forzata tra il collettore e la turbine. I dispositivi situati all’inizio, erano sempre aperti, assolvendo una funzione di riserva, e avevano un comando autonomo la cui pressione, indipendente dalle pompe dell’olio, era fornita da un serbatoio posto sul monte S. Angelo, a 180 m dalla quota della valvola stessa, contenente acqua glicerinata.

La fornitura di una adeguata quantità di acqua impose la realizzazione di grandi opere idrauliche: il canale del Medio Nera, che mediante un percorso di 42 km adduceva le acque di tre fiumi, Nera, Corno e Vigi al lago di Piediluco, allo scopo di usarlo come bacino di regolazione dell’intero sistema; la diga Stoney sul Velino, per consentire l’innalzamento del livello dello specchio d’acqua già citato; infine il canale derivatore vero e proprio dal Velino, lungo 940 m, profondo 18 m, capace di una portata massima di 180 m3/s. Per tale motivo si rese indispensabile la realizzazione di un pozzo piezometrico differenziale tipo Johnson, alto 41,60 m e con diametro di 5 m, mentre la condotta forzata realizzata della Terni stessa, fu uno dei primi esempi al mondo, se non il primo, posto in opera mediante saldatura piuttosto che chiodatura (A. M. Angelini, 1985).

Ancor più sorprendente appariva il sistema antincendio, costituito da bombole di anidride carbonica compressa, distribuita capillarmente da tubazioni in tutti i locali. In caso d’incendio di un alternatore un fusibile faceva aprire le valvole dell’impianto ad anidride, iniziando istantaneamente lo spegnimento del fuoco, quando in quell’epoca tutto era affidato alla prontezza ma soprattutto al coraggio del personale di turno. Anche la tecnica di lubrificazione degli alternatori presentava caratteristiche di avanguardia. In un locale posto circa 10 m più in alto rispetto al piano della sala macchine, si trovano i serbatoi di olio minerale, che attraverso un sistema di tubazioni provvedevano ai fabbisogni degli alternatori, dai quali il liquido usciva per essere inviato nei sotterranei, dove subiva la refrigerazione e la depurazione. Una volta eseguite queste operazioni, l’olio era pompato ai serbatoi di accumulo, della capacità di 15.000 l, tornando dove inizialmente contenuto.

Questi aspetti prettamente tecnologici, seppur necessariamente trattati per summa capita, suscitarono enorme e giustificata ammirazione, oltre alla meraviglia per la potenza delle turbine, nei tecnici che numerosissimi si recavano in visita a Galleto. La testimonianza più grande dell’eccezionale qualità del lavoro delle maestranze della Società Terni arrivò il 10 giugno 1944 quando l’esercito tedesco, in procinto di ritirarsi dall’Umbria, minò l’impianto che, grazie alla sua struttura portante in cemento armato, benché duramente provato da un incendio durato quattro giorni, fornì prova di una resistenza notevole e non crollò come gran parte delle altre centrali fin qui descritte.

In fase di ricostruzione si decise di non ripristinare i piccoli impianti abitualmente tenuti come riserva, preferendo concentrare le esigue risorse economiche e materiali sulle centrali di Cervara, Papigno e Galleto, che a lavori conclusi migliorarono la propria efficienza operativa. Negli anni Cinquanta la Terni realizzò le nuove officine in caverna di Monte Argento da 64 MW (1950) e Narni da 40 MW (1958), con portate rispettivamente di 150 e 182 m3/s, operando la dismissione di quella di Cervara e del canale Nerino, il cui consorzio fu sciolto nella seduta del 29 ottobre 1955.

In quello stesso periodo, nel 1953, a poca distanza dalla confluenza del Nera nel Tevere l’ACEA costruì la centrale Guglielmo Marconi, della potenza di 20 MW, erogata da due gruppi Kaplan, ottenuti su un salto di 11,5 m utilizzando 200 m3/s derivati mediante canale lungo 1.400 m dal bacino artificiale di San Liberato. Dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la costituzione dell’ENEL, la Terni perse il suo ruolo di produttore di energia e l’ultima grande realizzazione sul fiume Nera decisa dal nuovo ente vide la luce nel 1971 con la centrale di Monte Sant’Angelo, che dopo decenni completò il raddoppio di quella di Galleto, previsto fin dall’inizio. La sala macchine prevedeva due turbine Francis ad asse verticale da 84.140 kW costruite dall’Ansaldo-San Giorgio, installate in luogo dei quattro gruppi del progetto iniziale di ampliamento, in quanto ritenute più efficienti e relativamente economiche da produrre. L’attivazione della nuova sezione comportò la fine dell’attività nella centrale di Papigno, dalla quale fu prelevata la turbina Kaplan ad asse verticale, da 6.600 kW, costruita dalla Riva nel 1950, per essere utilizzata all’interno dell’impianto di Galleto. ?

Lo sfruttamento del sistema Nera-Velino poteva considerarsi a quel punto davvero concluso e per lunghi anni si assistette ad una situazione praticamente cristallizzata, fino a quando, alla fine degli anni Ottanta, non fu chiaro che con il cosiddetto mini-idroelettrico, questa forma di energia aveva ancora da dire qualcosa di importante. Nel 1989 nel grande edificio in pietra di Cervara fu installata una piccola turbina Francis ad asse orizzontale da 1.150 kW, mentre nel 1994 nel sito dell’elettrochimico di Papigno prese vita il piccolo impianto del Cervino, con due gruppi da 328 kW recuperati dalla centrale di Montedoglio (AR), costruita agli inizi del Novecento dalla ditta Buitoni.

