Le aree naturali protette in Italia: un dibattito
I tre documenti presentati qui di seguito e pubblicati tra il dicembre 2015 e il gennaio 2016 prendono spunto da alcune recenti vicende per tentare un bilancio complessivo sulla sorte delle aree naturali protette del nostro Paese.
Il saggio-denuncia di Luigi Piccioni, docente dell’Università della Calabria e storico dell’ambiente, uscito su “eddyburg” il 14 dicembre è originato soprattutto dalla necessità di opporsi al definitivo smembramento e declassamento dello storico parco nazionale dello Stelvio e alla fine dell’autonomia del Corpo Forestale dello Stato ma a partire da queste due emblematiche e gravi vicende tenta di abbozzare un affresco globale dei problemi che affliggono i parchi italiani.
Un altro degli spunti del saggio è costituito dal tentativo, in atto ormai da quasi sei anni e di recente rilanciato in Parlamento, di introdurre una serie di modificazioni alla legge quadro sulle aree protette approvata nel 1991 e che costituisce uno dei pilastri fondamentali della normativa ambientale italiana. Queste modifiche sono sostenute da Federparchi, l’associazione che raccoglie gran parte dei parchi nazionali e regionali italiani, e in misura minore da Legambiente ma sono severamente avversate da un ampio schieramento che comprende Wwf, Lipu, Cai, Fai, Italia Nostra, Comitato per la Bellezza, Associazione 394 e un gran numero di esperti e di intellettuali.
È in particolare a quest’ultima questione che si riferisce la replica, pubblicata il 30 dicembre da “greenreport”, di Enzo Valbonesi, ex direttore di Federparchi, ex presidente del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi e attualmente responsabile del Servizio parchi della Regione Emilia-Romagna. Valbonesi espone una serie di argomentazioni in favore delle proposte di modifica della legge quadro del 1991 che a suo avviso sarebbero in grado di dare nuovo slancio alle aree protette italiane.
Luigi Piccioni replica a sua volta il 7 gennaio, sempre su “greenreport”, analizzando in modo più approfondito che in precedenza la vicenda e il senso delle recenti proposte di modifica della legge quadro.
Al di là di qualche passaggio un po’ più tecnico riteniamo che la discussione tra Luigi Piccioni e Enzo Valbonesi presenti diversi motivi di interesse che investono non solo la vicenda dei parchi naturali italiani e delle scelte tecniche e politiche che li riguardano ma anche l’attuale situazione delle politiche italiane di tutela ambientale nel senso più ampio.
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L’inarrestabile deriva dei parchi italiani
di Luigi Piccioni
Aree protette, una forma di tutela specifica
I parchi naturali – o aree protette, termine che però ha significato tecnico più ampio – sono strumenti di tutela della natura, del paesaggio e del territorio tra i più visibili e popolari.
Non è difficile comprendere i motivi di questa popolarità. Si tratta di porzioni di territorio precisamente delimitate all’interno delle quali valgono regole particolari, che hanno per lo più come fine la salvaguardia di “oggetti” cari all’immaginario collettivo (quell’animale, quel bosco, quella specie botanica, quella montagna o quel tratto di costa, quel panorama). Inoltre tra i loro scopi fondamentali ci sono l’educazione naturalistica e il turismo sostenibile cosicché gli enti che li gestiscono svolgono da sempre un’intensa attività promozionale che accresce la visibilità e la popolarità delle loro ricchezze, ambientali e antropiche. In alcuni paesi – Stati Uniti in testa – i parchi rappresentano storicamente delle componenti essenziali dell’identità nazionale.
All’interno della cultura urbanistica più avvertita si è più volte messa in discussione la logica che sta alla base della creazione dei parchi. Si è denunciato la limitata efficacia di una tutela territoriale che si applica a frazioni – spesso molto piccole – di territorio a volte con il risultato di distogliere l’attenzione dalla necessità di tutelare adeguatamente il territorio nel suo complesso. In qualche caso si è arrivati a imputare alle aree protette una sorta di funzione consapevolmente compensativa e consolatoria: proteggere qualche emergenza per avere mano libera di mettere a sacco senza troppe critiche o remore il resto del territorio.
Il caso italiano nei decenni più recenti, dallo slancio alla crisi
Se queste critiche possono avere qualche fondamento per qualche caso specifico o in specifici contesti e se possono più in generale puntare utilmente il dito su culture della tutela “orbe”, incapaci cioè di farsi carico della complessità e della totalità del territorio, il caso italiano parla però di un’altra storia.
Il momento più alto dei parchi italiani, quello che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta, è stato infatti animato da un movimento ampio e articolato che ha ragionato in modo sistemico dei parchi e li ha spesso progettati in ottiche globali, connesse alla tutela complessiva dell’ambiente, alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo, in relazione ad altre forme di tutela e con un ambizioso sguardo al futuro. Non isole “belle”, capaci di acquietare i bisogni eterei di élite romantiche, ma strumenti di governo e di sviluppo dei territori incardinati in visioni più ampie e gestiti democraticamente. La legge quadro sulle aree protette, la n. 394 del 1991, costituisce il frutto più maturo di questa visione e dell’operato di quel movimento e non casualmente è stata approvata nella medesima legislatura in cui fu approvata un’altra grande legge di governo del territorio, la n. 183 del 1989, sulla difesa del suolo.
Se il periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta può essere effettivamente considerato il punto di massimo slancio ed incisività del movimento, quello delle sue massime realizzazioni, al tempo stesso costituì il momento dell’inizio del suo declino. Erano gli ultimi barlumi della grande spinta democratica e progressista avviatasi alla metà degli anni Sessanta, presto sepolti dall’avvento del berlusconismo e ancor più dai suoi cascami neoliberisti che si prolungano fino ad oggi acquistando peraltro un’aggressività sempre maggiore. Non è un caso che le due grandi leggi appena citate, quella sulle aree protette e quella sulla difesa del suolo, sono rimaste largamente inapplicate oppure inapplicate in diversi loro aspetti cruciali.
I parchi naturali italiani, conquista di civiltà, frutto del lavoro benemerito di élite illuminate dagli anni Dieci agli anni Sessanta e in seguito frutto della crescita culturale e politica di larghissime fasce di popolazione, vivono di conseguenza da un ventennio in una spirale di crisi crescente e per molti aspetti drammatica. E diversi segnali recenti parlano di un aggravamento ulteriore di questo quadro di crisi, senza alcun segno che vada in controtendenza.
Ho cercato di isolare quelli che a mio avviso sono gli elementi strutturali di questa deriva. E li elenco.
L’asfissia finanziaria
Da diversi anni, anzitutto, si sta procedendo in Italia a un lento strangolamento dei parchi attraverso la progressiva decurtazione delle disponibilità finanziarie e all’imposizione di pastoie burocratiche che rendono molto difficile spendere in modo efficiente. Questa modalità non è però specifica delle aree protette: coerentemente con le premesse della politica economica neoliberista dominante nei paesi occidentali da quasi un quarantennio essa investe la stragrande maggioranza delle istituzioni pubbliche rivolte ai servizi alla collettività. Ne sono affetti del pari il sistema formativo (scuole, università), il sistema sanitario, gli enti locali, i vari sistemi di controllo e di tutela, quelle che erano le partecipazioni statali.
