L’ambiente come nuova prospettiva storiografica

ambiente

La storia ambientale incomincia ad affermarsi come disciplina autonoma, in particolare negli Usa, in Germania e Stati Uniti; in Italia, invece, trova difficoltà a livello divulgativo e soprattutto nelle università, nei corsi più tradizionali e in quelli di recente formazione, Scienze naturali o Scienze ambientali, non riesce a ritagliarsi spazi adeguati.

A prescindere dal fatto di chiamare ecologica oppure ambientale la storia oggetto di questo articolo, è evidente che alle nuove leve di studenti sfugga il valore dello stesso termine di ecologia, per quanto esso sia frequente e abusato.

L’ecologia (da oìkos e logos: il pensiero che gestisce la vita domestica, per esteso la quotidianità di un area delimitata) venne fondata da Ernst Haeckel con la sua definizione del 1866: “la scienza delle relazioni di un organismo con il mondo esteriore che lo circonda; cioé, in senso lato, la scienza delle condizioni di esistenza”. Se l’ecologia è considerabile una scienza epistemologicamente fondante, allora può avere pretesa di essere considerata la nuova filosofia di riconciliazione fra uomo e natura. L’elaborazione del concetto di ecologia si è dipanato a partire da The Natural History of Selborne, pubblicata nel 1789 dal reverendo Gilbert White, che dava della natura una visione arcadica e lasciava intendere che l’intervento della Provvidenza eliminava gli animali ostili, riottosi o nocivi. Il modello di attenta osservazione della natura costruito dal pastore ebbe larga diffusione, tanto che intorno alla amena località inglese e alla Selborne Society si riunirono, più di un secolo dopo, numerosi intellettuali anglosassoni. Identicamente romantica o neo-romantica, ma non arcadica come questa inglese, fu la lettura della natura messa in atto da Henry David Thoreau (Henry D. Thoreau), monumentale figura rappresentativa degli immensi spazi liberi e simbolici degli Stati Uniti d’America. Thoureau osservava non solo la bellezza, ma anche la crudeltà della natura nelle aree vergini sottoposte alla colonizzazione progressiva del nuovo stato, cogliendo in profondità la necessità di salvaguardare l’antico regno vegetale degli stati orientali, così come il patrimonio delle culture dei nativi americani, che proprio sul corretto e rispettoso utilizzo delle risorse naturali incentravano i loro sistemi di valore. In ogni caso, bisognava mantenere centrata l’attenzione sul complesso delle forme della vita, evitando di cadere nella settorialità delle scienze che si affermavano in Occidente.

Tale indirizzo fu in qualche modo seguito da Eugenius Warming e da Frederic Clements, che fra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento circoscrissero e studiarono, definendole scientificamente, la comunità vegetale e la comunità climax: raggruppamenti di piante che talvolta operavano non in senso darwiniano di sopraffazione per la sopravvivenza e il dominio di un dato habitat ma che sviluppavano alleanze e la massima stabilità ed equilibrio in rapporto al clima dell’area, costruendo una tale simbiosi da essere considerate come un solo organismo vivente.

L’uso corrente di ecologia ed ecologico è assai diverso dall’accezione elaborata dalle scienze biologiche e copre ambiti molto diversi e lontani da quelli originari, fino alla moda culturale e alla qualificazione di attività umane che probabilmente sono inquinanti, come per esempio le lavanderie, tutte ecologiche a significare solamente l’igiene o la lucentezza del bucato. Così come avviene nel quotidiano, anche nelle forme più serie ed elevate della conoscenza accademica la storia ambientale copre una vasta gamma di studi sul passato e sulle ragioni che giustificano il nostro presente: dalla storia del paesaggio e della sua concezione alla storia della conservazione e delle aree protette, dall’ambientalismo dei precursori e delle associazioni alle contestazioni operaie, dall’inquinamento industriale al diritto.

