L’agricoltura biologica in Italia. Dai pionieri alle sfide di oggi

Appunti di ricerca, citazioni e frammenti di intervista, spunti dal seminario “Dove va il biologico?” del 18 gennaio 2020 a Valli Unite.

Premessa

Alla base della scelta di fare un’agricoltura diversa da quella convenzionale stava tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 una pluralità di motivazioni intrecciate in vari modi tra di loro (politiche, ecologiche, religiose, salutistiche, sociali…) che portavano i protagonisti di questa vicenda a cercare un altro modo di fare agricoltura: antagonista all’agroindustria e contrario al mito del progresso e della tecnica, orientato da un pensiero alternativo ecologista e da una ‘voglia di comunità’, (che sortiva da una lunga durata e che è riemerso alla fine dei “trenta anni gloriosi”).

Dalle interviste, svolte tra il 2017 e il 2019((Testimoni intervistati: Massimo Angelini, storico del mondo contadino, Minceto di Ronco Scrivia – Walter Meles, Cascina S. Alberto, Rozzano, Milano – Giannozzo Pucci,figura storica dell’ecologismo, Firenze – Renzo Garrone,viaggiatore, ricercatore, Genova – Ottavio Rube,Coop. Valli Unite – Enio Ferretti, Az. Agr. Biologica La Morella, Carezzano Sup. Alessandria – Pacifico Aina, az. Agric. Cascina Dulcamara, Romentino, Novara – Armando Mariano e Mavi (moglie), primo presidente di Aiab,Villafalletto, Cuneo – Franco Fischetti,coop Terra e Gente, Albugnano, Asti – Franco Zecchinato, Cooperativa El Tamiso, Padova -Bruno Sebastianelli, Sara e Loris Asoli, Coop. La Terra e il Cielo, Piticchio di Arcevia,Pesaro e Urbino – Giovanni Girolomoni, coop. Girolomoni,Isola del Piano, Pesaro e Urbino e Francesco Torriani, ConsMarcheBio – Maurizio Gritta,Coop. Iris bio, Calvatone, Cremona – Antonio Corbari, az agric. Corbaribio, Cernusco sul Naviglio, Milano – Manuele Mussa, Cascina Dell’Angelo, Rovasenda (VC) – Alberto Berton, ricercatore agricoltura biologica.
Riferimenti. di altre interviste in Contadini per scelta e Agricolture di pianura in trasformazione: Marco Cuneo, Lia Brambilla, Pacifico Aina … e altri come Fabio Brescacin, Alberto Veronesi, Pier Paolo Lanzarini.)), emerge in particolare che si faceva agricoltura contadina, biologica proprio perché si era portatori di ideologie alternative (resistenti e antagonisti).

L’indagine che ha coinvolto una ventina di testimoni, richiamando anche nostre interviste precedenti, ha cercato di raccogliere le motivazioni e i principi ispiratori dei pionieri ( cosa li muoveva, le condizioni in cui si sono trovati, le ambizioni e i limiti di quelle esperienze), e di individuare, nel loro cammino, come si sono modificati nel tempo riferimenti ideali, forme organizzative, rapporti col mercato, e nelle condizioni mutate dell’oggi, quale discontinuità di pensiero, di visioni e quali scelte sono oggi praticabili per soddisfare ragioni ecologiche e ragioni economiche, per tenere insieme differenze e soluzioni plurali di una nuova agricoltura.

Temi e sfide dell’oggi

Sono accaduti, sul finire del ‘900, eventi di grande portata, le emergenze ambientali, la crisi ecologica che richiede un cambiamento, il passaggio a una civiltà post-fossile come impegno determinante di questo secolo, soprattutto per le società industrializzate (v. tra gli altri Rapporto IPBES, piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e sui servizi eco sistemici).

Oltre a riferimenti documentali e studi economici, sociali, ecologici ci sono pensieri, parole che i nostri testimoni hanno presentato suggerendo alcuni temi che ci paiono centrali.

Le agricolture in trasformazione e in contesa

È evidente l’insostenibilità, la crisi dell’agricoltura convenzionale; sono sempre più numerosi i tentativi di conversioni verso il biologico industriale e di costruzione di catene commerciali (DMO) che ‘vendono’ il biologico.

Siamo in una fase in cui il biologico è stato svuotato dei suoi contenuti più complessi, è stato schiacciato su criteri di regolamentazione; nel mercato del biologico stanno entrando operatori che non hanno una cultura bio e sono centrati sul fatto economico.

Al contempo c’è la presenza di agricolture altre, una pluralità di organizzazioni e di forme associative e soprattutto di una pluralità di forme di impresa, riconducibili all’agroecologia, che sfidano i temi del presente e che scommettono sul fatto che un’alternativa esiste.

Su queste piano si pone un conflitto, una diversa visione che riguarda i modi del cambiamento: andare nella direzione di un altro mondo è possibile o nella prospettiva di un altro modo è possibile.

Di fronte all’avanzata del bio industriale si presenta la questione di ri-stabilire come vada inteso il biologico; ne fanno fede le diverse iniziative di andare oltre la certificazione standard (nuovi marchi quali VinNatur, Garanzia Aiab, Rete Humus, marchio Federbio, Polyculturae …) e di andare oltre il biologico, secondo varianti olistiche, antagoniste …

Il nodo di mercato e solidale

E’ il tempo della mutualità, della cooperazione? o della lotta di classe ? o dei progetti di filiera, dei patti tra agricoltori e consumatori?

Il fare da soli non è possibile. E sono evidenti le difficoltà delle connessioni, della disposizione collaborativa. Quali steccati e quali alleanze? E’ un passaggio in mare aperto …

Sono veramente solo quelli piccoli, che fanno economia di sussistenza, che rifiutano – non sempre – i canali commerciali tradizionali (nicchia esclusiva ed escludentesi?), a muoversi in direzione di un’agricoltura ecologica?.

Non è solo il contadino che può fare agricoltura ecologica. Ci sono progetti di filiera e reti collaborative, ad esempio Rete Humus o la Ries rete italiana dell’economia solidale, che si propongono di misurarsi con il mercato, di superare la crisi di un movimento come quello dei Gas e di promuovere la conversione ecologica.

Il mondo della cooperazione e quello del biologico possono essere un “binomio virtuoso”, in grado di alimentare una crescita equa e sostenibile, di “moralizzare il mercato” e di garantire la continuità economica e la solidità delle aziende nelle forme organizzative plurali, piccole, grandi, consortili ? Un’agricoltura “professionale” che si confronta con la sostenibilità economica dell’impresa è alternativa alla “contadinità”?

Natura, tecnica e il problema del limite: urgenze e responsabilità

Andare oltre il biologico : è un pensiero di lunga durata che si palesa con urgenza di fronte alle emergenze ambientali non dissociate dai temi della giustizia sociale, della democrazia, dello sviluppo tecnologico, della vita contadina, della memoria storica.

Se richiamiamo le interviste a Walter Meles, Aina Pacifico e altri… vediamo che sono i ‘piccoli’ agricoltori, i contadini che parlano della terra, ciò che conta è la loro la prossimità alla bellezza, alla durezza della montagna o delle baragge più che all’artificiale ingombrante della pianura. Il loro punto di vista sulla natura, il coltivato o la selvaggitudine, parte dalla cura, non immediatamente finalizzata a un ritorno economico.

Si rivela in questo il legame problematico di natura e cultura in cui non si corre il rischio di un’idea ingenua che la vegetazione lasciata a se stessa si conservi ricca ed equilibrata, non si indulge nell’errore di una visione idilliaca dell’ambiente.(v. anche scritto di Sandro Lagomarsini )

Di fonte alla crisi della logica del continuo accrescimento, del produrre di più, consumare di più, dominare di più, Alex Langer nel testo Il viaggiatore leggero, presenta la consapevolezza del limite come una rilevante virtù verde; il carattere di virtù è quella dell’autolimitazione, della rinuncia a tutto ciò che in qualche modo provoca conseguenze irreversibili generali (le manipolazioni genetiche, i brevetti animali …)

Piero Bevilacqua in La mucca è savia scrive contro la furia produttivistica un capitolo che ha per titolo ‘Trionfo e declino dell’agricoltura industriale’ dove la parola d’ordine è ‘Progettare il limite’ e dove gli OGM e l’assoggettamento della tecnica sulla natura costituiscono un sogno impossibile e pericoloso.

Sulla questione della tecnica nei pionieri vi era un rifiuto: non risiedeva nella tecnica la soluzione o la scelta di innovare; l’agroindustria costituiva una linea di futuro non perseguibile ( v. Rachel Carson, e gli ecologisti – v. Berton sull’ecologismo e le tecnologie del vivente; Poggio sull’industrialismo – Pacchioni, L’ultimo sapiens ).

E vi era polemicacon l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si dovesse esprimere ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico; una critica attuale rispetto a tutto un mondo di trasformazioni sociali e sperimentazioni in atto nei paesi più colpiti da disuguaglianze, violenze e crisi ecologiche.

Nelle nostre interviste il tema della tecnica risulta essere poco trattato se non letto con un certo disagio, tra ipertecnologia e pre-modernità.

Di un certo interesse è misurarsi con alcune posizioni dalle complesse implicazioni culturali e politiche, ad esempio i progetti di ricerca sui semi della Fondazione Ecor (v. intervista a Fabio Brescacin), la digitalizzazione nel Progetto Bio cereals 4.0 MIPAAF , il discorso dell’agricoltura di precisione in Francesco Torriani di Conmarchebio.

Importante per il coinvolgimento e il confronto di soggetti ed esperienze di nuova agricoltura è stato il Convegno Le 3 agricolture ( aprile 2015) promosso dalla Fondazione Micheletti e Slow Food e la presentazione del Manifesto di Brescia sulla pluralità delle agricolture e sul passaggio d’epoca che richiede di riconsiderare radicalmente il rapporto dell’uomo con la natura e di mettere al centro l’attenzione per i modi di produzione, trasformazione, distribuzione delle risorse alimentari, del cibo in primo luogo.

Motivazioni e principi ispiratori dei pionieri

Abbiamo scelto di incontrare alcune persone che sono state protagoniste di esperienze e di un pensiero che entravano in rotta di collisione con la modernità e che cercavano vie di uscita collettive, di una nuova alleanza di natura e specie umana.

Riportiamo, a partire dalle nostre interviste ai pionieri, alcune dimensioni rilevanti.

