La stampa italiana e la catastrofe di Chernobyl

Nella notte tra il 25 ed il 26 aprile 1986 la centrale nucleare ucraina di Chernobyl doveva essere sottoposta a dei test di verifica, per controllare l’efficienza delle turbine dell’impianto di raffreddamento in caso di un calo di potenza. I sistemi di sicurezza erano stati bloccati per dare il via alle prove, che gli esperti, tuttavia, non riuscirono a tenere sotto controllo. All’una e mezzo circa scoppiò la tragedia: si susseguirono fuoriuscite di materiale radioattivo e di conseguenza si verificò una serie di esplosioni su cui l’URSS mantenne il silenzio per alcuni giorni. Il mondo non venne dunque a sapere in modo immediato di quanto stesse accadendo nella centrale sovietica, continuando a dormire sonni tranquilli mentre la radioattività iniziava a salire.

In Italia le prime notizie arrivarono solo il martedì seguente la catastrofe, ovvero il 29 aprile 1986. Tutti i grandi quotidiani e settimanali nazionali, e cioè Corriere della SeraL’UnitàLa StampaRepubblica e L’Espresso, diedero grande spazio all’incidente.

L’Unità , con un articolo firmato Giulietto Chiesa, si limitava a narrare in quale modo l’URSS aveva dato la notizia ai suoi concittadini la sera precedente. Chiesa, concludendo il suo pezzo, elencava le prime misure adottate in Italia:

«Il ministro per la protezione civile Zamberletti, appena appresa la notizia dell’incidente nella centrale nucleare sovietica di Thernobyl ha attivato – come si legge in un comunicato – il sistema di rilevamento della radioattività interessando i competenti organi della Disp. Enea, dell’Enel e dei Vigili del fuoco. Al dipartimento della Protezione Civile si fa rilevare che, al momento, nel nostro paese non si registrano aumenti di radioattività e non ci sono motivi di preoccupazione. Il Dipartimento si terrà in costante contatto con gli altri paese europei per una ulteriore valutazione del fenomeno»((Giulietto Chiesa, “Incidente nucleare. In Italia non ci sono motivi di preoccupazione”, in L’Unità, 29 aprile 1986, p. 24.)).

Anche La Stampa mise l’informazione in prima pagina. L’articolo sull’evento atomico fu trattato per sommi capi, un po’ come fece L’Unità, dato che ancora non si era ben informati su quanto avvenuto. Erano le stesse autorità sovietiche a tacere. Emanuele Novazio, corrispondente da Mosca scriveva:
«Ci sono feriti. Scrive l’agenzia ufficiale: “Uno dei reattori atomici è stato danneggiato. Sono state prese misure per eliminare le conseguenze dell’incidente. È stato prestato aiuto a coloro che sono stati feriti”. L’agenzia non precisa quando l’incidente è avvenuto, né la sua entità, e non indica quanti sono i feriti. Aggiunge semplicemente che è stata nominata una commissione d’inchiesta governativa (segno che l’incidente è senza dubbio grave). […] Per alcune ore Mosca ha taciuto. Interpellati dall’ambasciata svedese, i funzionari del Comitato statale per l’energia atomica hanno dichiarato nel pomeriggio di non avere notizie in proposito» ((Emanuele Novazio, “Esplode centrale nucleare in Urss”, in La Stampa, 29 aprile 1986, p. 1)).

Il Corriere della Sera riportò in prima pagina gli eventi, ancora confusi data la scarsa quantità di informazioni disponibili, adottando una linea molto simile a quella delle altre testate.

«[…] Per tutta la giornata di ieri, bersagliate dalle domande, le autorità sovietiche, civili e militari, hanno negato l’accaduto. “Se fosse successo qualcosa in una qualunque centrale ne saremmo venuti senz’altro a conoscenza”: così un portavoce dell’ente sovietico di Stato per l’energia atomica ha risposto all’ambasciatore svedese a Mosca. Soltanto nella tarda serata la Tass ha ammesso l’accaduto. Con un flash urgente diffuso alle 21.01 ora di Mosca, titolo “Da parte del consiglio dei ministri dell’URSS”, l’agenzia del Cremlino ha annunciato: “Un incidente si è prodotto nella centrale nucleare di Chernobil, uno dei reattori atomici è rimasto danneggiato, misure vengono prese per liquidare le conseguenze del guasto, ai colpiti viene prestato aiuto, è stata costituita una commissione governativa”. Un linguaggio telegrafico, secco, senza l’aggiunta di ulteriori particolari. Ma già queste quattro righe offrono un’immagine eloquente del dramma: si parla di “colpiti” ossia feriti e vittime. Inoltre la formazione di una commissione d’inchiesta governativa lascia intuire che si è trattato di una vera e propria catastrofe ((Sandro Scabello, “Sciagura nucleare in URSS”, in Corriere della Sera, 29 aprile 1986, p. 1.)) […]».