Alla base del progressivo ischeletrirsi della capacità di spesa dello Stato è innegabile che ci siano l’ormai insostenibile servizio del debito pubblico e la restrizione della base imponibile dovuta alla crisi economica in atto dal 2007-2008. E tuttavia l’abolizione di alcune fondamentali forme di prelievo fiscale da un lato (caso esemplare: ICI/IMU) e dall’altro la scelta plateale di non intaccare per alcun motivo le spese riguardanti il monopolio statale della forza interna ed esterna (caso esemplare: F35) e i provvedimenti che favoriscono le lobby imprenditoriali e finanziarie legate a doppio filo con gli apparati di partito (caso esemplare: ponte sullo Stretto) mostrano come sia all’opera oggi in Italia un meccanismo neoliberista lucido, determinato e sempre più implacabile di smantellamento di tutto l’intervento pubblico, anche quello basilare, nel campo dei diritti di cittadinanza: salute, istruzione, ambiente, cultura, previdenza, infrastrutture civili. La nuova “crisi fiscale dello Stato” viene anzi impugnata come pretesto per smantellamenti sempre più radicali.
I parchi stanno pienamente dentro questa bufera, per di più come vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Se infatti l’istruzione, la sanità, la previdenza e in parte anche la cultura si possono privatizzare “valorizzandone” i pezzi vendibili e chiudendo o lasciando tutto il resto all’abbandono, per la “natura di valore” non c’è sostanzialmente mercato. E anzi, se mercato c’è è pressoché soltanto per consumarla indiscriminatamente: cioè proprio per fare ciò che i parchi devono scongiurare.
Il lucido smantellamento degli strumenti di tutela
Che questa sia l’intenzione di coloro che si sono alternati al governo negli ultimi anni, con una decisa e non casuale impennata decisionista più recente, è dimostrato dal combinato di disposizioni con al centro il cosiddetto “decreto Madia” che aboliscono la più che secolare autonomia di due fondamentale corpi di tutela, culturale e ambientale, come le Soprintendenze e la Forestale per metterli rispettivamente sotto il controllo delle Prefetture e dei Carabinieri. Tale abolizione fa al tempo stesso venire meno la specificità della loro missione e l’efficacia del loro operato, lasciando così più assai più libere le mani a chi voglia disporre senza pastoie dei beni culturali e ambientali italiani. Ed è ben difficile credere alle ragioni di economicità e di razionalizzazione addotte dal legislatore quando appare ben evidente da un lato che questi provvedimenti non producono risparmio di sorta e da un altro lato che avevano carattere squisitamente programmatico le parole dell’allora sindaco di Firenze e oggi Presidente del Consiglio quando affermava nel 2010 che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia sin dalla terza sillaba […] un potere monocratico che non risponde a nessuno”.
Dei contorni e dei possibili esiti di questo programma neoliberista di “stato minimo” nel campo della tutela artistica ha di recente stilato un’analisi illuminante Vittorio Emiliani introducendo un incontro dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli , una lettura che fa impressione e alla quale non posso che rimandare.
La latitanza delle strutture di governo
La crisi progressiva delle aree protette italiane dipende in modo cospicuo dalla latitanza, che in qualche caso è cronica e in qualche altro è sopravvenuta di recente, degli organi di governo istituzionale da cui esse dipendono: il governo centrale – e in particolare il Ministero dell’Ambiente – e le Regioni. Se la legge quadro prevedeva un ruolo attivo e dinamico del Ministero attraverso una serie di strumenti gestione assai avanzati, quel che è successo è da un lato che tali strumenti sono stati presto messi da parte in modo tale che la funzione di coordinamento e indirizzo centrale è totalmente saltata già a livello normativo e da un altro lato si sono succeduti ministri e direttori generali che hanno totalmente abbandonato a se stesse le aree protette, salvo vessarle di tanto in tanto con circolari burocratiche, paralizzanti e di nessuna utilità e procedere con le nomine nei modi e coi criteri che presto vedremo. Da molti anni insomma il Ministero, puramente e semplicemente, non c’è, a differenza della quasi totalità degli altri paesi europei e possono passare indisturbati provvedimenti che dimidiano la stessa legge quadro, come la sottrazione alle aree protette della competenza sul paesaggio. Le Regioni, protagoniste di un eccezionale moto di rinnovamento e di protagonismo negli anni Settanta e Ottanta, stanno anch’esse nel loro complesso tirando i remi in barca. Anche alcune di quelle che in passato si sono maggiormente distinte per intraprendenza e capacità di governo stanno rinnovando “al ribasso” le proprie normative, a testimonianza di un interesse e di una volontà politica che stanno rapidamente scemando. Proprio di queste ore è ad esempio il caso, denunciato da un drammatico appello delle associazioni ambientaliste, della Regione Marche che si appresta a mandare in bancarotta il sistema delle proprie aree protette dimezzando la loro dotazione finanziaria.
Ma la cronica assenza ministeriale e la lenta ritirata delle Regioni si manifesta plasticamente in questa chiusa di 2015 con un evento a suo modo storico: lo smembramento di fatto del Parco Nazionale dello Stelvio, che infatti rimarrebbe unitario e nazionale soltanto sulla carta. E’ la prima volta in Europa che un parco nazionale così antico (1935), così vasto (130.000 ettari, per decenni di gran lunga la più ampia riserva italiana) e così importante dal punto di vista naturalistico viene di fatto abolito. E’ vero che la sua eliminazione è stato obiettivo storico dei politici sudtirolesi sin dal 1945, perseguito con una tenacia prossima all’ossessione in quanto imposizione “italiana” su un territorio “tedesco”. E’ vero – come sottolinea Franco Pedrotti e come avvertirono lucidamente già all’epoca le associazioni ambientaliste – che tale esito era potenzialmente segnato già nelle norme di attuazione dello Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige nel 1974. Ma è altrettanto vero che in oltre quarant’anni quest’esito è stato evitato, in taluni casi anche in modo drammatico come quando nel 2011 il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto che attuava tale disegno. Oggi invece, in armonia con lo spirito dei tempi, la morte annunciata può finalmente verificarsi: “il governo Renzi – comunica Salvatore Ferrari di Italia Nostra – ha dato il via alla nuova governance del Parco Nazionale dello Stelvio, che tradotto significa soppressione del Consorzio del Parco istituito con DPCM nel 1993 e smembramento del Parco in 2 parchi provinciali ‘speciali’ e un parco regionale ‘ordinario’, quello lombardo”.
Abbiamo così i politici sudtirolesi che fanno finta di piangere lacrime di coccodrillo ma assaporano una così a lungo sospirata vittoria, le istituzioni della tutela silenti, il mondo ambientalista italiano pervaso da stupore e da un dolore sordo e impotente e l’Europa che guarda con ulteriore preoccupazione a un Paese come il nostro capace di conquistare il record di primo paese europeo ad abolire la gestione unitaria – l’unica che può dargli senso e reale efficacia – di un grande parco nazionale di importanza mondiale mentre gli altri paesi, a partire dalla confinante Svizzera, continuano a potenziare le loro reti di parchi istituendo riserve di ogni livello.
Presidenze e direzioni: appendici partitiche e funzionari sotto ricatto
Il silenzio delle istituzioni di tutela, e dei parchi stessi in particolare, non è però casuale.
