La storia dei pcb (policlorobifenili). Miracoli e disastri della tecnica nel Novecento
L’attuale tornante della storia umana viene comunemente denominato “globalizzazione”: questo
termine evoca un mondo ridotto dal mercato a spazio unico di circolazione delle risorse, delle
merci, del denaro, delle braccia, delle informazioni… ma anche delle sostanze tossiche e
dell’inquinamento. Aspetto quest’ultimo spesso lasciato in secondo piano, confinato nell’ambito
specialistico dei cultori dell’ecologia e tuttavia così importante per la qualità futura del mondo
globale che vorremmo.
La storia dei PCB (policlorobifenili) è in questo senso straordinariamente emblematica, una sorta
di anticipazione di problemi che in questo avvio di millennio sono destinati a presentare il conto
all’umanità intera.
Per narrarla dobbiamo compiere qualche passo indietro scoprendo con grande sorpresa che da
tempo gli attori principali dell’attuale globalizzazione stavano operando per preparare gli esiti
controversi di cui oggi si sta discutendo.
Parlando di PCB dobbiamo occuparci di un ramo dell’innovazione tecnico-scientifica che ha
segnato più in profondità il secolo scorso, la chimica. Essa volle presentarsi fin dall’inizio come
attività eminentemente creatrice, in continuità con l’atto divino originario della Genesi,
compimento di ciò che potenzialmente la Natura da sempre contemplava, ma che solo grazie al
genio umano da essa si sarebbe sprigionato.
La chimica, quindi, innanzitutto concorse a creare quella tecnosfera che si è sovrapposta, sempre più ingombrante, alla biosfera e che rappresenta oggi il “mondo artificiale” del Mercato globale.
1. L’ARROGANZA DELLA TECNICA AL SERVIZIO DELLO SVILUPPO
Diverse furono le tappe di questo processo di artificializzazione della realtà, la più nota, nel secondo dopoguerra la polimerizzazione di alcuni derivati dalla distillazione del petrolio che permise la “creazione” di nuovi “miracolosi” materiali, le plastiche e le fibre sintetiche.
Ma già da alcuni decenni era in corso un’altra rivoluzione nel campo della chimica applicata, meno spettacolare, ma non per questo meno importante.
In alcuni processi produttivi, ad esempio nell’elettrolisi del sale avviata dall’inizio del secolo scorso per produrre la soda caustica, risultava come sostanza residua di scarto il gas cloro. Un elemento strano il cloro: finché in natura stava legato ad un atomo di sodio (NaCl, il sale da cucina per l’appunto), come era avvenuto per milioni di anni, rappresentava non solo una materia sostanzialmente innocua, ma addirittura preziosissima, come impararono ben presto a scoprire le più antiche civiltà, che se lo contendevano come conservante efficace dei cibi altrimenti deperibili. Ma appena il chimico seppe forzare la natura e liberarlo da quell’abbraccio amichevole con il sodio, ecco che si sprigionò il cloro gas (Cl2), dal colore giallo-verdastro, dall’odore acre e fortemente irritante, anzi in certe dosi soffocante fino alla morte.
Ma la Tecnica, quando si rende conto di aver creato un problema, subito si mette all’opera per trovare una soluzione (anche perché era impensabile poter usare i milioni di tonnellate di cloro esclusivamente come arma chimica, come in parte era avvenuto durante la prima guerra mondiale!).
Si scoprì allora che il cloro aveva una straordinaria propensione a legarsi con altri elementi, inorganici (come il calcio o il rame), ma soprattutto organici (come diversi idrocarburi, il metano, il benzene e così via).
Questa seconda famiglia di prodotti apparve ben presto straordinariamente promettente: erano sostanze del tutto nuove, non esistenti in natura, che il lungo processo evolutivo della biosfera in miliardi di anni non aveva saputo elaborare e che ora la Tecnica umana finalmente riusciva a “creare” nei suoi laboratori prima, nell’industria chimica poi.
Erano prodotti davvero magici, capaci di risolvere problemi difficili, che avevano assillato a lungo l’umanità.
Prendiamo l’idrocarburo base più semplice, il metano, formato da un atomo di carbonio a cui sono legati 4 atomi di idrogeno (CH4): con un semplice processo di clorurazione si possono sostituire 3 atomi di idrogeno con altrettanti di cloro e ottenere il triclorometano (CHCl3), più noto con il nome di cloroformio, un gas molto particolare che permette di narcotizzare momentaneamente chi deve essere sottoposto ad un intervento chirurgico evitandogli le pene terribili di Maroncelli evocate da Silvio Pellico ne Le mie prigioni.
Come nel caso del cloroformio, anche i PCB (derivati in via indiretta dalla clorurazione di due molecole di benzene, tra loro legate, dette anche difenile o bifenile), quando apparvero sintetizzati nei laboratori, manifestarono straordinarie capacità: erano molto stabili, ininfiammabili, non conduttori dell’elettricità, insomma oli dielettrici perfetti per i grandi trasformatori in grado di scongiurare da allora in poi quei ricorrenti incendi che ostacolavano l’efficienza dell’industria elettrica; non solo, manifestavano anche un forte potere adesivo per colle, vernici, pesticidi, inoltre si prestavano come additivi negli oli lubrificanti, come liquidi per scambiatori di calore, ecc.
Insomma era netta la sensazione di aver creato una sostanza capace di risolvere numerosi problemi per l’uomo proteso verso lo sviluppo industriale, come di lì a poco sembrò, per la crescita dell’agricoltura, con la sintesi di un insetticida destinato a diventare famosissimo il DDT (dicloro, difenil, tricloroetano, formato anche in questo caso dalla clorurazione del difenile, come per i PCB, legato però a una molecola di etano, CH3-CH3, a sua volta clorurata da 3 atomi di cloro). In questo caso si era convinti di aver scoperto l’arma vincente per liberare l’agricoltura dagli insetti dannosi ed addirittura l’uomo dalla micidiale malaria, mettendo fuori gioco per sempre la zanzara portatrice del morbo.
Tutto bene quindi?
Quando il “principio di precauzione” era di là da venire
Con gli anni, anzi purtroppo con i decenni, qualcuno cominciò ad accorgersi che questi miracolosi cloroderivati organici presentavano anche un rovescio della medaglia non proprio gradevole: il cloroformio, mentre anestetizzava il dolore, depositava nell’organismo un lascito di tossicità piuttosto pesante, anzi si scoprì che poteva dare origine addirittura a forme tumorali.
La biologa americana Rachel Carson, in un appassionato e documentato saggio, Silent spring, (Primavera silenziosa) pubblicato nel 1962 sui pesticidi cloroderivati organici, denunciava con dovizia di documenti i danni alla salute umana provocati dagli insetticidi di questa famiglia (tutti dei potenti aggressivi nei confronti del fegato e ad azione cancerogena); inoltre il testo si soffermava sugli effetti boomerang del massiccio impiego del DDT e di altri similari composti organici del cloro, che selezionavano organismi ad essi sempre più resistenti, oltre ad eliminare indiscriminatamente anche i loro antagonisti biologici. Sulla lunga durata lo scenario appariva devastante per l’ambiente naturale e per la salute dell’uomo, con il necessario impiego di dosi sempre più consistenti e distruttive, in un’escalation che riservava guadagni iperbolici solo ai produttori di insetticidi. In questo senso profetiche appaiono le pagine dedicate dalla Carson alla lotta biologica agli insetti dannosi, anticipatrici di una diversa concezione dell’agricoltura, alleata con l’ambiente naturale, che comincerà ad affermarsi negli anni successivi.
Vedremo che per gli stessi PCB, accadrà, anche se con maggiore ritardo, qualcosa di analogo: ci si accorgerà innanzitutto che sono eccezionalmente persistenti, perché non biodegradabili, e molto tossici per l’ambiente e per l’uomo, probabilmente cancerogeni.