Nel 2008 l’ENDESA, allora proprietaria del Nucleo Idroelettrico di Terni, investendo 188 milioni di euro avviò una serie di rilevanti lavori di rinnovamento, motivati dalla necessità di ottemperare a quanto prescritto nel decreto legislativo n. 79/1999, noto come decreto Bersani, per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Le operazioni, svolte tra il 2008 e il 2011, concluse dal nuovo proprietario E.On, hanno interessato ventisei gruppi turbina alternatore tra cui quelli delle officine di Galleto-Monte S. Angelo, Monte Argento, Narni, Nera Montoro (derivazione Stifone). Il doloroso taglio al passato, operato con la fiamma ossidrica, ha riguardato tutti gli impianti costruiti dalla Società Terni, con la scomparsa di storici macchinari elettrici e idraulici, quasi tutti costruiti nel sito industriale di viale Brin.

Un così altro prezzo in termini di conservazione del prezioso patrimonio è stato motivato dalla necessità di rientrare nel meccanismo dei cosiddetti certificati verdi, imposti dal decreto legislativo. Il 6 aprile 2008, in occasione di una giornata di apertura al pubblico, la centrale di Galleto mostrava per l’ultima volta la sala macchine, un’immagine da consacrare alla storia dell’industria elettrica nazionale, poiché anche per le sue turbine, dopo ottanta anni di funzionamento era arrivato il momento dell’addio ((Cfr. Endesa Italia, «Endesa Italia Magazine», anno IV numero XIII, gennaio-maggio 2008, Roma 2008.)). E’ grottesco, ma quello che non riuscì alla seconda guerra mondiale è stato ormai compiuto per altra via, la scritta “Terni 1944”, orgoglio dei lavoratori per aver strappato un bene al servizio della collettività dalle distruzioni, non compare più.

Non si sa in conformità a quale criterio, è stato salvato solo il distributore di una delle turbine della centrale di Galleto, insieme alle giranti, provenienti rispettivamente da Monte Argento, Narni e Nera Montoro, che dopo alcuni anni di abbandono alle intemperie in un improvvisato ricovero all’aperto, con decisione del tutto discutibile, visto il clima particolarmente umido del luogo che ora le ospita, sono state collocate nel Parco dei Campacci presso la Cascata delle Marmore, allo scopo di farne una attrattiva turistica ((Cfr. http://www.comune.terni.it/portaldata/UserFiles/Atto/2012/10/0349%2003.10.2012.pdf)).

Con la consueta incapacità di progettare a lungo termine non è stato compreso che la loro sistemazione ideale sarebbe stata in uno dei capannoni disponibili all’interno dell’elettrochimico di Papigno, non lontano dalla centrale Velino-Pennarossa (Fig. 4) per costituire un pregevole museo dell’industria idroelettrica mentre il progetto vincitore del concorso indetto dalla Regione Umbria, pur promotrice di una legge di tutela dei beni di archeologia industriale(( Cfr. http://leggi.crumbria.it/mostra_atto.php?id=60966&v=FI,SA,TE,IS,VE,RA,MM&m=5.)), ne prevede addirittura la trasformazione in una spa (( Cfr. http://www.ddastudio.net/papigno.html.)), con buona pace della storia e perseguendo un modello di gestione del patrimonio pubblico che ha prodotto finora solo danni. Incredibilmente, chissà perché, ognuno potrà immaginare i motivi più disparati, ma forse ce n’è uno validissimo e si chiama speculazione edilizia, nessuno a Terni pensa mai a restauri conservativi ma soprattutto a guardare con un po’ di sana modestia a quanto di buono e di successo è stato fatto altrove, come il Museo idroelettrico di Capdella in Spagna((Cfr. http://www.archeologiaindustriale.org/cms/museo-idroelettrico-capdella-spagna/.)) o il Museo dell’Energia Elettrica di Cedegolo, in Valcamonica (BS) ((Cfr. http://www.musilbrescia.it/sedi/cedegolo/.)).

Rassegna iconografica

Ordinarie distruzioni di archeologia industriale ((Cfr. Sergio Dotto, Ordinarie distruzioni del patrimonio di archeologia industriale. Terni capitale emblematica, in: http://www.archeologiaindustriale.org/cms/ordinarie-distruzioni-del-patrimonio-di-archeologia-industriale-terni-capitale-emblematica-2/ (2014).))

