Le dimensioni dell’ecologia

Una coscienza storica ecologica

La sociologia ambientale – disciplina che studia le relazioni fra popolazione e ambiente – spiega che le società moderne possono essere viste, allo stesso tempo, come imprese umane collettive o come ecosistemi complessi. In ogni caso è chiaro che, qualunque sia l’interpretazione scelta, comunità umane e ambiente sono fortemente correlati: non possono esservi imprese umane senza il sostegno dell’ecosistema, così come l’ecosistema è fortemente condizionato dall’attività umana, tanto da non potersi sostenere in condizioni di antropizzazione (abitazioni, allevamenti, agricoltura, infrastrutture, …) se le comunità non prendono consapevolezza del proprio impatto sull’ambiente che le sorregge, cercando di limitarne lo sfruttamento.

Il concetto della consapevolezza – legato in questo caso all’impatto ambientale, singolo e collettivo – rimanda a un’altra nozione di grande valenza culturale emersa nella prima metà del Novecento, quella di coscienza storica: la capacità di comprendere e adattarsi alla realtà contemporanea, riconoscendo i principali eventi e fattori che la definiscono, fino ad avanzare in modo appropriato opinioni e soluzioni per i problemi che ne minacciano la continuità.

La coscienza storica prende forma nelle menti e nei discorsi quotidiani prima che sui libri, amalgama la memoria delle vicende umane e le confronta con le acquisizioni scientifiche e culturali, arrivando così a costruire una narrazione della realtà contemporanea più o meno condivisa. Attualmente, in tema di difesa dell’ambiente e di benessere personale, il confronto fra le esperienze umane e le narrazioni scientifiche e culturali prevalenti è conflittuale e deludente. Di fronte alla crisi di sistema, che mette in dubbio la sopravvivenza della civiltà industriale e il senso dell’esperienza umana nel mondo tecnologico, la coscienza storica spingerebbe piuttosto a liberarsi dei dogmi positivisti degli ultimi secoli per ampliare la percezione della realtà e rivedere il significato dei concetti di progresso e sviluppo. Si tratta di un percorso lungo.

In tutti i tempi, due dimensioni sono risultate fondamentali nel determinare la coscienza storica delle popolazioni: la dimensione dello spazio, delimitata dall’ambiente fisico abitato (o abitabile) dall’uomo, e la dimensione del tempo, definita dalla capacità di estendere la scala cronologica oltre i limiti dell’esistenza di un individuo, di una società, o di una civiltà. Allo stesso modo sono influenzate sia la percezione della relazione fra uomo e ambiente, sia le acquisizioni filosofiche e culturali: diversi significati della vita e della posizione dell’uomo nell’universo sono deducibili da una concezione del tempo racchiusa nell’arco di seimila anni, come si evincerebbe, per esempio, da una lettura testuale delle sacre scritture, o così ampia da abbracciare i quattro miliardi e mezzo di anni attribuiti alla Terra dalle osservazioni scientifiche. Un analogo cambio di prospettiva vale se la propria visione del mondo è limitata dalle Colonne d’Ercole o si estende fino ad apprezzare il debole segno di una luce che affonda nel più remoto dei buchi neri.

Il tempo e lo spazio, un tempo sacralizzati, sono stati così tanto volgarizzati dalla scienza che non esiste più confine alla nostra capacità di coglierne l’estensione. La coscienza moderna, che cerca una relazione razionale fra l’origine delle galassie e la vita nell’universo inanimato, ha creato mappe del tempo che si estendono nel passato più profondo, le quali, almeno in via teorica, dovrebbero dare la collocazione corretta per ogni avvenimento dal Big Bang in poi(( D. Christian, Maps of Time, an introduction to Big History, University of California Press, Berkeley (CA) 2004.)). Nel concetto di consapevolezza moderna dovrebbero rientrare anche considerazioni cosmologiche, assieme a conoscenze di tipo geologico e biologico sulla storia evolutiva dell’ambiente e – molto prima della comparsa della nostra specie – sull’apparizione della vita e la sua espansione con la formazione della biosfera, prima fonte di sostegno dello sviluppo umano, così come la luce solare è la fonte di ogni altra forma di energia sulla superficie del pianeta.