Significative sono le prime tre righe. I più potenti organi sovietici, alle prese con quella che sarebbe diventata una vera e propria catastrofe, si comportavano come se tutto fosse normale, sostenendo che non si fosse verificato nessun disguido. Quando poi non si poterono più nascondere, uscirono allo scoperto con un semplice comunicato stampa, molto riduttivo e semplicistico che avrebbe potuto lasciar credere che si fosse trattato solamente di un piccolo problema tecnico e non di quello che realmente fu. Il corrispondente del Corriere, comunque, si sbilanciò ed affermò che la situazione ucraina aveva tutte le carte in regola per divenire un vero e proprio dramma: lo si evince dalla creazione di una commissione d’inchiesta governativa e dal comunicato che parlava già di “colpiti” dall’incidente.

La Repubblica iniziò a trattare la catastrofe nucleare con un giorno di ritardo rispetto alle testate fin qui elencate. Lo sgomento per quanto verificatosi salta subito agli occhi del lettore e il tono è apertamente accusatorio nei confronti dell’URSS. Per gli occidentali infatti risultava incomprensibile questa noncuranza mostrata dai dirigenti sovietici verso quanto stava accadendo e verso tutti i possibili danni che avrebbe potuto subire la popolazione. Ci si trovava di fronte a un vero e proprio caso di mancata informazione che l’Occidente condannò, soprattutto poiché le conseguenze di un incidente atomico avrebbero potuto ripercuotersi non solo su chi risiedeva nelle vicinanze della centrale. La contaminazione radioattiva può raggiungere anche luoghi lontani dall’epicentro dell’incidente e manifestarsi dopo lungo tempo, colpendo anche chi nel momento del disastro nemmeno è ancora venuto al mondo. Per tutte queste ragioni si levò un coro unanime di condanna contro l’URSS, che invece avrebbe dovuto immediatamente far partire l’allarme per contrastare in tutti i modi (e magari anche con sostegni esterni) l’avanzata radioattiva. Ecco di seguito un estratto dell’articolo in prima pagina di La Repubblica:

«[…] Come racconta il nostro corrispondente da Mosca, il popolo sovietico non ha saputo niente fino alla sera di lunedì, ed anche allora le autorità di quell’immenso paese si sono messe il cuore in pace soltanto con cinque scarne righe della “Tass” che ovviamente non arrivano nelle case dei cittadini della grande Russia. Eppure l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl era accaduto, a quanto sembra, addirittura fin dalla notte di sabato. Ora, è questo il fatto più incredibile: che il Potere sovietico tratti il suo popolo come un bambino incapace d’intendere, che è una buona regola tenere all’oscuro di tutto, anche quando si tratti della sua incolumità fisica. Nel corso di tanti anni questa disinformazione ufficiale l’abbiamo vista e sperimentata in infinite occasioni, dalle più banali alle più gravi, ma essa non cessa di stupirci e di suscitare nell’animo di ogni persona ragionevole un senso di pena profondissima per la sorte di quei nostri simili che vivono al di là di quel confine»((Eugenio Scalfari, “La paura dal cielo”, in La Repubblica, 30 aprile 1986, p. 1.)).

Nell’immediato questa de La Repubblica fu la reazione più dura, infatti, come sopraccennato, ci furono accenti aspri e polemici all’interno del pezzo di Scalfari che non abbiamo riscontrato negli altri articoli citati.

Nei giorni successivi, non appena le notizie iniziarono ad arrivare da Mosca e si comprese che la nube radioattiva avrebbe sorvolato i cieli europei, compreso quello italiano, l’attenzione si spostò sulle conseguenze che avrebbe potuto subire l’Italia, in particolare sul livello di possibile contaminazione dell’aria e del suolo. Iniziano così a suonare i primi campanelli di allarme anche riguardo i prodotti alimentari: due su tutti le verdure a foglia e il latte fresco. Conseguentemente a quanto appena detto, arrivò la offerta di collaborazione da parte dell’Unione Sovietica ai membri della Protezione Civile italiana, proposta che Craxi non declinò ma sulla quale nutriva numerose riserve, mentre Zamberletti si dichiarò favorevole pur dichiarando che per la nostra nazione non ci fossero pericoli di alcuna sorta. Questo cauto ottimismo venne però smentito nel giro di un paio di giorni. Infatti già sabato 3 maggio 1986 i quotidiani pubblicarono articoli non in linea con un clima di serenità. Arrivarono i primi divieti sui cibi e naturalmente crebbe il panico fra la popolazione.

L’Unità commentava così:

«Divieto di vendere, per quindici giorni “verdure a foglia” (insalata, spinaci, ecc.) e di somministrare il latte fresco ai bambini con meno di dieci anni di età e alle donne in stato di gravidanza: queste le misure adottate improvvisamente ieri sera dal ministro della Sanità Degan. […] A testimoniare questo stato di confusione (o irresponsabilità?) nel governo, è anche la contraddittorietà dell’annuncio della Sanità che in un primo tempo aveva vietato la vendita di latte fresco e, successivamente, davanti all’enormità del provvedimento, aveva trasformato il divieto in suggerimento»(( “Vietata la vendita di verdure, niente latte ai bambini”, in L’Unità, 3 maggio 1986, p. 1.)).
Da notare le ultime quattro righe del pezzo. In prima pagina, il quotidiano comunista metteva in luce il forte caos generatosi intorno alla vicenda. Trattandosi di una questione così delicata, di certo un simile atteggiamento non fece altro che generare ulteriore panico nella comunità, già di per sé agitata trovandosi di fronte a una minaccia nucleare. Ci si ritrovò davanti al fatto compiuto, si passò dall’appello alla calma al divieto di consumare determinati cibi. La popolazione fu colta alla sprovvista e gettata in quello scompiglio che tanto si voleva evitare. A poco poi servì il dietrofront emanato in seguito: l’allarmismo oramai si era diffuso.