Un caso particolare per la storia contemporanea è quello del riflesso che alcuni eventi di rilievo per l’ambiente provocano sui media, spesso l’unico mezzo a disposizione dello storico per vagliare il riscontro, anche ampio, che tali eventi ebbero sulle popolazioni coinvolte, per esempio, in casi di inquinamento. Il ruolo degli organi di informazione e opinione è stata di grande importanza, senza alcun dubbio, per alcuni caso recenti: la diossina dell’Icmesa a Seveso, le aniline e derivati dell’Acna in Val Bormida, l’Enichem e la Montedison a Porto Marghera, l’Eternit e le industrie consimili in Piemonte, in anni meno recenti la Montecatini di Mori. L’opinione pubblica assume un ruolo notevole all’interno del modello di Giorgio Nebbia, essendo l’unico mezzo attiivo e neutro che deve essere assicurato da inquinatori e contestatori per poter spostare dalla propria parte – e assicurarsi così la vittoria – inquinati e istituzioni. Simile basilare ruolo si ha anche nel modello di Maddalena Colombo, ma ciò che dalla sua analisi emergeva, così come da uno studio di Ravaioli e Tiezzi, era la carica allarmistica e sensazionalista delle informazioni ambientali presentate sui quotidiani, con una crescente e paradossale assuefazione del lettore, conseguenza negativa dell’apparizione di temi come quelli ecologici, centrali per le scelte politiche e produttive odierne eppure ancora ritenute un lusso inutile di fronte alla crescita quantitativa della produttività.

Nel corso degli anni Novanta, dopo circa dieci anni di vari studi empirici e di dibattito storiografico, con un certo ritardo sull’affermazione dei gruppi politici ambientalisti e della riflessione quotidiana sulla qualità della vita, la storia ambientale ha cominciato ad affermarsi con un proprio spazio autonomo, soprattutto in alcuni paesi europei ed extraeuropei, come Germania, Stati Uniti d’America e ora Spagna e, in modo meno sistematico, America Latina, Scandinavia, Gran Bretagna. È anche venuto il tempo, dunque, di interrogarsi sul diritto di cittadinanza di tale disciplina e di proporla a una platea più vasta, costituita da coloro che dovrebbero esserne gli immediati fruitori, vale a dire gli studenti universitari, e non solo quelli delle facoltà umanistiche. Nel testo che segue è d’obbligo, in primo luogo, effettuare una definizione di ecologia e, parallelamente, di storia ambientale, suggerendo così, all’interno di quest’ultima, l’eccezionale varietà di intenti e di modalità che la strutturano e – con relazione al ruolo e allo spazio che i media danno all’ecologia e all’ambiente – illustrando alcuni esempi di conflitto storico-sociale e le interpretazioni che ne vengono fornite.

Se si interroga un pubblico con una preparazione culturale adeguata ma non specifica sull’argomento, l’ecologia viene comunemente descritta come una scienza o una disciplina che ha a che fare con la salvaguardia della natura. In realtà, come Ernst Haeckel, formulatore della definizione e fondatore della materia, illustrò nel 1866, il valore del sostantivo trova la sua radice nel greco oìkos e logos: grossolanamente traducibile come idea della casa, cioé la scienza dello spazio della quotidianità e della vita condivisa; non tanto differenti da quell’oìkos e nòmos che in origine erano le regole per la sana amministrazione domestica e che oggi sono divenute economia, totalmente sganciata dall’ecologia che invece dovrebbe costituirne il nucleo teorico fondante per l’uso ottimale delle risorse. L’ecologia, più propriamente, è stata definita da Haeckel “la scienza delle relazioni di un organismo con il mondo esteriore che lo circonda; cioé, in senso lato, la scienza delle condizioni di esistenza”; è quindi una scienza delle interrelazioni, delle interdipendenze fra organismi viventi e dunque esiste anche un problema relativo alla vera natura dell’ecologia. Se essa costituisce infatti, nella sua accezione etimologica, una piattaforma di definizione della fenomenicità, del rapporto fra organismi viventi e non (in una parola, una vera e propria filosofia dell’interrelazione, una sorta anche di epistemologia), al tempo stesso l’ecologia è anche una scienza; anzi, essendo scienza fondativa, potrebbe essere accettata come la nuova “scienza delle scienze” per il superamento di quel distacco fra natura e ragione che con l’affermazione delle scienze sperimentali moderne si era posto come problema fondamentale della filosofia post-kantiana.

Dal punto di vista storico l’ecologia nasce con The Natural History of Selborne, pubblicata nel 1789 dal reverendo Gilbert White, pastore nella amena località inglese. La visione cristiana di White, attento osservatore ma partigiano di un modello arcadico di natura, dava di quest’ultima un quadro di meccanicistica perfettibilità, che lasciava intendere che l’intervento della Provvidenza eliminava senza incertezze gli animali ostili o riottosi, con i dubbi che la loro conflittualità poteva instillare nell’uomo comune, immerso nella tranquillità e nella regolarità di Selborne, ma lontano dagli avvenimenti del mondo, per esempio, dello sviluppo economico-industriale inglese; fatto sta che letterati e esponenti della cultura anglosassone di entrambe le sponde atlantiche (gli scrittori americani John Bourroghs e James Russell Lowell, ambasciatore a Londra, lo stesso Charles Darwin) nel tempo elessero la località ad angolo di pace e bellezza, fondando nel 1893 la Selborne Society. In effetti, il filone culturale costruito intorno al mondo naturale di Selborne costituì l’affermazione neo-romantica del vitalismo di fine Ottocento-primi Novecento contro le scienze di impronta positivistica, vitalismo facilmente percepibile come organicismo o anche olismo.