Il raccolto umano, espresso come percentuale della produttività totale della biosfera secondo stime diverse si colloca attualmente fra il 10 % e il 55 % dell’intera produzione di biomassa per fotosintesi. ((V. Smil, Harvesting the Biosphere. What We Have Taken from Nature, MIT press, Cambridge (MA) 2012.)) Uno sfruttamento che ha avuto origine mezzo milione di anni fa ed cresciuto in modo incessante fino a oggi, grazie alla capacità dell’uomo di prendere il sopravvento sulla biosfera e sull’ambiente((G. Chelazzi, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Einaudi, Torino 2013.)).

Nella lunga corsa dello sviluppo umano – dalla nascita delle civiltà agricole diecimila anni fa, alla grande accelerazione industriale del XVIII e XX secolo –, assieme alle grandi realizzazioni politiche (città, stati, democrazie) e socio-culturali (la scrittura, il calcolo, le tecnologie), c’è stata anche una progressiva perdita di diversità biologica, linguistica e culturale, dettata dalla necessità di uniformare le differenze di espressione delle capacità umane in funzione delle risorse tecniche sviluppate. I concetti di ordine, unità, omologazione sono nozioni fondamentali e preliminari all’idea del progresso nella sua forma tecnologica. Non a caso, molte contraddizioni della modernità si condensano in un’unica osservazione: viviamo un mondo solo e tendiamo a un unico modello culturale, un unico linguaggio, un’unica forma di comunicazione e uno stesso identico modello economico globale – da contrapporre ai molti mondi possibili all’inizio dell’avventura umana e ai pochi mondi esistiti poi, temporaneamente, lasciando tracce nelle civiltà succedutesi fino a oggi.

Un unico modello economico si è affermato su scala globale, voracissimo ed efficace nello sfruttamento delle risorse naturali. Giorgio Nebbia, uno dei maestri dell’ambientalismo italiano ((G. Nebbia, Le basi dell’ambientalismo, incontro con Enzo Ferrara, Lo Straniero, N. 156 – Giugno 2013.)), spiega che i bisogni umani – di cibo e acqua, abitazioni, dignità, libertà, scambio conoscenze – possono essere soddisfatti soltanto portando via qualcosa dall’ambiente e lasciando scorie che modificano negativamente lo spazio abitativo degli umani di oggi e del futuro. In via di principio sarebbe possibile avanzare nel cammino della liberazione dal bisogno, usando meno materiali ottenuti dalla natura con meno violenza verso l’ambiente e la salute, ma se per salvaguardia si intende lasciare al domani la stessa quantità di petrolio, gli stessi boschi e pascoli, bisogna rassegnarsi perché il nostro impatto su queste risorse non potrà essere mai nullo, neanche con le azioni chiamate, secondo la moda, volta a volta sostenibili, rinnovabili, bio, eco, verdi o smart.

Si possono certamente fare investimenti economici, in cultura, in tecnologia per allontanare molte delle odierne violenze all’ambiente, ma sempre con crescenti costi monetari e peggioramento dell’ambiente complessivo. Lo dimostra la storia recente; una delle forme più subdole di alterazione ambientale è rappresentata dal riscaldamento planetario; possedere più merci comporta un maggiore uso di energia e di combustibili fossili, una maggiore produzione di anidride carbonica che finisce nell’atmosfera, un gas non tossico di per sé, ma responsabile del lento e irreversibile riscaldamento planetario. Le conseguenze sono tempeste tropicali, crescenti alluvioni, avanzate dai deserti, fusione dei ghiacciai, innalzamento del livello dei mari.