La carica ideale, l’antagonismo e la voglia di comunità

Il ritorno alla terra come alternativa all’estremismo e ricerca di un nuovo mondo

Ilaria Agostini in Il diritto alla campagna scrive: “Nel settembre 1984 si svolge in piazza il primo mercato italiano dell’agricoltura naturale familiare, dove neorurali e figli degli ultimi contadini mostrano il frutto dei poderi condotti secondo i principi dell’agricoltura biologica”.

E’ la Fierucola del pane a Firenze nella Piazza Santissima Annunziata. In piazza c’erano “i duri e puri, gli irriducibili”, quelli che all’inizio degli anni Ottanta interpretano il ritorno alla terra anche “come un’alternativa all’estremismo”; il ritorno alla terra, non è solo il rifiuto dell’agroindustria, “è qualcosa di più profondo che riguarda un’ecologia del pensiero e un cambiamento nello stile di vita… avviene in coerenza con l’adesione a una civiltà fatta di memoria, lavoro, convivialità. … Non basta non concimare chimicamente e non usare i diserbanti per riequilibrare i rapporti tra umanità e natura”.

“Io nel ’63 avevo sei anni – ci dice Maurizio Gritta – andavo già a mungere e avevo già il trattore, mi mettevano su un Landini. Con l’arrivo di quel tipo di trattori, con l’eliminazione del vecchio macchinario agricolo come le trebbiatrici di prima della guerra, è iniziato un cambio di generazione e si è introdotto il concetto di agricoltura industriale. … La generazione che comincia a non essere più capace di fare il contadino e, nel caso di Cremona, svende i beni è la mia”.

E che cosa muoveva a costruire un’agricoltura diversa? Franco Zecchinato nel suo racconto richiama, quando era bambino, le mattinate al mercato, la vivacità di relazioni e le vite pulsanti di contadini, commercianti. “Nel nostro bel giro veneto, il nostro punto di vista era l’agricoltura, quella che ci hanno strappato… La storia che vi raccontavo del dialetto, che mi sono visto sparire, quando avevo 12, 13 anni, a un certo punto mi sono girato e non c’erano più le vacche, in stalla non c’era più il cavedo, la falce, i profumi del letame e del fieno … e la lingua che parlavo da bambino […] Avevamo questa voglia di dire: – c’è la speranza, c’è qualcuno che non è contadino, che gli interessa quello che noi vogliamo fare, riprendere in mano quella storia lì”.

Una storia contrastata perché poi sono sopraggiunti “questi contadini … avevano cavato, spianato con la ruspa, dato veleni alla terra”.

Parole di rivolta contro un mondo perduto e squassato, ma anche la ricerca di un passato che non fosse solo quello di andare a ‘ sboassare le vache …come diceva la madre’.

“Pensavamo che fosse una storia finita che non doveva più tornare; invece eravamo molto affezionati a quella storia; e cosa abbiamo scoperto? Che c’è un nativo indiano che ne parla in un libro ( Alce Nero parla suggerito da Gino Girolomoni), che ci sono cittadini che si associano e si occupano di cibo e di agricoltura biologica, che sono interessati a capire cosa noi vogliamo fare. E’ stata una meraviglia …”

La forma cooperativa come modello organizzativo prevalente e la fondazione di nuove comunità

Bruno Sebastianelli ricorda: “Questo ritorno alla terra era connotato politicamente come un gruppo di sinistra, estremisti. I componenti erano delle prime comuni, le radici sono lì…

La spinta era basata sulla trasformazione della società; allora c’erano da risolvere alcune contraddizioni della società. La prima, attraverso la forma cooperativa si cercava di affrontare il conflitto capitale lavoro e quindi di creare una struttura orizzontale in cui tutti potevano co-decidere, una testa un voto, tutti i lavoratori soci … Il secondo aspetto era quello ecologico, non inquinare con diserbanti e concimi chimici”.

“Perché fare cooperative agricole non era scontato; devi avere – ci ha detto Zecchinato – l’idea di mettere in comune; all’epoca io avevo una storia mia, avevo lavorato nella formazione professionale agricola, le mie esperienze nell’ortofrutticolo sono state anche di forti traumi nei confronti dei contadini, generalmente servi e furbi, ti inculano, devi imparare, sapere con chi hai a che fare. La cooperativa nel mondo agricolo non è facile, quella vera, invece quella che ti fa avere i contributi è un’altra storia; quelle emiliane, trentine … metà sono fallite, mangiati i soldi negli anni ’90. La cooperazione è un modo per migliorare, tenere alto il livello culturale e anche la capacità contrattuale. Se ti vuoi confrontare con le filiere commerciali e cercare il riconoscimento del tuo impegno e del tuo lavoro, devi avere queste capacità …”

Dallo Statuto della Fierucola, che nel 1985 si costituisce in associazione, l’art.3 gli scopi dell’associazione recita: sono promosse ‘le attività di sussistenza nel rispetto della natura che tendono a rifiutare il consumismo, il lavoro salariato… e che operano fuori dall’ottica del profitto’. E all’art.1: le fiere sono ispirate ‘a francescana semplicità, evitando ogni facilitazione tecnologica e organizzativa … fatte a misura di chi ha scelto una vita semplice’.

Nello Statuto viene rimarcato l’interesse nel promuovere e sostenere la fondazione di nuove comunità, comunità autosufficienti, dai connotati gandhiani, veicolo di cura del territorio e dei beni comuni …

Degli Innocenti citato da Ilaria Agostini afferma che ‘il mercato è al tempo stesso un villaggio, non una serie di banchi’. L’idea di comunità della Fierucola è un villaggio che tende all’alleanza tra contadini e tra contadini e cittadini … è un ‘podere aperto’, un mercato che supera la dimensione dello scambio economico, nel segno del mutualismo, del travaso di saperi e della gratuità.

Nel paragrafo Comunità o mercato del testo di Agostini si esplicita questo messaggio: “I criteri ecologici introdotti contrastano l’idea di azienda e di crescita, criteri tesi ad escludere coloro che, abbandonata la sussistenza, pur aspirando alla naturalità, compiono il salto di scala per inserirsi nel mercato normale, ancorchè biologico. Oltre la dimensione di sussistenza la produzione non garantirebbe i requisiti di qualità del prodotto né di ecologia della vita”.

L’humus culturale, spirituale e politico, e le discontinuità intervenute

Abbiamo incontrato in questa ricerca, un humus culturalespirituale e politico,con una forte influenza del cattolicesimo del Concilio Vaticano II.

Girolomoni e Pucci che fondano le loro azioni sulla sacralità della terra e la critica del modernismo; Mariano e Mavi, cattolici del dissenso, che indicano il biologico come sintesi di certi valori riguardanti i rapporti con la natura e con gli altri: “non è mai stato un discorso tecnico, era una questione di stile di vita”.

Franco Zecchinato che ricorda: “a Padova eravamo una generazione, pur di formazioni diverse, prevalentemente cattocomuniste, come provenienza ed educazione legata alla città, in cui il movimento non violento, per la pace, la finanza etica, le novità e le conquiste sociali hanno avuto pieno titolo”.

Fino ad arrivare alla Enciclica di Papa Francesco, la Laudato sì, con l’appello alla giustizia sociale e il legame con la terra, la casa comune …

” C’era una visione utopica dell’agricoltura bio – riconosce Sara, giovane socia della Coop La terra e il cielo – che eramossa da principi ‘individuali’, da persone che credevano in questo metodo di coltivazione che non era regolamentato”.

Questi principi individuali, di piccola comunità, antagonisti e di nicchia ( è il loro limes) sono sorpassati dalle regolamentazioni e dall’orizzonte del mercato, oltre che da cambiamenti epocali. E’ stata un’utopia che, sembra, non essere più motivo di costruzione di società. Resistono oggi, come dichiarato da diversi interventi – ad es. le posizioni di Loris Asoli – “zone abbastanza ridotte di economia di sussistenza: cose che non si comprano e che non si vendono, forme di mutualità, mutuo soccorso. Previlegiare la sussistenza rispetto al mercato vuol dire opporsi e in qualche modo cercare una riconversione rispetto alla tendenza del tutto mercificato”.

Così anche in Renzo Garrone: ” la logica dell’autosufficienza ritornando all’agricoltura e all’equilibrio del podere, il podere diventa il centro di una vita recuperata.  eravamo utopisti e libertari. La cosa interessante di cinque case coloniche dello stesso comprensorio era quello di poter scambiare le energie … e l’importanza del lavoro artigiano , per sistemare l’abitazione, dotarsi di strumenti …”

Si mostravano allo stesso tempo la costruzione di riserve indiane e il desiderio di cambiare il mondo.”Se parlo per me credo tutte e due. Non ho mai avuto la passione del ghetto però contemporaneamente ero molto utopista finchè la vita non ti fa vedere che non è perseguibile.[…] Il mondo non finisce nella riserva indiana di Montepeglia, ma al di là dell’economia che riesci a creare, e delle tue occasioni, ci sono state persone che in Toscana e in Veneto hanno scritto leggi sull’agricoltura biologica, che hanno i negozi bio, che hanno i poderi; mi ricordo ‘Terranuova’, faceva tante cose, era lo snodo per incontri, noi ad esempio facevamo le feste-incontro. Erano una cosa bellissima”.

C’è stata discontinuità generazionale, ma nel mondo del biologico si sono verificati, anche precocemente, slittamenti e tendenze a misurarsi con il mercato, ci sono state prove per tenere insieme valori e interessi, alla ricerca di equilibri instabili tra economia ed ecologia.

Sara: “Oggi, penso è un’utopia, nel senso che nel mondo de bio si sono affacciate tante realtà che sono magari poco legate al territorio, ai principi che hanno mosso i promotori e che cercano di fare business e cavalcare l’onda lunga del mercato”.

Giovanni Battista Girolomoni: “Prima eravamo solo agricoltori ma già dal ’89 diventiamo ancheindustriali:abbiamo un pastificio che è un’attività industriale a tutti gli effetti. Anche per il tipo di tecnologie che usiamo, macchine sperimentali… Oggi abbiamo un pastificio modernissimo come tecnologie, efficiente, funzionale”.

E Giannozzo Pucci riconosce i compiti assunti dal suo amico Gino Girolomoni: ” Anche Girolomoni ha fatto il pastificio, come Maurizio Gritta di Irisbio. E Gino Girolomoni, da uomo pratico, doveva dare lavoro a più persone e doveva fare qualcosa nell’agricoltura bio che sfondasse. E’ stato contrastato in Italia e ha potuto reggersi perchè esportava in Germania e Giappone. Prima di riuscire a poter vendere in Italia ha accettato che quello dovesse essere, che doveva vendere nel mercato, con la emme maiuscola. Quindi grandi quantità e messa in funzione di un’impresa … Io avevo un altro compito, quello di aiutare i piccoli agricoltori; lui faceva un discorso di agricoltura bio, i marchi e i disciplinari, io invece cercavo di fare un discorso oltre l’agricoltura bio, facilitare … i piccoli mercati e il locale”.

