L’acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale
Jacques Sironneau, “L’acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale”, Trieste, Asterios,2001
L’acqua è un “fattore limitante” dello sviluppo. Anche in presenza di altri fattori – mano d’opera, capitale, terra, minerali, risorse naturali – la scarsità o la mancanza di acqua impedisce una vita domestica e urbana decente e moderna, l’agricoltura, attività manifatturiere, turismo.
Benché apparentemente l’acqua sia una risorsa rinnovabile, le cui riserve sono continuamente reintegrate attraverso il grande ciclo naturale dell’acqua, in molte zone della Terra l’acqua è scarsa; in altre l’acqua è disponibile, o anche abbondante, ma la qualità delle riserve viene continuamente peggiorata dagli inquinamenti e la disponibilità di acqua dolce di buona qualità si fa sempre più scarsa.
L’utilizzazione delle risorse di acqua dolce – dei fiumi e del sottosuolo – a fini umani è possibile soltanto attraverso un progetto di solidarietà: occorre che molte persone lavorino insieme per sollevare acqua dai pozzi, per trasportarla spesso a grandi distanze; regioni e stati devono collaborare per regolare il flusso dei fiumi ed evitare le alluvioni; e devono accettare regole comuni per diminuire l’inquinamento che “distrugge” una parte dell’acqua adatta a fini umani.
L’acqua è presente sulla Terra in quantità grandissime: 1.400 milioni di miliardi di metri cubi; peraltro le acque dolci, cioè a basso contenuto salino, le uniche utilizzabili per la maggior parte delle forme di vita vegetale e animale del pianeta e per le attività umane, sono presenti nel sottosuolo in quantità di appena 11 milioni di miliardi di metri cubi e nei fiumi e nei laghi per appena 150.000 miliardi di metri cubi. Questa acqua dolce è reintegrata dalle piogge in quantità ancora più piccola, appena 40.000 miliardi di metri cubi all’anno.
L’aumento della popolazione terrestre e l’aumento del livello di vita e della produzione agricola e industriale, pur così diversi da luogo a luogo, comportano crescenti prelevamenti di acqua dolce dalle falde sotterranee e dai fiumi e laghi: quando le riserve vicine o locali non bastano, le comunità umane hanno bisogno di “importare” acqua da zone lontane, sottraendola ad altre comunità e ad altri usi; nello stesso tempo le attività agricole e urbane e industriali generano crescenti quantità di scorie e rifiuti che vengono immessi nei fiumi, nei laghi e sul suolo e che peggiorano la qualità delle acque contenute nelle riserve da cui vengono estratte crescenti quantità di acqua. Alcune comunità umane esercitano così una forma di violenza nei confronti di altri esseri umani: più domanda di acqua, peggioramento della qualità, meno acqua disponibile, più richiesta di altra acqua, sottratta ad altri.
Oggi la conquista dell’acqua avviene in forma di conflitti e guerre sanguinose soltanto in alcune zone del pianeta: se si va avanti di questo passo tali conflitti saranno più diffusi e violenti di quelli che oggi caratterizzano la conquista di altre risorse naturali essenziali come petrolio, minerali, diamanti, cromo, tungsteno, legname, eccetera.
Un quadro della violenza associata allo sfruttamento e alla conquista dell’acqua è offerto dal libro del francese Jacques Sironneau, giurista, funzionario del ministero dell’ambiente francese, intitolato: “L’acqua. Nuovo obiettivo strategico mondiale”.
Come è possibile, nel mondo, ma anche in Italia, abbassare il grado di violenza associato alla scarsità fisica dell’acqua ? Prima di tutto attraverso una crescita, nelle scuole, nelle università, nei partiti politici, nelle chiese, della cultura dell’acqua, del suo ciclo, del suo uso. Sarebbe così possibile costatare che, mentre i cittadini dei paesi industrializzati sprecano acqua per annaffiare i giardini, i tre quarti della popolazione mondiale deve andare a raccogliere a grande distanza la poca acqua disponibile, spesso contaminata, per la propria alimentazione. In ciascun paese quanta acqua viene usata ? da chi ? per fare che cosa ? come viene usata l’acqua? Come uso “io” l’acqua ? potrei usarla diversamente ?