Iniziamo dagli ultimi giorni di marzo 2007, che sono stati silenziosi testimoni dell’ennesima distruzione perpetrata al patrimonio di archeologia industriale di Terni. Le ruspe hanno demolito lo storico molino Carlini, sito al quartiere Cospea, cancellando una testimonianza di protoindustria della nostra città. I mulini nel centro cittadino sono in pratica scomparsi, e la città che si è autoproclamata capitale mondiale dell’archeologia industriale ha permesso questo scempio inopinato per fare spazio ai soliti palazzi e sfruttare così l’ennesima area edificabile appetibile. Invece di tutelare le nostre, purtuttavia scarse, peculiarità storiche e architettoniche, promuovendo una ulteriore forma di turismo e il piacere di guardare la città, l’unica logica perseguita è quella dei subiti guadagni di dantesca memoria, come avvenuto per le aree della ex SIRI, dello Jutificio Centurini, del Lanificio Gruber ed altre, mascherando la distruzione, quando serve, dietro le classiche parole recupero e valorizzazione. La storia, quella con la s minuscola, si ripete puntualmente e offende Terni come altri centri industriali.

Emblematico il caso della SIRI, in cui quanto è stato salvato pare letteralmente soffocare di fronte a un incombente supermercato e nel cui sito sono stati oltre quindici gli edifici industriali demoliti. Irrimediabilmente perduti per sempre, tra gli altri, la palazzina a due ali e torrette per la sperimentazione dei tubi di sintesi, l’officina meccanica, il reparto catalizzatori, la torretta della cabina elettrica e i magazzini, per non parlare dell’impianto di arrivo del canale motore, oggetto di una “reinterpretazione” del tutto particolare, in cui le vecchie paratoie sembrano sospese nel nulla. Al posto della Storia vera, ora spuntano palazzi, ora centri commerciali.

Il molino Carlini avrebbe potuto e dovuto rappresentare il monumento all’industria molitoria ternana, un centro visite per gli studenti e un piccolo museo dei molini. Nella nostra città operavano ben quarantasette di questi opifici a olio e quindici a grano, tutti mossi dalla forza idraulica, quindi preservare il molino con un serio restauro conservativo avrebbe qualificato culturalmente la città. L’impianto era alimentato dal Canale Cervino, costruito in epoca romana, che attualmente ha origine all’interno del dismesso stabilimento elettrochimico di Papigno dalla derivazione Pennarossa, utilizzata per il raffreddamento della centrale idroelettrica di Galleto (Fig. 6). Il molino dei Carlini, adibito sia alla lavorazione dei cereali sia a quella dell’olio, utilizzava con un salto di 4,75 m 1 m3/s di acqua, restituito poco a valle con un canale sotterraneo caratterizzato da una volta a mattoni. Durante la Seconda Guerra Mondiale l’edificio fu sfiorato dai bombardamenti e portava ancora come testimonianza di quei giorni difficili un segno sulla ringhiera del terrazzino di accesso alle abitazioni, poste al piano superiore rispetto a quello delle macine. Negli anni Ottanta del Novecento, cessata l’attività in coincidenza con la conclusione del processo di urbanizzazione del quartiere Cospea, furono demolite la paratoia sul Cervino e le canalizzazioni di ingresso del mulino, mentre il canale fu completamente rivestito e ricoperto in cemento.

Proseguendo quest’avvilente excursus, la vicenda dello stabilimento tipografico Alterocca assume contorni persino grotteschi e in tale contesto di devastazioni è quasi inutile dire che lo stabilimento è stato demolito negli anni Novanta per far posto con un mirabile slancio di creatività a un condominio. Se solo ci fosse stata la volontà di conservare lo stabilimento in via Annio Floriano, rendendolo semplicemente il museo di se stesso e soprattutto se l’archivio e i macchinari fossero stati doverosamente acquisiti al patrimonio pubblico cittadino. Come sarebbe stato bello allestire una mostra di cartoline d’innamorati nel giorno in cui si celebra San Valentino, sicuramente Alterocca ne avrà prodotte tante e di pregio, come sempre. Siamo nel campo dei sogni, la autocelebrata capacità progettuale dei vari amministratori di Terni ha prodotto, come già detto, solo la demolizione dello stabilimento, la scomparsa inopinata dei macchinari , “conservati” in un capannone di Papigno nell’estate del 2012((Cfr. Sergio Dotto, Danilo Stentella, Terni. L’abbandono e la distruzione di un intero magazzino di reperti di archeologia industriale. http://www.archeologiaindustriale.org/cms/terni-labbandono-e-la-distruzione-di-un-intero-magazzino-di-reperti-di-archeologia-industriale/ (2012).)) e un archivio dimenticato, per giunta ormai di proprietà privata. Un museo internazionale della cartolina illustrata avrebbe portato a Terni tantissimi turisti, ma la cosa più semplice era demolire tutto e costruire un anonimo condominio. E così è stato ((Cfr. Sergio Dotto, San Valentino, una cartolina Alterocca, http://www.archeologiaindustriale.org/cms/san-valentino-una-cartolina-alterocca/ (2014).)).