Della grande anomalia storica degli anni 1965-95 che ha portato alla legge quadro e alla decuplicazione della superficie territoriale protetta da parchi faceva parte un notevole grado di autonomia dei direttori e dei presidenti dei parchi. Non che non ci fossero nomine squisitamente politiche o persino direttamente partitiche, ma molte figure di direttori e di presidenti erano valide espressioni del mondo scientifico o ambientalisti convinti e per lo più operavano con notevole indipendenza operativa e progettuale. Alcune di queste figure hanno fatto la storia dei parchi italiani mantenendo un rapporto fortemente dialettico con il mondo politico: l’ossatura dell’attuale legge quadro, tanto per dare un’idea di questo rapporto, non è nata in uffici ministeriali né nelle commissioni parlamentari ma soprattutto da successive riscritture avvenute nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, a Pescasseroli.
Si trattava di un’anomalia istituzionale? Può darsi. Ma in questo modo il contributo che le aree protette hanno dato in quegli anni allo sviluppo della protezione della natura in Italia è stato formidabile in termini di idee, di denuncia, di proposte, di stimolo culturale.
Bene, quell’anomalia è stata progressivamente “sanata”, sia nella prassi corrente sia operando sui meccanismi di nomina.
Dopo un periodo in cui Alleanza Nazionale ha tentato – peraltro con un momentaneo successo – di fare delle presidenze dei parchi nazionali una propria “specialità” all’interno di coalizioni di governo che aveva la testa in tutt’altre cose, il pallino è definitivamente tornato nelle mani dei partiti (o meglio: degli eredi dei partiti) che avevano “fatto” i parchi regionali e la legge quadro, cioè il Pci e la Dc ora nella nuova veste di partito unico. Ma ci è tornato non più nell’ottica che animava (almeno nominalmente) la legge quadro, quella cioè della partecipazione democratica alla gestione delle aree protette, ma in quello di un controllo diretto di presidenze e direzioni. Si è assistito così a nomine sempre più politiche, sempre più sganciate da competenze e da storie di coinvolgimento serio nella protezione della natura e da una marcatura sempre più stretta sui direttori, che oggi infatti possono essere magari ottimi amministratori ma appaiono quasi sempre soggetti politicamente inerti e silenti, contrariamente a quanto avveniva nella fase precedente. Su alcuni casi di nomine si sono addirittura incentrate battaglie nazionali, come nel delicatissimo caso della presidenza del Parco nazionale d’Abruzzo verificatosi lo scorso anno.
Ma se è difficile effettuare una ricostruzione e una interpretazione globale delle vicende che nel corso degli anni, anche più recenti, hanno riguardato le nomine nelle aree protette italiane, il disegno di azzerare l’autonomia dei direttori è chiarissima nella volontà dei legislatori tanto berlusconiani quando “democratici”. Circola infatti da due anni una proposta di riforma della legge quadro del 1991, presentata in chiusura di legislatura dal senatore berlusconiano Antonio D’Alì e poi significativamente ripresentata con i medesimi contenuti e in gran parte con l’identico testo in apertura della nuova dal senatore “democratico” Massimo Caleo. Tra i punti chiave di questa “riforma” (che evita con cura di affrontare alcuni nodi cruciali del funzionamento delle aree protette – pur lucidamente additati da molti – ma si concentra quasi esclusivamente su aspetti “corporativi” e di “valorizzazione”) sta la modifica della composizione dei consigli direttivi e il criterio di nomina del direttore dei parchi nazionali. I consigli direttivi vedono radicalmente decurtata la rappresentanza “generale” (mondo scientifico, ambientalismo, ministeri) che passa da oltre la metà a circa un terzo e al contrario vedono amplificata la rappresentanza “locale” (comuni) che passa dal 38,5% al 45% alla quale si aggiunge però un’inedita e incongrua rappresentanza di “categoria”: quella delle associazioni agricole.
Alla realizzazione di un antico sogno di controllo locale sui parchi nazionali si aggiungerebbe inoltre la nomina del direttore, non più scelto come oggi dal ministero tra una rosa di tre iscritti a uno speciale albo cui si accede per concorso ma sarebbe nominato direttamente dal presidente del Parco (a sua volta di nomina politica tout court) sulla base di sue preferenze personali che non passano al vaglio di nessun organo o criterio stringente.
Anche in questo caso si avvera un antico sogno: quello, appunto, di “sanare” l’anomalia italiana di tecnici troppo autonomi, troppo ligi alla missione istituzionale delle aree protette e troppo capaci di progettualità e di iniziativa. Come potranno essere amministrati in queste condizioni i parchi nazionali italiani del futuro non è difficile prevederlo.
Un mondo in ogni caso attraversato da lampi di responsabilità civica
Se si vuole essere onesti, bisogna tuttavia ammettere che – come avviene in molta della pubblica amministrazione italiana – il sistema delle aree protette italiane non si è finora afflosciato su se stesso e non è caduto totalmente preda della disperazione o dello sbando grazie al lavoro paziente e appassionato di una parte cospicua dei suoi dipendenti e dei suoi responsabili. Nonostante le difficilissime condizioni di lavoro, le restrizioni progressive e il disinteresse del mondo della politica l’ampio corpo delle aree protette italiane continua a produrre una quantità strategica e assolutamente preziosa di ricerca scientifica, di educazione ambientale, di sensibilizzazione, di governo del territorio e di tutela della natura. Lo fa – è bene ripeterlo ancora – in condizioni sempre più sfavorevoli e con prospettive sempre più cupe, ma lo fa e resta in tal modo un prezioso baluardo di civiltà, di coesione sociale e di infrastrutturazione culturale e civile.
Un associazionismo in qualche caso poco incisivo e in qualche caso complice. Comunque diviso
Un’altra nota dolente è costituita dalla situazione del mondo dell’associazionismo, che è stato probabilmente il maggior protagonista storico, dalla metà degli anni Sessanta in poi, della crescita e dell’affermazione delle aree protette italiane. Italia Nostra prima di tutte le altre, poi il World Wildlife Fund Italia, il Club Alpino Italiano, Legambiente e in tempi più recenti anche il Comitato per la Bellezza hanno dato un contributo decisivo, soprattutto negli anni Ottanta, alla nascita dei nuovi parchi e all’approvazione della legge quadro, sia a livello di iniziative nazionali sia a livello di iniziative regionali e locali. Il momento di massima incisività è stato sicuramente quello tra il 1985 e il 1991, quando il sostegno attivo di diverse forze politiche e la concorde spinta associativa, ben rappresentata nelle aule parlamentari da figure come Michele Cifarelli, Antonio Cederna e Gianluigi Ceruti, ha consentito la promulgazione di provvedimenti chiave come il decreto Galasso (1985), la legge sui suoli (1989) e quella sulle aree protette (1991).
Da quei tempi il peso reale dell’associazionismo è diminuito in vari sensi. Il senso dell’urgenza della questione ambientale, la sensibilità collettiva al riguardo si è appannata, riducendo così la base di consenso e la conseguente spinta dal basso. Ma a ciò bisogna aggiungere che l’universo dei partiti e della vita politica in generale ha cominciato ad avvertire non più come stimolante, ma come fastidioso e persino accessorio il contributo che veniva dall’associazionismo. La figura dell’attuale Presidente del Consiglio e la sua retorica da messaggeria telefonica rappresentano plasticamente la piena maturazione di questo tipo di atteggiamento: battute ad effetto come quelle riguardanti i “gufi”, i “professoroni” e i “comitatini” esprimono come meglio non si potrebbe un profondo disprezzo per i corpi intermedi della società civile e soprattutto per quelli che svolgono un ruolo di riflessione critica e di proposta alternativa. Oltre – naturalmente – una postura mentale non lontana dalla famosa frase di un non dimenticato despota “orientale” che chiedeva sprezzantemente quante divisioni avesse il Papa.