Sfogliando la seconda pagina troviamo maggiori dettagli a tal proposito, che rafforzano quanto appena detto. Scrive Fasanella:

«La preoccupazione cresce in tutto il Paese. L’altro ieri le farmacie di Milano e Roma avevano esaurito le scorte di iodio e di prodotti disinfettanti, talmente alta era la richiesta da parte dei cittadini. […] Le misure che Degan ha disposto come divieto, Zamberletti le aveva solo “consigliate” a “titolo cautelativo” per aumentare il “grado di sicurezza”, non presentando la situazione “alcun motivo di allarme”. Resta perciò incomprensibile la ragione per la quale due ministri abbiano tenuto atteggiamenti diversi. […] Tuttavia, secondo i vigili del fuoco, nelle regioni nord-orientali, non vi è alcuna situazione di pericolo. In Friuli, nel Trentino e nel Veneto, funzionano 179 stazioni di rilevamento. […] Leggera crescita dei valori anche in Toscana, ma si tratta di valori assolutamente non preoccupanti e comunque inferiori a quelli registrati nelle regioni nord-occidentali. […] Secondo un calcolo della Confragricoltura, si prevede che, in seguito al divieto di Degan, la perdita per i produttori di latte possa aggirarsi attorno ai 17 miliardi. La Confragricoltura teme soprattutto l’effetto psicologico che il provvedimento può indurre sull’opinione pubblica. L’organizzazione, comunque, pur dicendosi preoccupata, ha invitato i propri aderenti a rispettare il divieto» ((Giovanni Fasanella, “Domani la nube lascia le regioni dell’Italia”, in L’Unità, 3 maggio 1986, p. 2.)).

L’articolo di Fasanella polemizzava sulla disparità di giudizio da parte dei due ministri che trattarono la questione alimentare e ci dà una prima panoramica di come abbia risposto la gente ai divieti/suggerimenti lanciati. Nella parte conclusiva il giornalista portava all’attenzione dei lettori anche le possibili conseguenze economiche del disastro di Chernobyl, difatti i produttori dei cibi vietati avrebbero potuto subire ingenti perdite in seguito ai provvedimenti ministeriali adottati dopo il passaggio della nube sull’Italia. In linea con quanto riportato da L’Unità furono gli articoli del Corriere della Sera in quella giornata del 3 maggio.

«Ora la nube atomica scaraventata dalla centrale sovietica di Chernobil sui cieli di mezza Europa fa paura anche in Italia. Nel giro di poche ore si è passati dai toni rassicuranti del ministro per la Protezione Civile, Zamberletti, a una drastica ordinanza del ministro della Sanità, Costante Degan, che ha vietato la vendita per quindici giorni di verdure fresche a foglie e la somministrazione di latte fresco ai bambini fino a 10 anni di età e alle donne in stato di gravidanza. […] Chi soprattutto rimane disorientato è il cittadino. “Che male fa lo iodio 131?”, chiedono in centinaia facendo squillare i telefoni di redazioni e ministeri. «Che fare delle tonnellate di frutta e verdura che si accumuleranno da domani sui banchi dei mercati?», protestano i commercianti […]». ((Franco Foresta Martin, “Pioggia nucleare, misure d’emergenza in Italia”, in Corriere della Sera, 3 maggio 1986, p. 1.))
Eccoci nuovamente di fronte alle preoccupazioni per i danni che avrebbe potuto subire l’organismo umano e per le possibili perdite finanziarie. Il Corriere allora riportò subito anche la risposta del ministro Zamberletti, che provò a spiegare come questa misura preventiva fosse una misura aggiuntiva per annullare completamente i rischi.

«È meglio indossare due paracadute piuttosto che uno», con questa frase il ministro per la Protezione civile, Giuseppe Zamberletti ha consigliato alla popolazione italiana di prendere per qualche giorno alcune semplici misure precauzionali, atte a limitare l’assimilazione delle particelle radioattive emesse dalla centrale sovietica di Chernobil e giunte fino al nostro Paese. Ecco il “decalogo” della Protezione civile a cui il ministro della Sanità, Degan, ha dato ulteriore forza trasformando in ordinanza i primi due punti.

– Astenersi dal consumo della verdura fresca a foglie.

– Non bere acqua piovana e controllare che l’acqua piovana non si infiltri nei cassoni di raccolta dell’acqua dell’acquedotto.

– Non fare pascolare il bestiame nei campi, ma alimentarlo per alcuni giorni con foraggio conservato. Il foraggio raccolto in questi giorni può essere tuttavia utilizzato dopo una settimana di “decantazione” al coperto. Trascorso questo periodo, infatti, la maggior parte della radioattività eventualmente assorbita dalle piante si annulla.

Il ministro Zamberletti ha tenuto a sottolineare che si tratta di precauzioni dettate da un eccesso di prudenza e che non vi è alcun motivo di allarme sanitario. […] Trascorsa una settimana, la situazione dovrebbe tornare alla normalità […]» ((Franco Foresta Martin, “Ecco i consigli per evitare pericoli di contaminazione”, in Corriere della Sera, 3 maggio 1986, p. 1.)).