Il rapporto con la natura, d’altronde, ovviamente aveva una sua tradizionale interpretazione da parte della religione cristiana e, in particolare, cattolica. La sconfitta dell’animismo pagano aveva infatti permesso un primo distacco dal mondo, che per la sua natura terrena e profana poté così diventare elemento di indagine. Lo sviluppo di ogni conoscenza attraverso un metodo scientifico, il diritto ad allargare i confini del sapere e del dominio umano giustificati dall’impianto filosofico di Francis Bacon, inaugurò quell’egemonia della scienza settoriale e di quelle applicazioni rigorosamente governate da criteri universalistici, che portò all’imperialismo ecologico esercitato dall’Occidente nei confronti dei vari continenti assoggettati al dominio dei paesi europei. Una prima correzione di questa lettura si ebbe con l’ecologia romantica di Henry David Thoureau (1817-1862), un precursore del pacifismo contemporaneo – nel 1845 venne imprigionato perché si rifiutò di pagare le tasse che finanziavano la guerra degli Stati Uniti contro il Messico – e anzi un profeta della critica alla unilinearità della scienza moderna, al capitalismo espansionistico, alle giustificazioni religiose dello sfruttamento della natura. Dalle osservazioni sul Lago Walden e dalla classificazione linneana, insieme già all’attenzione per le teorie selettive darwiniane, Thoureau trasse la convinzione che la natura non è frugale se non nella semplicità del suo scorrere con il tempo, talvolta è crudele ma può essere vinta da una forza, da un essere che le appartiene, tuttavia è estremamente complessa nella sua struttura. Per tale ragione Thoureau si batteva per la ricostituzione dell’ambiente del New England precedente l’arrivo dei colonizzatori Wasp, quando non erano infrequenti querce con il tronco di 9 metri di diametro, aceri di 5 e abeti bianchi di 2 alti sino ad 80 metri. Il naturalista americano voleva perciò ripristinare le distese boschive originarie, utilizzando le metodologie sviluppate dalle neonate scienze forestali. Il romanticismo turoviano, basato sull’idea che esistesse un’armonia della natura, un’anima mundi che avrebbe permesso agli studiosi di riprendere la saggezza dei nativi americani contro la settorialità della scienza occidentale, il rispetto per le cose e gli esseri viventi contro ogni crudeltà, la forza vitalistica contro il meccanicismo, la partecipazione emotiva contro la razionalità, apparentemente obiettiva, la comprensione totale contro la parzialità, non potè affermarsi per la concomitante fortuna delle teorie selettive esposte da Charles Darwin con la pubblicazione di On the Origin of Species nel 1859, opera in cui si chiariva l’adattamento incessante all’ambiente operato da ogni singola specie generazione dopo generazione. L’attenzione di Darwin era permeata dalla consapevolezza, post-romantica e propria dei vittoriani, che la natura fosse matrigna e che ci si dovesse confrontare con una dura realtà. Lo studioso britannico, d’altronde, in The Voyage of the “Beagle” del 1845 si era soffermato anche con crudezza su aspetti caratterizzati da conflitti e terrore, come lo sterminio degli indios (sozzi e ubriachi) da parte del generale Rosas, la vita violenta dei gauchos, le sofferenze e le pene degli schiavi nelle piantagioni brasiliane, mettendo realisticamente in luce le minacce e i pericoli portati in ogni momento all’esistenza, anzi alla sopravvivenza. Ernst Haeckel si richiamò proprio allo scontro quotidiano violento implicito nella costruzione darwiniana quando definì l’ecologia nel 1866: ma corollario necessario all’affermarsi della sua innovazione concettuale fu il lavoro del danese Eugenius Warming, con la pubblicazione nel 1895 di The Ecology of Plants. An Introduction to the Study of Plants Communities dove, coniando l’idea di comunità vegetale, Warming dimostrò – confutando così anche Darwin – che se era vero che all’interno di una stessa specie di piante si accendevano lotte distruttive, era pure vero però che venivano costruite alleanze fra specie lontane. Questa sorta di comunità vegetali, giunte al migliore complessivo adattamento in una data area insediativa, erano perciò giunte al climax. Warming preparò la strada a Frederic Clements. Quest’ultimo, dopo una lunga esperienza sulla prateria nordamericana alla fine dell’Ottocento, habitat in procinto di scomparire con l’avanzata dei coloni, incentrò la sua analisi sul climax dinamico, ritenendo che – per le condizioni locali del terreno in origine, a causa del clima in successive eventuali ricostituzioni – le comunità vegetali potessero essere seguite nella loro evoluzione come singoli organismi alla ricerca della migliore adattabilità, ottenuta con la trasformazione del mix delle piante stesse all’interno della comunità e dell’arricchimento del terreno da parte di esse, alla ricerca della migliore e più stabile colonizzazione vegetale possibile. Clements era fautore di una sorta di organicismo vegetale il cui spunto egli aveva tratto da quello politico spenceriano della metà dell’Ottocento, ma ottenne il climax della sua teoria solo con l’integrazione degli animali nelle comunità vegetali; ogni organismo vivente diventava così un biotipo, appartenente a un dato bioma.