L’associazionismo si ritrova così indebolito, con frequenti problemi di bilancio, con stimoli dalla base e dai territori più flebili che in passato e non sempre riesce a tenere efficacemente il punto. Nel caso delle aree protette, come si osserva da molti anni a volte con troppa enfasi ma non sempre a torto, il meccanismo delle rappresentanze ambientaliste negli enti parco può provocare spesso atteggiamenti locali di auto-moderazione e di avallo a linee e provvedimenti che altrimenti verrebbero valutati criticamente. Anche chi si batte con maggiore energia trova sempre meno ascolto e anzi – peggio – sempre più porte sbarrate, cosa che in altri tempi non avveniva. La voga “decisionista” porta sempre più a fare a meno anzi di qualsiasi confronto pubblico, di qualsiasi dialogo. Per altri, invece, la tentazione di una sorta di “ambientalismo di governo” è diventato un vero e proprio habitus che consente di tenere posizioni associative e personali a scapito della limpidezza delle iniziative e delle battaglie. Faccio due esempi, e assai dolorosi, tanto per non lasciare le cose nel vago.
Ermete Realacci, ormai all’invidiabile traguardo del quarto mandato, conserva la possibilità di rappresentare l’associazionismo ambientalista italiano in Parlamento – possibilità via via negata ad altri – grazie a una elasticità tale che lo ha portato a votare senza fare una piega i provvedimenti riguardanti Soprintendenze e Forestale che ho citato più sopra. Il premio per l’attivo sostegno di Federparchi, l’organizzazione delle aree protette italiane discendente dal glorioso coordinamento fondato nel 1989, alle politiche bipartisan di depotenziamento dei parchi è invece ben rappresentato da un articolo della proposta di riforma della legge quadro che fa di essa una sorta di agenzia parastatale con delega al controllo e all’orientamento delle aree protette.
Questa deriva, e non poteva essere altrimenti, ha finito col produrre persino spaccature clamorose come quando i “governativi” sono arrivati a tacciare una presa di posizione congiunta di FAI, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf come “ambientalismo da giovani marmotte”.
Pezze peggiori dei buchi: dal nesso tutela/ecosviluppo al nesso branding/composizione di interessi locali
Chi ha più potere e interlocuzione politica in mano pensa oggi di uscire da questa grave crisi delle aree protette non più mediante ambiziose proposte di rilancio oppure mediante ragionevoli proposte che correggano le storture e i malfunzionamenti più palesi e al contempo con un appello alla mobilitazione della società civile più sensibile, come è sempre stato negli ultimi decenni. L’idea dominante appare piuttosto quella di spingere a fondo in direzione di un adeguamento delle aree protette all’esistente, cioè al predominio della cultura neoliberista e degli interessi locali e privati.
Mentre nel momento alto degli anni Settanta-Ottanta si puntava su un rapporto audace da costruire tra tutela ambientale e forme di economia sperimentali, più rispettose degli uomini e della natura e più eque, possibili paradigmi per il futuro da esportare al resto della società, nelle proposte di “riforma” della legge quadro presentate dalla maggioranza con il sostegno di Federparchi e Legambiente – quest’ultima con qualche più recente ripensamento – tutto viene ridotto all’ingresso dei portatori di interessi privati (imprenditoria) nei consigli direttivi e alla monetizzazione di attività potenzialmente devastanti.
Un altro punto fondamentale, sul quale si consumarono scontri epici tra forze promotrici dei parchi e della legge quadro, è quello della partecipazione democratica, una volta inteso come elemento di dialogo, di progettazione e di crescita comune di tecnici, studiosi, esperti, ambientalisti, amministratori locali e popolazioni e oggi ridotto a un occhiuto controllo consociativo da parte dei partiti politici e degli amministratori locali sull’attività dei parchi grazie ai nuovi meccanismi di nomina dei consigli e dei direttori.
In questo clima le dirigenze più “avanzate” del mondo dei parchi italiani appaiono quelle oggi freneticamente impegnate nel vendere il brand della propria riserva saltando da una fiera enogastronomica a una borsa turistica, in Italia o all’estero, quando non – come avviene ormai strategicamente nel parco regionale toscano di San Rossore-Massaciuccoli – nell’offrire la parte più pregiata della riserva come location per qualsiasi grande evento si preannunci a portata di mano, dai raduni di massa ai vertici internazionali. Una impostazione che vuole apparire (e a qualcuno effettivamente finisce con l’apparire) una brillante e audace navigazione tra le tendenze più avanzate della società postindustriale e che invece costituisce un triste e rischioso cabotaggio nelle miserie di un modello economico e culturale in crisi profonda. Un cabotaggio, peraltro, del tutto subalterno: che finisce col togliere alle aree protette non solo gran parte della specificità della loro missione, ma anche la possibilità – che in altri tempi c’è stata, e forte – di additare nuovi approcci e nuove strade alla società tutta intera.
Sperare, ma in cosa?
Abolizione del Parco Nazionale dello Stelvio, fine dell’indipendenza della Forestale, mercificazione delle aree protette e loro riduzione a location, proposte di riforma della legge quadro inadeguate e al tempo stesso gravide di rischi: diversamente da come è avvenuto in altre fasi storiche, quando esisteva un ampio consenso e una vasta mobilitazione popolare, questa sembra un’onda di risacca inarrestabile rispetto alla quale sembrano avere voce in capitolo solo coloro che l’assecondano.
Eppure bisogna rimanere convinti che c’è uno spazio per resistere, per continuare a denunciare, a discutere, a dialogare, a sensibilizzare, a fare proposte alternative, a progettare futuri diversi. In molti, in questi anni e anche nei mesi scorsi, hanno fatto sentire cocciutamente la propria voce, con iniziative e appelli. E continuano a farlo, proponendo di continuare a battersi e a discutere in sedi pubbliche.
La storia non finisce qui: a partire dalla nostra capacità di scriverne, di analizzare, di confrontarsi o , per dirla con Edward Said, di “dire la verità”.
da “eddyburg” 14.12.2015
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Per difendere i parchi italiani occorre innovarne la missione e la governance
di Enzo Valbonesi
Occorre riaccendere il dibattito sullo stato di salute dei parchi e conseguentemente sulle politiche che sarebbero necessarie per la salvaguardia della biodiversità nel nostro paese. La salvaguardia della biodiversità, questo è il punto focale. I parchi sono infatti solo uno degli strumenti, non l’unico e forse neppure il più importante, per conservare gli ecosistemi naturali ed i servizi che essi rendono all’umanità. Non sono il fine della conservazione.
Riconoscere la parzialità della funzione dei parchi non vuole dire sminuirne l’importanza in termini di conservazione, semmai vuol dire collocarli in una prospettiva più appropriata, evitando così di considerarli strumenti salvifici e mitizzare il ruolo di chi li dirige e/o li presiede.
Vorrei fare in proposito alcune riflessioni che si legano al dibattito in corso sull’opportunità o meno di cambiare la legge quadro nazionale sulle aree protette. Con la legge 394/91 si è raggiunta una mediazione alta e intelligente tra visioni politiche diverse circa il rapporto tra i parchi ed il loro contesto, o meglio, tra la specialità della tutela attraverso questo istituto e gli strumenti ordinari di governo del territorio, in capo alle comunità locali ed alle regioni.