Purtroppo anche nel resto del Bel Paese la situazione non è per nulla migliore: il 31 ottobre 2007 il sito abruzzoreport.com, annunciava mestamente la distruzione della Stazione di Portanuova a Pescara, constatando come“Anche dinanzi al nobile passato, la smania costruttiva non ha conosciuto freni”. Nessuno scrupolo di fronte ad un edificio del 1883 che tanto contribuì allo sviluppo industriale della città, dove rimangono ormai solo “tristezza e senso di impotenza, specie davanti a distruzioni del tutto gratuite”. Però la facciata è stata preservata, giusto per salvare abilmente le apparenze. Il morbo demolitorio non si ferma, si scaglia anche contro l’ultima palazzina superstite del Portello, la storica fabbrica milanese dell’Alfa Romeo e la prestigiosa rivista Ruoteclassiche nel numero 227 del novembre 2007 titolava esplicitamente “Il Portello come Ground Zero”. Nonostante l’impegno profuso da Vittorio Sgarbi, in quel periodo assessore alla cultura del Comune di Milano, e da Giovanni De Nicola, capogruppo di uno schieramento politico alla provincia, che riuscirono soltanto a rimandare l’esecuzione, gli ultimi resti consistenti nella palazzina degli uffici e nella portineria furono rasi al suolo perché lì sarebbe dovuto passare un sottopassaggio, sicuramente più importante rispetto a un glorioso opificio(( Cfr. http://www.milanofoto.it/pictures/archive/index.php?dir=Cantieri/Portello%20Sud/2007%20Demolizione%20uffici%20Alfa/200709xx%20Demolizione.)). Sempre a Milano, dove imperversa il business per l’Expo 2015, nell’agosto 2007 è stato abbattuto, in via Castelvetro, lo Stabilimento Boldorini, risalente al 1908 e caratterizzato da un edificio di pregio, per giunta ancora in buono stato di conservazione, essendo stato sede della San Pellegrino S.p.A. fino al 2006. Ancor più incredibile la vicenda del vecchio stabilimento Lancia in via Caraglio 84 a Torino, dove erano conservati una settantina di modelli di automobili del prestigioso marchio, in quella che era la sede più logica per un museo. Troppo bello avere una simile struttura produttiva conservata per ospitare tanti geniali prodotti che lì erano stati concepiti e che in passato avevano dato tanto lustro al nostro paese. No, meglio vendere tutto, demolire e costruire immobili e dire che ci sono manager di case automobilistiche che pochi anni or sono si sono sfidati per acquisire marchi nobili (Bugatti, Rolls Royce, Aston Martin) o si sono ingegnati per crearne ex-novo (Acura, Infiniti, Lexus). Tutto questo mentre i responsabili delle grandi firme industriali italiane mettono da parte senza nessuno scrupolo morale un passato davvero rilevante. A fronte di questo quadro avvilente, ci sono fortunatamente anche piccoli esempi positivi, come la ferrovia a scartamento ridotto Genova-Casella (( Cfr. http://www.ferroviagenovacasella.it/index.php)), che inaugurata il 1° settembre 1929, si snoda per 25 km costeggiando per alcuni chilometri il mare, costantemente immersa nella vegetazione mediterranea. Dal 1° gennaio 2002 il complesso degli impianti e il materiale rotabile, che prima erano di proprietà delle Ferrovie dello Stato, sono passati alla Regione Liguria e la gestione è stata affidata alla Ferrovia Genova Casella s.r.l., società con socio unico Regione Liguria. La ferrovia è divenuta un’autentica attrattiva turistica e può vantare un treno storico di assoluto rilievo, costituito dalla più antica locomotiva elettrica ancora funzionante, costruita nel 1924 dalla Tecnomasio Italiano Brown Boveri per la Ferrovia Sangritana, mentre i vagoni, risalenti al 1929, provengono dalla ferrovia alpina Ora-Cavalese-Predazzo. Sempre in tema di trasporti su rotaia si segnalano l’Associazione Torinese Tram Storici(( Cfr. http://www.atts.to.it/)), che si dedica al restauro ed alla conservazione di vetture tramviarie d’epoca, utilizzate anche per corse speciali nel capoluogo piemontese, e l’Associazione Ferrovia Basso Sebino((Cfr. http://www.ferrovieturistiche.it/)), per merito della quale rivive a scopo turistico la Ferrovia Palazzolo sull’Oglio-Paratico, inaugurata il 31 agosto 1876.

Nella nostra Umbria sono note le vicende della Ferrovia Spoleto-Norcia((Cfr. http://www.trainsimitalia.net/tsi_photogallery/index.php?cat=24)) e della Tramvia Terni-Ferentillo((Cfr. http://www.mondotram.it/tramsabato/2009/3_tram_sotto_cascate_7_3_09/index.html)), ma vale la pena ricordare lo stato vergognoso in cui è tenuta la piccola stazione di Papigno oggetto di continue affissioni per manifestazioni di rafting, e che negli anni Novanta si è brillantemente pensato di demolire la vecchia cabina di trasformazione che alimentava la linea sita nell’area del preesistente stabilimento del Carburo di Calcio a Collestatte. Probabilmente, restaurare l’edificio e utilizzarlo per realizzare allestire un piccolo museo in cui esporre cimeli, fotografie, documenti e cartoline d’epoca sarebbe stata un’impresa titanica, meglio quindi costruire un banale parcheggio.