Walter Meles, militante di Lega Ambiente e oggi gestore di un forno rurale per la panificazione: ” Il biologico si sta facendo espropriare del linguaggio dalla GD e stiamo rispondendo tornando ai valori di tanti anni fa, quelli che hanno dato la spinta ideologica ma che hanno mostrato di essere a termine.

Negli anni 80 c’era una forte caricaideale (ieri, aspirazioni collettive; oggi, aspirazioni individuali, depoliticizzate). Non serve più; l’idea del contadino degli alberi degli zoccoli, … i piccoli sono invisibili e nella logica della sussistenza l’etica sociale è a rischio: fare il nero, non pagarti uno stipendio dignitoso, rovini te stesso e anche altri … E non è la dimensione che squalifica.

I movimenti ambientalisti sono mancati perché il loro pensiero non si è tramutato in progetto, non sono stati propositivi e sono mancate le generazioni di ricambio. Il mio percorso è anomalo: ho scelto di mescolare i due mondi, il mondo imprenditoriale e il mio mondo ambientalista”.

Anche Zecchinato riconosce l’importanza alla dimensione del lavoro e dell’economia …

noi, componente non schierata del movimento del sessantotto, abbiamo deciso di riversare quella esperienza sporcandosi le mani, con la terra, con il cibo, con le relazioni e con il commercio …

Il commercio si è sempre vissuto male e il mercato è stato tradotto facilmente in speculazione, ma è un pregiudizio ricondurre tutto al mercato finanziario; il mercato è anche servizio, sono relazioni”.

Le ferite all’ambiente e alla salute delle persone, la crisi ecologica

Nelle intervistea Pacifico Aina, Ottavio Rube, Enio Ferretti, Marco Cuneo, Lia Brambilla, Maurizio Gritta, i fratelli Stocchi della Garlanda la presa di coscienza dei problemi della salute e le motivazioni verso il biologico avvengono agli inizi degli anni ’80; sono i più vecchi, ancora in campagna, che avvertono le ferite subite, la discontinuità … per i giovani era importante produrre. Ci sono poi le iniziative di valutazione epidemiologica, l’entrata in campo di associazioni medico scientifiche – nel ’69 era nata Suolo e Salutecon Garofalo e Pecchiai; successivamente Medicina Democratica e AAM Terranuova – che mettono in rilievo la relazione tra alimentazione e salute e si porta in Italia l’idea che la salute del suolo, la salute delle piante, la salute degli animali e quella degli uomini sono collegate.

Pacifico Aina:” Ricordo un contadino che stava formando una miscela di diserbo per il mais e girava con la mano nel mastello: – ma sei matto? Ma no, figurati … è vero che quando lo uso al mattino, poi al pomeriggio mi viene tanto sonno, ma cosa vuoi che sia.

C’erano questi tecnici in giro a vendere; e un altro contadino mi ha raccontato: – ho fatto il diserbo e sono diventato tutto blu.

E io che facevo le mele e dovevo bardarmi con occhiali e tuta: che senso ha tutto ciò? Ho iniziato ad aderire alle misure comunitarie per la riduzione dei fitofarmaci e poi nel 1990 escono ulteriori misure della CEE che finanziano rimboschimenti, la creazione di filari e boschetti”.

Enio Ferretti: “A casa ho la documentazione di un convegno pubblico dell’ ’85 con Garofalo (Suolo e Salute) a Tortona, con Ottavio, Zecchinato, Donhauser, un ricercatore che faceva statistiche che appariva allora in TV e diceva che questa zona, a Cassano Spinola, era la zona con più mortalità per tumore. Allora noi del biologico eravamo considerati degli eretici. Noi volevamo tornare un po’ come erano i nostri genitori, io lavoravo questo campo con i buoi, con mio padre. Noi volevamo vivere sì bene ma anche in un modo naturale. Forse il morire non entrava ancora nella nostra ottica. All’età che avevamo non pensi a morire pensi a vivere in un modo bello, naturale.Per me credo che sia stato importante dire: rallentiamo un po’ questo progresso che ci sta arrivando, perché vedevo che il mio vicino di casa dava il diserbante e poi mi diceva: ” ma lo sai che c’è qualcosa che non va…si sente un gusto…roba grama “. Perché poi sono stati quelli più giovani, i miei coscritti, e non i vecchi che sono entrati in questa logica produttivistica. I vecchi provavano e poi dicevano che secondo loro c’era qualcosa che non andava, l’erba tutta bruciata. Come mai? I giovani non si fanno più questa domanda … per loro l’importante era produrre, fare i soldi, avere il trattore grosso. Io, Ottavio e tanti altri siamo rimasti un po’ conservatori. Vedi il male senza neanche convincerci tanto di quello che poteva succedere alla salute, avevi vent’anni…”.

Marco Cuneo:” … a Lodi negli anni ’80 avevano fatto uno screeningsulla salute degli agricoltori e non solo; sono usciti dati molto significativi per quanto riguarda l’impatto negativo sull’ambiente e sulla salute delle persone. E questo Brambilla Giovanni della Cascina Tre cascine che era agronomo ma anche un po’ chimico ha deciso di seguire il più possibile un approccio agro ecologico e di limitare il più possibile l’impatto ambientale.…

Anch’io ricordo che durante un corso per l’esame del patentino del diserbo c’era un dottore dell’Asl che rilevava che nelle zone risicole del vercellese tra gli agricoltori che coltivavano riso c’era una percentuale di tumore un po’ alta; collegando le cose, anche mio padre ai tempi faceva riso, andava con la pompetta in spalla senza mascherina senza niente; ho domandato dei rischi … e lì la cosa mi aveva scosso. […] Era l’85 più o meno … era il giorno di carnevale. Mio padre viene ricoverato d’urgenza per un tumore alle corde vocali e lì è crollato un po’ tutto. Io mi sono trovato da un giorno all’altro con mio padre in ospedale, io qui da solo a portare avanti l’azienda”.

Lia Brambilla, Tre Cascine: “L’azienda prima aveva una conduzione tipica della pianura padana, zootecnica con vacche frisone da latte, campi divisi esattamente a metà, prati stabili e produzione cerealicola che all’epoca era foraggera.

A metà degli anni Ottanta è successo qualcosa… l’azienda sanitaria locale di Lodi ha fatto uno screening sugli agricoltori per ricercare le tracce di pesticidi presenti nel sangue; da questo screening è risultato che non solo chi usava questi prodotti aveva tracce, anche gli altri, anche quelli che lavoravano in stalla.

La cosa ovviamente ha messo in discussione in maniera forte la formazione e le convinzioni di mio padre che aveva lavorato anche per l’industria chimica; le molte domande e le conoscenze di altre persone e di altre situazioni e storie hanno portato negli anni alla elaborazione di tutto quello che è adesso il complesso agronomico e normativo del biologico e mio padre ha contribuito, è anche merito suo che ha lavorato per anni, ha lottato per ottenere la certificazione biologica, quella che adesso è la nostra dannazione e il nostro vantaggio”.

Ottavio Rube, Valli Unite“Mi ricordo un mio zio che andava a caccia e vedeva le nostre vigne, ci diceva: ma voi siete scemi! Producevamo la metà e in certi casi abbiamo anche perso dei raccolti. Non si parlava di guadagnare di più … la ragione profonda era politica, perché non bisogna dimenticare che dipendevi dalle multinazionali che ti vendevano questi concimi, questi veleni. Per cui c’era la parte politica e la parte salutistica perché comunque queste cose facevano male e si vedeva, raddoppiavano i tumori . Mi ricordo nello stesso anno (anni ’80) due zii, uno era quello di Enrico, che erano morti tutti e due di tumore [..] di casi così ce n’erano molti […] la Cooperativa nasce in quegli anni ma non c’era la parola biologico nell’atto costitutivo … se ne parlava. Poi lo facciamo diventare una scelta […] In quegli anni, un giorno sono andato in comune dal sindaco, un comune di 450 abitanti, che conosceva tutto e tutti, a cui ho detto che volevo fare una ricerca su quanti casi di tumori c’erano stati. Lui non mi ha appoggiato però alla fine ci siamo messi lì io e lui, sarà stata anche una ricerca grossolana, ma veniva fuori che il 50% morivano di cancro, poi le statistiche davano il 5% … Erano già anni che c’era la chimica, che avevano cominciato a diserbare. Nelle nostre motivazioni c’era il rispetto dell’ambiente e comunque avevamo fatto la scelta di un’agricoltura naturale per cui l’uso dei prodotti chimici sarebbe stato l’esatto contrario di quello volevamo fare. C’era già consapevolezza ecologica, chi più, chi meno…”.

Gritta ricorda “nell’anno in cui arrivammo a Calvatone e allora pensavamo di essere osteggiati perché avevamo i capelli lunghi … invece lui (il sindaco) ci disse che aveva la fila di agricoltori, quando riceveva i cittadini, che gli dicevano: devi mandare via quelli lì perché loro non usano i diserbi e ci rovinano l’agricoltura…”.

Nel tempo l’asse si è spostato sulla consapevolezza della crisi ecologica, sull’avvento di un regime ambientale e climatico che ha segnato visibilmente vita e biodiversità del pianeta; e che ha modificato parole e modelli di riferimento …

Sandro Lagomarsini, in Coltivare e custodire, ci offre un esempio per interpretare come il clima stia cambiando, un esempio di ecologia storica a partire dal fiorellino della Cymbalaria muralis che si trova su molti muri in pietra di Genova tra i 20 e i 350 metri sul livello del mare. Ebbene, nell’aprile 2017, giorno di Pasqua, la Cimbalaria è comparsa su un muro di Càssego a 710 metri di altitudine.

Questa notizia ci dice che il clima sta veramente cambiando e ci parla delle alluvioni di ottobre e novembre in Liguria del 2011 e dei disastri avvenuti in Val di Vara e nelle Cinque Terre.

La questione ambientale nonostante da almeno trenta anni si sia imposta nei fatti, sempre più evidenti, trova comunque aspetti rilevanti di negazionismo e viene posta ancora secondo la contrapposizione di natura e cultura, risolvibile solo dalla Tecnica; la preoccupazione di fondo è non porre limiti al dominio della natura, alla manipolazione della vita, alla artificializzazione del mondo. Mentre la contrapposizione tra natura e cultura, tra umano e non-umano deve essere vista secondo un modello di compenetrazione inestricabile, di simbiosi, di ritorno alla terra nella sua complessità.