Quale è invece il senso dell’ecologia nel mondo contemporaneo? La nostra società dei consumi ha tradotto la questione ecologica in un emblema applicabile anche ai processi e alle situazioni le più inquinanti, simbolo automaticamente portatore di rispetto per l’ambiente e, dunque, di noncuranza per le cose che utilizziamo. Abbiamo così i contenitori ecologici, ma senza un’accurata cernita i rifiuti possono restare gravi cause di inquinamento; le marmitte ecologiche, il cui destino non è mai chiarito e che concentrano pericolose quantità di metalli pesanti e altre sostanze tossiche; le lavanderie ecologiche, che non risulta però facciano uso esclusivo di detersivi biodegradabili, senza favorire l’eutrofizzazione delle acque in cui finiscono i loro scarichi, nè che evitino l’uso e la dispersione nell’ambiente di agenti acidi e solventi: e così via. Dopo aver trattato per sommi capi l’idea di ecologia e la sua genesi e aver chiarito quali ne sono i contenuti, mettendo in luce che la qualificazione di ecologia – più che il concetto – viene utilizzata in modo sostanzialmente diverso in quasi ogni aspetto della nostra vita quotidiana, possiamo affrontare la questione della storia ambientale e dei suoi caratteri precipui. In realtà, come si può notare, e nonostante la possibilità di costruire differenti percorsi, abbiamo già sotto i nostri occhi una storia ambientale, ovvero l’excursus storico sull’ecologia presentato più sopra. D’altronde, anche in campo accademico sono molteplici, giustificati e non, i casi in cui la nuova connotazione è stata adottata: filosofia ecologica, ecologia della mente, economia ecologica o ambientale, diritto dell’ambiente, pianificazione ecologica del territorio, ecologia agraria, acologia animale, ecologia generale, ecologia vegetale etc. Bisogna perciò porre in atto una sorta di vigilanza lessicale, cercando di capire dove l’aggettivo “ecologico” viene utilizzato in modo mistificatorio, come un mezzo per incentivare l’attrazione e contemporaneamente abbassare le soglie di attenzione critica. D’altra parte ambiente ed ecologia riportano a una proliferazione di termini anche in altri idiomi, moltiplicatisi a partire dalla affermazione dei movimenti ecologisti e dalla pubblicazione di alcuni testi assai famosi, come Silent Spring (1962) di Rachel Carson e I limiti dello sviluppo (1973) del Mit. La storia ambientale perciò comprende al suo interno un largo numero di sottodiscipline, di ambiti di studio e osservazione, in gran parte descritti nella tassonomia di Giorgio Nebbia. Infatti è sempre aperto, a mio avviso, il problema – da dibattere in altra sede – sul diritto di cittadinanza della storia ambientale, se pensiamo alla convergenza che su questi temi viene, anche da tempi relativamente lontani quali gli anni Settanta e addirittura dagli anni Quaranta, da storie vicine: la storia del paesaggio (con gli studi di Eugenio Turri), la geografia umana (Lucio Gambi), la storia dell’agricoltura (Emilio Sereni). Da notare che nella storiografia francese, anche prima della diffusione della scuola degli “Annales” braudeliani, l’attenzione geografico-antropologica alle questioni di lungo periodo ha avuto un ruolo fondamentale.