Per concludere questa riflessione, uno sguardo all’estero. A cinquanta chilometri a Nord-Ovest di Parigi si trova lo stabilimento Renault di Flins, dove l’azienda è riuscita a raccogliere i 650 modelli che ha prodotto nella sua ultracentenaria storia, dai prototipi alle automobili costruire in milioni di esemplari, creando una struttura denominata Historire et Collection, in grado di eseguire restauri integrali grazie anche al contributo di ex-dipendenti. Una perfetta dimostrazione di come il rispetto reciproco e la simbiosi di valori tecnologici e umani siano la chiave di successo per preservare simili patrimoni. Nella capitale transalpina, al numero 42 dell’Avenue des Champs Elysées, la Citroen ((Cfr. http://www.citroen.fr/univers-citroen/vitrines-citroen/citroen-c-42.html)) inaugurò nel 1927 il suo salone più importante, che a distanza di tanti anni, attraverso le ristrutturazioni del 1932 e del 2004, rimane il punto di riferimento per gli appassionati della casa del double chevron. Le ultime modifiche sono opera dell’architetto Manuelle Gautrand che ha realizzato una nuova facciata con cuspidi di vetro per ottenere un effetto simile a una pietra preziosa. Così mentre in Italia Alfa-Romeo e Lancia abbandonano i propri luoghi storici, le case francesi tutelano con accortezza il proprio patrimonio immobiliare. Probabilmente il museo dell’automobile più bello in assoluto è il Musée de l’Aventure Peugeot, ((Cfr. http://www.museepeugeot.com/fr/musee-de-laventure-peugeot.html)) in cui non ci si è fermati al restauro ed alla conservazione dei vari modelli ma sono stati ricreati degli ambienti del tutto fedeli ai veri periodi storici, arricchendoli anche con altri prodotti del marchio che, come noto, spaziava dai cicli alle motociclette, passando per i macinacaffè e i macinapepe, fino agli utensili e agli elettrodomestici.

In merito alle strade ferrate degno di nota è il Tram-Museum Zurich((Cfr. http://www.tram-museum.ch/content.php?id=3)), il museo del tram di Zurigo, città dove il deposito delle tramvie elettriche, realizzato nel 1893, non ha suscitato appetiti immobiliari come con ogni probabilità sarebbe accaduto a Terni e più in generale in Italia, ma continua a seguire la sua destinazione d’uso originale, ospitando i vecchi tram restaurati e mantenuti in efficienza dall’associazione Verein Tram-Museum Zurich, che può vantare oltre settecento membri. Un tram è stato collocato su una fossa di ispezione modificata, con il pavimento trasparente, in modo tale che i visitatori possano ammirare la struttura meccanica ed elettromeccanica posta sotto il pavimento delle vetture, denominato sottocassa. Idee semplici, ma del tutto coerenti con la funzione delle macchine così come coerente è stata la scelta di salvare il vecchio deposito.

Per finire, torniamo in Francia per la Ferrovia del Vivarais((Cfr. http://www.ardeche-train.com/)) che collega con un percorso di 32 chilometri la cittadina di Tournon, situata sulla sponda destra del Rodano, con il borgo agricolo di Lamastre. La linea fu inaugurata nel 1891 ma, come per altre realtà di questo tipo, l’avvento massiccio del trasporto su gomma ne determinò la chiusura il 1° novembre 1968. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella penisola italiana, in cui si è particolarmente celeri nello smantellare, le infrastrutture rimasero intatte e già nel 1970 grazie all’opera di un gruppo di appassionati iniziarono i primi viaggi per i turisti grazie anche alle sensibilità dello Stato francese che cedette il materiale rotabile e rese possibile la costituzione della Società Ferrovie Turistiche di Montagna. Così da aprile a ottobre i viaggiatori possono ammirare i paesaggi della regione dell’Ardéche e scoprire le Gole del Doux con i suoi laghi e i suoi castagneti, con le locomotive a vapore Mallet che restituiscono la calma di viaggiare per due ore, circondati da un territorio rimasto pressoché inalterato nel tempo.

Tristemente e oggettivamente i fatti, come si suole dire nel linguaggio comune, parlano. Purtroppo assai male per Terni e per l’Italia.

Le istanze di dichiarazione di interesse culturale

Dal 2005, anno di costituzione del Centro Studi Malfatti, in varie occasioni i nostri ricercatori hanno proposto alle amministrazioni locali dell’Umbria meridionale la tutela di siti di particolare interesse, per la valenza del bene culturale immobiliare o archivistico; gli oggetti delle mozioni sono stati strutture monastiche in stato di abbandono, ville, opifici, fondi archivistici, aree di interesse archeoindustriale, ecc. Le documentatissime proposte hanno costantemente trovato ampio spazio nei media locali e talvolta nazionali, ma non hanno mai ricevuto una risposta formale da parte delle amministrazioni territoriali coinvolte, in pieno dispregio e violazione della normativa vigente in materia di procedimento amministrativo, giacché un procedimento amministrativo non era mai avviato((Cfr. L. n. 241.1990.)). Riscontravamo che il metodo della democrazia partecipata e delle istanze promosse dai portatori di un legittimo interesse non funzionava. I nostri amministratori non tenevano in alcun conto l’influenza che la volontà delle comunità locali poteva avere sui loro progetti, evidentemente costoro non avevano mai decifrato l’articolo 12 della Carta di Cracovia 2000((Cfr. Carta di Cracovia 2000, art. 12: ” La pluralità di valori del patrimonio e la diversità degli interessi, necessita di una struttura di comunicazione che assicuri la reale partecipazione degli abitanti a tale processo oltre a quella degli specialisti e degli amministratori. È responsabilità della comunità lo stabilire appropriati metodi e strutture per assicurare la reale partecipazione degli individui e delle istituzioni a tale processo decisionale. “.)). Si trattava di uno splendente esempio di potere delegato democraticamente, esercitato poi in modo assoluto, confidando forse anche sulla onerosità di certi procedimenti di opposizione ai provvedimenti adottati, come il ricorso ai tribunali amministrativi regionali.