In questa nuova fase in cui ci troviamo a vivere, dice Berton, il problema ecologico prioritario se non esclusivo è il climate change e il contenuto di CO2 nell’aria … “L’agricoltura che oggi è responsabile di una grossa quota delle emissioni richiederebbe di parlare di agricoltura ecologica più che di agricoltura biologica. Come amava parlare Giorgio Nebbia di agricoltura ecologica, proprio per smarcarsi dal contesto di mercato del biologico … e per integrarsi nei processi naturali in maniera virtuosa.

Il biologico assume un altro valore …Perché un biologico che cresce senza ecologia non è un biologico, così come se cresce senza cura, senza equità è difficile considerarlo come biologico. Questo come contesto generale in una visione che presenterà sempre delle contraddizioni, dei conflitti. Però quello che è importante nel biologico è creare dei modelli che funzionino anche economicamente oltre che da un punto di vista ecologico”.

Gli storici futuri porranno all’attenzione a questo ventesimo secolo, più precisamente al decennio che è appena cominciato, così ha scritto Primo Levi nel risvolto di copertina del Il vizio di forma ( 1971). ” Nel giro di pochi anni, quasi da un giorno all’altro, ci simo accorti che qualcosa di definitivo è successo, o sta per succedere … Non c’è indice che non si sia impennato: la popolazione mondiale, il DDT nel grasso dei pinguini, l’anidride carbonica nell’atmosfera, il piombo nelle nostre vene. Mentre metà del mondo attende ancora i benefici della tecnica, l’altra metà ha toccato il suolo lunare, ed è intossicata dai rifiuti accumulati in pochi lustri: ma non c’è scelta, all’Arcadia non si ritorna, ancora dalla tecnica potrà venire l’emendamento del “vizio di forma’ “.

Sono parole che tengono aperto il discorso e che assegnano alla responsabilità delle persone e delle società una prospettiva di ricerca e di cambiamento tra scelte differenti .

Dove va il biologico?

Elementi di scenario

Rappresentazioni del movimento del biologico

Rispetto a una lettura di prospettiva, di un certo interesse è il documento di Ifoam, Biologico 3.0, in cui viene indicata la terza fase del movimento del biologico. Il biologico deve essere molto di più della”semplice etichetta biologica di certificazione. L’obiettivo è di far uscire il biologico dalla nicchia e di farlo diventare popolare”.

L’obiettivo globale del Biologico 3.0 ( http://www.ifoam.bio/en/organic-landmarks/principles-organic-agriculture) è di consentire un’adozione diffusa di sistemi agricoli e mercati realmente sostenibili, basati sui principi dell’agricoltura biologica e permeati da una cultura dell’innovazione, del progressivo miglioramento verso pratiche migliori, dell’integrità e trasparenza, della collaborazione inclusiva, dei sistemi olistici e della determinazione dei prezzi basata su costi reali.

Mentre il Biologico 2.0 si è focalizzato sulla definizione di requisiti minimi e riferimenti al metodo biologico di coltivazione sui prodotti, il Biologico 3.0 mette in primo piano l’impatto del sistema agricolo. Gli approcci e i risultati del Biologico 1.0 e del Biologico 2.0 non sono abbandonati; sono invece integrati da nuovi aspetti inseriti nel paradigma e nel riposizionamento del movimento del biologico.

Nel 2019 al SANA di Bologna 2019 – Un’agricoltura attiva per affrontare le sfide ambientali – gli “Stati Generali del bio” – l’evento dedicato interamente al biologico italiano, tra sfide presenti e opportunità future, promosso da BolognaFiere in collaborazione con FederBio e AssoBio – hanno portato alla presentazione del ” Manifesto Bio 2030″, frutto del confronto delle istituzioni e associazioni coinvolte. Tra i promotori ci sono: Alleanza Cooperative Italiane – Agroalimentare; ASSOBIO; Associazione per l’Agricoltura Biodinamica; CIA – Agricoltori Italiani; COLDIRETTI; FEDERBIO; WWF Italia; Aboca; Conad; Coop Italia; Fondazione Fico; Ifoam Europa; Ismea; Naturasì; Pro-Bio …

Nei suoi 10 punti si rintracciano le prospettive delineate dal biologico 3.0 caratterizzando la valenza delle implicazioni del modello agro ecologico, e di un approccio sistemico e “locale/solidale”, e auspicando la necessità di innovare e sperimentare l’ agricoltura di precisione, con i big data, i droni, i plantoidi, la genetica delle sementi, come aspetti di una tecnica in grado di risolvere i problemi dell’agricoltura convenzionale, il consumo di acqua, la produttività, ecc. E’ un documento di intenti che va preso seriamente e rispetto al quale, probabilmente, è aperta una contesa tra diversi attori che potranno prendere diverse direzioni di marcia e con i quali verificare possibili alleanze.

E’ una sfida che viene posta dall’agricoltura di precisione e dalle innovazioni della GDO e delle piattaforme digitali; siamo di fronte, in questi anni, a una divaricazione di visioni e di prospettive((Ipertecnologia e agroecologia si presentano come due mondi, due visioni alternative. Nei processi di cambiamento, di lunga durata, si trovano ibridazioni e forme tecno organizzative mutevoli, conflitti e alleanze che portano a risultati imprevisti, discontinuità che accelerano o frenano certe evoluzioni. Puntare su alcune condizioni, riconoscere il valore della storia, scommettere su innovazioni sociali e tecniche…))tra quella tecnologica, ipertecnologica (dall’agricoltura di Precisione all’agricoltura 4.0:dall’introduzione di sensori,Internet of thingsdroni, strumenti che permettono la mappatura di campo, allo sviluppo dell’Internet of Farming con l’integrazione dell’intera filiera grazie alla possibilità di raccogliere dati e di scambiarli con tutti gli attori della produzione e con la possibilità di introdurre nuove forme di controllo e di monitoraggio, ai selfdriving tractor, o per certi aspetti ai bio robot come il Plantoide), in grado, si sostiene, di risolvere il passaggio epocale della crisi attraverso soluzioni di efficienza, di nuovi modelli di business e quella “agroecologica” basata su salute, ecologia, giustizia e cura del mondo.

L’agro-ecologia in Italia è strettamente connessa allo sviluppo dell’agricoltura biologica e richiede, implica un approccio integrato, basato sullo sviluppo locale((P.P Poggio, La crisi ecologica, pg.130 134 – 136.))e sul coinvolgimento dei diversi attori verso obiettivi comuni: migliorare la qualità di vita e di lavoro della popolazione locale, incrementare la qualità delle produzioni agroalimentari e zootecniche locali tipiche, garantire ai consumatori sicurezza, tracciabilità e salute degli alimenti, salvaguardare e valorizzare la biodiversità, il paesaggio e le risorse naturali.

Una delle poste in gioco nelle agricolture agro-ecologiche è la ricostruzione dei beni comuni, riportando in primo piano la natura e l’empowerment delle comunità locali, la collaborazione / cooperazione.((Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006; Ricoveri, Beni comuni vs Merci, Milano, Jaca Book, 2010. Borzaga in Le conseguenze del futuro. Comunità, Nuove società, nuove economie , Feltrinelli, 2019.))

Il movimento eco solidale: le direzioni di nuove economie alternative

Quali sono le tendenze nel movimento eco solidale, quali visioni e prospettive stanno modificando le pratiche sociali?

La ricerca nazionale sui Gas, Gruppi di acquisto solidali, delineava il soggetto costitutivo: i cittadini critici, costruttori di spazi partecipativi; la forma organizzativa: i laboratori auto-educanti di cittadinanza attivaalternativi a un sistema economico percepito come non sostenibile; indicava l’indirizzo generale: promuovere reti territoriali, e una nuova classe di costruttori, per lo sviluppo locale e nuovi sistemi di mutualismo capaci di bilanciare pratiche di autogestione sociale e pratiche di lotta rivendicative.((T avolo Res, Un’economia nuova, dai Gas alla zeta, Altreconomia, 2013.))

In questi ultimi anni sono emerse valutazioni critiche e si è registrata una caduta di vitalità del movimento: “I gas hanno esaurito la loro spinta propulsiva, non si sono evoluti da una logica di acquisto a una logica di trasformazione sociale; c’è un arretramento … Stanno diventando degli acquistifici. Erano un grande fenomeno di partecipazione…”((“E’ un mercato diverso, è un Fuori Mercato”. Gigi Malabarba (RiMaflow), Vincenzo Vasciaveo (Desr Parco agricolo sud Milano), Trezzano sul Naviglio, 23 maggio 2017.)).

E in un dibattito che ha coinvolto diverse persone e responsabili delle RES((Tavolo RES del 27 febbraio 2016 a Bergamo. V. anche il dibattito recente …))sulla centralità di creare istituzioni di altra economia: “Dopo oltre vent’anni, per lo più spesi per sviluppare nei diversi territori tante e diverse buone pratiche di economia solidale, abbiamo sviluppato la consapevolezza che questo variegato arcipelago di iniziative potrà dar vita ad un sistema socioeconomico diverso solo se saprà creare comunità. […] prefigurare la costituzione di nuove imprese sociali di filiera,che vedano compresenti i consumatori, i produttori e i fornitori di servizi che hanno partecipato al percorso di garanzie condivise”.

Sottotraccia, nel movimento ecosol e nelle esperienze di costruzione di reti collaborative e di forme di comunità, si possono individuare sia la ricerca di un maggior “ethos cooperativo” sia tentazioni di chiusura di DES e GAS all’interno delle proprie “rocca-forti/deboli”.

Quando ci si muove in direzione di nuove economie alternative un punto del contendere è lo stare nella dimensione e nelle forme conflittuali, il combattere il mercato, ovvero muoversi per trasformare, “moralizzare” il mercato.

In questo ultimo caso la dimensione della cooperazione va ricercata nell’ economia civileladdove “l’economia è vita civile … l’economia e la vita sociale sono intrecciate profondamente tra di loro”. Anziché antagonismo e polarità di civismo da una parte e mercato dall’altra, l’economia civile mette in campo un percorso di riavvicinamento e integrazione e passa attraverso la costruzione di un’impresa a movente ideale allargata e attiva all’interno di reti locali, volte a coinvolgere progressivamente una pluralità di attori e interlocutori e a ridisegnare il modo in cui dare risposte ai bisogni delle comunità locali((Luigino Bruni, Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato, Il Margine, 2012. Vedi anche Di Iacovo, Fonte e Galasso, Agricoltura civica e filiera corta, paper 2014.)).