Il compromesso raggiunto nel 1991,sostanzialmente tra la DC e il PCI con il contributo decisivo dei Verdi , è avvenuto all’interno di una stagione fervida di riforme innovative sul piano della gestione delle risorse naturali (è di quel periodo la legge sulla difesa del suolo e quella sulla gestione faunistico-venatoria).
La legge ha costituito il punto di equilibrio tra le posizioni più centralistiche e quelle più regionalistiche, forse troppo radicali, che chiedevano di considerare i parchi nazionali territori dotati di una propria specialità normativa ma non separandone la gestione dai loro contesti culturali, economici e istituzionali.
Nei fatti si può dire senza ombra di smentite che la legge ha raggiunto il proprio scopo principale ; quello cioè di favorire la nascita di nuovi parchi (soprattutto nazionali) e di nuove aree marine protette. Per questo si può affermare che la 394 ha funzionato bene.
Sicuramente, nel corso degli anni, più che inapplicata essa è stata menomata in alcune delle sue parti più innovative, soprattutto attraverso il varo della così detta riforma Bassanini del 1997. Fondata sul principio di leale cooperazione istituzionale tra tutti i livelli dello Stato, la legge 394 aveva dato vita a due strumenti molto importanti che andavano in quella direzione: il comitato paritetico stato-regioni e il programma nazionale delle aree protette, introducendo in questo modo, oltre alla logica della collaborazione paritaria tra Stato-Regioni ed Enti Locali, anche la prospettiva del “sistema nazionale delle aree protette”.
Questi due strumenti sono stati purtroppo cancellati da un provvedimento, appunto la riforma del Titolo V della Costituzione, frutto di un regionalismo bislacco e della rincorsa spasmodica delle posizioni della Lega.
Questa è stata e resta la menomazione più grave apportata alla 394 ed ha impedito che si procedesse, o si tentasse di procedere, lungo la strada della costruzione della così detta rete ecologica nazionale; il principale strumento di difesa e di rafforzamento della biodiversità di cui ha bisogno un paese come il nostro caratterizzato da una grande varietà di ecosistemi naturali in gran parte di modeste dimensioni .
I parchi quando sono isolati, anche quelli meglio gestiti, non raggiungono quasi mai dei significativi risultati nella conservazione di habitat e specie se non sono inseriti all’interno di una rete ecologica e se non sono guidati da una strategia , almeno nazionale, per la conservazione della biodiversità.
In altre parole , la tutela svolta dai parchi per essere efficace ha bisogno che essi siano collegati tra loro da idonei corridoi ecologici che possono permettere le dinamiche dei sistemi naturali più rari e minacciati.
A mio parere da alcune parti nel dibattito odierno che ruota intorno alle vicende dei parchi si continua a dare troppo peso al ruolo dei presidenti e dei direttori. Personalmente credo che, come in tutte le cose, siano importanti le persone e anche le elite che guidano i processi, ma la forza dei cambiamenti durevoli ed il loro successo sta innanzitutto nella bontà del progetto, nel consenso che esso riesce a suscitare, in primo luogo da parte di chi nei parchi vive e lavora e nella qualità/quantità dei risultati che si riesce a conseguire nel lungo periodo.
Ricordiamoci inoltre che in anni recenti in alcuni parchi nazionali , segnatamente il parco d’Abruzzo e quello delle Cinque Terre (ritenuti in molti ambienti due icone della conservazione ) , si sono purtroppo verificate gravi irregolarità gestionali perseguite dalla Magistratura a carico di direttore e presidente ; irregolarità che non hanno fatto sicuramente bene all’immagine complessiva del sistema dei parchi italiani.
Due parchi, quello d’Abruzzo e le Cinque Terre, che nel recente passato sono stati presentati da più parti come modelli di buona gestione e come tali da seguire. Attenzione quindi alle mitizzazioni. Insomma, per i parchi io propendo per una gestione repubblicana e non monarchica ; per una gestione finalizzata ad un progetto e guidata dall’intuizione di un pur bravo direttore o di un presidente illuminato.
Quello che serve ai parchi italiani è una politica ed una strategia nazionale per la conservazione della biodiversità. Quella approvata in fretta nel 2010 dalla conferenza stato-regioni è invece solo un elenco di buone intenzioni senza la specificazione dei risultati da raggiungere .
Una strategia, per essere efficace, deve partire invece da un quadro conoscitivo preciso sullo stato della biodiversità ( che a distanza di 25 anni dalla legge 394 ancora non c’è) , definire le priorità e gli obiettivi da raggiungere ,dotandosi di specifici indicatori di risultato (temporalizzati e quantificati), individuare le risorse necessarie e le responsabilità dei diversi attori , istituzionali e non , che sono chiamati a realizzarla.
Ed è in questo quadro di pianificazione strategia che ad ogni parco , sia nazionale che regionale, deve essere attribuito un compito preciso (quali habitat e specie deve tutelare prioritariamente e con quali risultati in un tempo definito) ; una sorta di missione di scopo sulla base della quale deve essere valutata la propria performance .
Non credo che i presidenti dei parchi debbano sempre connotarsi esclusivamente per essere dotati di un ottimo curriculum scientifico ma debbano possedere l’esperienza e la capacità per sapersi misurare con i contesti di riferimento ed essere dotati di buone doti persuasive e di idee innovative, così come i direttori, che invece di assurgere al ruolo di soprintendenti ministeriali (decidendo da soli cosa è meglio fare) debbono invece perseguire gli obiettivi che gli organismi preposti, il consiglio del parco e la comunità del parco, definiscono attraverso la partecipazione vera dei portatori di interesse (scientifici, culturali, economici ecc.)
E’ indubbio che senza la buona politica non ci può essere una buona conservazione della biodiversità. Non ci possono essere bravi presidenti e direttori se non ci sono buoni amministratori locali, regionali e nazionali. La nomina del direttore di un parco nazionale operata da un cattivo ministro non può essere migliore di quella operata da un buon consiglio direttivo.
Non basta che le nomine siano fatte da istituzioni più distanti possibile dal territorio dove insiste il parco per avere la garanzia della loro qualità perché se cosi fosse dovremmo chiedere che le nomine dei direttori e dei presidenti dei parchi siano fatte direttamente dall’ONU.
E’ vero che le difficoltà dei parchi derivano in gran parte dalla crisi della politica , ma non per questo dobbiamo suonare le campane a morto. Non credo poi che la soluzione consista nel tentare di risuscitare quel movimento di opinione che contraddistinse la fase più fervida dell’ambientalismo italiano degli anni 80 che seppe interpretare l’ esigenza di una società in grande crescita culturale e soprattutto che voleva mettere l’Italia al passo con gli altri paesi occidentali anche per quanto riguarda la propria natura più preziosa.
Oggi i cittadini sanno che l’obiettivo di istituire i Parchi è stato raggiunto ed è difficile, se non impossibile , mobilitarli per difendere i parchi e metterli in grado di svolgere al meglio la loro missione. Essi si aspettano , giustamente, che adesso siano le istituzioni a farli funzionare.