Nel frattempo un vero e proprio disastro ambientale era stato compiuto. Il meccanismo infernale che muove la scienza legata agli interessi del mercato legittima la Tecnica a immettere nell’ambiente tutte le sostanze che appaiono utili, che rendono più comoda la vita, che procurano profitti. Mentre su questo piano la scienza compie passi da gigante e ogni giorno ci sorprende (per ultimo con gli organismi geneticamente modificati), procede stentatamente, a carponi come un infante, negli studi sull’impatto di queste sostanze con l’ambiente, sulla loro tossicologia, sui danni a lungo termine che possono procurare alla biosfera (in questo caso non ci sono le cospicue e generose committenze delle imprese private a finanziare la ricerca!). E’ esattamente in questa distanza, in certi casi di molti decenni, che si sono consumate e si consumano (si consumeranno?) alcune delle catastrofi ambientali emblematiche del secolo or ora terminato (oltre ai casi citati, l’amianto, il nucleare, il CVM-PVC di Porto Marghera, oggi alla ribalta per la scandalosa sentenza assolutoria).
Invocare il principio di precauzione, come si fa con giusta insistenza da parte del movimento antiglobal per i prodotti agricoli transgenici, gli OGM, non è allora pura ideologia, come sostiene qualche scienziato saccente, immemore di questi dolorosi precedenti storici. Non si tratta di un atteggiamento oscurantista, pregiudizialmente ostile alla scienza, come si vuole far credere. E’ semplicemente questione di buon senso, dettato dalle troppe lezioni della storia recente (i PCB ne sono un esempio illuminante) che non ci consentono più di guardare alla scienza con fede cieca e illimitata. Le promesse della scienza sono state troppe volte smentite dai fatti e gli scienziati devono rassegnarsi a scendere dall’altare sacro su cui si erano collocati, in quanto emuli di Dio.
Basterebbe citare, a questo proposito, il rapporto pubblicato nel 1968 dalla Rand Corporation statunitense sulle previsioni della ricerca scientifica nei successivi 30 anni e ripreso in Italia dalla rivista degli industriali chimici (“La chimica e l’industria”, Milano, marzo 1968, anno 50, n. 3, p. 393):
Fra il 1988 e il 1990 saranno disponibili medicamenti, a base non narcotica, che agiranno sui centri della personalità umana e nel 1990 anche la preparazione in laboratorio di forme primordiali di vita sarà cosa compiuta. Per quell’epoca non solo si disporrà di energia termonucleare ‘controllata’, ma sarà possibile anche procedere correntemente allo sfruttamento minerario del fondo sottomarino; inoltre, verso il 1995, si avrà un controllo su base regionale delle condizioni meteorologiche. Quanto al problema della carestia nei Paesi sovrappopolati, sempre per il 1995, si conta di aver portato a termine su scala industriale la sintesi delle proteine alimentari. Infine, nel campo biologico, nell’ultimo quinquennio del secolo, saranno raggiunti tre obbiettivi la cui importanza, diremmo, è tale da sfuggire ad ogni possibile definizione: l’immunizzazione biochimica generale, la programmazione genetica per l’eliminazione dei difetti ereditari e la terapia per via chimico-fisica delle malattie psichiche.
Insomma un mondo, quello del Duemila, fatto di esseri umani tutti ben pasciuti, forti e belli, sanissimi nel fisico e nella psiche. Col senno del poi il lettore contemporaneo è tentato di liquidare queste previsioni come farneticanti espressioni di delirio di onnipotenza. Tuttavia erano pubblicate su di una rivista scientifica e trent’anni fa non solo riscuotevano credito nella comunità dei ricercatori, ma alimentavano fra la gente comune la fede nella tecnica e nel progresso. E in questo senso sembrano riflettere, con impressionante continuità, l’idea di una scienza che si autolegittima nel perseguire i suoi fini di progresso, quindi comunque positivi, e che acquista grazie a ciò una sorta di sacralità; un’idea che ha permeato l’intero secolo passato, che ha unificato le diverse ideologie e i contrapposti sistemi politici, e che sembrava ispirare la manifestazione del febbraio 2001 dei 1500 scienziati a Roma per la libertà di ricerca e, soprattutto, di ampia sperimentazione nel campo controverso degli organismi geneticamente modificati. Un’idea che, in verità, oggi non assume i toni rozzamente idolatrici degli anni Sessanta, ma si esprime con le parole garbate ed autorevoli di Rita Levi Montalcini: “L’uomo tende per sua natura ad indagare liberamente. Non si può mettere il lucchetto al cervello. […] E’ la stessa comunità sapiente che detta le regole” (G. M. Pace, La Montalcini ritrova il sorriso. Nessun lucchetto al cervello, “La Repubblica”, 14 febbraio 2001, p. 3).
Fortunatamente, però, oggi sono sempre di più coloro che non si fanno abbagliare dalla faccia luccicante della Tecnica e che chiedono venga preventivamente mostrato il rovescio oscuro delle innovazioni
2. I PCB, IL PRIMO PRODOTTO (E INQUINANTE) GLOBALIZZATO
Ma torniamo ai nostri PCB, alle loro origini, quando questa discussione non era neppure stata avviata. Siamo verso la fine degli anni Venti, ovviamente negli Stati Uniti, la nascente potenza mondiale che oggi domina la globalizzazione. E siamo alla Monsanto, la stessa protagonista principale dell’attuale offensiva per la diffusione degli OGM in agricoltura e quindi nell’alimentazione umana. Qui si brevettano i PCB, i policlorobifenili, e subito si mettono in produzione su larga scala. Non solo. In omaggio ad una globalizzazone ancora in formazione il brevetto viene concesso ad un’azienda per ognuno dei principali paesi industrializzati (Giappone, Germania, Inghilterra, Francia, Italia e Spagna). In Italia ad accaparrarselo, nel 1938, è la Caffaro di Brescia, un’industria chimica sorta nel 1906 per produrre la soda caustica con il sistema elettrolitico, ormai convertitasi in fabbrica del cloro e dei suoi derivati, in particolare dei composti organici. Produrre i PCB significa profitti garantiti, al riparo dalla concorrenza, neutralizzata da questa sorta di cartello internazionale dei produttori guidato dalla potentissima Monsanto. E di PCB ne furono prodotte quantità enormi: negli Stati Uniti 670.000 tonnellate; quantità analoghe si possono stimare per l’Europa, se si tiene conto che la Caffaro da sola ne ha probabilmente prodotte 150.000 tonnellate; poi il Giappone; infine i paesi ex-comunisti di cui non si conoscono i dati; in conclusione il totale assomma sicuramente ad alcuni milioni di tonnellate di PCB prodotti nel mondo e dispersi in ambiente.
In questo conteso la Caffaro è però un’azienda chimica speciale.
Il territorio e l’ambiente naturale trattati come bestie da soma
La globalizzazione, si sa, non guarda in faccia a nessuno, men che meno ai popoli e alla natura; considera il territorio in qualsiasi parte del mondo esclusivamente come un sito che può offrire risorse e su cui si può allocare l’attività produttiva o di commercializzazione, scaricandovi a piacimento i residui di scarto o comunque non più remunerativi.
La Caffaro appare singolarmente anticipatrice anche da questo punto di vista. Il territorio bresciano non ha mai espresso alcuna vocazione per l’industria chimica: per metà pianeggiante e per metà montuoso, accanto all’agricoltura intensiva e agli alpeggi, aveva visto svilupparsi già nell’Ottocento (ma con “illustri” precedenti anche in secoli passati, è il caso delle armi Beretta) un’attività manifatturiera orientata alla siderurgia ed alla meccanica. Del tutto assente, quindi, una cultura chimica, mai praticata anche nel corso del Novecento negli Istituti tecnici e nelle Università locali.