Raccogliamo come importanti prospettive di lavoro e per cambiare l’immaginario le recenti iniziative di costituzione della RIES e l’incontro del 9 novembre 2019 a Roma in cui si sono ritrovate oltre 100 realtà per preparare la partecipazione italiana al Forum Mondiale delle Economie Trasformative((Per un’economia trasformativa di Riccardo Troisi, aprile 2018. Il concetto ancora “aperto” di economia trasformativa: nella concreta realizzazione di ogni esperienza e attività, indica una strategia di transizione sistemica, per promuovere forme e strutture di sviluppo locale, alternative alla struttura economica dominante e ben diverse da essa. Questa prospettiva si può realizzare attraverso la creazione o il potenziamento di reti o distretti che mettono in relazione sinergica attività, imprese e iniziative (forme di economia sociale, solidale, collaborativa, circolare, di transizione, ecc.), che operano in ambito socioeconomico, sono essenziali per soddisfare le necessità della vita quotidiana, ma che ormai profilano forme complesse e strutturate di convivenza sociale. Per una lettura critica delle proposte di comunità, si veda, Frederic Lordon, E la Zad salverà il mondo …. In Le Monde diplomatique, Il Manifesto, ottobre 2019.))di Barcellona del prossimo giugno con l’obiettivo centrale di costruire insieme una “Agenda 2030” di azioni e politiche per cambiare l’economia, per “contrastare il paradigma ‘estrattivo’ dell’economia, ricollocando al centro le comunità, i territori, i diritti e i desideri del fare e del condividere quotidiano”((Si veda la ricerca ” Economia trasformativa: opportunità e sfide dell’economia sociale e solidale in Europa e nel mondo ” nell’ambito del progetto ” Social & solidarity economy as development approach for sustainability (Ssedas) in Eyd 2015 and beyond “, iniziativa sostenuta dall’Unione europea, coordinata in Italia dall’ong Cospe in collaborazione con l’associazione Fairwatch.)).

Idee e percorsi in campo

Gli esempi che abbiamo ripreso dalle interviste e gli interventi di molti protagonisti nel corso del seminario Dove va il biologico? del 18 gennaio 2020 a Valli Unite li abbiamo qui raccolti per evidenziare, nel percorso storico del biologico italiano, alcuni elementi cruciali, scelte che poggiano su cambi di paradigma, visioni che spostano le priorità e le strategie dei “pionieri”.

In particolare vogliamo sottolineare due temi che sono stati messi all’attenzione del confronto.

Il tema della certificazione come scelta di distinzione e di comunicazione

Sono emerse posizioni assai variegate, legate anche alle diverse caratteristiche delle produzioni di riferimento. Per alcuni bisogna andare oltre la certificazione e magari se ne potrebbe anche fare a meno. Secondo altri la certificazione è un punto fermo che va difeso anche se va spiegato e sviluppato. C’è chi ritiene che vi sia ancora molto da fare anche solo per rispettare le regole della certificazione in particolare per quanto riguarda i semi e, più in generale, le deroghe.

Alessandro Poretti di Valli Unite racconta delle difficoltà della certificazione del vino; dei tentativi di affiancare ai criteri tecnici dei criteri etici e dell’approdo di VinNature a un disciplinare tecnico, secondo un discorso di distinzione sul piano commerciale.

“Dopo la grande delusione della prima certificazione del vino nel 2012 la tendenza è di peggiorala ancora, si va in direzione opposta a quella che è la nostra concezione del biologico nella vinificazione. Con Vin Nature siamo arrivati a formulare un disciplinare che tratta solo gli aspetti tecnici. Si tratta di un discorso puramente commerciale per differenziarsi attraverso un marchio dal produttore anche biologico. Nel biologico è difficile trovare una certificazione che vada bene per tutti i territori/climi. L’attuale certificazione crea malcontento e si cerca quindi di differenziarsi con ulteriori marchi come Vin Nature che sono fatti per il mercato. Critical Wine voleva essere qualcosa di diverso ma è crollata con la morte dei fondatori. Agli inizi del 2000 prima della certificazione si era cercato tra produttori di affiancare ai criteri tecnici dei criteri etici come il numero di ettari, il numero di persone che lavorano in vigna e in cantina, i prodotti acquistati come rame, zolfo,ecc. attraverso una carta di intenti che raggruppava un piccolo gruppo di produttori vignaiuoli eretici ma non siamo riusciti a rimanere coesi”.

Per Giovanni Girolomoni “La certificazione è un prerequisito. Il nostro slogan è oltre il biologico”.

E’ una posizione molto articolata che riconduce alla centralità della costruzione di filiere e di patti per lo sviluppo locale. Costruire connessioni tra i soggetti di filiera e fare comunicazione sono le priorità.

“Non abbiamo mai voluto parlare di vero bio, falso bio o più bio meno bio perché è molto pericoloso. La certificazione ha i suoi limiti ma sappiamo cosa voleva dire quando non c’era e ci sequestravano i prodotti. Per noi andare oltre vuol dire tenere quei valori di cui il bio delle origini era portatore; i rapporti equo solidali nelle filiere sono fondamentali. Non basta fare filiera, è fondamentale il tema del prezzo così come quello dell’ecologia. Non si tratta di fare certificazioni più avanzate perché verrebbero svuotate dei contenuti che non si possono formalizzare . Bisogna evitare che la comunicazione del biologico venga monopolizzata da chi fa quattro spot in televisione”.

Walter Meles è molto critico sui disciplinari (e le pratiche burocratiche) e, soprattutto, sui risultati intrinseci alla certificazione: “La fogliolina non mi ha cambiato niente, continuo a vendere tanto quanto prima. Abbiamo considerato la certificazione come meta e non come conseguenza di quello che facciamo. Le aziende biologiche possono essere un deserto ambientale… Andiamo a vedere cosa il bio pesa in termini ambientali e non accontentiamoci di quanto raggiunto. Cosa possiamo fare per ridurre il nostro impatto. Recuperiamo il nostro ruolo di custodi del territorio! Così avremo qualcosa di più da raccontare … Io vorrei dare più contenuti alla fogliolina. Qualcuno diceva che senza la fogliolina arrivano i barbari, ma i barbari sono già arrivati anche con la fogliolina. Noi dobbiamo inserire tanti di quegli elementi di complicazione ambientale per cui chi fa le grandi produzioni non ci riesce. Dobbiamo dare loro dei problemi che siano a favore dell’ambiente. Se invece noi ci accontentiamo di appiccicare la fogliolina verde – io l’ho fatto solo perché me l’ha chiesto Bio c’ Bon che pure non ce l’aveva – l’ho fatto ma mi sono comportato nello stesso modo in cui mi comportavo prima, anzi mi ha aumentato il carico burocratico perché ho una persona dedicata solo a questo. Ribadisco, dobbiamo aggiungere elementi di complicazione ambientale ed etica alla GD. Altrimenti se ci accodiamo ci limitiamo a sopravvivere”.

Su questa linea di attenzione all’ambiente, di centralità del climate change e della sostenibilità ambientale, Lorenzo Peris di IFOAM Flo-Cert sottolinea che “bisogna trovare degli elementi di distinzione in questo senso che riguardino l’agricoltura bio e che possano passare ovunque. E’ fondamentale l’impronta carbonio e che nel PSR ci sia la misurazione della sequestrazione del carbonio e il suo riconoscimento. Dobbiamo cominciare a farlo noi del biologico e si possono dare dei premi a chi dà un contributo in questo senso. Una volta stabilito un punto di partenza che è necessariamente diverso per i diversi territori si può misurare in che direzione ci si muove. Bisogna partire dai dei miglioramenti misurabili su delle filiere controllate”.

Emanuele Mussa dell’azienda risicola la Garlanda: ” Siamo un’azienda medio-piccola di circa 120 ha e una volta messo a punto il nostro metodo di coltivazione negli ultimi anni abbiamo lavorato tantissimo nella rinaturalizzazione. Per chiudere la filiera abbiamo fatto una piccola riseria (10 q.li/ora) e dal seme al confezionamento facciamo tutto all’interno. Per il seme abbiamo costituito una piccola azienda sementiera che commercializza varietà di riso antiche; otto sono registrate e certificate biologiche. Siamo gli unici sementieri di riso bio, tutti gli altri coltivatori vanno in deroga. Gli agricoltori debbono tornare ad essere proprietari dei semi e a autoriprodurli come si è sempre fatto mettendo da parte il seme e magari selezionandolo. Quando gli altri agricoltori hanno visto che il nostro metodo funziona hanno cominciato a chiederci e a visitarci per capire cosa stessimo facendo. Adesso nel nostro paese ci sono 800 ha coltivati come i nostri. Il problema è che gli altri agricoltori ci hanno seguiti nella sola tecnica produttiva e non nella ricostruzione dell’ambiente. Da qui è nata l’idea di creare Polyculturae che ci consentisse di incidere anche su questi aspetti. L’associazione riunisce tutti quelli che già fanno agricoltura biodinamica, rigenerativa, biologica e che vogliono incrementare la loro agrobiodiversità.

Con il marchio Biodiversitas, gratuito e senza royalty, spendibile commercialmente, valutiamo non il prodotto ma l’azienda nella sua interezza. Ci sono otto indicatori da misurare per la certificazione, uno riguarda l’aspetto ‘fitobiologico’ messo a punto dal prof. Taffetani; questo è quello che ha il maggior peso, poi ce ne sono altri sette che riguardano aspetti come la presenza di varietà antiche. Sono d’accordo con Fattori della Coop Montebello – prosegue Mussa, le aziende devono professionalizzarsi in tutti i sensi. Non basta più produrre bene bisogna anche essere capaci di dare dei servizi ecosistemici. Le aziende devono essere capaci di promuovere anche il proprio ambiente e tutto questo è traducibile in termini economici”.

Motivazioni, alleanze e disposizione collaborativa

Il secondo tema, che sta nella cornice del biologico delle origini, quindi si presenta in termini di continuità, è la questione delle motivazioni, delle alleanze e della disposizione collaborativa((Nota – Con il virus cosa sta cambiando?
1. Si ritornerà come prima …
Il virus ha fatto riapparire in tutta la sua drammaticità proprio la condizione delle “vita nuda”, condizione che non riguarda più solo chi era stato messo ai margini dalle accelerazioni della globalizzazione, ma riguarda tutti.
Ha “generato” una contraddizione estrema, perché comprime drasticamente i legami di socialità ma porta a riscoprire il valore del mettersi in comune, di mettere al centro il tema della “comunità di destino”, che significa saper riconoscersi nello spaesamento e nella sofferenza dell’altro.
Il virus genererà apertura o rinserramento, produrrà solidarietà o rabbia rancorosa, produrrà comunità o solitudine, nuova energia o isolamento. O anche, dopo un po’ di tempo, si annebbieranno le tensioni del “cambiamento” e si ritornerà come prima … Queste due righe per indicare lo scenario di qualche idea e orizzonte che ci contiene e che può influenzare le pratiche di cittadini, agricoltori, sommersi e salvati, di istituzioni.