Gli italiani non sembrarono però molto convinti dalle dichiarazioni di Zamberletti: c’era un’ordinanza che vietava determinati comportamenti e non la ritenevano una semplice misura precauzionale, ma era scattato l’allarme e bisognava ricorrere a qualsiasi mezzo per prevenire le contaminazioni radioattive. Secondo alcuni, sarebbe stato sensato anche rinchiudersi in un bunker, in quanto le radiazioni non si vedevano e poteva colpire da un momento all’altro. I cittadini dunque corsero ai ripari in ogni modo possibile.

«Non ci sarà alcun pericolo – come dice Zamberletti, l’uomo anticatastrofe -, ma la gente, benché cerchi di sdrammatizzare ridendoci su, ha una fifa maledetta. […] L’unico albergo in Europa dotato di un capace e sofisticato rifugio a prova di atomica, in questi giorni è diventato una specie di Lourdes laica […]. Precisiamo che l’hotel in questione non è a Cortina né a Saint Moritz, ma a Bergamo, e neppure Alta: è il Cristallo Palace, in via Circonvallazione Sud 35, a un passo dall’autostrada Milano-Venezia e a due dall’aeroporto di Orio al Serio. […] C’è un rifugio grande quanto una camerata degli alpini: 120 posti, ricavati dalle fondamenta del palazzo, a dieci metri di profondità. […]L’impianto difensivo è in grado di sopportare le conseguenze di un’esplosione nucleare anche vicinissima: 2 chilometri. […]» ((Vittorio Feltri, “Vendite record al mercato della paura: Geiger, tute e posti-letto nel bunker”, in Corriere della Sera, 3 maggio 1986, p. 3.))

Il Corriere si dilungò sulle reazioni della comunità. Il 4 maggio Vittorio Feltri si adoperò a raccogliere i pareri della gente e andò in un supermercato milanese per vedere come si comportavano i cittadini:
«E la gente come l’ha presa? […] Alle 9 entro in uno dei più rinomati supermercati, in via Santa Croce, e allibisco: una graziosa composizione di lattuga è in bella mostra sul bancone; accanto, una cassetta di radicchi rugiadosi e varie verdure che non nomino per pura ignoranza botanica, ma che di sicuro sono vietate, avendo foglie larghe, larghissime: cavolfiori, spinaci, rucola? Uno stormo di anziane passa in rassegna i cespi, li esamina con occhio intenditore, sceglie e butta il preferito nel carrello. Domando: ma non è proibita?

“Cosa?”

– L’insalata.

“Perché?”

– Ordine del governo, per la nube: non ha sentito?

“Stupidat, sono scampata a 50 anni con mio marito, quater fioeu, una guèra e la pensione sociale, e adess mi, io dovrei aver paura del cicorino?”.

Un giovanotto in camice, un dipendente, presumo, armeggia nello scaffale.

– Scusi, lei è della ditta? Non siete stati avvertiti che la verdura non si può vendere?

“Se dovessimo dar retta a tutto quello che dicono, ciao”» ((Vittorio Feltri, “Tra le gente al supermercato: rabbia, incredulità, ironia”, in Corriere della Sera, 4 maggio 1986, p. 1.))

Ecco l’altra faccia della medaglia. Ci fu chi letteralmente non si curò di quanto affermato da tecnici e politici e continuò la vita di tutti giorni, come se Chernobyl non fosse mai esistita. La sensibilizzazione riguardo i rischi nucleari non arrivò in tutte le case italiane; se da un lato ciò potrebbe sembrare un bene poiché significava che non tutti caddero in preda alla psicosi atomica (estremizzando le precauzioni consigliate), dall’altro mette in luce una grave mancanza in quanto determinati atteggiamenti equivalsero ad andare incontro al rischio di assumere elementi radioattivi senza far nulla per evitarlo. Entrambi i comportamenti sono estremi ma mostrano bene come la popolazione abbia affrontato il pericolo radioattivo.

Per concludere il discorso relativo al Corriere e allo spazio dedicato alla gente “comune”, è importante sottolineare che anche nella sezione Lettere al Corriere si registrarono numerosi interventi sul tema. Basti questa lettera, scritta dagli alunni di una scuola elementare:

«Siamo gli alunni della Scuola elementare Marco Polo di Colfosco, provincia di Treviso. Scriviamo al “Corriere” perché siamo spaventati, terrorizzati per quanto è avvenuto recentemente in Russia e sta coinvolgendo l’intera Europa. La cosa ci preoccupa particolarmente perché non potremo trascorrere una vita normale per quindici giorni e forse anche di più. E’ veramente triste doverci privare del cibo che abbiamo quotidianamente consumato, ma soprattutto dover limitare le ore trascorse all’aria aperta giocando con la palla, la bicicletta, e anche gli animali e gli amici. Non è giusto che si metta a repentaglio la vita di milioni di persone visto che “l’aria non ha frontiere”. Che futuro ci aspetterà in un mondo altamente meccanizzato, che non tiene conto della persona umana?»((“Gli alunni delle quarte e delle quinte della Scuola elementare Marco Polo (Colfosco-Treviso), L’incubo nell’aria che respiriamo”, in Corriere della Sera, 12 maggio 1986, p. 5.))
Sono solamente otto righe, ma se pensiamo che a scriverle furono dei bambini fanno ancora più effetto. Questi piccoli scrittori ci chiedono quale sarà il loro domani. I grandi hanno provocato questo disastro e loro non trovano giusto che debbano pagarne le conseguenze, e non hanno tutti i torti. Un evento accaduto così lontano condizionò perfino le abitudini quotidiane del nostro Paese, aspetto forse troppe volte messo in ombra a discapito di tutte le questioni politiche legate all’episodio.
La disputa sui divieti andò avanti per giorni fino al 24 maggio, quando Craxi con un appello televisivo (lanciato dalle reti RAI) comunicò all’Italia che poteva tornare a mangiare tutto ciò che gradiva, senza più limitazioni di sorta ((Gianfranco Ballardin, “Craxi l’emergenza è finita”, in Corriere della Sera, 25 maggio 1986, p. 1.)). Durante l’arco temporale in cui fu in vigore il divieto il clima non fu proprio disteso, si susseguirono polemiche e manifestazioni antinucleari. In seguito alla catastrofe ucraina infatti le fila del movimento antinuclearista si ingrossarono ampiamente e così non mancarono iniziative per far sentire la propria voce. Ad esempio, il 3 maggio i radicali ed il movimento ecologista “Amici della Terra” manifestarono dinanzi all’ambasciata sovietica di Roma, indossando maschere e guanti di plastica, esibendo cassette di verdure proibite e latte col simbolo delle radiazioni, condendo il tutto con cartelli contro l’atomo e la disinformazione circolante in URSS((“Con latte e verdura davanti all’ambasciata”, in Corriere della Sera, 4 maggio 1986, p. 3.)).

Un’altra manifestazione, che colpì non poco l’opinione pubblica fu quella programmata per sabato 10 maggio. I vari quotidiani affrontarono in maniera differente l’argomento, chi enfatizzando il successo del corteo ( L’Unità), chi sminuendolo (La Stampa), chi estromettendo la notizia dalla prima pagina (Corriere della Sera), chi non parlandone (La Repubblica).

«Prima grande manifestazione della sinistra antinucleare, prima comparsa nazionale delle mille anime di un movimento in gran parte nuovo. Per oltre due ore e mezzo, da piazza Esedra a piazza Navona hanno sfilato in decine di migliaia. Confortati dall’adesione di Sandro Pertini e dei tre presidenti dei gruppi parlamentari di sinistra a Montecitorio, Renato Zangheri, Rino Formica e Stefano Rodotà, c’erano davvero tutti. In testa, dietro il grande striscione giallo con la scritta “Stop al nucleare”, i comunisti Magri, Giovanni Berlinguer, Folena, Serri; il presidente della Lega Ambiente dell’Arci Chicco Testa; il demoproletario Capanna; il segretario confederale della Cgil Fausto Bertinotti, uno dei leader della minoranza antinucleare del sindacato; il segretario radicale Giovanni Negri. Appena un po’ defilati, Antonio Bassolino e Fabio Mussi. In coda, gruppi di autonomi relativamente nutriti, polemicissimi con la decisione della maggioranza di dar vita ad un corteo silenzioso. «Stare zitti in piazza non serve a niente; cari ambientalisti, chi tace acconsente» hanno gridato a lungo: loro, gli autonomi, hanno prima prendersela con la Nato, poi esibirsi in una rapida sassaiola contro la direzione democristiana in piazza del Gesù, con conseguente scontro con la polizia. Non senza aver infranto in precedenza alcune vetrine della sede dell’Enea, in viale Regina Margherita. E in mezzo? In mezzo, ecco un inedito popolo antinucleare difficilmente catalogabile secondo le categorie canoniche della sinistra. Tra gli innumerevoli striscioni di Democrazia proletaria, e quelli assai meno numerosi del Pci, i giovanotti con la T-shirt con il pizzetto di Lenin e residue bandiere di Che Guevara, il grosso del corteo sembrava composto da un’umanità lontana mille miglia sia dal vecchio «movimento» sia dalla sinistra tradizionale. […] Il grosso dei partecipanti era fatto di gente comune, poco abituata a scendere in piazza. […]»((Paolo Franchi, “«Inquinata» dagli autonomi la manifestazione di Roma”, in Corriere della Sera, 11 maggio 1986, p. 4.)).