Per riconoscere quali usi sono essenziali e quali superflui si può ricorrere ad indicatori del valore dell’acqua, legati alla sua scarsità. Si può per esempio parlare di un “costo in acqua” di un bene o di un servizio, espresso in termini fisici,”naturali”, come litri di acqua necessaria per fare una doccia, per produrre una tonnellata di grano o di patate o per allevare un maiale, per fabbricare un chilogrammo di zucchero o di acciaio. “Varrà”, così, di più una merce o un servizio che hanno richiesto “meno” acqua per unità di utilità umana prodotta, indipendentemente dal prezzo monetario che non fornisce alcuna informazione sulla scarsità, sulla violenza, sugli effetti sulle generazioni future.
Un’altra forma di violenza è rappresentata dagli inquinamenti provenienti dalle attività di produzione delle merci e di uso delle merci; essi rappresentano una vera e propria forma di distruzione dell’acqua; piccole quantità di agenti altamente tossici (per esempio i metalli velenosi o i pesticidi) dispersi nei fiumi o nel suolo e da qui nelle falde idriche sotterranee, possono contaminare, e quindi rendere inutilizzabili a fini umani, grandissime riserve di acqua.
Anche in questo caso la lotta alla violenza degli inquinamenti richiede, prima che soldi o depuratori, la consapevolezza culturale che l’acqua usata non scompare e continua nel suo ciclo, addizionata con i residui di cibo, dei processi produttivi, degli escrementi: dove va a finire l’acqua contaminata ? quali persone o popoli saranno danneggiati dalle scorie che un paese ha immesso, più o meno lontano, nell’acqua dei loro fiumi o dei loro laghi ?
Il moto delle acque nel loro ciclo di piogge e nevi e di ritorno nel mare si svolge nel grande scenario, disegnato dalla natura, di valli e fiumi: il fiume è al centro di tale ciclo, momento di unione e solidarietà dei popoli vicini, ma divenuto, purtroppo, nei secoli, territorio di conflitto e di divisione. Il fiume è il punto più facilmente difendibile militarmente contro l’invasione di popoli vicini, il punto in cui è più facile riscuotere le tasse, e quindi in moltissimi paesi il fiume è stato, ed è rimasto ancora oggi, il confine fra paesi e popoli.
Le valli e i fiumi sono stati spezzati in due o più parti dai confini politici e ciascun paese crede di “possedere” un pezzo di fiume o una riva di un fiume, e di poterne fare quello che crede, dal prelievo dell’acqua o della sabbia, alla costruzione di sbarramenti e laghi artificiali, all’uso come ricettacolo dei rifiuti. Tutte le guerre dell’acqua, descritte nel libro di Sironneau, hanno al centro un fiume, quello che invece dovrebbe unire i popoli che abitano lo stesso bacino idrografico, il complesso di valli, fiumi, affluenti e laghi che confluiscono poi alla fine nel mare, l’unica vera “unità” politica e amministrativa per una corretta gestione delle acque. Se fosse possibile ridisegnare, in termini di solidarietà, i confini degli stati bisognerebbe far coincidere i confini politici con quelli, ben definiti geograficamente ed ecologicamente, dei bacini idrografici. A rigore non esistono i popoli della Svizzera, della Germania o della Francia, ma esiste il popolo del bacino del Reno. Così come esistono i popoli del bacino del Danubio, del bacino del Mississippi, del bacino del Fiume Azzurro, o del Gange, o del Rio delle Amazzoni.