Ed allora perché la Caffaro capita proprio a Brescia? Perché il suo territorio si prestava egregiamente al progetto imprenditoriale e tecnologico di un gruppo di capitalisti e scienziati milanesi che avevano in animo da tempo di avviare una pionieristica fabbrica della soda caustica e che per questo avevano subito puntato gli occhi sul fiume Caffaro. Questo fiume nasce dai nevai dei monti Listino, Frerone e Bruffione, alimentato da emissari di vari laghetti alpini ed in estate indirettamente dalle acque di fusione dei ghiacciai del gruppo dell’Adamello. Un bacino alquanto esteso nella regione alpina nord orientale della provincia bresciana, ai confini, oggi con il Trentino, all’epoca con l’Impero austro-ungarico. Percorre in direzione nord sud una delle vallate più suggestive del Bresciano, ricca di boschi di conifere, di prati dalle erbe uniche e preziose che alimentano ancor oggi gli alpeggi di produzione di uno dei più pregiati formaggi di malga, il ricercatissimo bagoss.
Ebbene il Caffaro, nella parte a valle di Bagolino, il principale centro abitato della zona, noto per un particolarissimo e tradizionale carnevale, percorre, piegando in direzione ovest-est, un tratto che in meno di cinque chilometri lo sprofonda con rapide e cascate di circa 250 metri finché si adagia nei pressi di Ponte Caffaro nella valle del fiume Chiese in cui confluisce laddove quest’ultimo s’immette nel lago d’Idro.
Quel salto di 250 metri sembrò creato apposta – la c’è la Provvidenza! – per alimentare una centrale elettrica in grado di produrre sufficiente energia per l’elettrolisi del sale, ricavandovi la preziosa soda caustica e l’allora più fastidioso e ingombrante cloro.
Ma la “generosità” del territorio bresciano non si ferma qui. A quella fabbrica serve anche un collegamento ferroviario per il trasporto del sale e di altri materiali. Brescia possiede nell’immediata periferia una piccola stazione, Borgo San Giovanni, che proprio verso la fine dell’Ottocento gli abitanti (circa 3.000) di quel borgo popolare avevano tenacemente preteso per non rimanere tagliati fuori dal progresso incalzante. Poveretti, non sapevano che con la stazione si sarebbero di lì a poco tirati in casa un’industria chimica fra le più inquinanti e nocive. Ed infatti la Caffaro, nel 1906, sorge proprio lì a circa 100 metri da quella stazione. E non fa niente se si colloca anche vicino alle abitazioni, a 300 metri dalla Chiesa parrocchiale, a soli 900 metri dal centro storico di Brescia. Il disprezzo del territorio (nelle sue componenti naturali ed umane) è tale che nessuno si cura del fatto che il suolo su cui cresce quella fabbrica è di tipo alluvionale, ghiaioso e sabbioso, cioè permeabilissimo, attraversato da una rete fittissima di fossi e rogge, insomma perfettamente predisposto ad assorbire ed a diffondere nel territorio gli inquinanti. Addirittura, e sembra incredibile, nessuno si preoccupa della minaccia che la stessa fabbrica rappresenta per la scuola elementare del borgo a ridosso della quale va a collocarsi.
La Tecnica ha le sue esigenze, il capitalismo più innovativo non può arrestarsi di fronte ai pericoli per la salute cui vengono esposti centinaia, negli anni migliaia, di bambini; del resto sono figli di povera gente, di contadini e di operai.
E questo vale anche quando la fabbrica si trasformerà sempre più in industria dei cloroderivati organici, quando dal 1938, appunto, comincerà la produzione dei PCB a cui si aggiungerà negli anni Cinquanta il DDT, e prima i pesticidi a base di arsenico (estremamente tossico e sicuramente cancerogeno). Con i PCB si raggiunge l’insulto nei confronti del territorio: l’area della fabbrica è molto estesa, 110.000 metri quadri, un intero isolato. Quando inizia questa nuova produzione si tratta di decider dove collocarla: quale posto migliore dello spazio più prossimo alla scuola elementare? E così l’impianto dei PCB per quasi 50 anni opererà a 30 metri (sì trenta metri!) da quella scuola, fino al 1984 (Ricordiamoci sempre che siamo in Italia, in una delle città più progredite e più ricche del Nord).
Anzi, mentre la fabbrica aumenta il suo carico inquinante, la città vi si stringe sempre più attorno, in una sorta di abbraccio perverso, collocando in queste aree a rischio diversi quartieri, naturalmente destinati ai ceti operai e popolari (i signori vanno ad abitare dalla parte opposta della città, ai piedi e sui fianchi delle colline, naturalmente).
E la Caffaro, così, per oltre un secolo ha potuto contaminare la zona sud-ovest, circa un quarto della città di Brescia, fino a tutti gli anni Sessanta pressoché indisturbata, dagli anni Settanta in poi sottoposta a controlli e a successive limitazioni, senza però che fino ad oggi ne venisse messa in discussione la prosecuzione dell’attività in pieno centro cittadino.
Il territorio restituisce l’inquinamento del passato
Ma contrariamente a ciò che han sempre creduto coloro che hanno negli anni maltrattato l’ambiente, il territorio non è un somaro disposto a caricarsi pazientemente di tutto senza reagire.
Arriva il momento, e per Brescia e per la Caffaro si tratta dell’oggi, che i nodi vengono al pettine e tutto l’inquinamento diffuso nell’ambiente viene restituito. Anche perché in buona parte, soprattutto i PCB, ma non solo, è costituito da sostanze altamente persistenti, simili nel comportamento alla radioattività, che si decompongono con estrema fatica. Sono composti di sintesi detti anche xenobiotici, ostili alla vita, che il processo evolutivo naturale non ha saputo o “voluto” selezionare, che quindi non sa riconoscere e ricomprendere, degradadandoli, nel grande flusso della vita.
E quindi, anche se la produzione dei PCB è ferma da quasi venti anni, Brescia li scopre in grandi quantità intrisi nel terreno a sud della Caffaro. Sotto la fabbrica, poi, viene alla luce un vero e proprio “deposito” di questi ed altri inquinanti tossici che imbevono quella enorme spugna di 30 metri di profondità rappresentata dal sottosuolo aziendale e che dalla stessa vengono “sgocciolati” inevitabilmente nella falda.
INQUINAMENTO DEL TERRENO CIRCOSTANTE LA CAFFARO (7 km2 per 25.000 abitanti circa)
Analisi effettuate dal Pmpi di Milano prima dell’avvio dell’inceneritore
3 campagne: 1994 (1995), 1996 (1998) e 1997 (aprile 2001)
Recenti studi aggravano la tossicità, già nota, dei PCB.
Come si accennava, i PCB (C12H10-nCl, con n compreso tra 1 e 10) sono una classe di idrocarburi clorurati non polari con nucleo bifenilico, con sostituzione di 1 fino a 10 atomi di idrogeno con atomi di cloro.
Questa struttura fa sì che i PCB siano una numerosissima famiglia di ben 209 congeneri, distinti in relazione al diverso numero di atomi di cloro (da 1 a 10) e alla diversa disposizione degli stessi (2,3,4,5,6,2’,3’,4’,5’,6’). Generalmente quindi si ha a che fare con miscele di PCB, come erano peraltro quelle prodotte in Caffaro (dai diclorobifenili agli octaclorobifenili, ma anche i decaclorobifenili).
Tra i 209 congeneri di PCB, alcuni di questi, esattamente 13, hanno dimostrato gradi di tossicità confrontabili con quelli osservati per la 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD e sono chiamati diossina-simili: da questo punto di vista si può quantificare il grado di tossicità di una miscela di PCB applicando un Fattore Equivalente di Tossicità (TEF).
