L’acquedotto pugliese a Genova
1-Introduzione
Della Società Ercole Antico non sono rimaste che poche tracce nella storia dell’economia ligure. Così anche per la principale opera nella quale fu coinvolta: la costruzione dell’Acquedotto pugliese nei primi due decenni del secolo ventesimo. Eppure è proprio a Genova che nasce l’impresa e sono imprenditori e uomini d’affari genovesi ad animare la costruzione dell’A.P. Per lo meno nella fase iniziale, che gettò le basi della poderosa infrastruttura, costruendone le parti principali, portandone a compimento i primi tratti.
Guardando alle principali opere di storia dell’economia solo in Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della Prima Guerra Mondiale di Giorgio Doria troviamo menzione della vicenda, un libro uscito nel 1973((G. Doria, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Milano, Edizioni Pantarei, 2008.)). All’A.P. è poi dedicato un capitolo del libro dedicato a Bombrini nella Collana di Biografie Storiche “I Grandi Liguri”, scritto da A. Rota e pubblicato nel 1951 ((A. Rota, Bomrini, Editore Cerretti, Genova 1951. Ad esempio non troviamo nessuna traccia della Società Ercole Antico e dell’ Acquedotto pugliese in G. Giacchero, Genova e la Liguria nell’età contemporanea, Genova-Imperia,Cassa di Risparmio Genova, 1970; nella Storia dell’Ansaldo Autori vari, pubblicata negli anni in più volumi dall’editore Laterza; in E. Gazzo I cent’anni dell’Ansaldo, Genova, Sigla Effe, 1953; nel volume Liguria uscito nella collana Storia d’Italia, Le Regioni, Torino, Einaudi, 1994. All’interno di quest’ultimo, nel saggio di P. Rugafiori sugli imprenditori liguri, l’autore lamenta la mancanza di uno studio storico complessivo sulla famiglia Bombrini.)).
Nell’ archivio della Fondazione Ansaldo, che raccoglie i fondi relativi a imprese e dirigenti liguri, ed in particolare quelli Ansaldo e Ilva, non troviamo che pochi documenti relativi alla costruzione dell’A.P. e la quasi totalità si trovano nel piccolo fondo Bombrini, solo recentemente acquisito. Tre documenti si trovano all’interno del fondo Perrone: una «Richiesta di preventivo per la costruzione di quattro bettoline» del 1912; un «Bollettino rapporto lavori del marzo 1919»; una lettera dell’Avv. Lorenzo Bozzo di Genova a Mario Perrone circa la causa Acquedotto pugliese del 1917. Nel Fondo Bombrini troviamo invece conservati diversi opuscoli, molto utili per ricostruire la storia della costruzione dell’A.P., lettere, bilanci patrimoniali e altri documenti attinenti la vicenda((Ringrazio Alessandro Lombardo e Maura Micheli della Fondazione Ansaldo di Genova per la loro disponibilità e per il concreto aiuto nella ricerca dei documenti.)).
2-Il capitale genovese in meridione e la società Ercole Antico
Nell’opera di G. Doria troviamo diversi riferimenti alla Società Ercole Antico e all’Acquedotto pugliese. L’autore non si diffonde sulla costruzione, ma traccia un quadro delle premesse molto importante per comprendere le successive vicende legate alla realizzazione dell’opera. La spinta verso una cospicua ondata di investimenti di capitale genovese verso il meridione, viene posta in relazione a due processi distinti, presi in considerazione in differenti capitoli. In primo luogo alla creazione di un forte tessuto di imprese metallurgiche, al suo consolidarsi ed espandersi nell’ultimo decennio del’800. Un “impero del ferro”, scrive Doria, in grande parte in mano a famiglie genovesi, che assicurava sbocchi certi a quanto prodotto con il controllo di vari tipi di imprese. Di qui l’interesse per le iniziative nel campo dei pubblici servizi del meridione: acquedotti, ferrovie, energia elettrica.
“In sostanza, accanto a industriali di altre città, fra i quali primeggiava Giuseppe Orlando di Livorno, il gruppo più potente di questo gigantesco impero era rappresentato da cinque famiglie di industriali genovesi: Tassara, Bombrini, Raggio, Piaggio, Odero. Ognuna di esse controllava tre tipi di imprese: quelle che producevano ferro, ghisa e acciaio; quelle che tali metalli «consumavano» per fabbricare macchine, caldaie, automobili, materiale rotabile per le ferrovie, navi, carpenteria metallica, ecc.; quelle che adoperavano tali prodotti, come le compagnie di navigazione e le società che costruivano impianti elettrici e acquedottistici nel meridione” ((G. Doria, op.cit,, vol II, pag 208-209..)).
Negli esempi proposti lo storico genovese cita la Società Ercole Antico, controllata dai Bombrini, e la Società ligure pugliese per l’esercizio di imprese elettriche, controllata dai Tassara. Ricorda inoltre che la relazione tra l’impresa che aveva in appalto i lavori dell’Acquedotto pugliese ed il trust siderurgico vennero rilevati anche allora, in analisi e studi dei contemporanei.
Il secondo riferimento di Doria alla costruzione dell’acquedotto pugliese, avviene all’interno di un capitolo sul capitale genovese e gli investimenti nel mezzogiorno e articola la precedente spiegazione apportando un nuovo elemento. Una cospicua ondata di investimenti degli imprenditori liguri si orientò verso il sud per la presenza delle”leggi meridionaliste”, volte ad agevolarne lo sviluppo e, soprattutto, per la capacità nell’interpretarle a loro favore.