Dall’articolo si evince la grande eterogeneità del gruppo di partecipanti, nelle cui file figurano un po’ tutti quelli contrari all’atomo: rappresentanti di partiti politici di sinistra, membri di movimenti ecologisti, sindacalisti, ecc. Già questo punto è molto significativo se pensiamo che fino a prima della tragedia sovietica nei gruppi di sinistra non era così accentuato il sentimento antinucleare. Il PCI, per esempio, aveva sempre aperto all’atomo, chiedendo revisioni del PEN (Piano Energetico Nazionale) ma facendo del nucleare un cardine di questo. Solo fra la schiera dei giovanissimi del partito il movimento ambientalista stava reclutando seguaci. Lo stesso dicasi per i sindacalisti: finché non si verificò l’incidente di Chernobyl non era ancora in auge la linea del lavoro sostenibile, esisteva solo il lavoro. Il progetto nucleare dava posti di lavoro, il nucleare andava bene. Chernobyl fece quindi aprire gli occhi e cambiare strategie anche alle grandi organizzazioni (politiche, sindacali, ecc.). La linea dettata dagli organizzatori del corteo era quella di sfilare in silenzio, una scelta da alcuni criticata (gli autonomi) e non rispettata. Nelle fila dei partecipanti c’erano anche comuni cittadini, non abituati solitamente a scendere in piazza ma che decisero di farlo per dire “no” al nucleare, testimonianza di come Chernobyl avesse colpito ogni strato della società nel nostro Paese. A macchiare questa prova di civiltà dei manifestanti, il comportamento di alcuni gruppi di autonomi che provocarono scontri con le forze dell’ordine e disordini davanti alla sede dell’ENEA, della DC e della NATO.

Diverso fu l’approccio alla notizia del quotidiano comunista L’Unità Già nell’edizione del 10 maggio, il giornale riportava in prima pagina un articolo dedicato alle manifestazioni che in quella data si sarebbero svolte: quella di Roma e quella (seppur minore) di Mantova. La redazione invitava i cittadini a partecipare, confidando nella riuscita delle iniziative antinucleari, sostenendo apertamente i movimenti ecologisti. Così scriveva Gerardo Chiaromonte:

«Noi comunisti parteciperemo a queste manifestazioni, forti delle nostre posizioni e proposte, con le nostre parole d’ordine. Opereremo anche perché esse si svolgano in modo ordinato, così da isolare e respingere ogni provocazione. Siamo l’unica forza politica italiana che si è impegnata, nel suo congresso, in una discussione appassionata su un problema così difficile e decisivo» ((Paolo Franchi, “«Inquinata» dagli autonomi la manifestazione di Roma”, in Corriere della Sera, 11 maggio 1986, p. 4.)).
Il dirigente comunista si fregiò della fedeltà ideologica della testata, pur generalizzando in alcuni passaggi. Il PCI infatti era notevolmente lacerato sulla questione del nucleare, mentre Chiaromonte tralasciò questo “dettaglio”, definendo unito il fronte comunista. Nello specifico il giornalista fece ricorso a principi cari alle masse, come quelli della solidarietà di classe e dell’internazionalismo: Chernobyl era un problema globale, non esclusivamente sovietico, dunque risultava doveroso adoperarsi per migliorare le sorti dell’umanità tutta. Le masse furono invitate a partecipare, poiché era inconcepibile rinchiudersi nei propri confini senza pensare a ciò che accadeva intorno. Il problema delle centrali atomiche andava affrontato facendo fronte comune, lasciando spazio a coloro che erano stati tenuti ai margini della società fino a poco prima (ambientalisti, ecologisti, movimenti giovanili, ecc.). L’Italia, “scossa” dai cortei in un periodo storico cruciale come quello venutosi a creare, dimostrò di saper voltare pagina e di affrontare il problema energetico. Il fronte comunista, almeno quello riunitosi intorno a L’Unità, si rivolse pertanto alla popolazione, spronandola ad essere lei stessa giudice della situazione e fautrice del proprio destino, rispettando sempre democrazia e libertà.

Nella giornata successiva L’Unità enfatizzò la riuscita del corteo romano (( Rocco Di Blasi, “Chiedono a tutti: quale futuro?”, in L’Unità, 11 maggio 1986, p. 1.)) . Venne messa in luce la partecipazione di famiglie, anziani, donne e bambini; persone comuni e non appartenenti a movimenti che costantemente si cimentavano in manifestazioni di piazza, aspetto peraltro evidenziato anche dal Corriere e da La Stampa. Un altro fattore sul quale furono tutti concordi fu la silenziosità dell’adunata. Aspetto su cui invece emersero dati contrastanti dai diversi giornali fu la cifra dei partecipanti: centomila per La Stampa, quasi duecentomila per L’Unità. Inoltre La Stampa neppure citò tutti i rappresentanti dei partiti che presero parte all’evento, dichiarò che «solo i radicali e democrazia proletaria hanno aderito ufficialmente alla manifestazione»((Ezio Mauro, “Nucleare, centomila in piazza”, in La Stampa, 11 maggio 1986, p. 1.))La Stampa sottolineò le accuse della piazza all’Unione Sovietica, difatti i manifestanti depositarono una corona di fiori davanti alla sede dell’ambasciata sovietica per commemorare le vittime “presenti e future” dell’incidente. Il quotidiano torinese, così come il Corriere, evidenziò i fischi e le proteste mossi, dall’ultimo blocco del corteo contro gli USA e la NATO mentre su L’Unità non vi fu traccia di tale dissenso.