Questa metodologia, dei TEF, è comunque stata assunta da alcuni anni anche dal nostro Istituto Superiore di Sanità. Interessante, a questo proposito, un documento del 1999 relativo al “rilevamento di PCB, PCDD e PCDF in prodotti alimentari”. Anche qui si insiste innanzitutto sulla scarsa biodegradabilità dei PCB, per i quali si devono fare considerazioni analoghe alle diossine, “soprattutto per quelli con più alto grado di clorosostituzione” e la cui tossicità è stata rivalutata rispetto anche al passato recente: “[…]18. Anche i PCB sono sostanze molto tossiche, per le quali viene riportato un ampio spettro di effetti nocivi. Intrinsecamente meno potenti delle diossine, i livelli di concentrazione con i quali i PCB ricorrono negli alimenti, in genere molto più elevati di quelli presentati dalle prime, ne innalzano tuttavia comparativamente la pericolosità. Alcuni PCB sono noti per produrre effetti tossici con gli stessi meccanismi delle diossine (PCB diossina-simili); nella valutazione del rischio, essi vengono convertiti in unità TE (equivalenti di tossicità di TCDD, ossia di diossine) ed eventualmente sommati agli altri livelli TE misurati. 19. I PCB contengono in
genere minute quantità di diossine, i cui livelli possono però aumentare anche di alcuni ordini di grandezza […] Al riguardo, i PCB possono essere utilizzati come indicatori (screening) della presenza a livelli indesiderati di PCDD e PCDF [diossine e dibenzofurani. N. d. A.]” (Istituto Superiore di Sanità, Linee-guida per interventi analitici mirati al rilevamento di PCB, PCDD, e PCDF in prodotti alimentari (Rif.: ISS-XEN-99-4 – Versione: 1 Luglio 1999), p. 2, www.iss.it/diossina/diossina.htm).
A questo proposito l’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, tra le numerose monografie sui PCB, ne ha pubblicata una, di ben 86 pagine, nel 1996 di grande interesse per il nostro caso: PCB: valutazione della dose-risposta per il cancro e applicazione alle miscele ambientali. Ebbene in questa vengono classificati per grado di tossicità i 36 congeneri di PCB più diffusi in ambiente: 9 sono classificati a più alta tossicità e sono fra quelli diossina-simili, altri 7 ad alta tossicità, 10 tossicologicamente attivi e 10 la cui tossicità non è ancora nota.(EPA, PCBs: Cancer Dose-Response Assessment and Application to Envirronmental Mixtures, Washington, DC, Environmental Protction Agency, 1996, p. 36. www.epa.gov):
Per quanto riguarda l’effetto cancerogeno (di cui si occupa anche la monografia, già segnalata nell’allegato B, dello IARC di Lione, Polychlorinated byphenils, Vol. 18 (1978) (p. 43) e Supplement 7 (1987) (p. 322), www.iarc.fr ) l’EPA riporta diversi studi relativi ad una maggiore incidenza di tumori al fegato, alla vescica, alle vie biliari, ematologici.
Per quanto riguarda in generale la tossicità dei PCB utilizziamo Composti organici tossici, persistenti e biaccumulabili nella laguna di Venezia: stato delle conoscenze, www.greenpeace.ti)
Innanzitutto l’Istituto superiore di sanità, nel documento più volte citato del 1999, classifica i PCB insieme alle diossine “xenobiotici supertossici”. Del resto la generalizzata contaminazione da PCB sta portando ad un incremento delle sue concentrazioni anche nei tessuti umani. La maggior fonte di contaminazione umana riguarda la loro assunzione attraverso gli alimenti, anche se in alcuni casi l’inalazione e l’esposizione cutanea possono rappresentare delle importanti vie di contaminazione. Studi condotti in diverse parti del mondo hanno evidenziato la presenza di PCB nel latte umano in concentrazioni medie di 1 ppm (parte per milione). Tenendo in considerazione un consumo medio giornaliero di 130 grammi di latte ogni chilo di peso corporeo, un lattante riceve ogni giorno 5 ppb di PCB per chilo di peso corporeo. Alla nascita i livelli di concentrazione materni sono paragonabili a quelli dell’infante, mentre dopo 6-9 mesi si osservano valori 4 volte superiori nei lattanti. Dopo lo stesso periodo di tempo le concentrazioni materne diminuiscono di 2,5 volte. Neonati contaminati da PCB per via transplancetare mostrano alterazioni neurologiche che vanno dall’ipotonia alla nascita, al ritardo delle sviluppo psicomotorio tra i 6 ed i 12 mesi ad una minor capacità di cognizione visiva a 7 mesi di vita. Comparando le diverse risposte neurofisiologiche di roditori, scimmie e uomo, si è osservata una sensibilità maggiore di quattro ordini di grandezza per i feti umani (K. B., Thomas, T. Colborn, Organochlorine endocrine disruptors in human tissue. In Chemically – induced alteration in sexual and functional development : the wildlife/human connection. Princeton Scientific Publishing Co., Inc. 1992, pp.365-394). In un rapporto preparato da un gruppo di ricercatori per il Ministero dell’Ambiente danese si mette in evidenza come il livello attuale di esposizione della popolazione generale ai PCB sia dello stesso ordine di grandezza al quale si osservano effetti sub letali nei bambini che hanno subito un’esposizione in utero e/o attraverso l’allattamento.
Insomma una sostanza tossica molto insidiosa, invisibile ed impercettibile, che però si accumula nell’organismo soprattutto in situazioni di contaminazione cronica e di lungo periodo come nel caso di Brescia, e che produce effetti dannosi a lunga scadenza difficilmente prevedibili.
I PCB, contaminanti persistenti che migrano per il mondo intero, dal locale al globale
I PCB, proprio per le loro caratteristiche, si sono diffusi ormai in ogni parte del globo: portati in giro dai materiali in cui sono stati impiegati, gettati nell’ambiente come rifiuti, dispersi sulle lunghe distanze dall’aria e dalle acque superficiali e profonde, hanno raggiunto ogni angolo della terra e sono penetrati pur in piccolissime dosi in ogni organismo vivente.
E la cronaca ogni tanto ci segnala l’emersione di episodi acuti di inquinamento da PCB. Di recente il più clamoroso fu quello dei polli ai PCB e alla diossina in Belgio nel 1998: qui, nella produzione dei mangimi per i quali si impiegano oli vegetali esausti da friggitoria, questi ultimi vennero erroneamente scambiati con oli dielettrici (PCB per l’appunto nell’ordine di 50 kg) destinati allo smaltimento. Da lì il passaggio nella catena alimentare che proprio i PCB prediligono per la caratteristica che hanno di bioaccumularsi nei tessuti grassi.
L’inquinamento dei mari si riflette direttamente sulla fauna: così, nei tessuti di alcuni delfini del Mediterraneo morti a seguito di un’epidemia virale verificatasi nel 1990 e nel 1991 sono stati riscontrati livelli di PCB particolarmente elevati. Ciò è stato messo in relazione con l’attacco virale che ne ha causato la morte. Il potere immunosoppressivo di questi composti potrebbe aver favorito l’estendersi dell’epidemia che ha eliminato oltre 4000 esemplari (A. Borrell, A. Aguilar, Pollution by PCBs in striped dolphins affected by the Western Mediterranean Epizootic. In: Procedings of the Mediterranean striped dolphin mortality International Woorkshop, Palma de Mallorca, 4-5 November 1991, Ed. Greenpeace Mediterranean Sea Project, 1991, pp. 121-126).