Un primo ambito di ricerca è quello della storia della conservazione della natura, mutuato direttamente dall’anglosassone conservationism, incentrata sulla nascita e la gestione dei parchi nazionali e delle aree protette, oltre che sullo studio della società e della cultura che li hanno generati. All’interno di questo filone, peraltro, si possono ricondurre anche quei lavori sulla commistione fra politica e fondamenti bio-ecologici, fin dal pensiero del citato Haeckel che è stato considerato anche un precursore del razzismo tedesco, fino ai gruppi politici odierni delle neo-destre. In questa area bene si inquadrano poi gli studi sulle tecnologie, spesso considerate, a torto, neutrali, sia quando- tentandone la salvaguardia – hanno distrutto definitivamente l’habitat dei salmoni nordamericani di alcune zone, sia quando il National Park Service statunitense soppresse i predatori perchè disturbavano gli allevatori di bestiame.

Un blocco di ambiti comprende, in modo più o meno strettamente interrelato, le storie dei movimenti e delle associazioni ambientaliste, della contestazione ecologica, delle lotte operaie per la salute sull’ambiente di lavoro. Si possono indicare qui i lavori di Andrea Poggio, Edgar Meyer, Marco Diani, Walter Giuliano, Stefano Menichini, degli appartenenti a Medicina democratica (Giulio Maccacaro, Giovanni Berlinguer e Luigi Mara) e i classici e famosi Barry Commoner e Rachel Carson. A questo gruppo di studi vanno collegati anche i lavori, che talvolta esulano in modo diretto da tematiche ecologiche ma che in ogni caso possiamo definire ausiliari o complementari, che attengono alla tecnica, alla tecnologia, alla medicina, alle scienze fisico-chimiche e, ovviamente alle loro storie. Esiste poi un’altra area di intervento, che interessa l’economia ecologica, il diritto ambientale, le risorse e la questione fondamentale del valore (d’uso o di scambio).

A questo punto, all’interno delle ricerche sul rapporto fra industria e ambiente si può delineare il ruolo intrattenuto dai media, in particolare dalla stampa. D’altra parte, sovente è solo attraverso la testimonianza degli organi d’informazione che lo storico riesce a recuperare alla conoscenza e alla coscienza collettive dei casi clamorosi di palesi inquinamenti, con visibili e repentine ripercussioni sui livelli abituali di vita delle popolazioni interessate. Capita, infatti, di trovare qualche riscontro a processi inquinanti dalla documentazione storica delle imprese, ma normalmente essa è costituita da vertenze legali con echi minimi, circoscritte a pochi contestatori; il che nella realtà non significa comunque e necessariamente che il numero dei danneggiati fosse limitato. I casi più interessanti sono quelli balzati alla ribalta negli ultimi venticinque-trenta anni sia per le emergenze o le inchieste giudiziarie che hanno causato: Seveso con la diossina dell’Icmesa, Cengio con gli intermedi per coloranti ed esplosivi dell’Acna, le imprese all’amianto del Piemonte, l’Enichem e la Montedison di Porto Marghera. Un caso sui generis in Italia, perché identificabile in anni remoti, è stato quello di Mori, in Trentino.

Nel 1927 la Montecatini, insieme alla Vereinigte Aluminium Werke, che possedeva il brevetto Haglund, impiantò uno stabilimento in Val Lagarina per produrre almeno 6.000 tonnellate di alluminio all’anno. La tecnologia di allora comportava l’emissione di 35/50 kg di fluoro per tonnellata di metallo prodotta. Già pochi mesi dopo l’avvio della produzione si evidenziarono danni ai gelsi e di conseguenza alla sericoltura, principale fonte di reddito dell’economia contadina da autoconsumo dell’area. Un comitato locale, nonostante gli avvertimenti del Commissario di governo, nel marzo 1932 ottenne circa 490.000 lire di indennizzo, pari al 10-12% dei danni effettivi. In autunno, però, l’inquinamento aveva raggiunto circa 4.000 ettari e l’85% della popolazione risultava colpita dalla fluorosi, che causava forti debilitazioni negli anziani e nei bambini e, in questi ultimi, anche una serie di macchie, poi note nella letteratura medica internazionale come “macchie di Chizzola”. Di fronte a questo pericolo, le donne di Ala, Chizzola e delle campagne circostanti protestarono in modo spontaneo contro le autorità, che non prendevano alcuna misura contro l’impresa, provocando per due volte la chiusura dello stabilimento con perdite per la sospesa produzione pari a circa 60 milioni di lire, finché non vennero adottate tecnologie tali da permettere l’abbattimento delle polveri e la neutralizzazione dei composti gassosi, con il quasi completo ripristino della salute pubblica, se non di tutte le coltivazioni e degli allevamenti di bachi. Negli anni Sessanta e Settanta, in due occasioni distinte, la fabbrica venne riequipaggiata per fronteggiare le crescenti richieste del mercato. Nel 1962 la produzione venne portata da 12.000 tonnellate annue – il 65% dei semilavorati di alluminio italiani – a 15.500. L’uso di anodi catramosi invece che precotti, nonostante l’installazione di un secondo impianto air-mix Venturi e di un “multiciclone” smontato in tutta fretta da Porto Marghera, pregiudicò di nuovo, immediatamente, la salute degli abitanti, oltre che le coltivazioni della zona, che stava passando con successo alla vitivinicoltura per il mercato. Ricomparvero le manifestazioni morbose già osservate negli anni Trenta, comprese le famose “macchie di Chizzola”, che scomparvero solo quando vennero adottati idonei sistemi di abbattimento come il cosiddetto “elettrofiltro”, ordinato appositamente in Svizzera.