«Tutto trae origine da una serie di provvedimenti legislativi emanati tra il 1902 e il 1906 a favore delle zone depresse del paese. Tali leggi assicuravano contributi specifici di pubblico denaro per la costruzione dell’acquedotto pugliese e di linee ferroviarie, creavano una zona franca industriale a Napoli e concedevano esenzioni fiscali agli stabilimenti che si fossero istallati nelle regioni interessate del meridione, delle isole, delle Marche, del Lazio e dell’Umbria, estendendo il beneficio anche a quegli opifici già esistenti che fossero ampliati o comunque potenziati. Non era forse molto; era comunque una situazione di privilegio concessa dallo stato e i genovesi non se la lasciarono sfuggire» ((G. Doria, op. cit. pag 496-497.)).
La parte più consistente di capitali venne investita nella costruzione di un nuovo grande centro siderurgico a Napoli. A questo scopo nel 1905 si costituì a Genova la società Ilva. Tuttavia la possibilità di integrare i cicli produttivi attraverso il controllo incrociato di più imprese orientò una parte delle iniziative nel campo della costruzione di infrastrutture idriche, ferroviarie, elettriche. Nel 1905 la ditta genovese Ercole Antico e Soci si aggiudica l’appalto per la costruzione dell’Acquedotto pugliese, aprendo la strada al proliferare di nuove iniziative imprenditoriali e società. Giovanni Bombrini (1838-1924), Senatore del Regno, oltre alla Società Concessionaria dell’Acquedotto pugliese, controllava la Società Industriale Italiana, la Società Anonima per le Ferrovie Salentine ((Giovanni Bombrini, Genova 1838-1924. Imprenditore e politico italiano. Senatore del Regno d’Italia nella XVII legislatura. Nel 1912, assieme a Leopoldo Parodi Delfino, fondò a Colleferro la BPD, azienda della chimica e della difesa, che contribuì in maniera sostanziale allo sviluppo della cittadina e di buona parte della zona meridionale della provincia di Roma.)). In queste imprese aveva investito i capitali derivati dalla cessione dell’Ansaldo ai Perrone nel 1903. Con quote di capitali minori, erano interessati alla Ercole Antico «industriali siderurgici come Tassara e Bruzzo, banchieri come Cataldi, finanzieri interessati in più imprese come Raggio, Piaggio e Bauer, industriali zuccherieri e molitori, come Schiaffino e Bozzano»((G. Doria, op. cit. pag. 498. Per un quadro complessivo si veda l’intero capitolo «Investimenti nel meridione e in Libia»: nel giro di pochi anni i capitali genovesi investiti nel mezzogiorno raggiunsero la quota di 130 milioni di lire. Quelli indirizzati verso le società di pubblici servizi dai circa 12 milioni del 1905 passarono ai 20 milioni del 1914.)). In qualità di fornitrici, ad esempio, parteciparono alla costruzione dell’acquedotto la Società Anonima Eternit Pietre, controllata dall’Eridania e dalla Aedes, la grande Holding immobiliare genovese; la Savoia Parlmer’s fondata in quegli anni e controllata dalle famiglie Bombrini e Cataldi ((Vedi Luigi Masella, Acquedotto pugliese, Milano, Franco Angeli 1995. Antonio Bavusi, «La grande sete», p. 139, in Basilicata Regione Notizie; «Nasce l’acquedotto del Sele», pag. 26-27, Tesi di Laurea di Ciracì Giancarlo, 2005.)).
La società che doveva aggiudicarsi i lavori di costruzione dell’acquedotto, nacque il 19 marzo 1904 come Ditta Ercole Antico e Soci, con sede a Genova e il modesto capitale di 1.515.000 lire. Tre mesi dopo la vittoria nella gara d’appalto si trasforma in Società Anonima Ercole Antico, concessionaria dell’Acquedotto Pugliese, aumenta il proprio capitale a 15 milioni di lire e trasferisce la sua sede a Roma ((La conversione dell’accomandita in anonima rispondeva all’esigenza di agevolare l’accesso di capitali affluenti sul mercato finanziario. Vedi G. Giacchero, op. cit. pag. 439-440.)). Tra le ragioni sociali dell’impresa troviamo lavori di escavazione portuale, bonifiche di paludi e terreni, costruzione e manutenzioni di impianti e infrastrutture idriche. Come ricorda A. Bavusi, la denominazione Ercole Antico non era un richiamo alla mitologia di fronte alla opera titanica che si apprestava a compiere la società, ma il nome di un «distinto industriale di Udine, con la passione per la caccia»((A. Bavusi, op. cit. pag. 139.)). Oltre ad essere fondatore e socio della società concessionaria per l’acquedotto, era proprietario di miniere di piombo e lignesite in Sardegna, dove aveva creato Antigoti, nelle vicinanze di Sarroch, uno stabilimento che produceva polvere da sparo a partire dalle materie prime estratte (( Vedi «Il Torrino di viale Diaz», in L’Unione Sarda, Domenica, 19 maggio 2002, pag. 15.)). La neo costituita Società Ercole Antico non possedeva quindi nessuna esperienza specifica per la costruzione di una opera colossale come l’Acquedotto pugliese e il capitale di cui disponeva era molto limitato. Aspetti che verranno presi in considerazione criticamente durante la costruzione dell’infrastruttura, di fronte ai ritardi nell’esecuzione dei lavori, e all’atteggiamento della ditta.