Bisognerebbe imparare (e insegnare) a “leggere” sulla carta geografica prima i fiumi e poi i confini amministrativi e sviluppare un senso di “appartenenza” non tanto ad un paese, ma ad un fiume, ad un bacino idrografico Solo così le opere di captazione e di trasporto dell’acqua da un territorio all’altro potrebbe passare dall’attuale situazione di furto ad una situazione di scambio solidale.
Tanto più che è nell’ambito di ciascun bacino idrografico che le acque, nel loro moto lungo le valli verso i fiumi e il mare, provocano fenomeni di erosione del suolo, la causa prima delle frane e delle alluvioni, governano i profili delle spiagge e delle coste. Questa violenza può essere limitata o arginata mediante opportune scelte nella localizzazione delle strade e degli edifici, nella difesa e ricostruzione della copertura vegetale, degli alberi e della macchia che trattengono le acque nel loro moto sulla superficie del suolo.
Una possibile strada per aumentare l’acqua in molte zone della Terra consiste nella dissalazione dell’acqua di mare. Nel 2000 nel mondo sono stati ottenuti dal mare circa 8 miliardi di metri cubi di acqua dolce (altri 3 sono stati prodotti per dissalazione delle acque salmastre). I processi di dissalazione richiedono energia, ma possono usare anche calore di rifiuto di altre attività ed hanno il vantaggio, rispetto alle altre fonti di approvvigionamento idrico, che forniscono “nuova” acqua dolce, “fabbricata” dal mare, senza intaccare le riserve di acqua dolce esistenti. Sono in corso continui progressi nelle tecniche di dissalazione, con dispositivi adatti anche a piccole comunità isolate e assetate.
La scarsità di acqua può essere sconfitta, insomma, solo attraverso un uso pianificato delle risorse naturali: dalla difesa dei boschi alla limitazione degli sprechi, alla regolazione del corso dei fiumi, alla lotta all’inquinamento – al coraggio di “dire no” alle azioni motivata dall’avidità del profitto di individui, gruppi economici, paesi, contro l’acqua, vita e diritto di altre persone o popoli. Ciò richiede regole e accordi internazionali, ma essi non saranno possibili, né rispettati, se manca una cultura che sia politica ed ecologica insieme.
Ha ragione l’autore del libro prima ricordato a parlare della necessità di una “idropolitica”, di accordi internazionali; ha ragione il grande movimento che in queste stesse settimane riunisce tante persone, nel mondo, per un grande “patto di solidarietà” per l’acqua. Ma viene da chiedersi se tale patto sia attuabile in un mondo dominato dalla legge del profitto capitalistico la quale impone di produrre più merci, di vendere più raccolti, di moltiplicare le città e gli sprechi dei consumi, perché di essi è fatto il PIL, impone di portare via più acqua a chi ce l’ha, di sfruttare il suolo, di evitare i costi imposti da una revisione delle apparecchiature che distribuiscono e usano acqua, che depurano le acque usate.
Intorno all’acqua sono così esplose e esploderanno le contraddizioni fra le malattie del Nord del mondo, dovute all’egoismo e agli sprechi dei paesi ricchi, e le malattie del Sud del mondo, la povertà e la sete. Il coraggio e la solidarietà possono essere l’unica efficace cura per le malattie di tutti e due.
Il Nord e il Sud, nei confronti dell’acqua, non sono solo quelli dei paesi industrializzati, in genere ricchi di risorse idriche, e quelli arretrati, spesso poveri di acqua; le contraddizioni e le violenze sono presenti anche in Italia dove l’acqua si manifesta, a volta a volta, come causa di rallentamento dello sviluppo civile ed economico o come forza devastante del territorio.
Si potrebbe scrivere una storia dell’Italia basata sulla sete e sulle alluvioni e sui tentativi dei governi, dall’Unità in avanti, per affrontare e risolvere tali contraddizioni.