Finisco su alcune critiche pubblicate anche recentemente su alcuni giornali on line (ultimo l’intervento del prof. Piccioni pubblicato da Eddyburg dello scorso 14 dicembre), rivolte ai contenuti della proposta di modifica della legge 394 e a Federparchi. Non mi pare che si possa affermare con tanta leggerezza che Federparchi non stia operando a favore dei parchi come, di fatto, si afferma nell’intervento che ho citato prima.
Credo sia un fatto positivo e non un difetto, del progetto di legge di riforma la previsione di affidare a Federparchi il compito di contribuire a sviluppare a fianco del Ministero il sistema delle aree protette, così come da decenni fa e con ottimi risultati il ministero francese con la sua Federazione dei parchi.
Io, a differenza dei critici di cui parlavo prima, mi aspetterei dalla nuova legge un maggiore sforzo di innovazione perché i principi della 394 non possono essere messi in discussione e non mi pare che il Pdl in discussione al Senato lo faccia.
Credo invece che la modifica della 394 debba guardare di più alle strategie mondiali e comunitaria per la conservazione della biodiversità, per arrestarne la perdita da qui al 2020 e fare quindi propri quegli obiettivi e debba collegarsi maggiormente ai principi ed agli obiettivi della direttiva Habitat ; una direttiva che è stata varata appena dopo l’approvazione della legge quadro e alla quale i parchi debbono riferirsi maggiormente nella gestione della biodiversità.
Infine la revisione della 394 dovrebbe sviluppare e mettere con i piedi per terra quanto ha previsto la recentissima legge, il cosiddetto “collegato ambientale”, che ha introdotto sul piano legislativo il concetto di “servizi ecosistemici” e la regolazione del loro pagamento, per farne il perno dell’autofinanziamento dei parchi e allo stesso tempo il parametro di riferimento principale per misurare la loro capacità di iniziativa, di tutela e di messa in valore delle risorse naturali che essi conservano.
Il progetto di legge di riforma della 394 contiene anche molti aspetti positivi. Innanzitutto riaccende l’interesse delle istituzioni verso i parchi. Un interesse che si è sicuramente affievolito non solo perché la politica è disattenta alla conservazione della biodiversità , ma anche perché in molti casi la gestione dei parchi non è sempre stata all’altezza delle aspettative. Il progetto di riforma prevede poi il ripristino del programma triennale nazionale per le aree protette , sia nazionali che regionali. Accentua inoltre il ruolo delle comunità locali nel governo dei parchi nazionali e apre al coinvolgimento diretto degli agricoltori; una categoria che nei parchi ha diritto ad avere più voce perché gli agricoltori sono, allo stesso tempo, proprietari dei terreni su cui insistono i parchi , abitanti dell’area protetta e quelli che più di altri utilizzano il territorio e le sue risorse.
Del resto la legge 394 ha ben 24 anni e dalla sua approvazione ad oggi sono cambiate molte cose: il quadro istituzionale , l’affezione dei cittadini verso i parchi, i nuovi paradigmi mondiali nel campo della conservazione, la consapevolezza dei rischi indotti dai cambiamenti climatici e dalla perdita della biodiversità.
Perché dovremmo avere paura di innovarla? La legge quadro ha ottenuto grandi risultati che oggi richiedono però di essere ulteriormente sviluppati per non fare ripiegare i parchi su se stessi. In definitiva penso che lo spirito ed i principi della 394 si difendono meglio aggiornando alcuni dei suoi contenuti anziché arroccarsi e chiudersi alle innovazioni.
da “greenreport” 30.12.2015
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Aree protette italiane: razionalizzazione incipiente o deriva permanente?
Una risposta a Enzo Valbonesi
di Luigi Piccioni
Il lungo articolo di Enzo Valbonesi comparso il 30 dicembre su “greenreport” rappresenta una replica – a tratti quasi punto per punto – a un mio ancor più ampio e articolato saggio-denuncia apparso su “eddyburg” il 14 dicembre alla cui lettura non posso che rimandare.
Valbonesi è figura storica e di prestigio indiscusso nel mondo delle aree protette italiane e le sue osservazioni meritano quindi una seria e argomentata replica. Egli invita in apertura a “riaccendere il dibattito” sulle aree protette e io intendo prenderlo in parola chiedendogli sin d’ora di perdonare la schiettezza di qualche passaggio. Il dibattito non ha peraltro particolare bisogno di essere riacceso perché nel corso degli ultimi cinque anni esso è divampato furiosamente in molte sedi senza peraltro riuscire minimamente a influenzare l’impostazione dei “riformatori” della legge quadro sulle aree protette, impostazione che è rimasta infatti sempre la medesima. Il testo di “riforma” della 394 è riuscito anzi a passare, nel cambio di legislatura del 2013 da un proponente del partito di Berlusconi (Antonio D’Alì) a un relatore del Partito Democratico (Massimo Caleo) senza subire alterazioni realmente sostanziali, a testimonianza di una convergenza bipartisan indifferente a qualsivoglia suggerimento di modifica o osservazione critica.
A dare la misura del livello di scontro creatosi al riguardo sta, come ho già avuto modo di notare su “eddyburg”, l’ormai leggendario scambio di stoccate di fine 2011 tra associazioni ambientaliste (Fondo per l’ambiente italiano, Italia Nostra, Mountain Wilderness, Lega per la protezione degli uccelli e Wwf da un lato, Legambiente e Federparchi dall’altro) nel quale gli “innovatori” sono arrivati a dare delle “giovani marmotte” , portatrici di un “ambientalismo alla Disney”, a coloro che criticavano nel merito la “riforma”. Lo scontro è proseguito in questa legislatura – anche se Legambiente sembra essersi defilata – e oggi si concentra su quello che dovrebbe essere il testo unificato di tre disegni di legge, ma che in realtà non prende in alcuna considerazione le correzioni apportate dal ddl De Petris ad alcuni degli errori più gravi contenuti nell’originario ddl D’Alì e nel ddl Caleo.
Tutto l’intervento di Valbonesi – ma ci tornerò in chiusura, perché è un punto assai ricco di implicazioni – ruota attorno alla parola chiave dell'”innovazione”: per poter difendere le nostre aree protette sarebbe infatti fondamentale “innovare” e la “riforma” D’Alì/Caleo, quale emerge dal testo unificato, è in questo senso sicuramente la “cosa giusta”, una proposta cioè che cambia le cose giuste nel modo giusto.
Sono anni al contrario che la più gran parte dell’associazionismo ambientalista, delle personalità del mondo della cultura e degli esperti insiste sul fatto che i punti salienti della proposta sono sbagliati – e anche su questo tornerò – ma è altrettanto interessante osservare come la “riforma” D’Alì/Caleo ignora completamente i problemi fondamentali in cui si dibattono oggi le aree protette italiane. In un volume collettivo edito dal Gruppo di San Rossore freschissimo di stampa (Cosa urge per i parchi, Pisa, ETS, 2016), ad esempio, l’ex direttore del Parco nazionale della Maiella Nicola Cimini indica in modo analitico molti di questi problemi, soprattutto in campo gestionale, e fa proposte precise e concrete per avviarli a soluzione. Ebbene: è opera assai ardua trovare qualche punto di contatto tra queste proposte, che vengono da una lunga e sofferta esperienza di gestione di parchi nazionali, e il testo difeso da Federparchi.