3-L’acquedotto più grande del mondo
Osservata a partire dagli investimenti e dallo sviluppo dell’economia ligure la costruzione dell’Acquedotto pugliese appare innanzitutto come un tassello di una più ampia strategia. È tuttavia facile ipotizzare che Giovanni Bombrini, l’artefice dell’operazione, fosse perfettamente a conoscenza delle particolari attese legate alla riuscita del progetto. Le vicende dell’acquedotto avevano assunto a partire dall’ultimo decennio dell’800 una dimensione nazionale, grazie all’intervento di diversi leader politici che si erano fatti carico del problema, portandolo davanti al parlamento. Il 4 giugno 1889 Matteo Renato Imbriani, da pochi mesi eletto deputato nella Provincia di Bari, presentò alla camera il primo progetto di legge per l’Acquedotto pugliese. Così scriveva nella breve premessa:
« Le provincie di Puglia difettano assolutamente di acqua potabile. È per esse questione di pura necessità. Trattasi della principale opera di risanamento di una intera regione – che pur tanto contribuisce ai pubblici pesi – per le molteplici industrie e per l’importanza della produzione agraria. È questione di giustizia. La rappresentanza nazionale lo sente e lo comprende» ((Citato in M. Viterbo, La puglia e il suo acquedotto, Roma-Bari, Laterza 2010, p. 112. Rimando al testo di Viterbo per una complessiva descrizione degli eventi e della figura del grande uomo politico pugliese.)).
La proposta non venne nemmeno presa in considerazione dal governo, presieduto da F. Crispi, ma l’anno successivo, sempre per iniziativa di Imbriani, venne articolato un nuovo e più organico disegno di legge. Anche il secondo progetto era destinato a fallire ma il problema dell’acquedotto era finalmente approdato in parlamento, di fronte al governo, assumendo una dimensione nazionale, nello stesso anno in cui Giovanni Bombrini venne nominato Senatore del Regno d’Italia. L’acqua in Puglia era insufficiente in tutte le sue molteplici funzioni: come acqua potabile, per soddisfare la sete; uso domestico; l’igiene personale e pubblica; ma anche per l’irrigazione dei campi, gli usi industriali. La cronica carenza era causa di epidemie portate da infezioni, disastri umanitari, oltre che dalla quotidiana privazione. Le conseguenze sociali erano altrettanto forti, per la difficoltà che frapponeva allo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria, costringendo quote consistenti della popolazione a emigrare.
La modernizzazione industriale, l’urbanizzazione, rendeva questa carenza sempre più problematica, anche perché aumentava la consapevolezza del problema, della possibilità di una soluzione. Nel corso di un lungo dibattito che si era sviluppato nella seconda metà dell’800, la soluzione che infine si affermò fu quella di derivare le acque per la Puglia dalle sorgenti di Caposele, situate in territorio campano, sulle pendici occidentali dell’Appennino. La portata del fiume Sele, eventualmente integrata con le acque di fonti limitrofe, apparve l’unica capace di assicurare un approvvigionamento adeguato ai bisogni pugliesi. Il primo progetto che contemplava una soluzione organica di questo tipo venne presentato dall’Ingegnere del Genio Civile Camillo Rosalba, nel 1867-68. Stupisce fino a un certo punto sapere che il pioneristico disegno fosse accolto con grande scetticismo e quindi accantonato, perché troppo ambizioso. Si trattava di costruire l’acquedotto più lungo del mondo, buona parte del quale doveva essere scavato in galleria. I problemi tecnici, organizzativi, finanziari che una opera titanica come quella prospettata da Rosalba chiamava ad affrontare parvero insormontabili ai contemporanei. Soluzioni più limitate e parziali sembravano più realistiche, ed il dibattito tra le varie posizioni, con l’intervento di esperti e di commissioni tecniche si protrasse fino alla fine del secolo.
3.1 La Legge del 1902
Uno degli aspetti più interessanti delle vicende che portarono alla costruzione dell’acquedotto è certamente costituito dalla chiamata in causa dello stato nella realizzazione dell’opera. La proposta di legge di Imbriani, oltre a portare il problema della Puglia all’attenzione nazionale, poneva per la prima volta il concorso delle istituzioni statali al suo compimento. Si trattava di un intervento modesto, previsto in un quinto della spesa occorrente per l’acquedotto. Soprattutto se pensato in relazione alla portata del progetto e degli investimenti richiesti, al suo carattere di servizio eminentemente pubblico. Forti tuttavia apparivano le resistenze ad un intervento diretto dello stato e appaiono comprensibili solo se rapportate agli ideali liberali e liberisti che avevano dominato il secolo XIX.
Dopo estenuanti indugi la legge che doveva disciplinare la costruzione dell’acquedotto in Puglia venne emanata nel 1902. Nel febbraio dello stesso anno anche il Re Vittorio Emanuele III prese posizione a favore dell’infrastruttura, alimentando la speranza negli abitanti della regione della prossimità di una soluzione: «un provvedimento riparatore – disse il Re nel discorso che apriva alla nuova legislatura- giustamente invocato perché diretto a rimuovere le cause che nella regione pugliese scemano salute e vigore all’operosità delle sue genti» ((Citato in M. Viterbo, op. cit. pag. 178)). L’impulso venne dalla elezione a Ministro di Nicola Balenzano, che appena entrato in carica si dedicò alla presentazione del nuovo disegno di legge ((Uomo politico italiano, originario della provincia di Bari, Ministro dei lavori pubblici e poi Senatore del Regno nel 1901)), e grazie all’opera dell’ingegnere Michele Maglietta che lavorò tempestivamente alla revisione del progetto per superare le difficoltà tecniche che ancora gravavano sullo stesso ((Michele Maglietta, direttore dell’Ufficio speciale del Genio civile per la sorveglianza dei lavori e l’esame dei progetti esecutivi.)). La legge venne approvata alla camera ed al senato nel corso del giugno 1902.