Gli organi di stampa analizzati, i più rappresentativi per l’epoca trattata, dimostrano punti di convergenza e altri di divergenza riguardo lo stesso episodio. Si soffermarono quasi tutti sulle medesime questioni (divieto di cibi per la popolazione e manifestazioni di massa) ed enfatizzarono gli stessi aspetti, quali l’irresponsabilità da parte delle autorità sovietiche nella gestione dell’emergenza e la gravissima negligenza sovietica nel diramare l’allarme e nell’attuare un piano preventivo nell’immediato. Si pensi che in URSS venne diramato un vademecum che istruiva il popolo sul da farsi in casi analoghi a quelli di Chernobyl e distingueva in due le tipologie di intervento: “parziale” (da effettuarsi entro un’ora dalla catastrofe) che consisteva nello scuotere i vestiti controvento e nello spolverarsi le scarpe, per le parti scoperte del corpo umano invece la soluzione era il lavaggio con acqua accompagnato dallo strofinio per mezzo di tamponi umidi; c’era poi il trattamento “totale” che consisteva nel lavarsi con acqua tiepida e sapone in centri adatti a tali interventi oppure facendosi il bagno nel corso di un fiume non colpito dalle radiazioni, mettendosi controcorrente ed uscendo dalla riva opposta rispetto a quella dalla quale si era entrati (( “Il libretto rosso della sopravvivenza”, in L’Espresso, 11 maggio 1986, p. 7.)). Misure che potrebbero far sorridere a una prima lettura ma che invece venivano sponsorizzate su cartelloni informativi per “sensibilizzare” la popolazione e renderla in grado di agire in futuro.

Tralasciando questi piani anticrisi che potrebbero far discutere, c’è da sottolineare un altro punto di contatto fra due delle testate in analisi ( L’Unità e Corriere della Sera): la critica alle autorità nostrane nel momento in cui venne diramato il divieto/consiglio riguardo verdure a foglie e latte fresco.

Crebbe a dismisura l’interesse comune per l’atomo, a beneficio dei movimenti ambientalisti e antinuclearisti. Quei pochi che rimasero fedeli al nucleare cercarono di invitare i cittadini a non cadere in preda all’emotività:

«Una vera e propria reazione a catena si è sviluppata nell’opinione pubblica, nella stampa e nelle televisioni, coinvolgendo persino scienziati di alto livello, a proposito delle notizie relative all’incidente avvenuto nella centrale elettronucleare di Chernobyl […]. È ben nota l’emotività che produce qualunque notizia relativa al nucleare in quanto quasi sempre si confonde l’incidente in un reattore nucleare con l’esplosione di una bomba atomica […]».((Felice Ippolito, “Al livello di guardia”, in La Repubblica, 1 maggio 1986, p. 1.)).

D’altro canto però ci furono anche alcuni fedelissimi dell’atomo che, in seguito all’episodio di Chernobyl, si ricredettero e passarono sotto l’insegna degli antinuclearisti. Fu il caso di Mario Pirani:

«Fino a pochi giorni fa sono stato un sostenitore convinto della scelta nucleare. Oggi non più. Ad un ripensamento di fondo c’è l’incidente di Chernobyl, i cui effetti vanno al di là dei due morti dichiarati e, persino, delle molte vittime destinate a soccombere in un futuro più o meno prossimo a causa delle radiazioni subite nella zona direttamente investita. Mi sembra, cioè, inevitabile a questo punto chiedersi se l’industria nucleare civile vada egualmente sviluppata, oppure se sia consigliabile un freno, una clausola sospensiva, condizionata all’introduzione di norme di sicurezza credibili. A costo, altrimenti, di attendere quei previsti 20 o 30 anni di ricerche per raggiungere una nuova generazione di reattori “puliti”. Il ritardo nucleare italiano, del resto, gioca paradossalmente a favore di una revisione ancora possibile e non ininfluente, poiché, se è vero che i venti tossici non conoscono frontiere, appare anche ovvio come l’effetto devastante sia proporzionale alla vicinanza della fonte di pericolo. Sappiamo bene che simili perplessità suscitano l’irritata reazione di valenti scienziati e di autorevoli tecnici i quali nel respingerle si valgono di argomenti fino a ieri convincenti. In primo luogo – essi dicono – ogni progresso tecnologico e scientifico ha spesso comportato rischi ed effetti negativi, ampiamente compensati dai benefici che ne sono conseguiti. E questa deduzione vale anche per l’atomo: un ragionamento che può essere accolto, però, solo nell’ottica del funzionamento normale dell’industria nucleare. In altri termini: l’inquinamento naturalmente derivante dai suoi impianti, quando funzionano a regime, comporta conseguenze ecologiche meno gravi e vantaggi spesso superiori ad analoghe centrali a carbone o ad olio combustibile. Il discorso, di contro, cambia radicalmente – e con Chernobyl ce ne siamo accorti – nei casi di disastro. Mentre per tutte le altre tecnologie le inevitabili catastrofi, quali ne siano le dimensioni, hanno effetti tragici e distruttivi una tantum (la caduta di un aereo, il crollo di una diga, lo scontro automobilistico, l’incendio di una miniera), così non è per l’incidente nucleare con fuoriuscita di materiale radioattivo. In questo caso può scatenarsi un processo di dimensioni e conseguenze imprevedibili nel tempo e nello spazio, che stravolge il concetto stesso di accettabilità dei rischi»((Mario Pirani, “La nube sopra di noi il dubbio dentro di noi“, in La Repubblica, 8 maggio 1986, p. 1.)).

Per saperne di più

Svetlana Aleksievic, Preghiera per Chernobyl, Edizioni e/o, Roma, 2001.