Valbonesi inoltre, e a mio avviso in modo del tutto corretto, osserva come uno dei problemi principali delle aree protette italiane non è una pretesa mancata applicazione della legge quadro del 1991 ma sono piuttosto le mutilazioni che essa ha subito proprio negli anni immediatamente successivi alla sua approvazione. L’abrogazione del comitato paritetico stato-regioni e quella del programma triennale nazionale delle aree protette hanno ad esempio vanificato la possibilità di creare un “sistema nazionale delle aree protette” e nella stessa direzione sono andate l’abrogazione del Comitato e della Consulta tecnica per le aree naturali protette e la mancata realizzazione della Carta della natura. Sono in questo modo saltati alcuni capisaldi cruciali per un’efficace politica nazionale delle aree protette e la deriva attuale è anche figlia di queste sciagurate decisioni. Una riforma veramente innovativa e attenta alle esigenze delle aree protette italiane dovrebbe necessariamente prevedere la reintroduzione di una visione e di strumenti di questo genere ma anche in questo caso è impossibile trovare traccia di tutto ciò nella “riforma” D’Alì/Caleo che oltre tutto sul programma triennale compie un pasticcio: si dimentica che il programma è stato soppresso nel 1998 dal decreto legislativo 112 (se lo era invece ricordato, inascoltato, il ddl De Petris) e invece lo introduce per le aree protette marine. E per spingersi ancora oltre si può osservare come le più importanti esigenze segnalate da tempo dallo stesso Valbonesi (strategia nazionale per la conservazione della biodiversità, armonizzazione con le strategie comunitarie e mondiali) non hanno alcun riscontro nel testo unificato in discussione in Parlamento (mentre anch’esse erano presenti nel ddl De Petris).
Insomma, la “riforma” D’Alì/Caleo è un testo che si segnala molto più per i problemi importanti su cui non ha nulla da dire e non dice nulla che per quelli che pretende di affrontare e che di conseguenza si può definire innovativa solo con una grande dose di immaginazione e di affetto.
I contenuti della “riforma” D’Alì/Caleo si riducono infatti ad alcuni interventi che se non vanno al cuore dei problemi attuali dei parchi introducono però rilevanti stravolgimenti alla filosofia, al funzionamento e al ruolo delle aree protette. Su tutto questo concorda la quasi totalità delle associazioni ambientaliste che in questi anni hanno più volte prodotto documenti e appelli – anche recenti – caratterizzati da una decisa e argomentata contrarietà, ma concordano anche autorevoli esperti che come abbiamo già visto hanno prodotto preziose analisi di dettaglio.
Valbonesi si sofferma velocemente su quattro aspetti-chiave della proposta di legge che sono al tempo stesso tra quelli più aspramente criticati. Ed è qui che vale dunque la pena di seguirlo passo per passo. I lettori di “greenreport” hanno già una buona conoscenza di questa materia perché è stata trattata più volte sulle sue colonne da figure autorevoli come Renzo Moschini e Carlo Alberto Graziani ma da un lato è sempre vero che repetita iuvant e dall’altro è forse possibile approfittare dell’occasione per aggiungere qualche riflessione in più, sintetizzando alcune argomentazioni già esposte in modo più approfondito in “eddyburg”.
In primo luogo la “riforma” attribuisce un ruolo abnorme a una associazione privata e squisitamente volontaria come Federparchi stabilendo che essa è titolare niente di meno che della “rappresentanza istituzionale in via generale degli enti di gestione delle aree protette”. In cambio, tale associazione si impegna graziosamente a non escludere nessuna area protetta che intenda aderirvi. Dietro questo anomalo riconoscimento si intravede facilmente la rinuncia definitiva alla creazione di un organismo nazionale e pubblico di coordinamento, la delega di questo compito a un ente privato e il riconoscimento – mi pare di poter tranquillamente aggiungere – dell’organicità di Federparchi alle politiche governative presenti e future.
Un’associazione che tra l’altro fa da anni tandem con una sola delle grandi associazioni ambientaliste nazionali e spesso, come ho cercato di mostrare, in aperto contrasto con le altre. Valbonesi ritiene al contrario che si tratti di ordinaria amministrazione e anzi di un adeguamento a quanto avviene in paesi sicuramente evoluti come la Francia: si tratterebbe da noi di fare “così come da decenni fa e con ottimi risultati il ministero francese con la sua Federazione dei parchi”. Disgraziatamente quest’ultima affermazione è del tutto infondata e introduce un elemento di grave confusione. In Francia anzitutto non esiste una “Federazione dei parchi” ma esistono due istituzioni molto diverse tra loro. Una si chiama Parcs nationaux de France ed è niente meno che “un établissement public national à caractère administratif placé sous la tutelle du ministre chargé de la protection de la nature” che comprende tutti i presidenti dei parchi nazionali francesi, un rappresentante delle regioni, uno dei dipartimenti, un deputato, un senatore, due personalità desingnate dal ministero e un rappresentante dei sindacati del personale: altro che associazione privata! L’altra istituzione è effettivamente un’associazione privata, si chiama Fédération des parcs naturels régionaux de France , collabora certamente da decenni e con ottimi risultati – come afferma Valbonesi – con i vari ministeri ma il Code de l’environnement le attribuisce solo una funzione consultiva su alcune questioni molto specifiche, al pari peraltro di altri soggetti, mentre la legge quadro sui parchi del 2006 neppure la nomina. Che la “riforma” D’Alì/Caleo faccia in fondo “come la Francia” costituisce – a voler essere buoni – una pia illusione ma certamente non un dato di fatto. Essa non solo non “fa come la Francia”, essa fa ben altro e fa sicuramente molto peggio, tanto più che in Francia un ministero dell’ambiente esiste, funziona solidamente e persegue efficacemente le proprie politiche mentre in Italia, come riconoscono ormai anche politici un tempo sostenitori della “riforma”, il ministero dell’Ambiente è ormai solo un palazzo abitato da fantasmi .
In secondo luogo Valbonesi difende come novità positive l’accentuazione “del ruolo delle comunità delle comunità locali nel governo dei parchi nazionali” e l’apertura “al coinvolgimento diretto degli agricoltori”, due provvedimenti che stravolgono aspetti fondamentali dell’identità stessa dei parchi nazionali concentrando di fatto i poteri decisionali in testa a soggetti portatori di interessi locali e di categoria e non più nazionali e generali nel momento stesso in cui questi ultimi soggetti – il mondo scientifico su tutti – vengono progressivamente eslcusi. Su questi aspetti gravidi di rischi – oggi come ieri: non a caso l’attacco speculativo al Parco nazionale d’Abruzzo dei primi anni Sessanta si appoggiava a proposte di legge dal tenore analogo – ha concentrato la sua attenzione con le analisi precise e taglienti già citate Carlo Alberto Graziani e ad esse non posso che rimandare ancora una volta.