«Il costo complessivo dell’opera era previsto in 136 milioni […] di cui 100 a carico dello Stato e 25 delle Provincie. Il pagamento di questo contributo alla Società privata che avrebbe assunto la costruzione, la manutenzione e l’esercizio dell’Acquedotto, doveva farsi in diverse rate, nei limiti delle somme stanziate nei bilanci, però dopo l’ultimazione e il collaudo dell’opera. La Società ne avrebbe tenuto per novant’anni l’esercizio […]. Dal Sele si sarebbero derivati 4 metri cubi di acqua […] Un metro cubo e 700 litri sarebbero stati alla potabilità ed usi civici, e due metri cubi e 300 litri alle irrigazioni o ad uso industriale. L’opera doveva esser compiuta entro i dieci anni successivi» ((M. Viterbo, op. cit. pag. 185-186)).
La legge stabiliva che la concessione sarebbe stata attribuita attraverso un gara internazionale, indetta dallo stesso N. Balenzano, nel 1903. L’appalto tuttavia non venne conferito, perché nessuna impresa si presentò alla competizione. Le ragioni del mancato successo furono immediatamente evidenti, e previste con grande puntualità durante la discussione alla camera della legge di approvazione del progetto. In quella sede l’Onorevole G.A. Pugliese aveva infatti insistito sull’impossibilità di contenere l’opera entro i margini di spesa previsti, e soprattutto sulle condizioni inammissibili imposte alla impresa concessionaria dal provvedimento legislativo:
«La spesa complessiva occorrente per l’Acquedotto deve essere spesa dall’assuntore nello spazio di dieci anni e la dovrà riavere nel corso di novant’anni in questo modo: 50 milioni nel primo decennio nel quale spende 150 milioni, o quasi, e gli altri milioni in seguito. […] quale grande società di capitalisti volete che si formi per tenere immobilizzato in Italia un capitale di 200 milioni per novant’anni?» ((Citato in M. Viterbo, op. cit. pag. 187.)).
Nell’ambito della discussione l’On. Pugliese propose anche delle condizioni che imponevano allo stato l’assunzione della costruzione e dell’esercizio dell’opera direttamente, ma vennero fermamente respinte dal Parlamento. Lo stesso Balenzano non si senti di farle proprie, scrive M. Viterbo, nel timore di fare naufragare l’intero progetto di legge e le possibilità che comunque apriva. Nei circa quindici anni che erano passati dalle proposte di M.R. Imbriani la partecipazione dello stato alle spese per l’Acquedotto si era notevolmente ampliata, arrivando a coprire circa i quattro quinti dell’opera, sebbene fosse subordinato a clausole discutibili. Un risultato comunque notevole.
Una nuova legge del luglio 1904, senza mutare l’impianto della legge fondamentale del 1902, introdusse agevolazioni, riducendo le onerose condizioni che avrebbero gravato sulla impresa concessionaria. Venne bandita la seconda gara internazionale, nello stesso mese, dove si presentarono 12 concorrenti, alcuni dei quali erano grandi gruppi industriali italiani: la Società degli Alti Forni ed Acciaierie di Terni, la Società Anonima Forni e Fonderie di Piombino, ad esempio. La ditta genovese Ercole Antico e Soci fu l’unica a fare una offerta e divenne la concessionaria per la costruzione dell’Acquedotto pugliese. Con il Decreto Ministeriale del 6 agosto 1905, veniva formalizzato l’esito della gara:
«Contratto fra il Ministero dei lavori pubblici e la Società anonima italiana Ercole Antico e soci, concessionaria dell’Acquedotto pugliese, col capitale di L. 15.000.000, versato per L.10.280.250, con sede a Roma, per la concessione della costruzione, manutenzione, riparazioni ordinarie e straordinarie ed esercizio dell’Acquedotto pugliese, a rischio, pericolo e spesa del concessionario, con derivazioni delle acque dalle sorgenti del Sele a Caposele»((Decreto Ministeriale 6 agosto 1905, Fondo Acquedotto Pugliese SpA.)).
Il Decreto, riprendendo quanto stabilito dalla legge del 1902, attribuiva al Consorzio tra lo Stato e le tre Provincie pugliesi poteri di vigilanza e controllo su esecuzione e qualità dei lavori.
Inizia così una nuova fase nella storia dell’Acquedotto, che porterà infine alla sua costruzione, ma che doveva suscitare ancora timori, apprensione, rabbia. Per le difficoltà inerenti all’opera e i ritardi nell’esecuzione del progetto, e soprattutto per le aspettative della popolazione, che crescevano con l’approssimarsi della meta, portando con sè le frustrazioni e le impazienze che la lunga e tormentata attesa inevitabilmente aveva creato.