Ma notizie inquietanti sui PCB ci sono venute dai mari del Nord dove le balene, la cui carne ed il cui grasso sono stati analizzati dai tecnici del Wwf, risultavano contaminate da “50 diversi PCB precursori della diossina e riconosciuti estremamente dannosi per il sistema endocrino e riproduttivo” ( Carne di balena piena di diossina, “La repubblica”, 11 luglio 2000). Il problema è che la riproduzione è a rischio e il fenomeno può manifestarsi anche negli uomini, come dimostra la diminuzione, già verificata ad esempio nei giovani danesi, della quantità di spermatozoi presenti, fino a 50% in meno. Responsabile il mare del Nord pericolosamente inquinato di PCB che attraverso i pesci entrano nella catena alimentare (Orsi ermafroditi per inquinamento, “Giornale di Brescia”, 4 settembre 2000). La contaminazione ha raggiunto, come si diceva, perfino l’Artico, dove degli scienziati norvegesi hanno scoperto che una quarantina di orsi bianchi su un totale di tremila sono ermafroditi, cioè possiedono gli organi sessuali di entrambi i sessi e che i colpevoli di tali malformazioni sono i PCB (R. Furlani, Troppi veleni, l’orso diventa bisex, “Corriere della Sera”, 3 settembre 2000).
Insomma i PCB, partiti dai laboratori della Monsanto negli anni Venti, riprodotti in grandi quantità da alcuni impianti chimici fra cui per l’Italia la Caffaro di Brescia, si sono globalizzati come inquinanti fra i più diffusi e persistenti, con cui l’umanità intera è oggi costretta a fare i conti
3. POLITICHE GLOBALI-LOCALI PER RIPULIRE IL MONDO DAI PCB
Le strategie per liberare il mondo dai PCB: a livello globale un programma dell’Onu
L’ONU stessa da alcuni anni si sta interessando direttamente al problema dei PCB e della loro dispersione nei sistemi biologici del pianeta.
Del resto da tempo nel mondo si era acquisita la consapevolezza sull’estrema pericolosità per l’ambiente e per l’uomo di questi prodotti. La storia dei PCB, in questo senso, è esemplare della scarsa attendibilità della scienza e della tecnica quando sono associate ai profitti delle imprese. I primi effetti tossici dei PCB furono segnalati in operai dell’industria elettrica nel 1936, quando la Caffaro per l’appunto ne acquisì l’esclusiva nazionale, su brevetto Monsanto. Si trattava essenzialmente di cloracne e gravi danni epatici (E. Bai, I PCB, Cisl Milano, 1978, p. 4). Ma l’intossicazione più grave fu quella avvenuta in 21 città del Giappone nel 1968 che provocò oltre mille vittime, a causa dell’ingestione di olio commestibile derivato dal riso contaminato dall’olio a base di PCB di uno scambiatore di calore che perdeva attraverso microfessurazioni delle tubazioni. Nel 1971 in North Carolina, Stati Uniti, una partita di farina di pesce per mangime per polli fu contaminata da PCB usati in un’apparecchiatura difettosa come fluido scambiatore di calore (Relazione di perizia dei professori F. Siniscalco e G. Taponeco, della dottoressa C. Vannucchi, dell’ingegner R. Carrara, Brescia, 23 novembre 1977, p. 19). Sulla spinta di questo incidente, le ricerche di Melselon & Baughman condotte negli Stati Uniti nel 1971 su miscele di PCB hanno portato all’identificazione di piccole quantità d’impurezze estremamente tossiche, diossine comprese (questa informazione, completa del riferimento bibliografico, era contenuta nel volume pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità –WHO- intitolato ‘Health hazards of the human environement’. Cfr. Il PCB e la diossina, “Giornale di Brescia”, 25 maggio 1977). Mentre già nel maggio del 1972, la rivista “Nature” pubblicava un’analisi epidemiologica dei ricercatori Masuda, Kuratsune e Kagawa sui gravissimi danni provocati negli utilizzatori e manipolatori delle carte autocopianti (A. Fraser, I PCB: un’altra Seveso?, in “Sapere”, dicembre 1977, pp. 34-35), altro settore allora di largo impiego dei PCB, accanto alle vernici, agli oli lubrificanti, alle plastiche e ai recipienti e alle carte per alimenti.
Inoltre, sempre nei primi anni Settanta, lo scienziato ed ecologista nordamericano Barry Commoner in un suo saggio sulle industrie chimiche tra l’altro affermava: “Quando i composti sintetici cloro-organici (ad esempio DDT, PCB) sono introdotti in organismi viventi si scopre frequentemente che sono fortemente tossici, o che producono danni a lungo termine come la cancerogenesi”; e, nello stesso intervento, Commoner riprendeva proprio l’esempio dei PCB, per avvalorare lo stretto rapporto fra ambiente di lavoro e territorio, dimostrando, tra l’altro, come la tossicità degli stessi fosse da tempo nota negli Stati Uniti, che già dall’inizio degli anni Settanta ne avevano fortemente limitato l’impiego, (di questo la Monsanto, titolare del brevetto originario, infatti, aveva già informato la Caffaro nel 1970): “Si dovrebbe ricordare ad esempio che sebbene la vasta diffusione nell’ecosfera dei prodotti a base di PCB, ed il loro effetto tossico sulla funzionalità epatica degli animali sia stato scoperto per la prima volta nel 1966, nel 1940 si sapeva bene che i PCB producevano gli stessi effetti nei lavoratori che fabbricavano queste sostanze. Invero, come risultato di questa esperienza, gli igienisti industriali avevano concluso nel 1943 che si sarebbe dovuto evitare il contatto umano con i PCB. Ciò nonostante negli anni ’50 e ’60 [per l’Italia dovremmo aggiungere gli anni ’70 e metà anni ‘80. N. d. A.] i PCB furono usati in numerosi prodotti che inevitabilmente portavano questa sostanza a contatto con la popolazione umana, diffondendosi ampiamente nell’ambiente” (B. Commoner, Le fabbriche del veleno, “Sapere”, aprile-maggio 1975, n. 781, p. 9. Va considerato, tra l’altro, che “Sapere” in verità non faceva altro che pubblicare una conferenza tenuta da Commoner addirittura il 17 ottobre 1973 a Varsavia per la presentazione del seminario internazionale “Industrie chimiche”).
La stessa rivista “Sapere”, inoltre, nel numero speciale di novembre-dicembre 1976 dedicato a Seveso, aveva ampiamente informato sul fatto che i policlorobifenili erano “chimicamente imparentati con le clorodiossine”, che erano “stati posti sotto accusa per la loro scarsissima degradabilità nell’organismo e nell’ambiente […] e per la loro nocività a lunga scadenza”, per cui dopo un grave incidente “è stata proibita in Giappone ogni utilizzazione di PCB” (G. Bignami, N. Frontali, R. Zito, Non si uccidono così anche i cavalli?, in Seveso, un crimine di pace, “Sapere”, novembre-dicembre 1976, n. 796, p. 74).
Tutto ciò portava alle prime decisioni di messa al bando della produzione dei PCB: nel 1972 il Giappone, direttamente colpito dal gravissimo episodio prima ricordato, e nel 1976 gli Stati Uniti con una legge federale che portò alla chiusura di ogni impianto industriale dei PCB (Si veda il sito dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti, ricchissimo di studi e documentazione sui PCB: www.epa.gov/pcb/pcb/pdf).
Ma anche in Europa, non Italia in verità, qualcosa si muoveva: vennero emanate dal Consiglio della Cee due direttive sui PCB, l’una del 6 aprile 1976 concernente lo smaltimento dei policlorodifenili e dei policloroterfenili (Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 26 aprile 1976) e l’altra del 27 luglio 1976 concernente il riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alle restrizioni in materia di immissione sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi (Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 27 settembre 197). Del resto per i PCB l’OCSE aveva già preso, il 13 febbraio 1973, una decisione concernente la limitazione della produzione e dell’impiego, come pure, l’8 luglio 1975, il Governo francese (Journal officiel de la Republique Francais, 26 luglio 1975). Il Decreto delle autorità francesi, in particolare, era preciso nel limitare l’impiego dei PCB a sistemi chiusi come trasformatori e condensatori, mentre per i sistemi idraulici era consentito solo nelle miniere e per i conduttori di calore era vietato l’impiego nei sistemi per il trattamento di derrate per l’alimentazione umana o animale e per i prodotti farmaceutici e veterinari, proprio al fine di prevenirne la dispersione in ambiente. Da qui con passi successivi anche l’Europa si sarebbe allineata agli orientamenti già maturati negli Usa (tra parentesi l’Italia e quindi Brescia, dove vi era l’unica fabbrica produttrice, arriva come al solito buon’ultima: solo nel 1977 inserisce i PCB nell’elenco delle sostanze tossiche e solo nel 1984 ne verrà abbandonata del tutto la produzione!)