In terzo luogo Valbonesi difende in modo un po’ obliquo, senza nominarla direttamente, la parte della “riforma” che prevede la possibilità di introdurre nelle aree protette attività più o meno impattanti in cambio di una compensazione monetaria. Qui il riferimento è “nobile” ed è quello ai cosiddetti “servizi ecosistemici”, il cui pagamento dovrebbe divenire “il perno dell’autofinanziamento dei parchi e allo stesso tempo il parametro di riferimento principale per misurare la loro capacità di iniziativa, di tutela e di messa in valore delle risorse naturali che essi conservano”. Anche se vogliamo limitarci a un’analisi “alta” della questione, risparmiandoci la sofferenza di immaginare cosa possa comportare tutto ciò nella prosaica e rude concretezza dei territori, qui la distanza tra le posizioni che io difendo e quelle che difende Valbonesi è davvero profonda. Il concetto di “servizi ecosistemici” costituisce infatti – come sostiene limpidamente Virginie Maris nel suo recente Nature à vendre – un’arma a doppio taglio che va esattamente nel senso che ho cercato di denunciare nel mio articolo per “eddyburg”. Tale parola d’ordine, di successo molto recente, contiene e veicola infatti una considerazione sostanzialmente neoliberista di beni che sono e devono invece rimanere anzitutto collettivi e questa deriva, in Italia più forte che in altri paesi di tradizione statale più solida, costituisce per le aree protette un rischio ancor maggiore che per il pur minacciatissimo patrimonio storico-artistico. Di contro è indispensabile ricordare come nel nostro Paese la questione delle ricadute economiche – dirette e indirette – della tutela ambientale è stato al centro di tutto il dibattito sulle aree protette sin dalla metà degli anni Sessanta, con risultati sia teorici che operativi spesso di livello molto alto. Un dibattito che nella “riforma” D’Alì-Caleo viene miseramente e banalmente ridotto a una tenue compensazione monetaria di attività impattanti, a dispetto del manto nobilitante dei “servizi ecosistemici”.
Valbonesi espone infine una serie di interessanti considerazioni sulla questione dei criteri di nomina di direttori e presidenti dei parchi e sul loro ruolo, alcune sicuramente condivisibili e altre molto meno. Queste considerazioni prendono in gran parte spunto da una mia argomentazione contenuta nel saggio/denuncia del 14 dicembre, ma riportandola male e inducendo quindi in errore chi legge. Io avevo affermato che la “riforma” D’Alì/Caleo tende a codificare la tendenza in atto già da anni a limitare progressivamente l’autonomia amministrativa, culturale e operativa degli enti gestionali dei parchi assoggettando sempre più la scelta dei presidenti alla volontà delle segreterie (nazionali e locali) dei partiti politici e riducendo i direttori a fedeli esecutori di volontà esterne. Avevo anche affermato che tutto ciò, oltre che moralmente deplorevole, rischia di depotenziare in modo fatale la missione delle aree protette che è, per dirla con la formula che Valbonesi predilige, quella della “savaguardia della biodiversità”. All’interno di questo ragionamento avevo scritto – e qui lo riconfermo senz’altro – che senza il margine di autonomia garantito dalle precedenti normative, comprese quelle precedenti la legge quadro, i gestori delle aree protette italiane non avrebbero potuto essere come in effetti furono tra i maggiori protagonisti dello straordinario slancio che portò alla legge quadro e alla complessa e ricca configurazione attuale delle aree protette italiane. Dicevo anzi – e anche qui: lo confermo senz’altro – che la legge quadro è uscita in parte cospicua da discussioni degli anni Settanta e Ottanta svolte a Pescasseroli, nella sede del Parco nazionale d’Abruzzo, una circostanza oggi assolutamente inimmaginabile. Valbonesi, ricordando l’assai opaco esito di quella vicenda amministrativa, mi imputa una “mitizzazione” di quella esperienza. No, non è questo il punto. Io non mitizzo nulla, riporto un dato di fatto storico incontrovertibile per sottolineare una differenza tra quegli anni e quelli di oggi, tra una politica e una normativa che lasciavano margini, che permettevano l’iniziativa e la discussione e una politica e una normativa che sembrano preoccupate anzitutto di mettere tappi, di creare presidi ben controllati che non diano sorprese, che non deraglino. Una politica e delle normative che già ora sterilizzano gran parte delle energie che potrebbero dare un contributo rilevante alla soluzione dei tanti problemi dei parchi italiani. Tutto qui: ed è ben diverso dal mitizzare alcunché. Il punto è che la “riforma” D’Alì-Caleo mortifica programmaticamente quell’autonomia, già oggi ridotta al lumicino, e così facendo mortifica la capacità stessa delle aree protette di rappresentare qualcosa di innovativo e persino di difendersi da attacchi che pure ci sono e sono ben numerosi.
A fronte di questo giro di vite che accentra in mani sempre più ristrette e discrezionali i poteri decisionali Valbonesi scarta a priori l’idea che la soluzione ai problemi delle aree protette italiane possa risiedere nel tentativo “di risuscitare quel movimento di opinione che contraddistinse la fase più fervida dell’ambientalismo italiano degli anni 80” in quanto “oggi i cittadini sanno che l’obiettivo di istituire i Parchi è stato raggiunto ed è difficile, se non impossibile, mobilitarli per difendere i parchi [e che anzi] essi si aspettano che adesso siano le istituzioni a farli funzionare”. Abbiamo qui, evidentemente, due visioni opposte: da un lato un uomo delle istituzioni convinto che i cittadini siano oggi in attesa fiduciosa che le istituzioni stesse abbiano il pallino in mano e siano in grado di giocarlo correttamente; da un altro lato abbiamo cittadini che sono costretti a constatare una radicale incapacità/mancanza di volontà delle istituzioni nel garantire la sopravvivenza dei parchi e che ritengono che la prima risorsa sia come sempre la mobilitazione dell’opinione pubblica, per quanto in un contesto storico molto meno favorevole che in altre fasi. Solo da una onesta presa d’atto di questa divergenza è necessario partire se si vuole andare avanti.
Ma un aspetto che mi colpisce profondamente dell’intervento di Valbonesi – e con questo vorrei concludere – non riguarda tuttavia i contenuti bensì l’argomentazione, l’impostazione retorica.
Valbonesi utilizza infatti due argomentazioni parallele e complementari in questo periodo purtroppo molto in voga, estremamente deboli e persino logore ma che stanno facendo enormi danni a livello culturale e politico e altri danni sono certamente destinate a farne in futuro: la retorica dell’emergenza e un uso manicheo e caricaturale dell’opposizione innovazione/conservazione. È in senso stretto la retorica, brutalmente semplificatoria, che fa attualmente la fortuna del presidente del consiglio. La potremmo riassumere in questo modo: “la situazione è ormai incancrenita e immobile e un intervento incisivo e determinato è comunque il benvenuto; chi interviene modificando l’esistente perché ha il potere di farlo è comunque un innovatore, a prescindere dai contenuti. Chiunque provi invece a difendere l’esistente o pezzi dell’esistente, qualsiasi sia questo pezzo e in qualunque modo lo difenda, è comunque arroccato, è comunque conservatore, è comunque vecchio”. Le opposizioni (esplicitamente e ruvidamente valutative) vecchio/nuovo, innovatore/conservatore diventano insomma il passepartout per semplificare radicalmente il dibattito se non per chiuderlo preventivamente, sapendo che si gode comunque del vantaggio dei numeri. Da qui ai “gufi”, ai “professoroni”, ai “comitatini” che ornano la retorica renziana il passo è necessariamente brevissimo.
Eppure io non credo che questo sia il significato di democrazia e di partecipazione che per un pezzo di storia degli ultimi quarant’anni io, Valbonesi e migliaia di altre persone abbiamo condiviso e che ha costituito un pilastro cruciale delle realizzazioni di cui continuiamo ad essere giustamente orgogliosi. Cerchiamo insomma di stare il più possibile sul pezzo e di starci, se possiamo, con onestà e mente fredda. I “gufi” lasciamoli ad altri: con un po’ di buona volontà forse ce la facciamo.