3.2 La costruzione dell’Acquedotto
Giovanni Bombrini e la società da lui diretta lavorarono all’edificazione dell’Acquedotto pugliese per circa 15 anni, fino a quando, nel 1919, la concessione venne definitivamente revocata. All’epoca la parte più impegnativa dell’infrastruttura era ultimata – l’acqua aveva raggiunto Bari nel 1915 e successivamente altre città e comuni – ma l’opera era lontana dall’essere terminata nel suo complesso. A causare la revoca furono i ritardi nell’esecuzione del progetto, lo stesso motivo che aveva acceso aspre polemiche negli anni della costruzione, animato attacchi contro Bombrini e la società concessionaria. Più pretestuose e prive di fondamento appaiono altre obiezioni, relative alla qualità delle opere e a posteriori sembrano spiegarsi a partire dagli stessi ritardi. Le commissioni che a più riprese furono chiamate a valutare l’esecuzione, non trovarono mai nulla da eccepire sulla adeguatezza del lavoro svolto. I 15 anni in cui Bombrini ebbe in carico la concessione possono essere divisi in tre fasi. Nella prima, a partire dal 1906, con grande lentezza, prendono avvio i lavori di costruzione. Fin da principio si accumularono ritardi, dovuti ad una serie di proroghe chieste dalla Società concessionaria per apportare modifiche ai progetti esecutivi, non ché ai ritardi amministrativi con cui vennero recepiti dalla burocrazia statale. Nel 1910 il Ministero dei Lavori pubblici intimava alla Società con una diffida di adempiere ai lavori secondo quanto prescritto dal contratto. La seconda fase parte con la convenzione Sacchi del 1911 che rivedeva i precedenti accordi a favore della Società, aumentando gli stanziamenti dello Stato. I lavori avanzano celermente, vengono portati a termine i tratti principali della struttura, considerati i più difficoltosi, e l’acquedotto cominciava ad entrare in funzione. Nell’ aprile del 1915 l’acqua giunge a Bari. Gli obbiettivi imposti dalla convenzione tuttavia erano molto più ampi ed ancora una volta non erano stati rispettati i tempi. Il grande evento cadde all’interno di nuove polemiche e attacchi nei confronti di Bombrini, in una situazione aggravata dalla guerra, che imponeva nuove limitazioni, per le difficoltà di approvvigionamento. Inizia quindi l’ultima fase, con nuove diffide, accordi e termini, che porterà alla revoca della concessione, con il passaggio sotto il controllo del Genio Civile della direzione dei lavori. A chiuderla sarà l’uscita di scena della Società Concessionaria per l’Acquedotto pugliese e della famiglia Bombrini. Avverrà formalmente con il Decreto Luogotenenziale dell’aprile del 1919, che trasferiva la gestione dell’esercizio al Consorzio per l’Acquedotto pugliese e la direzione dei lavori al Ministero dei Lavori Pubblici, tramite il Genio Civile. L’opera infatti era lontana dall’essere ultimata.
3.3 Lavoro e tecnica
Descritto molto sommariamente l’acquedotto si può suddividere nelle seguenti parti ed opere:
-La struttura principale, costituita di una canale a pelo libero e completamente praticabile, che si estende dalle sorgenti di Caposele fino a Villa Castelli e poi per un ulteriore tronco fino ad Ordona, in provincia di Foggia, per una lunghezza complessiva di 290 km.
-Le diramazioni secondarie, in condotta forzata, che uniscono l’acquedotto ai vari serbatoi posti in prossimità dei centri abitati, lunghe nel complesso 1540 km.
-Infine le reti urbane di distribuzione dell’acqua nei centri abitati, che misurano circa 800 km.
Per regolare la distribuzione dell’acqua e provvedere le opportune riserve la struttura era provvista di 134 serbatoi, con capacità che variavano da 2.000 a 25.000 metri cubi. Ai centri posti sopra il livello della linea di carico, l’acqua arrivava dopo essere stata sollevata per mezzo di 23 impianti meccanici, alimentati da motori elettrici. L’energia era prodotta da 18 centrali che sfruttano le varie cadute presenti lungo il percorso dell’acquedotto.
Da un punto di vista tecnico la parte più affascinante dell’opera è certamente la struttura principale. Il tracciato seguito dalla Società Concessionaria diminuiva sensibilmente la lunghezza complessiva dell’infrastruttura, ma seguendo percorsi più rettilinei, aumentativa i tratti in galleria e la loro singola estensione. Nei primi 105 km vi sono 35 gallerie di una lunghezza complessiva di 80 km circa, con tre gallerie superiori ai 15 km. Scrive l’Ing. e Prof. Luigi Luiggi in una relazione del 1920:
«La difficoltà più grande dell’opera compiuta, sta nel fatto che tra la sorgente ed il versante adriatico si interpone la grossa e massiccia catena di montagne costituente la parte più elevata dell’Appennino Lucano, con cime prossime ai duemila metri e valichi a circa ottocento metri sul livello del mare. Queste condizioni portano come conseguenza grossi contrafforti montagnosi da traversare con lunghissime gallerie a foro cieco e profondi burroni da valicare o con alti ponti, o con profondi e lunghi sifoni, costituenti tutti difficilissime e costose opere d’arte. […]
È questa la parte più difficile e interessante dell’Acquedotto, e naturalmente quella che diede maggiori preoccupazioni a chi la progettò e a chi la costrusse, anche perché corre per la massima parte in terreni tristemente famosi per le frane – le argille azzurre e le argille scagliose – aggravate persino da emanazione di gas grisou esplodente e di idrogeno solforato, che misero in percolo la vita degli operai.
Non è jattanza il dire che tra Caposele e il Castel del Monte, poco distante dal quale sbocca la grande galleria delle Murge, è scritta una delle pagine più gloriose – e finora poco conosciute dai Tecnici – di storia dell’Ingegneria della Terza Italia; e che coloro che la scrissero sono tutti Ingeneri, Costruttori e Operai Italiani»((«L’Acquedotto delle Puglie», Conferenza dell’Ing. e Prof. Luigi Luiggi, Ispettore Superiore del Genio Civile, Professore di Costruzioni Idrauliche al R. Politecnico di Roma, 1920, in Fondazione Ansaldo, Fondo Bombrini.)).
Tra i tecnici e gli ingegneri coinvolti nell’impresa troviamo, inizialmente, anche quello di Karl Brandau, cui venne affidata la direzione dei lavori di costruzione. Il suo nome era legato alla grande impresa del traforo del Sempione, sul quale allora erano puntati gli occhi di tutto il mondo, aperto nel 1906. La galleria più lunga dell’ acquedotto era quella delle Murge, lunga circa 16 km. Venne scavata con grande celerità, e oltre che agli imbocchi venne attaccata in 5 punti intermedi, scavando altrettanti pozzi, profondi fino a 192 metri, del diametro di 3,40 metri. Fu anche quella più semplice da scavare, con avanzamenti medi di quattro metri al giorno e punte di 10 metri dove il calcare si presentava tenero. La stabilità della roccia non richiedeva la costruzione di armature, permettendo di ritardare il rivestimento e facilitando i lavori di scavo. I trasporti vennero fatti con cavalli e locomotive a benzina. Per la ventilazione vennero utilizzati sei ventilatori aspiratori di 12 HP, con tubazioni di cemento del diametro di m. 0,35. Venne completata in soli tre anni.
