Lana verde

La moda scopre l’ecologia. Il fine della moda è quello di inventare sempre nuovi oggetti e merci da proporre per indurre all’acquisto i consumatori già sazi: nuovi vestiti al posto di quelli già posseduti, nuove scarpe anche quando ogni persona ha soltanto due piedi, nuove automobili anche quando non si sa dove metterle, di giorno e di notte, e così via: è questo, dicono, che tiene in vita l’economia.. Nella sua ricerca di novità la moda può anche scoprire qualcosa favorevole all’ambiente; è il caso della “riscoperta” di tessuti e indumenti fatti con fibre tessili e con materiali “naturali”, biodegradabili, ottenuti con processi meno inquinanti, in alternativa a quelli finora ottenuti dal petrolio.
L’ultima arrivata è la “lana verde”, fabbricata riutilizzando la lana usata, una tecnologia nota da secoli e di cui la città toscana di Prato è stata la fortunata capitale mondiale per decenni. La lana vergine, ricavata dal vello delle pecore, è bella, ma non è priva di inconvenienti ecologici. La sua trasformazione dal corpo delle pecore al tessuto è un lungo processo produttivo; la tosa delle pecore fornisce della lana greggia che è rivestita di sporcizia e di una sostanza cerosa, la lanolina, che devono essere eliminate, in genere sul luogo di produzione; talvolta la lana viene esportata in forma sudicia, “sucida”, come si dice, e deve essere lavata nel luogo di arrivo e di trasformazione. L’eliminazione delle sostanze che sporcano la lana comporta inquinamento delle acque, anche se consente il recupero di un sottoprodotto, la lanolina, che trova impiego commerciale, per esempio in cosmesi.
La lana greggia, che ha fibre abbastanza corte, di alcuni centimetri, prima della filatura deve essere “oliata” per aumentare l’adesione fra le singole fibre e la trasformazione in sottili fili continui; il filato che così si ottiene deve essere lavato con detergenti sintetici prima della tintura e della tessitura e anche questo lavaggio genera inquinamento delle acque. A sua volta il processo di tintura con coloranti sintetici e il successivo lavaggio delle fibre colorate comporta anch’esso altro inquinamento delle acque. Infine gli indumenti di lana usata, dopo un tempo più o meno breve, vanno ad aumentare la massa di rifiuti solidi. Alcuni di questi disturbi ambientali possono essere evitati riutilizzando la lana usata; talvolta si tratta di ritagli di lavorazione degli indumenti di lana (e in questo caso si ha a che fare con lana bianca di alta qualità) che possono essere facilmente sfibrati e ritrasformati in filati e tessuti bianchi e colorati con minore inquinamento delle acque. In altri casi si tratta di fibre o tessuti colorati, talvolta ritagli di sartoria, talvolta indumenti usati più o meno puliti, che pure sono oggetto di un vasto commercio internazionale. Il nome volgare è “stracci”, ma in realtà si tratta di materiali riutilizzabili con processi ben noti; dapprima in genere gli stracci vengono separati a seconda del colore e a seconda dell’eventuale presenza di altre fibre, dopo che sono stati tolti bottoni e cerniere.
A questo punto inizia un processo di sfibratura e filatura con speciali macchinari che forniscono il tessuto cardato. Se il processo di cardatura viene applicato a fibre già colorate è possibile ottenere filati e quindi tessuti colorati senza impiego di altri coloranti sintetici evitando così gli inquinanti processi di tintura. La capitale mondiale di questa tecnologia è sempre stata Prato che dal Medioevo produce e commercia, oltre a tessuti di lana, anche tessuti di lana “rigenerata” che vengono anche esportati (le divise della gloriosa “Armata Rossa” sovietica per anni sono state fatte con cardato pratese). Gli “stracci”, ma qui li chiamano “cenci”, hanno fatto la fortuna di imprenditori, inventori di macchine e tessitori di questa industriosa città, da molti anni diventata capoluogo di provincia, nella quale ogni anno vengono riciclate 22 mila tonnellate di lana usata.
E oggi, alla luce della nuova attenzione ecologica, la lana rigenerata viene giustamente presentata come “lana verde”, prodotta con processi che, fra l’altro, non comportano immissione nell’ambiente del gas serra anidride carbonica, al punto che i tessuti così fabbricati meritano il nome “cardato CO2 neutral”, che non contribuiscono ad alterare il clima. In Toscana organizzano manifestazioni di moda ecologica per far conoscere e valorizzare, giustamente, questa attività italiana. Senza contare che, con opportune modificazioni dei capitolati di acquisto delle merci per la pubblica amministrazione, la lana rigenerata potrebbe essere impiegata per divise e indumenti di dipendenti pubblici nell’ambito della politica degli acquisti “verdi” che sono imposti dalla legge sullo smaltimento dei rifiuti, ma che sono ancora così poco praticati. E bisogna fare presto perché la produzione di lana rigenerata sta ormai attirando l’attenzione di altri paesi industriali, tanto più che dai paesi asiatici sta arrivando in Europa un crescente flusso di stracci di lana e di altre fibre tessili.
La più antica tradizione di produzione di tessuti di lana cardata al di fuori dell’Italia si ha in Inghilterra dove la lana rigenerata “shoddy” ha cominciato ad essere prodotta agli inizi dell’Ottocento, quando le guerre napoleoniche fecero cessare l’afflusso in Inghilterra delle lane spagnole. Un certo Benjamin Law (1773-1837) iniziò la produzione di lana rigenerata a Batley, nello Yorkshire (che è una specie di “pratese” britannico); dapprima la sua impresa incontrò lo scetticismo dei concittadini ma poco dopo fu coronata da un successo che dura ancora oggi. La “lana verde” sopporta bene la presenza di fibre sintetiche eventualmente presenti negli stracci, per cui risulta, veramente, un prodotto non solo ecologicamente attraente, ma adattabile ad un gran numero di condizioni di lavorazione e di commercializzazione. La stessa raccolta degli stracci, condotta per ora si scala limitata da alcune associazioni di carità, può alleggerire i costi di smaltimento dei rifiuti solidi urbani.