Se negli anni Trenta la questione risultò assai pericolosa per l’immagine del totalitarismo fascista, in regime repubblicano la crisi ambientale e il problema della salvaguardia della salute pubblica e del’occupazione spaccò la dirigenza della Democrazia cristiana, partito che nella provincia tridentina contava su un’inossidabile maggioranza assoluta, anche di fronte alla presa di posizione della magistratura che avviò un’inchiesta, rinviando a giudizio Giovanni Mantovanello, direttore dello stabilimento, poi condannato per lesioni colpose in primo e secondo grado ma amnistiato prima della sentenza di Cassazione. Non mi posso soffermare sui vari e complessi aspetti di una vicenda che assume connotati di medio-lungo periodo, più antropologici che sociali, ma i punti-cardine della questione ruotano comunque intorno ad alcune figure, situazioni e comportamenti: innanzi tutto il ruolo di scienziati e tecnici, che dimostrarono quale fosse la debolezza delle scienze nella gestione della vicenda, tanto che la sentenza del pretore contro il direttore della Dial di Mori metteva l’accento sul perfetto diritto del giudice a decidere in coscienza sui rapporti causa-effetto fra le emissioni della fabbrica e la morbilità nell’area, anche senza il conforto di dati certi provenienti dalle perizie, di parte o ordinate dallo stesso giudice; in secondo luogo, l’attività di lobbying nei confronti delle autorità da parte della Montecatini, più sfumata negli anni Trenta, meno diretta negli anni Sessanta ma comunque esercitata attraverso le istituzioni politiche provinciali e l’intervento nella Commissione sanitaria nominata per gli accertamenti; in terzo luogo, il peso della rete informale di solidarietà e decisione e delle azioni di protesta costruite dalle donne; infine, il problema della “guerra dei poveri” fra gli operai della fabbrica e i contadini abitanti nelle aree circostanti, colpite dall’inquinamento, conflitto che si ripropone come leit-motiv di tutti i casi similari e viene abilmente sfruttato a proprio favore dai vertici aziendali. Giorgio Nebbia ha contribuito a dare un modello generale, in cui inquinatori e contestatori si contrappongono in un ruolo attivo, tentando di spostare a proprio favore gli inquinati e le istituzioni, mentre la stampa e l’opinione pubblica lavorano in parallelo come mezzi persuasivi o, talvolta, propagandistici. Lo schema di Nebbia ci permette notevoli insights delle dinamiche e dei partecipanti. È evidente che l’inquinatore sia stato un punto fisso nella vicenda, una specie di Moloch o di totem della civiltà industriale: la fabbrica di alluminio, che si chiamasse Montecatini (Sida o Dial-Stabilimento di Mori) oppure Alumix (gruppo Efim). Dall’altro lato, nel lungo periodo sono state le donne a contestare l’impresa, per evidenti ragioni di infima sopravvivenza biologica, almeno dei figli; negli anni Sessanta vennero affiancate dai contadini, nei Settanta furono sostituite – fatto importante che meriterebbe di essere trattato ben al di là di una semplice constatazione – dalla spinta sindacale endogena alla fabbrica. Negli anni Trenta le istituzioni – Commissariato di governo, Partito nazionale fascista, Ufficio del medico provinciale – erano massicciamente coinvolte nell’opera di persuasione messa in atto dall’impresa, quando esse non ne erano addirittura parte (il medico condotto di Mori, medico aziendale e segretario del Fascio locale). Solo il dottor Largaiolli fu subito pronto a schierarsi con le popolazioni colpite, insieme agli specialisti di medicina e di chimica di volta in volta interessati alle perizie. Negli anni Sessanta il quadro era più mobile e le istituzioni si spaccarono (o vennero abilmente divise) a favore o contro lo stabilimento. Da notare che, mentre sotto il regime fascista l’opposizione maschile, anche dei contadini, non era consentita, negli anni Sessanta gli inquinati erano gli operai, che non presero posizione, attuando una sorta di resistenza passiva filoaziendale verso gli accertamenti delle istituzioni sanitarie, per il timore di perdere la loro principale e spesso unica fonte di reddito: le loro origini sociali, d’altronde, li dequalificavano e distaccavano dal territorio in cui lavoravano, per una precisa scelta strategica dell’impresa, che reclutava la propria manodopera nelle miserrime aree montane circostanti. Negli anni Trenta il ruolo della pubblica opinione venne coperto essenzialmente dal quotidiano “Il Brennero”, con alcuni articoli – anonimi e a firma di Remo Markt – che senza alcuna soggezione verso il potere divulgarono gli eventi, criticando i progettisti per l’improvvida scelta del sito di produzione e, soprattutto, le autorità locali per il loro immobilismo, fonte di una perdita di consenso poi difficlmente recuperabile. La “mordacchia” messa sulla vicenda, insomma il controllo e la censura sugli organi di stampa permise al regime unicamente di non aprire un dibattito sulla questione, fuori dai confini della provincia. Negli anni Sessanta il problema delle “macchie di Chizzola” e dell’inquinamento venne ripreso da alcuni quotidiani locali, oltre che da un paio di periodici come “Il Gazzettino” e “Vita Trentina”, ed ebbe qualche eco sulla stampa nazionale, in particolare “Il Giorno” di Milano, noto per la sua forza innovativa in quel periodo, e “Sette”, la famosa rubrica del Tg1. “L’Adige” concentrò la sua attenzione sulla questione sanitaria, l’“Alto Adige” invece si dedicò a resoconti particolareggiati, soprattutto sul processo al direttore dell stabilimento. Fin da subito gli articoli misero in luce lo scontro fra contadini e operai, fra salute e sopravvivenza.