Dal 2014, verificato un sostanziale disinteresse, e percependo anche una sorta di fastidio sollecitato dalle nostre iniziative, che in qualche modo interferivano con le modifiche ai piani regolatori che si andavano via via tratteggiando, la nostra strategia operativa è cambiata quasi radicalmente. Abbiamo iniziato a inviare al Ministero per i Beni e le Attività Culturali formali richieste di avvio del procedimento per la dichiarazione di interesse culturale e salvaguardia per tutta una serie di beni culturali, relativamente ai quali ci eravamo in precedenza rivolti alle amministrazioni locali per la loro tutela. Le nostre proposte sono state accuratamente articolate secondo uno schema descrittivo del bene, del suo inquadramento storico, economico, antropologico, della valenza culturale, iconografico.

La maggior parte di queste richieste, seppure macroscopiche dal punto di vista dei volumi dei manufatti che ne erano oggetto, spesso si sono riferite a beni dei quali nessuno dei costosissimi enti di settore finanziati da Regione, Provincia, Comuni e fondazioni bancarie nei trenta anni precedenti aveva mai nemmeno intuito l’esistenza. Si evidenziava che quel tipo di spesa allegra per istituti a partecipazione pubblica, che di fatto producono solo carte ed eventi, al massimo, senza apportare un valore aggiunto territoriale, fa poi riflettere i contribuenti sulla spesa pubblica improduttiva.

Nel corso del 2014 abbiamo chiesto l’avvio del procedimento per la dichiarazione di interesse culturale per:

  • gli impianti della vasca di decantazione, delle gallerie di adduzione, della vasca di carico e delle centrali di Cervara (Terni), compresi tutti gli originali macchinari di manovra, (primissimi anni del XX sec.);
  • edifici dell’ex Lanificio Gruber e di tutte le sue pertinenze, incluso il tratto finale del Canale Nerino e suoi canali sotterranei di reimmissione, rispettivamente risalenti al 1846 e al 1878; per questo manufatto il Centro Studi Malfatti aveva proposto al Comune di Terni la realizzazione nelle volumetrie superstiti di una conservatoria provinciale degli archivi aziendali, anche in considerazione del progressivo esaurirsi degli spazi messi a disposizione dal locale Archivio di Stato, che ha obbligato il deposito di alcuni fondi archivistici aziendali presso ricoveri di fortuna, talvolta esposti al deterioramento provocato dagli agenti ambientali;
  • due gruppi idroelettrici ausiliari originariamente installati nella seconda centrale di Cervara, attualmente utilizzati nell’impianto idroelettrico di Visso, di proprietà di E.On Produzione S. p. A., sito in via dei Molini, a rischio rottamazione per sostituzione del macchinario con dispositivi più moderni (1906);
  • la passerella Telfer dell’ex elettrochimico di Papigno (TR), realizzata nel 1929 per il trasporto della calciocianamide dagli impianti di produzione al magazzino di stoccaggio, attraversando la strada regionale Valnerina; l’intero sito industriale di Papigno ha funzionato dal 1901 al 1973; il sito, pur essendo stato oggetto di un bando regionale per l’acquisizione di proposte progettuali per la riqualificazione architettonica e ambientale, è stato anche oggetto di una delibera del Comune di Terni finalizzata all’abbattimento del manufatto, per una spesa di centinaia di migliaia di euro, importo che consentirebbe tuttavia la messa in sicurezza e il restauro delle parti deteriorate ((Cfr. DGR n. 883.2013, bando per un concorso a tema della Regione Umbria per l’acquisizione di proposte progettuali per la riqualificazione architettonica e ambientale di quattro ambiti, tra i quali l’ex stabilimento elettrochimico di Papigno.)).

Abbiamo inoltre diffidato il Comune di Terni a concludere, dopo circa venti anni, la realizzazione del Museo delle Armi presso i locali messi a disposizione dal Ministero della Difesa presso la ex Fabbrica D’Armi, oggi Polo Mantenimento Armi Leggere, o in alternativa a restituire i locali stessi per rispettare un preciso obbligo contrattuale e non proseguire in questa grottesca situazione.

Riferimenti normativi

L’articolo 9 della Costituzione sancisce che il valore estetico culturale è tra i più rilevanti del nostro ordinamento, motivando l’esercizio di poteri statali che gravano direttamente sulla sfera privata, ad esempio con l’istituto della prelazione storico artistica, o con l’espropriazione dei beni culturali((Cfr. Art. 55 L. 1089/1939.)).

Il D.Lg. n. 112.1998 delinea la funzione di tutela del bene culturale attraverso le tre funzioni di conservazione, riconoscimento e protezione dei beni culturali.