2.Quali spazi per dispositivi di collaborazione
Basta la voglia di comunità? oltre al vaccino occorre produrre anticorpi sociali che si mettono in mezzo producendo inclusione. Nuovi dispositivi di collaborazione …
Di un certo interesse sono le proposte del “Pro memoria per il dopo” del Forum disuguaglianze/diversità di Luciano Barca. Sono indicati alcuni ambiti prioritari: … azioni di solidarietà all’interno delle comunità territoriali e a livello nazionale; forme di auto-organizzazione e mutualismo; visibilità pubblica dei lavoratori e delle lavoratrici “essenziali”; emersione nelle nostre preferenze di “ciò che davvero vogliamo”; impegno delle organizzazioni di cittadinanza attiva per affiancare i più vulnerabili e propugnare idee; creatività imprenditoriale.))

E’ il riportarsi alla cultura, alla dimensione ‘morale’ che tiene dentro, anche più di prima, aspetti di giustizia sociale e di salvaguardia della casa comune, di ricerca di collaborazioni e di strade per la sostenibilità economica.

Sulla visione, l’orizzonte ‘morale’ entro il quale muoversi, ci sembrano importanti gli interventi di Franco Zecchinato e di Armando Mariano, primo presidente di Aiab e oggi lucido novantenne.

Zecchinato sostiene una tesi che possiamo così formulare: tenere insieme, conciliare, mettere in tensione sostenibilità economica, tecnica e riferimento ai valori culturali, ossia quel biologico legato ai valori del Movimento: l’ecologia, l’etica, la salute.

Ne riportiamo alcune frasi.

” Alle origini del movimento biologico ci si ritrovava spesso non come adesso. Erano anni di grandi ideali, allora abbiamo espresso la voglia di cambiare in agricoltura, negli stili di vita. E’ fin troppo facile oggi arrivare a dire che bisogna recuperare quel complesso valoriale e di metterli in pista in un contesto che è cambiato. La riflessione che sono stato costretto a fare nel corso dell’intervista che Ceriani e Canale mi hanno fatto è stata molto utile. Io come altri ho attraversato queste vicende tenendo i piedi in due staffe. Uno era l’aspetto politico culturale. L’altro era la voglia di realizzare concretamente queste cose anche in termini economici, della sostenibilità dei processi e delle filiere per dimostrare che non si trattava solo di ideologia ma si stavano anche realizzando dei modelli.

E’ stato un percorso di grandi positività, di grandi entusiasmi, di grandi avventure che non va archiviato come un fatto nostalgico ma che invece dovrebbe aiutarci a superare questi anni di incertezza.

Noi dobbiamo riorientare il nostro lavoro verso altre strade. Però vedo che negli operatori nuovi, qualunque essi siano, il fatto di non aver accesso ai valori culturali che sono alla base del movimento biologico, fa la differenza”.

Anche Mariano riflette sulla stessa lunghezza d’onda: “Ai miei tempi consideravamo il biologico un metodo di coltivazione. Però insieme a questa parte tecnica c’era tutta un’anima del biologico che si accompagnava a questa tecnica diversa di coltivare. Erano i valori che stavano sotto il biologico e cioè un discorso che si allargava anche alla politica.

Erano due aspetti collegati, oggi mi sembra che ci sia stata una divaricazione. Bisognerebbe cercare di riunire di nuovo queste due cose o meglio informare di più quelli che entrano nel mondo biologico e renderli più responsabili su questi temi”.

Questa continuità si manifesta nel percorso irto di contraddizioni e di difficoltà del tema del comunitario e nello stesso tempo della disposizione collaborativa, della ricerca delle connessioni ( v. economia civile – Thompson e Sennett ) anche evitando che diventino mitologie comunitarie …

“Il tema di cui parliamo – ci dice Giovanni Girolomoni -è quello della cooperazione e della costruzione delle filiere. Il tema della costruzione delle filiere che era rimasto un po’ in ombra nella logica della certificazione è tornato ad essere centrale per noi. Il pericolo è che diventi solo un termine di marketing; non c’è un solo produttore industriale che non usi la parola filiera. Rischia di diventare solo un’espressione strumentale. Per fare filiere vere gli agricoltori debbono avere un ruolo centrale.

Biologico e filiera devono andare di pari passo. Gli agricoltori devono essere protagonisti nella filiera ma per fare questo devono aumentare di peso attraverso la cooperazione ma anche le OP. Per certi prodotti come il grano anche il bio è diventato una commodity trattata nelle borse merci dove il peso degli agricoltori è sempre più marginale se non si associano in filiere. Ma fare rete e cooperare è solo una precondizione per aumentare il peso contrattuale. Quando i numeri sono grandi, come i nostri 20.000 ha, bisogna professionalizzare, programmare, fornire servizi, supporti, sementi, assistenza tecnica, formazione, sperimentazione… Stanno entrando produttori convenzionali, anche molto bravi che vivono di agricoltura, per cui il bio è l’ultima spiaggia. Il loro è solo un approccio economico, manca l’aspetto culturale, allora è necessario fare formazione, cultura . Piccolo non è sempre bello va commisurato al contesto produttivo e al settore. bisogna capire il contesto, è necessario mettersi insieme per evitare la frammentazione. Bisogna costruire dal basso filiere dove gli agricoltori siano protagonisti”((Nel seminario del 18 gennaio 2020 sul tema Alberto Berton ha presentato questa posizione: “Nel biologico si è sempre cercato di costruire un altro mercato. La storia del biologico è una storia della costruzione di altri mercati. Il piccolo è bello ha funzionato per parecchi decenni, se adesso entrano in campo i big è perché si è costruito dal piccolo qualcosa che ha funzionato . Sia a livello produttivo che distributivo si è potuti crescere attraverso un’aggregazione. Non è necessario che la singola unità produttiva/distributiva diventi sempre più grande. Non si è cercato di uscire dal mercato, come alcuni approcci anche recentima si è cercato di costruire un altro mercato dove il problema non è fare profitti sul capitale investito ma portare a casa un reddito. Questa economia funziona più di quella ‘grande'”.)).

La costruzione di filiere e di iniziative di questo tipo hanno a che fare con la capacità delle comunità di favorire “ecosistemi sociali ed economici” favorevoli alla nascita e promozione di attività in grado di ricombinare risorse differenti, incrociare bisogni e desideri
emergenti, fare alleanze. Le condizioni basilari riguardano la definizione di elementi di policies che stimolino ecosistemi favorevoli all’innovazione e inclusivi e la necessità di ripensare l’uso delle tecnologie e del digitale in maniera funzionale alle aziende e al contesto locale e non solo per aumentare il potenziale mercato.

Sono questioni complicate che implicano da una parte la capacità di rappresentare in maniera complessa il territorio definendone la vocazione, la forza di rilanciare dispositivi di mediazione sociale che metabolizzino i flussi lunghi (informativi, economici, umani) che attraversano i luoghi e dall’altra la gestione dell’innovazione tecnologica, il guardare in faccia le tecnologie e la digitalizzazione.((Come tutte le tecnologie, la digitalizzazione non è né buona né cattiva. Dipende dall’uso che e ne fa. O più esattamente dall’elaborazione culturale politica che di essa viene fatta.

Mauro Magatti In Fondazione Feltrinelli Ricerca, 10 idee per convivere con il lavoro che cambia, 2017 (p. 15 – 22).))

Nei contesti di innovazione civica che operano secondo pratiche collaborative, di ricerca di nuove modalità di intermediazione – dopo qualche decennio di lodi alla disintermediazione – in un’inedita ottica di produzione di valore condiviso con la propria comunità e che rendono i luoghi capaci di realizzare sperimentazioni evolutive si devono affrontare contemporaneamente scelte di innovazione tecnologica e di superamento del difficile rapporto tra ecologia e tecnica come si è manifestato nel Novecento e come si presenta oggi nelle sue più dure implicazioni …

Potremmo riferirci ad esperienze che attraverso la costruzione di filiere locali, l’innovazione tecnologia e l’uso della comunicazione digitale hanno affrontato e rilanciato le tematiche dello sviluppo locale, il lavoro e l’impresa, come vengono riportate nel testo Ecosistemi digitali. Trasformazioni sociali e rivoluzione tecnologica, acura diAndrea Califano.

Nel nostro caso – la ricerca e il seminario a Valli Unite – il tema è stato sfiorato; merita certamente riportare, qui di seguito, le sperimentazioni e alcune scelte del Consorzio Conmarchebio, nell’attesa di mettere all’ordine del giorno in un prossimo seminario il tema del rapporto con l’innovazione e la tecnica.

Allegati

Consorzio ConMarcheBio : contratti di filiera, sviluppo rurale e digitalizzazione…

In un convegno organizzato dal comune di Senigallia in collaborazione con il Consorzio marche biologiche, realtà consortile che raggruppa i produttori biologici marchigiani, sono emerse tutte le potenzialità di questo settore, che in Italia ha registrato in un solo anno un più 20% di operatori dedicati e di superficie coltivata.

L’agricoltura biologica ha potenzialmente ampi margini per crescere, ma occorre un supporto politico, organizzativo e culturale per arrivare a un suo pieno sviluppo. E’ questo, in estrema sintesi, quanto è emerso nel corso del convegno “Il biologico nelle Marche e le grandi sfide del mercato”, che si è tenuto il 22 dicembre al Palazzetto Baviera di Senigallia (AN).

L’incontro è stato funzionale sia a ripercorrere le grandi tappe dello sviluppo del bio in Italia, sia a precorrere alcuni possibili scenari futuri.