Gli organi di stampa hanno avuto il riconoscimento di un loro ruolo anche in altri modelli e ricerche. Maddalena Colombo ha esaminato, tentando una sociologia dell’ambiente, il caso dell’Acna di Cengio, sempre gruppo Montecatini, poi Montedison. L’obiettivo era di capire come interagiscono gli attori sociali, cercando di comprendere se per combattere il degrado sociale e quello ambientale di una data area sia necessario partire dal risanamento ecologico oppure dal ritrovamento di un equilibrio fra componenti sociali, economiche ed organizzative del territorii; se sia più importante agire su scala locale o su scala globale; quali sono i comportamenti collettivi (ritenuti oggettivi) e quelli individuali soggettivi. Per ottenere i fini prefissati, la ricerca di Colombo ha incentrato la sua analisi su tre aspetti fondamentali: le modalità di percezione dei rischi, le tipologie sociali, il ruolo degli organi di informazione. Il primo punto rilevava una notevole conflittualità sociale, con la divisione della popolazione in due gruppi, a favore o contro lo stabilimento: mancava la comunicazione, i dati scientifici erano discordanti, le proposte di risanamento erano ritenute inefficaci e tutto questo delegittimava le autorità preposte all’informazione. Le tipologie sociali variavano da coloro, passivi, che si affidano alle autorità o che sono totalmente disinformati, a quelli che esaltano la responsabilizzazione personale o associativa. Il terzo aspetto analizzato – basato sulle campagne condotte da “Il Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “L’Unità” e “La Stampa” – metteva in luce che i quotidiani nazionali mantenevano un atteggiamento partecipe alle vicende della popolazione, variando dalle posizioni a favore degli inquinati a quelle più sostenitrici dei contestatori, nel caso dell’organo del Partito comunista italiano anche contro il governo in difesa degli operai, con il recupero delle fonti istituzionali locali – sindaci, parroci, associazioni – non coinvolte nella mediazione fra stato e regioni Liguria e Piemonte; il linguaggio giornalistico restava però conflittuale e spesso catastrofistico, offrendo titoli allarmistici, una costante anche di altri casi concernenti l’ambiente. D’altra parte, questa superficialità degli organi di stampa era già stata rilevata in altre occasioni e, purtroppo, ha continuato a caratterizzare per lungo tempo il “quarto potere” italiano – anche dopo la matura riflessione sulla conferenza mondiale di Rio de Janeiro del 1992 – e a mio avviso ancora lo caratterizza, per non parlare dei media elettronici, televisione in testa, e della loro distorta necessità di spettacolarizzazione. Nel 1987-1988 un interessante lavoro in proposito era stato compiuto da Ravaioli e Tiezzi su cinque testate nazionali (“Il Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “L’Unità”, “Il Manifesto”, “La Nazione”), peraltro escludendo dal novero degli argomenti quelli relativi a inondazioni, frane, incendi, conseguenze dell’inquinamento nucleare di Chernobyl, aree protette, politica. L’attenzione dei due autori si era concentrata più sulla incoerenza complessiva degli organi di stampa – una sorta di schizofrenia o strabismo – che permetteva la celebrazione del sistema di mercato scientificamente newtoniano-cartesiano e del suo progresso in una pagina, per smentirlo poi in un’altra con i disastri ambientali piccoli e grandi dovuti al profitto; comunque, le conclusioni sulla continuità, l’incisività, l’efficacia degli articoli, largamente sottodimensionati per ampiezza informativa e per numero rispetto ai dispacci della principale fornitrice, l’Ansa, erano purtroppo le medesime, deludenti. Anzi, il filtrare di notizie frammentarie, il ricorrere a titoli sensazionalisti, provocavano un’abitudine, un’assuefazione nei confronti di episodi che invece avrebbero dovuto allarmare tutti globalmente. D’altronde, il pressapochismo con cui l’opinione pubblica tratta le notizie è evidentemente un riflesso anche di ciò che chiede, e non diversamente da essa si comportano i rappresentanti della politica come gli economisti.