Un altro aspetto tecnico su cui si sofferma Luiggi è l’utilizzo di tubolature in cemento armato, e più in generale l’utilizzo di calcestruzzo in cemento. Nella costruzione dell’Acquedotto «fu fatta la più vasta ed importante applicazione delle tubazioni in cemento armato finora tentate». Il vantaggio rispetto alle alternative tubature in ghisa era quello di avere minori costi e una maggiore portata, che tra le altre cose avrebbe permesso di mantenere l’acqua più fresca. Inoltre, scrive l’Ingegnere, i tubi in cemento erano prodotti sul posto da operai del luogo, creando occupazione e denaro. Potendosi fare largo uso di macchine per gli impasti era possibile ottenere un lavoro di ottima qualità, anche con mano d’opera non specializzata, prevalente tra la forza lavoro. Un ulteriore primato dunque, accanto alla lunghezza e alla complessità. Come in tutti gli altri opuscoli dell’epoca, anche in Luiggi troviamo il paragone tra l’Acquedotto pugliese e quelli di Catskill a New York, di Los Angelese, di Coalgardie in Australia, lunghi rispettivamente 144, 378 e 564 km, rispetto ai 1830 di quello italiano. In termini di lavoro il cantiere arrivò ad occupare, nei periodi di massima espansione, dai 22 ai 25 mila operai al giorno, con oltre 60 ingeneri, e più di 400 tra geometri, aiutanti disegnatori e altro personale tecnico. Nel 1915 erano occupati alla sua costruzione 10-15 mila operai ((Vedi Francesco Attolini, «L’Acquedotto pugliese», Nuova Antologia, Roma, 1915, pag. 20; M. Viterbo, op. cit. pag, 217.)). Poche cifre ne restituiscono la dimensione materiale e organizzativa: furono istallati 300 km di rete telefonica, 250 di ferrovia Decauville, 250 di tubazione per la ventilazione delle gallerie, 150 motori elettrici per la perforazione metallica, 40 impianti per la perforazione delle pietre, e costruite 60 case cantoniere, 150 case smontabili, 6 fornaci per mattoni, 25 depositi di dinamite, 300 baracche per lavoratori ripartite in 100 cantieri secondari.
Nei documenti e opere consultate sono molto scarsi riferimenti più precisi alla forza lavoro: provenienza, professionalità, condizioni di lavoro e di vita. Vengono menzionati un incidente avvenuto durante la perforazione della galleria delle Murge, in cui sei operai morirono a causa dello scoppio improvviso di una mina; un lavoratore morto precipitando in un pozzo per la rottura delle corde di un ascensore ((M. Viterbo, op. cit. pag. 217.)). Una tipologia di rischi che caratterizza il mestiere del minatore. Scavare gallerie richiede professionalità, relative soprattutto all’uso dell’esplosivo, alle perforazioni e alla carica della “volata”, alle armature degli scavi. Oltre ad esporre a condizioni ambientali e igieniche molto dure. Secondo M. Viterbo, i relativi saperi erano presenti tra la forza lavoro pugliese perché acquisite con le migrazioni: «avevano costruito all’estero dighe e canali, ponti e ferrovie; avevano dissodato terre e prosciugato paludi per creare la ricchezza altrui; ed ecco che ora davano prova di se nella loro terra e per la loro terra ((M. Viterbo, op. cit. pag. 246.))». Come riportato, L. Luiggi, accenna invece alla forte presenza di manodopera generica, utilizzata nella preparazioni delle condotte in cemento armato.
4-Ritardi e accuse
Nel documento «L’Acquedotto Pugliese innanzi al Parlamento»((«L’Acquedotto Pugliese innanzi al Parlamento», 1916, Società Concessionaria per L’Acquedotto Pugliese; Fondazione Ansaldo, Fondo Bombrini.)), del 1916, la Società Concessionaria espone la cause che negli anni portarono ai ritardi nell’esecuzione dei lavori. Bombrini si trovava nuovamente al centro di durissimi attacchi. Le scadenze imposte dalla Convenzione Sacchi avevano termine proprio nel corso del 1916 e le inadempienze erano evidenti: la Società si era impegnata a fornire acqua entro il 1914 a tutti i comuni baresi, sette foggiani, sette tarantini, oltre a Caposele e quattro comuni Lucani. Entro il 1916 tutta la struttura doveva essere ultimata. Nel 1915 la tratta più difficoltosa del tracciato, il canale principale, era ultimato, l’acqua aveva raggiunto 25 comuni del barese e nell’aprile il capoluogo, ma le diramazioni per le provincie di Foggia e Lecce erano decisamente in ritardo. Il documento preparato per Senatori e Deputati doveva giustificare questo stato di cose, dimostrando l’impegno della Ditta, la sua estraneità ai rallentamenti subiti dal programma. Valse una nuova convenzione, ulteriori proroghe, concesse tra grandi polemiche. Due i punti sui quali si concentra la difesa della Concessionaria: le modifiche apportate al progetto e la guerra. Fin da principio vennero apportate modifiche al progetto Maglietta, tese a migliorarlo dal punto di vista della fattibilità, dell’economicità. Viene ricordato l’enorme sforzo tecnico e organizzativo per prendere in mano il progetto, renderlo esecutivo e le lungaggini delle amministrazioni nel recepimento delle varianti. In particolare, il documento, si concentra sulla modifica del canale principale, ripensato più capiente, con la portata elevata su iniziativa della Società da 4 a 6,3 metri cubi di acqua. Un provvedimento che si rivelò essenziale a soddisfare i successivi consumi di acqua. Inoltre la Convenzione Sacchi, che aveva aumentato gli stanziamenti statali per gli esercizi successivi al 1911, aveva anche aggiunto nuovi comuni da raggiungere, incrementando ancora i costi della Società. La conseguente maggiore esposizione finanziaria della