Quella che oggi si sta attraversando è la fase “3.0”, caratterizzata dalla necessità di integrare la sostenibilità ambientale (agro – ecologia e non solo) con quella economica. In gioco non c’è solo il futuro dell’agricoltura biologica, ma quello stesso dell’agricoltura. E qual è la tendenza che bisogna attendersi per un futuro ormai molto prossimo? La fase “4.0” implementerà il concetto, per alcuni versi già presente, di “digitalizzazione dell’agricoltura”, per una “nuova conversione” culturale e colturale. Il digitale, dunque, non sarà uno strumento da accettare o, peggio, da “sopportare”, né sarà una bacchetta magica che permetterà di coniugare la sostenibilità ambientale con quella economica. Tuttavia, sarà (e in alcune realtà già lo è) la nuova condizione della persona, prima che dell’imprenditore, quindi imprescindibile per innovare, organizzare e professionalizzare il settore primario. Con la digitalizzazione dell’agricoltura biologica, in altri termini, si ha realmente l’opportunità di realizzare ambiziosi obiettivi, ovvero “connettere tutti gli attori della filiera” e rendere fattibile la gestione dell’enorme flusso di informazioni legate al processo produttivo, come la programmazione, la certificazione, il monitoraggio, la tracciabilità, la trasparenza, fino ad arrivare al consumatore finale.

Nel dialogo che abbiamo avuto con Giovanni Girolomoni e Francesco Torriani abbiamo colto alcune dinamiche di cambiamento e certe scelte di innovazione…

Giovanni Girolomoni: Prima eravamo solo agricoltori ma già dal ’89 diventiamo anche industriali: facciamo un pastificio che è un’attività industriale a tutti gli effetti. Anche per il tipo di tecnologie che abbiamo usato, macchine sperimentali… Oggi noi abbiamo un pastificio modernissimo come tecnologie, efficiente, funzionale.

Dov’è la differenza rispetto ad altri pastifici? Magari che eravamo completamente dedicati al bio, che non è una cosa da poco. Magari che siamo concentrati su certe tematiche come la lenta essicazione, che abbiamo adottato certe tecnologie in modo che ci rispettassero dei principi di precauzione nutrizionali e quindi una attenzione sulla qualità del prodotto. Però è una scelta che fondamentalmente può fare qualsiasi industriale. La prima differenza è che comunque, nonostante tutto, continuiamo ad essere un pastificio agricolo.

Nel 2008 abbiamo creato la cooperativa Montebello con l’obiettivo di farla diventare il soggetto agricolo che si occupasse del reperimento delle materie prime per la cooperativa Girolomoni – trasformazione e commercializzazione. Siamo partiti da 10 soci fondatori agricoltori-conferitori e oggi saremo a breve 250. Con una grossa spinta negli ultimi due, tre anni soprattutto con l’investimento che stiamo facendo che è quello del mulino.

Se una buona parte del territorio si è convertita al biologico è sia perché siamo un soggetto serio che pagava, dava delle risposte. Sia perché dal punto di vista culturale abbiamo fatto un lavoro attivo con le istituzioni, con le persone… Però poi i soggetti nuovi che diventano soci della cooperativa Montebello: chi sono? Che storia hanno? Non sono i fondatori del biologico, sono imprenditori agricoli bravissimi che hanno anche molte più competenze.

Cosa rimane dell’impegno e dell’idea del fare impresa cooperativa che aveva tuo padre e cosa invece è cambiato (oltre al cambio di scala, alla focalizzazione produttiva e la strutturazione della filiera ) rispetto ai tempi dei pionieri come lui?

Se alla fine facciamo una fotografia di tutta quella che era la progettualità di nostro padre com’era prima che venisse a mancare, possiamo dire che stiamo portando avanti tutte le attività; non ne abbiamo lasciato indietro una. Né la Fondazione culturale, nè la rivista quadrimestrale Mediterraneo che è l’impegno più importante ha anzi raggiunto dei numeri maggiori. Sulla parte culturale continuiamo a investire, perché è prioritaria rispetto alla parte produttiva dal punto di vista valoriale. Anche con la Fondazione Langer continuiamo a fare degli scambi culturali.

Con qualche fatica continuiamo a portare avanti tutta l’attività di accoglienza: il ristorante, l’agriturismo. Con l’idea di legame, di accoglienza col territorio, vogliamo far conoscere questo territorio. Il legame col territorio rimane fortissimo e se andiamo a vedere anche dal punto di vista della filiera certi obiettivi di connessione e di opportunità per il mondo agricolo sono più forti oggi che ieri

Vogliamo dare delle risposte molto concrete al territorio, non solo ideologiche, perché il rischio è sempre stato quello di dare delle risposte ideologiche

Il futuro dell’azienda? Sicuramente in un mondo in cui il concetto di bio è annacquatoil concetto di oltre il biologico è importante. Dobbiamo vincere la sfida dal punto di vista della comunicazione.

Il mulino l’abbiamo fatto soprattutto per avere un controllo completo della filiera con un feedback continuo tra mulino e pastificio che permette di migliorare la qualità da ogni punto di vista, sia tecnologico, sia del controllo della filiera e del processo

Alla fine l’obiettivo qual è? Quel valore aggiunto che andiamo a prendere sul mercato…

Devi continuare a crescere finchè uno vuole crescere, dipende da dove si vuole arrivare

… il futuro del biologico in Italia? Si rischia di pensare alla distribuzione del biologico, che è un problema perché c’è l’annacquamento di quei valori ma, contemporaneamente, c’è un problema distributivo in generale che non riguarda solo l’agricoltura bio; riguarda tutta la distribuzione. Dobbiamo capire, non abbiamo una strategia da questo punto di vista anche perché sono questioni più grandi di noi. Il mondo della distribuzione sta andando verso la disintermediazione, non abbiamo una strategia. Non abbiamo una strategia e-commerce e non abbiamo e-commerce. Ci sono i consulenti che dicono che l’ e-commerce è già finito, per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi.

Noi nella certificazione ci crediamo e non la mettiamo in discussione. E’ il punto di partenza. Quindi oltre il biologico vuol dire fare della certificazione il punto di partenza per arrivare dove? Per noi è per ricostruire il mondo rurale.

Torriani:sull’impegno nel Consorzio i produttori creano delle associazioni ma anche delle cooperative. Il tema che adesso diventa fondamentale è che tu alla fine devi comunque misurarti con il mercato, perché quello che produci lo devi vendere. Ma ti devi misurare anche con i servizi che devi comunque essere in grado di dare all’azienda agricola che si converte al metodo biologico.

L’altro ruolo che ha il consorzio Con Marche bio è quello di fare studi di fattibilità; può essere una struttura strategica nella misura in cui accetti la sfida che l’agricoltura biologica non è più una nicchia ma diventa un comparto ( servizi e progetti pilota…)

Per noi filiera significa far ritornare al produttore una parte importante della produzione. Molte delle filiere che si stanno affermando adesso nascono a ritroso. Da noi è il produttore che si organizza in filiera

Mettere in filiera le aziende e programmare le semine, conoscere l’azienda, capire anche se è una conversione dell’ultima ora o c’è un imprenditore che ci dà affidamento, che comunque si mette in gioco. Abbiamo capito che importante non è solo il prezzo finale della materia prima ma sono i servizi

Secondo noi il futuro dell’agricoltura passa attraverso la coniugazione tra la sostenibilità ambientale e quella economica. Per portare avanti la sostenibilità ambientale senza quella economica devi ipotizzare un reddito di cittadinanza, una sovvenzione agroecologica…

E’ la cooperazione, che ti permette di operare in modo flessibile tra produttori agricoli. E’ la filiera che mi permette di mettere intorno a un tavolo non solo il produttore agricolo ma anche chi trasforma e chi va sul mercato col prodotto finito

L’altro aspetto è la promozione , sappiamo che saper raccontare quello che facciamo nel mondo agricolo è strategico.

Noi diciamo che per i seminativi le aziende devono fare rete, fare sistema, quell’agricoltore che seminava e decideva lui a chi vendere è finita. L’azienda agricola quando semina deve già sapere a chi conferisce, deve conoscere i contratti di filiera.

Dico che ci possono esserepiù agricolture… Noi abbiamo raccolto la sfida di fare in modo che l’agricoltura biologica sia il futuro dell’agricoltura delle Marche…

La digitalizzazione ci consente di descrivere il flusso della filiera in modo dinamico. E tutte quelle informazioni che noi abbiamo possono essere utili sia per fare assistenza tecnica all’azienda agricola, sia per l’organismo di certificazione ma anche per il consumatore perché riusciamo ad avere una tracciabilità fino al pacco di pasta. Fino ad arrivare al punto che quando il camion arriva per prelevare le mietitrebbie sono già connesse e man mano che trebbiano ti comunicano la qualità del grano che stanno raccogliendo

Questo progetto di digitalizzazione lo facciamo direttamente come Montebello cooperativa e si chiama Bio cereals 4.0 ed è relativo alla Misura 16.1 ( Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e forestali Linee guida per lo sviluppo dell’agricoltura di precisione in italia).

Rete Humus : un’agricoltura che produce servizi, oggi necessari per l’emergenza climatica, ambientale, e per dare risposte concrete che arrivano al mercato.

Il tenere insieme mercato e società

L’agricoltura va pensata in un altro modo, non può essere una produzione di derrate, di commodities, l’agricoltura è una attività fondante di una comunità, di prodotti e di servizi. Oggi l’agricoltura bio se è fatta come dio comanda, è un’agricoltura che produce servizi, oggi necessari per l’emergenza climatica, ambientale, che deve dare risposte concrete perché queste risposte arrivano al mercato. (F.Zecchinato)

Bruno Sebastianelli: … da quattro anni abbiamo dato vita insieme ad altri la Rete Humus, un regolamento, non ancora un nuovo marchio, , formato da una rete di imprese a livello nazionale, El Tamiso, La Terra e il cielo, ABC Calabria, Università di Bologna, i medici ISde, dovrebbe entrare Valli Unite e altri … E’ stato fatto un regolamento più restrittivo di un bio a 360 gradi, garanzia sociale, giusto prezzo , ecologia integrata, collegata a Ifoam 3.0

Ma cosa differenzia rete Humus? È un altro modo di fare bio, è un altro marchio?

Zecchinato: La normativa pubblica è talmente misera che la gente non sa che (qualcuno) si occupa di fertilità del terreno, di biodiversità, di giustizia sociale nel lavoro, di impatto ambientale. La norma è fatta per le grandi imprese che vogliono stare sul mercato del bio … si può usare questo e quello, non è scritto che devi piantare alberi, che devi pagare il sindacato …

Rete Humus è uno strumento di rilancio comunicativo sulle cose che state facendo …

Non dico di tornare alle origini, ma sottolineare gli elementi fondanti dell’esperienza bio, se no diventa un qualcosa che come in tutte le offerte della GDO, cresce, si stabilizza. matura e poi cala e ne trovano un’altra. La pubblicità di Conad mi ha colpito: – cosa sta cercando , signora? Sta cercando il bio? Noi abbiamo di più, abbiamo l’etica … siamo oltre.