Nel 1976 l’inquinamento di Seveso con una nube di triclorofenolo e diossine da parte dell’industria di intermedi chimici Icmesa rappresentò il primo grave episodio che la stampa italiana – in particolare “Il Corriere della Sera”, “la Repubblica” e “La Stampa” – dovette affrontare in modo esaustivo. Lo fece, ovviamente, in modo disorganico, anche per la mancanza di esperienza, le percezioni falsate dal pensiero dominante del progresso unilineare, la fiducia nelle notizie ufficiali delle pubbliche istituzioni; sta di fatto che, dopo un interessamento assai tardivo, parallelo alla presa di coscienza da parte delle autorità amministrative e sanitarie, ancora una volta il carattere primo degli articoli fu il sensazionalismo unito al catastrofismo, con dettagli minuziosi ed esagerazioni sulle conseguenze sanitarie (in parte dovute all’ignoranza superata anche grazie al caso di Seveso), irreali descrizioni emotive del territorio evacuato anche dagli animali, financo dagli uccelli (come se colpito da una bomba al neutrone), il richiamo alla tragedia vietnamita o addirittura a Hiroshima. Non mancarono, comunque, atteggiamenti più cauti: “Il Giornale nuovo” di Montanelli e voci isolate degli altri quotidiani, come Alfredo Todisco e Guido Ceronetti, attenti a un’analisi e a una visione complessiva che, pur concedendo all’industria, in particolare chimica, e alla crescita economica il merito del benessere italiano e occidentale, mettevano in luce il problema fondamentale del modello di sviluppo della modernità.

È chiaro, ad ogni modo, che l’attenzione della stampa italiana, durante gli anni Settanta e Ottanta, fino al 1988 (dopo la tragedia nucleare di Chernobyl e la strage chimica dell’Union Carbide di Bhopal), era incentrata su inquinamento industriale, speculazione edilizia, problemi urbanistici e idrici proprio in funzione delle massiccie correnti immigratorie verso le città e il definitivo tramonto -nelle menti se non nei cuori – dell’agricoltura e della civiltà contadina, sia dal punto di vista degli addetti impiegati che delle percentuale del Prodotto interno lordo. In seguito, l’asse si sposta sull’inquinamento da petrolio e sulla minaccia dell’atomo civile, mentre le conferenze sull’ambiente, sulla biodiversità etc., anche per la loro ufficialità istituzionale, mutano in via definitiva l’atteggiamento spesso distratto che prima aveva caratterizzato gli organi di informazione nei confronti delle questioni ecologiche, anche se ancora restano i vizi antichi della superficialità delle notizie, dell’affastellamento di più voci, delle coperture discontinue e ancora tendenti al sensazionalismo e al catastrofismo ma senza commenti adeguati.

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