Ma la messa al bando, risultato comunque importante della nuova cultura ambientalista, se arresta l’immissione in ambiente di nuovi inquinanti, non risolve il problema di quanto è stato disperso e precedentemente accumulato nella biosfera.
E’ questo il grande problema di dimensioni globali che sta di fronte all’umanità e che la comunità internazionale è oggi chiamata ad affrontare. A questo scopo, il Consiglio di amministrazione del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), nella decisione 19/13 C del 7 febbraio 1997, ha promosso un’azione internazionale per proteggere la salute umana e l’ambiente, adottando delle misure tese a ridurre e a cercare di eliminare le emissioni e i rifiuti di inquinanti organici persistenti (i cosiddetti POPs, tutti cloroderivati organici, molti già precedentemente incontrati: PCB, DDT, diossine). Tale iniziativa ha prodotto la convenzione internazionale di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti, presentata per l’adozione alla Conferenza dei plenipotenziari, convocata il 22-23 maggio 2001 (UNEP, POPs, Conf/2, marzo 2001, www.onu.org. Si veda anche: L. Granello, Pesticidi, quella sporca dozzina: il mondo dice no ai superveleni, “La Repubblica”, 23 maggio 2001). La convenzione dedica l’intera seconda parte per l’appunto ai PCB, sui quali del resto ha lavorato, sulla scorta della decisione del febbraio 1997, il Gruppo intersessioni del Forum Intergovernativo sulla Sicurezza chimica che fa capo allo stesso Unep. Dopo tre riunioni di studio, nell’ultimo incontro, tenuto a Yokhoama in Giappone dal 1° al 4 dicembre 1998, questo gruppo ha licenziato un Rapporto finale di straordinario interesse sulle “strategie per l’eliminazione dei bifenili policlorurati (PCB)”, che prevede, tra l’altro, l’inventario dei siti contaminati da PCB, la raccolta e lo stoccaggio del materiale contaminato in vista della sua distruzione, per la quale venivano valutate le tecniche più efficaci sia per le bonifiche dei siti contaminati che per l’incenerimento e per altri metodi di distruzione (Gruppo intersessioni del Forum Intergovernativo sulla Sicurezza chimica, Rapporto finale. Strategie per l’eliminazione dei bifenili policlorurati (PCB), Yokhoama, Giappone, 1°- 4 dicembre 1998, www.ifcs.ifg3.org).
Va infine ricordato il problema enorme dei numerosissimi utilizzatori dei PCB, in particolare nei trasformatori e condensatori. Il numero di questi apparecchi che nel nostro paese impiegavano PCB era valutato, vent’anni fa, dagli esperti dai 20 ai 40 mila esemplari, con un contenuto di circa 40 mila tonnellate di fluido dielettrico a base di PCB (G. Manzone, Occorre regolare l’uso del PCB, “l’Unità”, 15 ottobre 1981). A tutt’oggi, non esiste in Italia un censimento di questi trasformatori, nonostante fosse esplicitamente richiesto a tutti gli stati membri dalla Direttiva 96/59/CE del Consiglio, del 16 settembre 1996, concernente lo smaltimento dei policlorobifenili e dei policlorotrifenili (PCB/PCT). Con il solito ritardo di tre anni il D.L.gs. n° 209 di “Attuazione della direttiva 96/59/CE…”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n° 151 del 30/06/1999, all’art. 3 comma 1, obbligava coloro che detenevano apparecchi contenenti PCB in quantitativo superiore a 5 litri (dm3) ad effettuare una comunicazione biennale alle sezioni regionali, o delle province autonome, del catasto rifiuti. La prima comunicazione avrebbe avuto la scadenza del 31 dicembre 1999. Ma le inadempienze, ovviamente, non si contano.
Dal globale al livello locale: la comunità chiamata a saldare il conto con un disastro ambientale annunciato.
Ma se quelli sono i compiti a livello globale, la strategia cosiddetta lillipuziana ci impone anche di agire nella realtà concreta locale. Anche per i PCB il livello locale è di straordinaria rilevanza; in particolare per quanto riguarda questa vicenda il territorio di Brescia è chiamato ad un impegno arduo di eccezionale rilevanza che potrebbe assumere carattere di esemplarità anche per altre situazioni analoghe.
Infatti la società bresciana, ma la storia che qui abbiamo riassunto ci sembra paradigmatica per tutto l’Occidente industrializzato e per la globalizzazione che ne porta il logo, si trova concretamente di fronte ad una drammatica frattura del rapporto società e natura, tecnica e territorio. Una frattura prodotta da un secolo di convivenza fra una fabbrica altamente inquinante e la città.
Il problema, non ce lo nascondiamo, è enorme e forse anche di non semplice soluzione.
Rimuoverlo ancora una volta, spazzare noncuranti lo sporco sotto il tappeto, e andare avanti, “ignorando la falla”, è sempre possibile, soprattutto per chi non vuol perdere tempo, incalzato dai progetti di nuovo sviluppo, dalle sfide competitive che urgono, dalla logica degli affari. Ed è una tentazione forte del buon senso, del “cosa fatta capo ha”, del guardare avanti. Il problema è che questo passato è destinato ad agire anche nel futuro; futuro che sembra difficile costruire senza una radicale e coraggiosa rielaborazione di ciò che è stato il Novecento e nello specifico di che cosa è realmente accaduto sul territorio di Brescia, fra l’umanità che l’ha abitato, nella natura e negli ecosistemi locali, da quando la Caffaro vi si è insediata.
Un primo terreno impegnativo è quello della conoscenza e dell’informazione, per affrontare il quale sembra però indispensabile impegnare le competenze eccellenti non solo a livello naziona: si tratta di completare la ricerca di tutte le sostanze tossiche che nei diversi periodi sono entrate ed uscite dai processi produttivi. Queste analisi vanno estese a tutte le altre matrici ambientali (acque superficiali e profonde, alimenti…). Inoltre si dovrebbe verificare la profondità della penetrazione nei suoli degli inquinanti, mentre per i PCB in particolare si rende necessaria un’analisi qualitativa specifica, per valutarne la tipologia e le caratteristiche, con particolare attenzione ai congeneri PCB diossina-simili.
Non può non essere, quindi, affrontato direttamente lo stesso problema Caffaro e l’area su cui si trova. All’interno dello stabilimento è già emersa una straordinaria rilevanza dell’inquinamento, che va con più precisione quantificato, ampliando lo spettro delle sostanze ed elementi tossici da ricercare, includendo innanzitutto le diossine. Inoltre, sempre sul piano delle conoscenze, vanno ricercati, con la collaborazione dell’azienda, tutti i siti in cui storicamente sono stati accumulati i residui di produzione, i fanghi, le peci, in particolare contenenti mercurio e PCB, ma non solo.
Ma, soprattutto, si dovrebbero compiere indagini epidemiologiche sui lavoratori e sui cittadini esposti alle sostanze cancerogene che storicamente sono state trattate in Caffaro ed in parte disperse in ambiente, anche per tentare di chiarire le cause reali dell’elevata incidenza di morti per tumori registrata a Brescia (Brescia da anni presenta una delle più alti percentuali di incidenza di casi e di morti per tumore a livello nazionale).
E per quanto riguarda i primi risultati delle indagini che sono state avviate dopo la clamorosa denuncia dell’inchiesta pubblicata da “La Repubblica” il 13 e 14 agosto, purtroppo si stanno confermando le previsioni più pessimiste.