società era la causa delle difficoltà e dei ritardi. Appariva ormai evidente che il preventivo dal quale si era partiti con la legge del 1902 era inadeguato, che d’altra parte era difficile fare una stima precisa di spese per una opera di tale grandezza e complessità i cui lavori dovevano durare tanto a lungo. A dimostrarlo c’era la guerra, che aveva stravolto completamente lo scenario economico. Nella costruzione dell’acquedotto aveva reso impossibili molte forniture: la ghisa, il carbone e il ferro, la materia prima del cemento armato. Le grandi aziende siderurgiche e meccaniche, italiane e straniere, producevano ora per il settore militare, e venivano meno ai loro impegni precedenti. La guerra aveva reso più difficili i trasporti, facendo scomparire i mezzi a trazione animale, rendendo inaffidabili quelli ferroviari e marittimi. Nella relazione vengono citati anche altri avvenimenti, come la guerra libica, il colera, la siccità, le agitazioni provocate dalla stessa. Concludeva quindi la Società:
«Non può essere chi non vegga come il compimento del canale principale costituisca la parte più decisiva dell’opera. Per toccare questa meta risolutiva occorreva superare difficoltà materiali, risolvere problemi scientifici, impiegare capitali ingenti, disporre di una direzione tecnica pienamente illuminata, mettere in opera mezzi eccezionalissimi. […]
Tuttavia, con uno sforzo del quale si dovrebbe tener conto, entro il 1914 era ultimato e collaudato il Canale principale, in Galleria, in Trincea, e su Opere d’arte: le acque del Sele vi furono immesse nel dicembre di quell’anno.
E quest’acqua, in quantità tanto superiore alla prevista, è per qualità igienica ottima come dimostrano le analisi che pubblichiamo tra gli allegati, mantenuta a una temperatura altrettanto eccellente, trasportata, custodita secondo tutti i dettami della scienza.
L’avere ciò condotto a termine da tempo, fra difficoltà superiori a tutte le altre maggiori imprese del genere – basterebbe tener conto della natura geologica dell’Appennino per rendersene conto – costituisce bene la più solida garanzia che la lunga attesa delle Puglie sarà soddisfatta. Il lavoro per compiere le diramazioni è, infatti, tecnicamente e finanziariamente più facile, anzi sicuro, e non esige grande spazio di tempo per essere ultimato»((«L’Acquedotto Pugliese innanzi al Parlamento», Società Concessionaria per L’Acquedotto Pugliese; Fondazione Ansaldo, Fondo Bombrini.)).
Il carattere difensivo del Documento riflette la natura degli attacchi a cui era sottoposta la Società. Uno degli oggetti che ricorre con maggiore frequenza è il problema finanziario, la disponibilità di capitali da investire nella costruzione. Gli stanziamenti dello Stato venivano infatti erogati, come previsto dalla Legge 1902, a posteriori, e non dovevano superare le spese sostenute. L’immobilizzo sarebbe stato ripagato con i proventi dell’esercizio, affidato alla Concessionaria per 90 anni. Una clausola che avrebbe dovuto funzionare da incentivo alla celerità nell’esecuzione dei lavori. Alla Società veniva addebitata una grave carenza di capitali, rilevabile fin da principio, e quindi di procedere nei lavori solo grazie al contributo statale.
Piero Delfino Pesce nella pubblicazione Acquedotto Pugliese. Storia di un carrozzone, accusava Bombrini di avere ordito, a danno dei pugliesi, una grossa speculazione, che rendeva addirittura incerti i benefici attesi dalla costruzione dell’opera ((Piero Delfino Pesce, Acquedotto Pugliese. Storia di un carrozzone, Humanitas, Bari, 1912.)): «La Ditta Antico non ha fatto altro che speculare, per quanto consentivano le sue scarse risorse finanziarie e nei limiti degli stanziamenti governativi» ((Piero Delfino Pesce, op. cit. pag. 39-40.)). La Legge Sacchi del 1911 aveva fornito un ulteriore puntello all’atteggiamento adottato dall’azienda, rendendo più consistenti e facili gli stanziamenti statali. Venivano meno le ragioni della cessione alla Società dell’esercizio e degli utili ad opera ultimata. P.D. Pesce rimetteva in discussione l’impianto complessivo della Legge per l’Acquedotto, premeva per porvi rimedio con la presa in carico dell’opera da parte dello Stato. Ragioni finanziarie, culturali e politiche avevano impedito che si procedesse in questa direzione fin da principio, ma veniva profilandosi come l’unica soluzione. Su posizioni altrettanto critiche Gaetano Salvemini, che aveva una forte influenza sull’opinione generale e dirigeva in quegli anni «l’Unità» di Firenze. Lo storico di Molfetta condivideva l’opinione di Delfino Pesce sulla Legge Sacchi e denunciava un altro aspetto dell’atteggiamento speculativo della Società, derivato dalle relazioni consortili con altre imprese del gruppo:
«Per favorire la Savoia-Palmer’s sono stati acquistati da essa quasi tutti i pezzi in ferro necessari all’impresa: gran parte della tubazione in ferro, vagonetti, saracinesche, ringhiere, porte di pozzetti di vista, finanche catenacci. Erano lavori che in gran parte almeno si potevano fare a miglior mercato nei nostri paesi dando lavoro alla nostra mano d’opera locale. Ma era scritto sul libro del destino, che l’acquedotto pugliese doveva servire non a dare acqua ai pugliesi, ma a dare da mangiare ai genovesi. E questi lavori in ferro arrivavano il più delle volte sbagliati, e bisognava ripararli e trasformarli per metterli in opera»((“Nasce l’Acquedotto del Sele”, pag. 27, Tesi di Laurea di Ciracì Giancarlo, 2005.)).