Andrew Blackwell, Benvenuti a Chernobyl, Editori Laterza, 2013.

Saverio Luzzi, Il virus del benessere. Ambiente, salute, sviluppo nell’Italia repubblicanaEditori Laterza, 2009.

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APPENDICE

“La Gazzetta del Mezzogiorno”, mercoledì 30 aprile 1986

Energia e sicurezza. Un pericolo vaga sul mondo

di Giorgio Nebbia

Le notizie sull’incidente al reattore nucleare sovietico sono ancora frammentarie; è certo che si è avuto un incidente grave, con fuoriuscita di grande quantità di materiali radioattivi e che tali materiali si sono dispersi in direzione nord-ovest, verso Finlandia, Svezia, Norvegia; in questi paesi la radioattività atmosferica ha già superato molte volte il limite considerato tollerabile per gli esseri umani.

I pochi elementi disponibili fanno pensare che l’incidente sia dovuto ad un innalzamento della temperatura nel cuore, nel “nocciolo”, del reattore dove sono concentrati l’uranio, i prodotti radioattivi che si formano nella fissione dell’uranio (il processo che libera calore) e anche altri elementi radioattivi come il plutonio.

Il funzionamento di un reattore nucleare presuppone un delicato equilibrio fra la quantità di calore che si libera durante la fissione dell’uranio e la quantità di calore che deve essere continuamente asportata mediante un liquido o un gas, in continua circolazione, che trasferiscono il calore all’impianto termoelettrico.

Se, per un qualsiasi motivo, il liquido o il gas di raffreddamento non circolano più, un sistema di emergenza dovrebbe fermare la reazione nucleare. Ma nel nocciolo la temperatura è di alcune migliaia di gradi e se la massa non viene rapidamente raffreddata, può cominciare a fondere perforando le pareti del reattore.

A questo punto può succedere di tutto: una grande quantità di materiali radioattivi può uscire all’esterno e, proiettato nell’atmosfera, comincia a disperdersi e a circolare a centinaia e migliaia di chilometri di distanza.

Uno studio sulla probabilità di incidenti nucleari, pubblicato nel 1975, aveva indicato ogni quanti anni avrebbe potuto verificarsi un incidente, con fusione parziale del nocciolo, come quello verificatosi, entro i limiti previsti, al reattore americano di Three Mile Island, vicino ad Harrisburg.

Lo stesso studio ha indicato entro quanti anni un incidente ancora più grave avrebbe potuto verificarsi e, nei tempi previsti, tale incidente si è verificato sabato scorso nell’Unione Sovietica, con una fuoriuscita di radioattività stimabile in alcuni milioni di curie.

È ancora presto per dire quanti morti ci sono stati vicino al reattore, quanta parte dell’Unione Sovietica è stata contaminata, quanta radioattività ricadrà a terra sull’intero pianeta e dove ricadrà e con quali effetti biologici.

È certo che l’incidente sovietico ripropone il problema del futuro dell’energia nucleare.

Quando, dopo l’incidente di Harrisburg, nel 1979, il Ministero dell’Industria fece condurre da un gruppo di studiosi una indagine sulla sicurezza del programma nucleare italiano, siamo stati solo in due, come membri di minoranza, a mettere in guardia contro i pericoli del reattore di Caorso, e di quello ora in costruzione a Montano di Castro, e contro i pericoli degli altri reattori già allora previsti per il Piemonte, la Lombardia, la Puglia.

Un rapporto scientifico del prof. Polvani aveva allora messo in evidenza che se a Caorso si fosse verificato un incidente con fuoriuscita di alcuni milioni di curie di radioattività, sarebbe stato necessario sfollare Milano e tutte le città nel raggio di 50 chilometri.

Le voci scomode sono state messe a tacere, la propaganda ha ridicolizzato i pericoli. Contro la timidezza delle compagnie elettriche americane, che da alcuni anni non hanno più ordinato reattori nucleari per le proprie centrali, è stata lodata l’intraprendenza dei paesi socialisti, impegnati nella costruzione di varie centrali nucleari.

Adesso gli avvocati dell’energia nucleare ci spiegano che il reattore sovietico che ha subito l’incidente era di progettazione peggiore di quelli americani (la cui tecnologia è adottata in Italia). Sta di fatto che la tecnologia nucleare non è sicura: in caso di incidente i prodotti radioattivi che escono da un reattore contaminano l’intero pianeta, al di là delle frontiere e degli oceani. Questi prodotti radioattivi non sono neutralizzabili chimicamente, entrano, con l’aria che respiriamo, nei nostri polmoni, entrano nei cicli naturali del terreno, delle piante, dei mari, nel nostro cibo e nell’acqua che beviamo. Sarà meno grave economizzare l’elettricità che continuare a vivere esposti a catastrofi radioattive.

E, per restare a casa nostra, i contestatori delle centrali nucleari, in Puglia, in Lombardia, in Piemonte, in Emilia, non erano e non sono poveri sciocchi che vogliono tornare al lume delle candele. Sono forse più lungimiranti dei nostri governanti.

È tempo di rimettere in discussione il programma nucleare italiano e intanto va detto un chiaro “no” alla centrale che vorrebbero imporre alla Puglia.

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