La contaminazione si è estesa dalla fabbrica al suolo e all’acqua, alla catena alimentare ed infine all’uomo
Si è analizzata l’acqua di scarico dell’azienda e si è scoperto che ovviamente conteneva PCB, esattamente microgramnmi 0,03 per ogni litro (Arpa Brescia, certificato di analisi ASP36/01 reg. d’analisi, 17 settembre 2001). La quantità è apparentemente irrilevante, ma bisogna considerare che la Caffaro da sempre utilizza e scarica in ambiente qualcosa come 10 milioni mc/anno di acqua, pari, per rendere l’idea al fabbisogno di acqua di una cittadina di 60.000 abitanti. E questa dispersione di PCB attraverso i fossi e le rogge che servivano per irrigare i campi nella zona sud ovest di Brescia era sicuramente più importante negli anni passati (i PCB si produssero a partire dal 1938) se già nel 1980, con strumentazione meno sofisticata dell’attuale, veniva rilevata nello scarico dell’azienda dal Laboratorio provinciale d’igiene (a quel tempo peraltro, non esisteva una legislazione che prevedesse limiti per questi inquinanti nelle acque).
Che i PCB fossero nell’acqua in uscita dalla Caffaro era facilmente prevedibile e il meccanismo è perfino ovvio: i PCB si trovano in grandi quantità nel sottosuolo della stessa e percolano nella falda sottostante dove sono stati trovati fino a 543 volte oltre i limiti, quindi poiché l’azienda è da questa falda che pesca la propria acqua ne preleva anche i PCB e li diffonde nelle acque superficiali.
La faccenda dell’acqua è però complicata dal fatto che questa estrazione idrica massiccia da parte della Caffaro, nella situazione attuale, non può essere interrotta, anche se la fabbrica, come probabilmente avverrà, dovesse cessare ogni produzione: in quel caso la falda si alzerebbe di livello intercettando strati di terreno con altissime concentrazioni di sostanze tossiche, dai PCB all’arsenico, dal mercurio al tetracloruro di carbonio, contaminando in modo catastrofico tutta la falda di Brescia.
E l’acqua potabile, ci si chiederà? Fino al 13 agosto 2001 era controllata dall’Asm (l’azienda dei servizi municipalizzati di Brescia, la stessa che ha avuto il colpo di genio di collocare in quest’area superinquinata il più grande inceneritore d’Italia di rifiuti) con uno strumento la cui sensibilità per i PCB arrivava a 0,05 microgrammi/litro (Risposta dell’ing. Paolo Rossetti dell’Asm di Brescia a Marino Ruzzenenti, 24 agosto 2001), quando dal dicembre del 1999 la legge 471 considerava l’acqua di falda inquinata da PCB se si supervano microgrammi 0,01, cioè 5 volte meno (in sostanza i PCB potevano anche esserci, ma non erano intercettati).
Sta di fatto che se questo è lo stato dell’acqua anche la successiva tappa delle indagini, quella sugli alimenti, non poteva non riservare amare e gravi conferme.
Per ora sono stati indagati gli alimenti di 3 piccole cascine immediatamente a sud della Caffaro, e di altre 2 molto più distanti, ma soprattutto dalla parte opposta rispetto all’alveo del fiume Mella e quindi non raggiungibili dalle acque provenienti dalla Caffaro.
Mentre in queste ultime due i PCB non sono stati rilevati negli alimenti, perlomeno a livelli extra norma, nelle prime 3 invece questi risultano contaminare a livelli altissimi latte, uova, galline, persino le zucchine:
[il limite guida di 7 congeneri di PCB indicato dall’Istituto superiore di sanità è 100 nanogrammi per grammo di grasso]
Questi numeri dicono poco se non vengono spiegati. Innanzitutto non si tratta di tutti i PCB, che come si è detto sono 209, ma solo di 7 congeneri, quelli indicati nel protocollo dell’Istituto superiore di sanità, individuati ed utilizzati come marcatori negli studi sul caso dei cosiddetti “polli alla diossina”, in realtà ai PCB, del Belgio della primavera del 1999.
Innanzitutto si deve ipotizzare una presenza di PCB totali 3 volte superiore a quella rilevata con i 7 marcatori, per cui il livello massimo di PCB totali nei polli va valutato in 71457 ng/g di grasso, superiore a quello più alto trovato nei polli belgi contaminati da PCB, cioè 51059 ng/g di grasso (N. van Larebeke, L. Hens, P. Schepens, A. Covaci, J. Baeyens, K. Everaert, J. L. Bernheim, R. Vlietinck, G. De Poorter, The belgian, PCB and dioxin incident of january-june 1999: exposure data and potencial impact on health, “Environmental health perspectives”, vol. 109, n. 3, marzo 2001, pp. 265-273). Certamente in Belgio i polli contaminati sono stati molti (mediamente con presenze di PCB totali tra 240,7 e 2036,9 ng/g di grasso), ma si è trattato di un inquinamento acuto ed episodico, mentre a Brescia è ipotizzabile un fenomeno di molti decenni.
Non solo. Quei 7 marcatori erano stati individuati per valutare con uno studio analitico sui diversi congeneri di PCB la quantità di PCB diossina-simili, ricavabili con una particolare formula che se applicata al caso Brescia ci dà un livello elevatissimo di contaminazione da PCB rapportato alla tossicità delle diossina di Seveso.
Sulla base dell’esperienza del Belgio l’Istituto superiore di sanità esplicita i “criteri cautelativi” per l’interpretazione dei dati: “livelli di PCB fino a 100 ng/g, se stimati dalla sommatoria dei sette congeneri di riferimento, possono discriminare il prodotto alimentare verosimilmente ‘esente’ da quello potenzialmente ‘contaminato’ da PCDD e PCDF”, cioè diossine (Istituto superiore di sanità, Linee-guida per interventi analitici mirati al rilevamento di PCB, PCDD e PCDF in prodoti alimentari, 1 luglio 1999). Se si considerano i livelli di PCB individuati a Brescia è facile prevedere che in quegli alimenti siano presenti anche le micidiali diossine, come infatti successivamnet verrà confermato.
Arriviamo quindi al passo successivo all’indagine dei PCB nel vertice della catena alimentare che più ci interessa, l’uomo.
I PCB sono stati misurati, per ora, nel sangue di sole 14 persone appartenenti alle 3 cascine contaminate, e in 2 delle cascine di controllo. E anche in questo caso i risultati sono disastrosi, com’era prevedibile in presenza di un fenomeno di contaminazione cronica. Va tenuto presente che per il sangue viene considerato un range di normalità, stimato in una presenza di PCB che va da 0,5 a 15 nanogrammi per ogni millilitro di siero/plasma. I risultati degli esami sono riportati nella tabella sottostante, dove i PCB (somma degli isomeri tetra-penta-esa-eptaclorobifenili espressi in nanogrammi per millilitro di siero/plasma) sono indicati in grassetto (tra parentesi il sesso e l’età delle persone):
Nei 14 campioni delle cascine contaminate, come si nota, i PCB in eccesso sono nell’ordine di alcune centinaia fino ad un massimo di 470 nanogrammi per millilitro di siero/plasma. Altro dato significativo è che la contaminazione è sostanzialmente proporzionale all’età, confermando la lunga durata (oltre cinquant’anni) dell’inquinamento in questione e la sua attuale persistenza. Un’intossicazione estesa e molto elevata, quindi. Ma emerge un altro dato, forse più preoccupante: PCB in eccesso anche se “solo” di “alcune decine” di nanogrammi sono stati trovati anche nelle 2 persone di controllo, i cui alimenti non erano contaminati. Com’è potuto accadere? Il veicolo non potrà essere stato forse l’acqua potabile?