Le accuse di P.D. Pesce e G. Salvemini, coglievano nel segno, svelando le strategie degli industriali genovesi. Tra le ditte che avrebbero rifornito l’acquedotto troviamo la società Cantieri Savoia e Palmer’s, costruita e controllata dalle famiglie Cataldi e Bombrini, la Società anonima Eternit-pietre artificiali, controllata da Eridania e dalla Aedes. Soprattutto, la Società Ercole Antico, non intendeva anticipare il capitale per i lavori, facendo assegnamento sulle rate del contributo istituzionale. Una risoluzione consolidata dalla crisi finanziaria e industriale del 1907-08, particolarmente forte a Genova, dove causò il dissesto di imprese collegate al gruppo, come appunto la Savoia Palmer’s. Secondo Masella, le dimissioni di Karl Brandau, nel maggio del 1907, appena iniziati i lavori, erano un segno chiaro delle difficoltà della Concessionaria. L’ingegnere del Sempione temeva di legare il suo nome a un grande insuccesso((Luigi Masella, op.cit. pag. 62..)). Nei successivi accordi tra impresa concessionaria e Stato, del 1911 e 1916, i capitolati della legge vennero rivisti, concentrando il contributo delle istituzioni in un numero minore di esercizi, aumentando gli stanziamenti. Tuttavia il problema si riproponeva. Scrive L. Masella:
«La ragione di fondo era la decisione di evitare ogni anticipo di capitale proprio, fidando unicamente sulle rate del contributo statale, le quali peraltro erano notevolmente più dilazionate rispetto ai tempi di esecuzione previsti dal contratto» ((Luigi Masella, op.cit. pag. 63.)).
Nonostante le gravi imputazioni, l’ostilità più generale maturata negli anni tra la popolazione, la Società nel 1916 raggiunse un nuovo accordo con Ministero e Consorzio. La relazione approntata per il Parlamento venne valutata positivamente dal Consiglio di Stato, al quale si era rivolto il Governo in carica. Ma la situazione era destinata precipitare. Alle successive inadempienze il Ministro dei Lavori Pubblici Ivanoe Bonomi rispose sottraendo i lavori ancora in corso alla Concessionaria, in mano alla quale rimasero l’esercizio e la manutenzione delle opere ultimate. Con un nuovo parere del Consiglio di Stato si giunse quindi alla rescissione del contratto, formalizzata nel 1919. Lo Stato prendeva possesso di tutte le opere e i materiali, rimborsando le spese sostenute fino all’aprile del 1919. «La transazione – scrive Viterbo – definita amichevole e bonaria, era tutt’altro che svantaggiosa per la Società»((M. Viterbo, op. cit. pag. 240.)).
Infine lo Stato era stato costretto ad assumere su di sé l’opera, come proponeva da anni Delfino Pesce, dal Consiglio Provinciale di Bari, e come aveva proposto in sede di discussione della Legge del 1902 Alberto Pugliese. Sulla conclusione della gestione Bombrini pesarono moltissimo i ritardi accumulati negli anni nella costruzione, ma è ravvisabile anche un mutato atteggiamento delle istituzioni locali e nazionali, una nuova sensibilità:
«Il generale atteggiamento ostile verso la Società concessionaria era certo fondato sul grave ritardo nello svolgimento dei lavori, ma alla base era anche alimentato dal nuovo protagonismo degli enti locali e della classe dirigente pugliese che “ritenevano possibile e opportuno, nella nuova fase che in tal modo si apriva, e in consonanza con gli orientamenti espressi dalle compagini governative, rivendicare il controllo diretto di servizi e di fonti energetiche” per la realizzazione di quel ampio progetto di sviluppo che assegnava all’acquedotto compiti e finalità che esorbitavano dalle funzioni di semplice approvvigionamento idrico per i quali era nato»((“Nasce l’Acquedotto del Sele”, pag. 30-31, Tesi di Laurea di Ciracì Giancarlo, 2005.)).
La storia della costruzione dell’Acquedotto più grande del mondo si chiude quindi in modo non certo glorioso per Bombrini, in ogni caso tra luci e ombre, gli immensi risultati furono oscurati dalla presenza della guerra e da pesantissime accuse. Non mancarono tuttavia riconoscimenti. Molto importante doveva apparire allora quello espresso dal Prof. e Ing. Luigi Luiggi, nel 1920, che invitava i Tecnici italiani a conoscere
«questo importantissimo acquedotto, che per sviluppo, per difficoltà di esecuzione di ogni genere, e per importanza sociale ed igienica, supera qualunque altro finora eseguito dai nostri Maestri in questo genere di opere: e cioè i Romani e gli Anglo-Americani».
Un opera di «speciale interesse per noi liguri», scriveva ancora L. Luiggi, perché genovese chi per primo ne preparò il progetto esecutivo – Ing. Natale Maganzini – e genovese chi ne assunse la costruzione, il «benemerito Senatore Giovanni Bombrini» ((L. Luiggi, op. cit. pag. 3; Fondazione Ansaldo, Fondo Bombrini.)).