Sul territorio italiano cadono ogni anno circa 300.000 milioni di metri cubi di acqua; di questi circa 150.000 milioni scorrono sulla superficie del suolo dalle montagne e colline verso i fondo valle e verso il mare, portandosi dietro, in tale moto, tutto quello che trovano sospeso o disciolto nel suolo e nel sottosuolo. A seconda delle stagioni e del clima locale, il flusso delle acque è lento o rapido e violento e, a seconda dello stato delle valli e dei fiumi, l’acqua riesce a raggiungere il mare oppure supera le sponde e gli argini e allaga le pianure, le case, i campi.
Il corso dei fiumi è cambiato col tempo, a seconda delle sostanze trasportate in sospensione dai fiumi, a seconda dell’uso antropico delle zone circostanti; la natura, quando il disturbo umano è rimasto limitato, ha disegnato e ridisegnato, a seconda delle sue leggi fisiche, le pianure, lasciando intorno ai fiumi le zone più ricche e fertili e comode e appetibili per insediamenti umani.
Gli antichi principi sapevano che la natura doveva essere lasciata in pace e hanno fissato come propria proprietà, come demanio, le zone in cui era prevedibile l’espansione dei fiumi in piena, quelle comprese fra gli argini, vietandone l’occupazione. Col passare del tempo, e con la scomparsa dei principi, le zone golenali demaniali sono state privatizzate o lasciate alle costruzioni di strade, edifici, campi, con la conseguenza che ogni volta che aumentava il flusso delle acque queste allagavano le zone circostanti. Del tutto inosservata è rimasta la “legge Galasso” che stabiliva limiti di inedificabilità intorno ai laghi e ai fiumi e lungo le rive del mare, al fine di assicurare alle acque di piena uno spazio in cui potessero espandersi senza incontrare ostacoli posti dagli, e senza arrecare danno agli, abitanti.
Tutte le leggi, fin dall’unità d’Italia hanno sempre stabilito che le acque sono pubbliche – un concetto ribadito ancora una volta con fermezza dalla legge “trentasei” del 1994; ma l’acqua, lo si è visto, è troppo preziosa per frenare l’avidità di chi, con opportune concessioni, se ne appropria a fini speculativi e di profitto
La situazione di usi e sprechi in Italia è illustrata da un recente volume: “Un futuro per l’acqua in Italia”, pubblicato nel 1999, come “Quaderno 109” dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e in moltissimi altri libri fra i cui autori citerò la prof. Teresa Isenburg dell’Università di Firenze, il prof. Ugo Leone dell’Università di Napoli.
Dei 150 mila milioni di metri cubi “disponibili” ogni anno in Italia come deflusso (questo, come i successivi numeri relativi ai “consumi” di acqua, sono stime a-occhio-e-croce, a causa della povertà dei rilevamenti e delle elaborazioni statistiche di questa, come di molte altre risorse naturali e ambientali italiane), l’agricoltura, grazie a innumerevoli consorzi, riesce ad ottenere per pochi centesimi (di lira, non di euro) al metro cubo 20-25 mila milioni di metri cubi di acqua ogni anno; passando attraverso l’agricoltura l’acqua in parte evapora e in parte si “arricchisce” – si fa per dire – dei sali dei concimi, dei pesticidi, di residui organici.
Altri circa 15 mila milioni di metri cubi di acqua ogni anno vengono prelevati e usati dalle industrie per i propri cicli produttivi, per il raffreddamento degli impianti; infine di altri 10-12 mila milioni di metri cubi di acqua si appropriano le moltissime “aziende” acquedottistiche che, dopo averne perso un terzo per inefficienze e difetti delle reti di distribuzione, vendono il resto a prezzi variabili fra mille e tremila lire al metro cubo alle famiglie e alle comunità urbane. La legge del 1994 stabilisce che le aziende distributrici di acqua devono applicare tariffe che coprano i prezzi di gestione, per cui dove l’acqua è scarsa e costosa da reperire e distribuire, come nel Mezzogiorno, l’acqua costa di più rispetto al Nord, brillante esempio di politica meridionalistica!