Ma queste cascine, e forse se ne scopriranno anche altre, utilizzavano il latte per alimentare i vitelli e questi per decenni sono stati fino ad oggi commercializzati e macellati e le loro carni contaminate dai PCB sono state consumate da centinaia, forse migliaia di persone. In quella zona inoltre, vent’annoi fa, operavano circa 20 aziende agricole che producevano latte, formaggi, carni in grandi quantità, in un periodo in cui la contaminazione era di sicuro molto superiore a quella attuale (la produzione è dismessa dall’84 e i PCB, anche se molto lentamente, in parte si degradano soprattutto per effetto della luce solare).
Con i PCB gravissimo inquinamento anche da diossine
Insomma più si cerca di approfondire la conoscenza del problema, più emergono dati di straordinaria gravità, che documentano una contaminazione non solo del territorio, ma anche dei sistemi biologici e degli stessi abitanti che su di esso hanno vissuto. Fino all’emergere di quanto già precedentemente ipotizzato, cioè di una contaminazione anche da diossine. Del resto un’analisi attenta e comparata con i PCB delle diossine mediamente presenti in 14 prelievi di terreno effettuati nelle 3 campagne per l’inceneritore, alla Noce ed al cimitero Vantiniano, siti interessati all’inquinamento da PCB nell’ordine di circa 250 volte i limiti, permetteva già importanti deduzioni, che vanno rapidamente verificate con indagini appropriate: sembra evidente che vi sia stata una dispersone in ambiente di diossine in quanto tali e non solo come impurità dei PCB e che le diossine probabilmente presenti nei terreni in prossimità della Caffaro e nello stesso sottosuolo aziendale potrebbero raggiungere livelli paragonabili al caso Seveso, così come è molto probabile che le peci, estratte in temperatura dal distillatore e messe a contatto con l’aria, si siano anch’esse particolarmente “arricchite” di diossine (queste peci sono ora disperse in alcune ex cave di paesi limitrofi a Brescia, nei cui territori sta pure emergendo un preoccupante inquinamento da PCB).
Purtroppo da quando i primi dati hanno confermato la contaminazione degli alimenti da diossine l’Asl di Brescia, con una gravissima decisione, ha bloccato ogni accesso agli atti, per cui ci si deve affidare alle sole notizie comunicate alla stampa dall’Asl stessa (TG Regione Lombardia ore19,30 del 28 novembre 2001).
Nei campioni di latte delle cascine toccate dall’inquinamento, analizzati il 15 ottobre 2001 dall’Istituto superiore di sanità sono state trovate diossine da 8 a 11 pg/gr di grasso (valore limite dichiarato dall’Asl di Brescia 5 pg/gr di grasso; valore limite previsto da un recente documento dell’UE, 3 pg/gr di grasso).
Quei campioni, come si è visto sopra, contenevano da 430 a 504 ng/gr di grasso di PCB, per cui possiamo dedurre una presenza di diossine nell’ordine circa di 1 parte per 50.000, rapporto praticamente uguale a quello registrato nei polli alla diossina belgi.
Il latte era però uno degli alimenti meno contaminati. Simulando lo stesso rapporto nelle carni di pollo o nelle uova, i risultati sono sconvolgenti, oltre 50 volte i limiti nel caso delle uova, quasi 100 volte nel caso del pollo di 5-6 mesi.
E’ ormai evidente, anche se si sta facendo l’impossibile per occultare la verità, che siamo in presenza di un gravissimo inquinamento da diossine che fa registrare un salto di qualità alla già drammatica situazione bresciana. Come è clamorosamente evidente che le stesse autorità non sanno come affrontare il problema.
Informare i cittadini ed insieme immaginare un grande progetto di riscatto
Eppure non è più possibile immaginare una ulteriore rimozione. Va rapidamente quindi completata la conoscenza, accompagnandola con l’informazione di tutti i lavoratori, innanzitutto, e dei cittadini più direttamente coinvolti.
Nei confronti dei lavoratori, attuali ed ex, il sindacato ha innanzitutto un dovere di informazione ed attivazione di una collaborazione partecipata e cosciente all’indagine epidemiologica che li dovesse riguardare. E’ un’opera di giustizia nei loro confronti, un riconoscimento del tributo di sacrifici e sofferenze che intere generazioni di operai hanno pagato al progresso, vittime spesso inconsapevoli della tecnica.
Complesso e delicato è il tema del rapporto con i cittadini, anche perché, mentre si prospetta una realtà di grave e diffuso inquinamento bisogna cercare di offrire anche soluzioni. Tuttavia, con la cautela e l’accortezza necessarie, la situazione reale va illustrata e discussa con i cittadini delle circoscrizioni maggiormente coinvolte, presentando con trasparenza ed onestà la complessità del problema, ed attivando un confronto con i tecnici sia su eventuali provvedimenti cautelativi d’emergenza, sia sulle diverse ipotesi praticabili di bonifica. Invece, dopo oltre 3 mesi dall’esplosione del caso (ma il disastro ambientale è vecchio di decenni e nessuno se n’è curato), nessuna autorità ha ancora incontrato la cittadinanza, nessuno ha spiegato qua è la situazione reale, come ci si debba comportare. La comunicazione avviene con conferenze stampa di cadenza mensile, reticenti, in cui si dicono mezze verità, in cui la preoccupazione principale è quella di minimizzare ed occultare, quando è possibile, la verità (ad esempio si è detto che il latte contaminato non era commercializzato perché destinato all’autoconsumo, ma non si è detto che la carne contaminata era da sempre commercializzata!).
Ma c’è una ragione per cui si tende ad occultare il grave inquinamento di Brescia ed è legata al business dei rifiuti. Brescia, dimostrando in questo una grande continuità con il passato, ha collocato nella seconda metà degli anni Novanta, proprio a sud della Caffaro, il più grande inceneritore d’Italia che vomita, a partire dal 1998, ogni anno circa 20 milligrammi di diossine (i cui livelli di concentrazione limite nei terreni sono misurati in 10 nanogrammi/kg, cioè milionesimi di milligrammo) e circa 60.000 milligrammi di PCB (i cui livelli di concentrazione limite nei terreni si misurano in 1 microgrammo/kg, cioè millesimi di milligrammo), destinati ad accumularsi su un’area che in diversi punti presenta per questi tossici particolarmente insidiosi livelli di inquinamento già ora ampiamente al di sopra della norma (l’area circostante l’inceneritore presenta una contaminazione media nel suolo di PCB pari a 67 microgrammi/kg, mentre il limite di legge è 1 microgrammo/kg!). In quella situazione di inquinamento in cui si trova, può Brescia permettersi il lusso di importare centinaia di tonnellate di rifiuti da bruciare in una centrale termoelettrica che insiste sullo stesso territorio già disastrosamente contaminato, al solo scopo di realizzare miliardi di profitto?
E’ evidente che, a questo punto, la riflessione non può non investire le prospettive della società bresciana e la sua capacità (volontà?) di riconciliarsi con il proprio territorio e con le sue componenti più vitali, la sua storia e la sua cultura, ma anche l’ambiente naturale, e quindi di delineare uno sviluppo che sappia assicurare un futuro confortevole a noi e alle generazioni che seguiranno.
In questo senso Brescia può diventare un laboratorio di straordinario interesse: si tratta di mettere all’opera competenze scientifiche, tecnologie avanzate, idee creative per un grande progetto che abbia l’ambizione di proiettarsi davvero nel Duemila, lasciandosi alle spalle quell’industrialismo distruttivo e dissennato che ha prodotto l’attuale crisi ecologica. Si tratta innanzitutto di elaborare ed applicare tecniche innovative capaci di realizzare un’opera gigantesca di risanamento e bonifica ambientale; e poi inventare idee, progetti, modalità inedite per restituire alla popolazione un territorio vivibile e godibile, dove non solo quella brutta ferita ecologica sia rimarginata, ma si prospetti una diversa convivenza tra attività antropiche ed equilibri naturali, stili di vita e modelli economici davvero capaci di futuro.