Bisogna divulgare, strutturare e connettere dei luoghi dove trovi i gangli di questa rete … rivolgerti a un pubblico di un certo livello culturale

Ma c’è un discorso di professionalità; mi fido di te, ma non perché ci vediamo …

Il movimento per il nuovo bio ha bisogno di interlocutori preparati, e di fiducia. Bisogna fare bene le cose. […] L’intento di fondo con parecchi punti di domanda è allargare la partecipazione, far partecipare a Humus soggetti che non sono agricoltori, avere un continuo interscambio tra soggetti portatori di interessi diversi […] L’agricoltura va pensata in un altro modo, non può essere una produzione di derrate, di commodities, l’agricoltura è una attività fondante di una comunità, di prodotti e di servizi. Oggi l’agricoltura bio se è fatta come dio comanda, è un’agricoltura che produce servizi, oggi necessari per l’emergenza climatica, ambientale, che deve dare risposte concrete perché queste risposte arrivano al mercato.

Come vedi il futuro di questo mondo del biologico che era nato sulla spinta di motivazioni ideali che andavano ben oltre il bio?

Zecchinato: Vedo che l’agricoltura contadina intesa come la piccola impresa sul territorio dovrebbe sposarsi, diventare, senza pretesa di essere il mercato del biologico, una realtà che occupa uno spazio, che connette … (che sperimenta) cooperative come la nostra …

Secondo me, e ho una figlia che lavora qui, hanno di fronte anni difficili, ma dobbiamo aspettare proposte declinate diversamente senza vincolarsi a vicende passate, che gestisci la distribuzione e le filiere se sai comunicare il tuo valore aggiunto; il tuo prezzo lo fai perché sai comunicare il tuo servizio. E’ Rete Humus? Lo vedremo.

Il servizio è la capacità di essere tempestivi ( ? …), è la qualità del cibo, la trasparenza nella filiera… il servizio è un’ottima formazione degli addetti alla vendita

Avere competenze ma anche memoria di questa tradizione del bio che i pionieri ci mostrano …

Non so se sarà un prodotto di largo successo, ma servirà a chi avrà la buona volontà di conoscere, di valorizzare … è uno spazio da coltivare nelle relazioni che poi diventano anche fatturato.

Le facce giovani come Greta, vanno intercettati, gli va dato qualcosa … loro cercano coerenza.

Associazione Produttori Agricoli Polyculturae

La Certificazione dell’agro-biodiversità dal sito Polyculturae)

Tre aziende agricole risicole di medie dimensioni hanno deciso di dar vita nel febbraio 2019 a “Polyculturae” una Associazione di Produttori Agricoli, libera, democratica, senza finalità lucrative ed aperta all’adesione, partecipazione e condivisione di tutti gli agricoltori che, pur nelle diversità, condividono nella teoria e nella pratica il rispetto per tutte le forme di vita naturali dei campi. Gli stessi fondatori vengono da esperienze diverse, chi, seppur operi in regime di agricoltura biologica da poco tempo, cerca di fare un passo ulteriore per la ricostruzione dell’ambiente, chi quel passo da anni ha cercato di farlo ispirandosi a sistemi di diversificazione colturale come la Policoltura MA-PI …

La scelta del nome, “Polyculturae” è solo in piccola parte un omaggio alla consociazione e diversificazione delle coltivazioni, in realtà vuole significare una apertura e l’impegno al confronto tra le varie “Culture” ecologiste, agricole naturali, primitive o tradizionali di tutto il Mondo, con le loro idee e soluzioni pratiche.

Gli obiettivi sono quelli di promuovere tra gli agricoltori, ma anche nella Comunità Scientifica e nella popolazione, lo studio, la diffusione e l’attuazione pratica del recupero, del rispetto e della tutela della Biodiversità in generale e, in particolare, degli Agro-Ecosistemi. Una realtà che nasce dagli agricoltori e, nel tempo, intende continuare ad essere gestita dagli stessi, seppur le proprie attività saranno contraddistinte dall’oggettività e dal rigore scientifico, assicurato dall’autorevole terzietà della Commissione Scientifica e dalla collaborazione con Università ed Enti di Ricerca Nazionali e Internazionali.

Polyculturae, per il raggiungimento dei suoi obiettivi, ha intrapreso e intraprenderà una serie di attività sociali e scientifiche:

Ideazione, istituzione e registrazione di Marchi collettivi finalizzati alla tutela della agro-biodiversità e degli agro-ecosistemi, gestione degli stessi, secondo apposito Regolamento, in forma diretta e autonoma o delegata.

Esercizio delle attività controllo e certificazione in forma diretta e autonoma o delegata relativamente all’utilizzo dei propri marchi collettivi.

Organizzazione di studi, ricerche, iniziative scientifiche, azioni didattiche e divulgative; promozione di convegni, seminari, mostre, eventi e di altre iniziative culturali nonché dei prodotti a queste collegate; erogazione di servizi, collaborazioni scientifiche, e consulenze; realizzazione di attività di formazione professionale, aggiornamento, perfezionamento e informazione.

L’Associazione Polyculturae è stata fondata dall’Azienda Agricola Una Garlanda di Rovasenda (VC), dall’Azienda Agricola “Dulcamara” di Romentino (NO) e dall’Azienda agricola “Priorato” di Trino Vercellese (VC).

La Commissione Scientifica e di Certificazione rappresenta l’organo organo consultivo di approfondimento scientifico e tecnico sui temi dell’agro-biodiversità e della biodiversità degli ecosistemi, svolgendo altresì il ruolo di commissione di certificazione, con compiti valutativi sugli elaborati ispettivi, che esprime parere vincolante sulla conformità delle organizzazioni richiedenti ai requisiti previsti dai documenti tecnici, secondo quanto disposto dai regolamenti d’uso dei Marchi Collettivi dell’Associazione.

E’ attualmente composta da: Prof. Fabio Taffetani – Ordinario di Botanica sistematica – Direttore Orto Botanico “Selva di Gallignano” – Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali – Università Politecnica delle Marche; Prof.ssa Ilda Vagge – Associato di Ecologia del Paesaggio – Dipartimento di Scienze Agrarie ed Ambientali: Produzione, Territorio, Agroenergia – Università degli Studi di Milano

Il Marchio collettivo “BIODIVERSITAS” costituito e registrato dall’Associazione “Polyculturae”, è basato su una “certificazione di sistema”. Oggetto della certificazione saranno i risultati progressivamente e dinamicamente raggiunti dall’azienda agricola in termini di Agro-Biodiversità e Biodiversità dell’Agro-Ecosistema (non, quindi, il tipo di gestione o di tecnica agronomica adottata). Per questo “Polyculturae” ha un sogno che vuole concretizzare e condividere con quante più persone e aziende possibili: recuperare, difendere e promuovere la biodiversità di tutti gli agro-ecosistemi agricoli, a partire da quelli delle nostre aziende.

Il marchio collettivo “Biodiversitas” certifica il lavoro delle aziende impegnate nella conservazione della biodiversità, ma attraverso indicatori “dinamici” consente di valutare l’evoluzione dei livelli di agro-biodiversità aziendale, stimolando gli agricoltori ad un miglioramento costante e continuo dell’ambiente e, indirettamente, della qualità delle proprie produzioni.

I requisiti di certificazione sono basati sulla verifica e valutazione di alcuni indicatori principali:

composizione, struttura, dinamismo e attivita’ biologica delle cenosi vegetali (verificato, monitorato e valutato con metodi di indagine floristico-vegetazionali);

metodo di gestione e produzione agricolo (es. agricoltura biologica, biodinamica, permacoltura, etc.) e presenza e gestione di siepi, arbusti, frutteti, boschi, etc.;

diversificazione colturale utilizzo e gestione di cultivar e varieta’ da conservazione o antiche;

indice di utilizzazione del suolo (presenza di terreni incolti con buona presenza di biodiversità) e altre azioni e strategie di incremento della biodiversita’ e presenza di specie protette;

partecipazione e promozione di attivita’ di studio, ricerca e divulgative sulla biodiversità

Bibliografia

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  • Papa Francesco, Laudato sì, Libreria editrice vaticana, 2015
  • Fondazione Alce Nero, Sulle tracce dei nostri padri, 2000
  • Gino Girolomoni, Alce nero grida, Jaca book, 2002
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  • The Ecologist, Agricoltura è disegnare il cielo, Lef, 2008, n. 8
  • Richard Sennett, Insieme, Feltrinelli, 2012
  • Ivan Illich, Convivialità, Boroli ed, 2005
  • (a cura di)Andrea Califano, Ecosistemi digitali. Trasformazioni sociali e rivoluzione tecnologica, Fondazione Feltrinelli, 2019
  • Giorgio Nebbia e Pier Paolo Poggio su Altronovecento (n. 4 – n.19 – n.25 – n.27) e monografico n. 35, Citoni, Papa, Sinistra ed ecologia in Italia. 1968 – 1974 Altronovecento monografico n. 30, 2016 e n.39, 2018
  • Lester Brown, Piano B 4.0 Mobilitarsi per salvare la civiltà, ed. Ambiente, 2010
  • Gianfranco Pacchioni, L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie. Il Mulino, 2018
  • Stefano Mancuso, La nazione delle piante, Laterza, 2019
  • Edgar Meyer, Pionieri dell’ambiente, Carabà, 1995
  • Pier Paolo Poggio, La crisi ecologica, Jaca book, 2003
  • Pier Paolo Poggio, Le tre agricolture, Jaca book, 2015
  • Alberto Bevilacqua, La mucca è savia, Donzelli, 2002
  • Monia Andreani, Biologico, collettivo solidale Dalla filiera agricola alle azioni mutualistiche, Altreconomia,2016
  • Roberto Brioschi e Gabriella Lalia, Biologico etico. Storie di filiere umane e di contadini felici, Altreconomia, 2015
  • Commissione nazionale, « Cos’è biologico » (file)
  • Alberto Berton, Storia del biologico (file)
  • Ilaria Agostini, Fierucola del pane (file)
  • Alexander Langer, ecologia (file)
  • Gianfranco Bologna, I limiti della crescita ( file)
  • Leopold, La terra come soggetto di diritto (file)
  • Dossier Nuova agricoltura (file) – Ecologia e comunità ( file) – VinNature (file)
  • Nuova legge agricoltura bio in Piemonte (file) – Indicatori agro ecologia ( file)
  • Testi e doc. statistici sul biologico: Ifoam 2016 – Neodemos 2018 – Rapporti Oxfam – Rapporto IPBES, piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici – Forum Disuguaglianze Diversità, Rapporto « 15 proposte per la giustizia sociale », 2019