A riprova della sconsiderata politica italiana dell’acqua va detto che circa dieci milioni di metri cubi (in continuo aumento ogni anno) di acque “pubbliche” vengono concessi alle aziende imbottigliatrici private che le vendono a un prezzo fra 150 e 300 mila lire al metro cubo (cento volte di più dell’acqua per usi civili che lo stato dovrebbe assicurare pulita e sicura a tutti i cittadini e allo stesso prezzo in tutta Italia).
Ma c’è di peggio: si diceva prima che l’unica maniera per una corretta gestione delle acque (pubbliche, a parole) e delle conseguenti interazioni fra acque, suolo e attività umane, consiste nell’amministrazione delle acque nell’ambito dei bacini idrografici. Ma anche in Italia, come in molti altri paesi, le vicende storiche hanno lasciato confini amministrativi tali che i bacini dei fiumi e torrenti ricadono in genere nel territorio di – “appartengono” a – differenti regioni, ciascuna delle quali fa una propria politica di uso e concessioni, di opere idrauliche e licenze edilizie.
Il bacino idrografico del Po e dei suoi affluenti “appartiene” a sei regioni; i confini amministrativi regionali tagliano trasversalmente importanti bacini idrografici come quello del Tevere (spartito fra Toscana, Umbria e Lazio), quello dell’Ofanto (fra Campania, Basilicata e Puglia), eccetera.
Nel 1989 il Parlamento, dopo lungo dibattito, approvò una legge, la 183, che stabiliva l’istituzione di autorità e organi di “bacino idrografico” che avrebbero dovuto coordinare prelievi, azioni di difesa del suolo, azioni contro l’inquinamento, perfino i piani regolatori delle amministrazioni nel cui territorio cadevano i vari pezzi di ciascun bacino.
Figurarsi! Dopo alcuni anni si sono moltiplicate le autorità di bacino, con rispettivi presidenti, segretari, funzionari, uffici, tutti uniti per disturbare il meno possibile le avidità e gli egoismi delle regioni e delle amministrazioni locali – in violazione dello spirito e del contenuto della legge. Le devastanti alluvioni e frane degli ultimi dieci anni sono avvenute e si sono aggravate, fra l’altro, proprio per il fallimento e la violazione di una delle poche leggi dello stato che proponeva coordinamento e pianificazione di interventi, nel nome cella sicurezza delle vite e delle attività umane, e della difesa delle risorse naturali.
Così come la crescente passione di liberalizzazione e di espansione dei consumi e degli sprechi e di difesa degli interessi degli affari ha impedito l’attuazione di iniziative, pure altrettanto importanti, come le politiche di risparmio, e di limitazione dei consumi, dell’acqua, una attenta politica di lotta all’inquinamento.
Altro che la geopolitica planetaria di cui parla Sironneau ! In Italia non è mai neanche cominciata una politica unitaria dell’acqua e del suolo: una tale politica dovrebbe partire dal rispetto delle leggi esistenti, anche se toccano potenti interessi agricoli, industriali, degli imbottigliatori, delle aziende acquedottistiche, delle amministrazioni locali. Non si è fatto nessun passo in questa direzione neanche nella breve stagione dei governi di centro sinistra: figurarsi adesso ! Eppure la diffusione di una cultura di geopolitica dell’acqua non è un capriccio da ecologisti: è una impresa di minimo buongoverno e di rispetto della vita e dei beni materiali – di diritti fondamentali – della collettività nazionale. Per inciso è l’unica seria condizione per aumentare davvero il benessere economico e l’occupazione, per fare passi avanti nell’innovazione tecnico-scientifica, per riscattare il Mezzogiorno dalle sue condizioni di sottosviluppo: non a caso all’acqua guarda con attenzione e dell’acqua si appropria la criminalità organizzata che ben sa che la sconfitta della sete è l’unica strada di riscatto civile e sociale del Mezzogiorno.