Lo strumento per la proposta della tutela di un bene ritenuto di interesse culturale o paesaggistico è essenzialmente il D.Lgs. N. 42.2004, o Codice dei beni culturali e del paesaggio, integrato dal D.Lgs. n. 157.2006. Il Decreto del 2004 agli articoli 2 e 10 definisce il patrimonio culturale e i beni culturali, agli articoli 12, 13 e 14 definisce l’iter per la dichiarazione di interesse culturale.

Nel caso di beni di proprietà di regioni, province, comuni, altri enti pubblici e delle persone giuridiche private senza scopo di lucro, il codice all’articolo 12 prevede la specifica procedura della verifica di interesse culturale, nel caso di beni appartenenti ai persone fisiche il vincolo origina dalla dichiarazione di interesse culturale di cui all’articolo13. In particolare l’articolo 12 prevede che le cose mobili e immobili databili oltre i cinquant’anni, di autore non più vivente, siano sottoposte ad un apposito procedimento di verifica, finalizzato all’accertamento della sussistenza dell’interesse. Nel periodo di attesa della verifica i beni oggetto della procedura sono soggetti, in via provvisoria, alla disciplina di tutela prevista dal Codice.

Individuato lo stock di beni culturali dichiarati di interesse secondo l’articolo 13 del testo unico, lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici, gli enti e gli istituti pubblici hanno l’obbligo di garantire la sicurezza e la conservazione dei beni culturali di loro appartenenza. Questi soggetti hanno l’obbligo di conservare organicamente i propri archivi, ordinarli, di inventariare i propri archivi storici costituiti dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni. A questo stesso obbligo soggiacciono i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di archivi privati, che siano stati oggetto della dichiarazione di interesse.

Il Testo Unico definisce inoltre come categorie speciali, quindi sottoposte a particolari limitazioni anche in assenza di dichiarazione di interesse, gli affreschi, gli stemmi, i graffiti, le lapidi, le iscrizioni, i tabernacoli e gli altri ornamenti di edifici; gli studi d’artista; le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale; le fotografie e gli esemplari delle opere cinematografiche, audiovisive, le sequenze in movimento o comunque registrate, le documentazioni di manifestazioni sonore o verbali la cui produzione risalga ad oltre venticinque anni; i mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni e i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquanta anni.

Il procedimento di dichiarazione di interesse culturale si avvia su iniziativa del Soprintendente, il quale agisce anche su richiesta della regione e di ogni altro ente territoriale interessato. Il provvedimento finale è adottato dal dirigente regionale, nella forma di Decreto di dichiarazione di interesse culturale.

La procedura sollecitata da un ente diverso da quelli elencati nel Testo Unico non obbliga la Soprintendenza regionale ad avviare il procedimento. Tuttavia una serie di documentate e serie istanze di avvio del procedimento per la manifestazione di interesse culturale che non fossero prese in considerazione dalla Soprintendenza regionale di riferimento possono esporre la stessa ad altro tipo di accertamento funzionale da parte del Ministero dei Beni Culturali, se non a specifiche interrogazioni parlamentari, rispetto alle quali la giustificazione del disinteresse deve necessariamente essere documentata e motivata almeno quanto le istanze stesse.

La Regione Umbria si è dotata nel 2013 di uno specifico strumento per la tutela dei beni di archeologia industriale((Cfr. D.C.R. n. 226.2013.)), purtroppo mentre la Regione procede alla catalogazione del patrimonio di riferimento continuano le distruzioni o le finte valorizzazioni, finalizzate alla solita speculazione edilizia.

Conclusioni

Il patrimonio architettonico urbano e paesaggistico è il risultato di processi di sviluppo e adattamento correlati a diversi periodi storici e diversi contesti socio culturali((In proposito si veda anche l’art. 1 della Carta del Restauro di Venezia 1964.)). La conservazione di questo patrimonio può essere perseguita mediante controllo ambientale, manutenzione, riparazione, restauro, o rigenerazione.

Queste decisioni implicano una serie di responsabilità, particolarmente per quelle porzioni che in questo momento non sembrano avere un particolare valore storico culturale, ma che potrebbero averne uno in futuro. Proprio qui risiede la capacità di visione e di immaginazione del pubblico amministratore, che si informa al suo bagaglio culturale, inteso nel senso più lato.

La manutenzione e il restauro sono operazioni che richiedono una seria pianificazione, organizzata ricorrendo a un sistematico monitoraggio, che consente di descrivere il degrado prevenendone gli effetti più indesiderati. Il restauro si basa su competenti scelte tecniche e si attua una volta esaurito il processo di acquisizione di informazioni per l’approfondita conoscenza del manufatto (( Cfr. Carta di Cracovia 2000; art. 9: ” Il paesaggio inteso come patrimonio culturale risulta dalla prolungata interazione nelle diverse società tra l’uomo, la natura e l’ambiente fisico. Esso testimonia del rapporto evolutivo della società e degli individui con il loro ambiente. La sua conservazione, preservazione e sviluppo fa riferimento alle caratteristiche umane e naturali, integrando valori mentali ed intangibili. È importante comprendere e rispettare le caratteristiche del paesaggio ed applicare leggi e norme appropriate per armonizzare le funzioni territoriali attinenti con i valori essenziali. In molte società il paesaggio è storicamente correlato ai territori urbani .”.)).

Assunta la città di Terni a emblema di un modo di curare gli assetti urbanistici, il paesaggio urbano e il decoro stesso dei centri abitati, potendo tuttavia estendere la considerazione a tante altre città italiane, dobbiamo costatare come la classe politica, abusiamo pure del nobile termine, che ha governato il capoluogo negli ultimi 35 anni, dalla maggioranza e dall’opposizione, in questo secondo caso non opponendosi proprio a nulla, chissà perché, anzi colludendo, passerà alla storia come la più vana che questo territorio abbia mai ospitato:

– ha assistito quasi impassibile alla deindustrializzazione, partecipando tuttavia a eruditi convegni per discutere sul fenomeno, come se non la riguardasse;

– non ha nemmeno lontanamente provato a ipotizzare un modello di sviluppo integrato;

– ha provveduto a fare piani regolatori che di fatto hanno sconvolto il paesaggio urbano, facendo realizzare le tremende Alcatraz si Via Mola di Bernardo e di Via Rossini, o del Matteotti nuovo, per non parlare dei quartieri dormitorio che sono sorti in modo intensivo nella periferia;

– ha lasciato nel più assoluto degrado manufatti di pregio, in grado di conferire una caratteristica ai luoghi, come l’ex convento di Colle dell’Oro, Villa Palma, il complesso dell’ex Lanificio Gruber, il complesso industriale di Papigno (che potrebbe essere sfruttato come hanno fatti tedeschi con il sito dismesso di Zollewerein), le torri della antica cinta urbica, ormai ricettacolo di immondizia e prossime al crollo, nulla hanno fatto per impedire che l’ex Jutificio Centurini fosse raso al suolo, senza una apparente necessità, ha approvato la demolizione dell’ex poligrafico Alterocca;

– ha realizzato un eccessivo numero di aree industriali e artigianali, senza alcuna apparente razionalità, limitrofe a tutte le vie di accesso alla città, disseminate di stereotipati capannoni in cemento, molti dei quali vuoti, pessimo biglietto da visita per la città, pessimo spettacolo per il visitatore che arriva a in città.

La deriva tracciata dal degrado del patrimonio culturale non rappresenta soltanto un generico insulto all’arte, alle scienze, al gusto per il bello e per la cultura storica e antropologica di un territorio ma, soprattutto, rappresenta un danno economico, alla sostenibilità dell’ambiente urbano e alle sue capacità di sviluppo (M. Widener, 2014), dal momento che il turismo culturale fa riferimento a risorse del territorio che per loro natura sono limitate e facilmente degradabili, mentre, ad esempio, le risorse cui fa riferimento il turismo d’affari possono essere prodotte illimitatamente man mano che la domanda aumenta, trattandosi essenzialmente di alberghi, centri congressi, ristoranti ecc. Il turismo culturale, essendo sostanzialmente una componente esogena al territorio di riferimento, contribuisce alla sua crescita economica in quanto esista una capacità di attrazione (C. Min, T. Roh, 2013).

Il saccheggio del territorio che abbia una valenza archeoindustriale, di volta in volta spacciato per riuso, valorizzazione, riqualificazione, quando si indirizza su manufatti e aree della prima industrializzazione di un comprensorio ne limita le capacità attrattive nei confronti di un turismo culturale che sempre di più è eterogeneo ed eclettico.

Il sito minerario dismesso Zollverein, ad Essen, inserito nel 2001 nell’elenco del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, ha creato posti di lavoro per circa 1.000 unità, tra le quali 110 guide turistiche, in un parco di oltre 100 ettari ((Cfr. Sergio Dotto, Zollverein, Essen (Germania), in: http://www.archeologiaindustriale.org/cms/zollverein-essen-germania/)). Il progetto urbanistico dell’area è stato curato dall’architetto olandese Rem Koolhaas. L’intero complesso industriale è stato posto sotto tutela e i suoi spazi sono destinati anche a mostre e concerti. Per conservare questo monumento industriale, nel 1998 è stata costituita la fondazione Zollverein. Oggi la miniera e la cokeria, preservate nelle loro condizioni originarie, offrono un’immagine viva della storia dell’estrazione mineraria e dell’architettura industriale. Lungo il percorso museale, che si snoda attraverso gli ex impianti di vagliatura e lavaggio del carbone, e passa davanti ai macchinari e ai nastri trasportatori, i visitatori possono seguire le tappe evolutive dell’industria pesante, che lasciano ben immaginare i duri ritmi di lavoro quotidiani tra il rumore e la polvere. Una buona fonte di ispirazione per preservare l’elettrochimico di Papigno prima che vada perduto in modo irrimediabile ((Cfr. Sergio Dotto, La miniera di Zollverein (Germania), in: http://www.archeologiaindustriale.org/cms/la-miniera-di-zollverein-germania/)).

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Filmografia

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Fonti d’archivio

Archivio di Stato di Terni (AST), Archivio Società Terni.

Fonti Normative

L. n. 103/1903;

L. n. 1089/1939;

L. n. 241.1990;

D.Lg. n. 112.1998;

D.Lgs. n. 79/1999;

D.Lgs. n. 42.2004;

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Regione Umbria, DGR n. 883.2013;

Regione Umbria, DGR n. 386.2014;

Regione Umbria D. D. n. 3930.2014.