Mentre il dibattito continua sulle azioni possibili per invertire questa tendenza si sta riflettendo anche su quali siano i sistemi tecnici e cognitivi necessari per creare istituzioni capaci di garantire (e sostenere) il cambiamento. Da quarant’anni almeno scienziati, economisti e altri specialisti stanno tentando di inserire il concetto della sostenibilità ambientale nelle proprie discipline, chiedendosi come si possano favorire le pratiche sostenibili, quali siano queste pratiche e quali le conoscenze tecniche per arrivare a misurare o calcolare parametri condivisi correlati con le proprietà della sostenibilità. Uno degli indicatori di pressione ambientale maggiormente promettenti e utilizzati negli ultimi decenni è l’impronta ecologica (ecological footprint), unagrandezza ottenuta attraverso misurazioni e calcoli che confronta la velocità di consumo delle risorse e la generazione di scarti da parte dell’uomo con i tassi di rigenerazione delle prime e assorbimento dei secondi da parte della biosfera. In termini metrologici, la grandezza impronta ecologica ha come unità di misura gli ettari globali equivalenti, gha, di superficie terrestre necessari per il mantenimento dei flussi di materia ed energia suddivisi in sei categorie: carbon, crop, grazing, forest, built-up, e fishing land. L’impronta ecologica rappresenta quindi la porzione di superficie terrestre biologicamente attiva e produttiva richiesto per la gestione di flussi di risorse consumate e rifiuti prodotti da una specifica popolazione, organizzazione, o prodotto che si serva delle tecnologie e dei mezzi di gestione convenzionali.

Poiché storicamente il concetto di impronta ecologica è stato sviluppato fin dai primi studi sulla situazione del pianeta – in particolare con la pubblicazione della ricerca I limiti dello sviluppoErrore: sorgente del riferimento non trovata del 1972, del Rapporto Bründtland presentato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo dell’ONU, e dei rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) fondato nel 1988 – un riassunto dei passaggi fondamentali degli ultimi decenni in tema di sostenibilità ambientale può essere di aiuto nella lettura della situazione di crisi attuale.

II limiti dello sviluppo e i modelli di simulazione

Quarantasette anni fa, fu pubblicato il rapporto intitolato The Limits to Growth (1972)((D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers e W. W. Behrens III, The Limits to Growth: A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, Universe Books, New York (NY) 1972.)) – tradotto in italiano come I limiti dello sviluppo. Il lavoro era stato commissionato al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston dal Club di Roma, un’istituzione non strutturata, di estrazione non radicale, che cercava alternative per la soluzione dei problemi ambientali e sociali allora emergenti. L’uscita del rapporto provocò l’avvio di un dibattito ancora in corso, entro il quale può essere inserito anche questo lavoro. I suoi autori spiegavano di aver svolto per esperimento una simulazione delle “dinamiche dell’equilibrio mondiale”, che essi stessi definirono “Fase uno del progetto di studio della condizione presente e futura dell’umanità” ((Le osservazioni riportate sono tratte da, B. Hayes, Computation and the Human Predicament. The Limits to Growth and the limits to computer modelling, American Scientist, May-June 2012, Vol. 100 (3), p. 186)). Secondo quella simulazione la condizione dell’umanità è critica già da cinquanta anni e con meno di un secolo ancora prima che la civiltà mondiale crolli sotto il peso della sovrappopolazione, della fame, dell’impoverimento delle risorse e dell’inquinamento.

The Limits to Growth fu uno dei primi tentativi di valutazione con dati quantitativi del livello di sviluppo umano e della sua proiezione futura. Si trattò, effettivamente, solo di una simulazione. Al momento però non abbiamo di meglio per guardare al futuro dell’umanità, anche perché l’esperimento è in corso e ne facciamo parte tutti. Nel 1972 non era semplice verificare la robustezza di quel modello di calcolo, ma già vent’anni dopo, nel 1992, i personal computer offrivano pacchetti software che permettevano di analizzarne diversi aspetti, osservando anche come si potesse modificare gli esiti cambiando i valori in ingresso. Oggi, dopo altri trent’anni, è possibile ritornare su quella simulazione per coglierne fallimenti e successi e analizzarne i dettagli. Anche se una più profonda conoscenza delle 150 equazioni matematiche che simulano il modo di evolvere del mondo non porta a una maggiore affidabilità dei risultati, va riconosciuto a quell’esperimento il merito di aver previsto gran parte dei problemi che affliggono oggi il pianeta e i suoi abitanti e, soprattutto, di aver aperto il dibattito sulle possibili soluzioni. Inoltre, quella prima simulazione aprì la strada per poter poi prendere in considerazione attraverso modelli altre questioni ambientali, riguardanti per esempio le variazioni climatiche, l’impatto ecologico delle nostre società, la capacità di carico dell’ambiente in cui viviamo e la sostenibilità della scelte energetiche.

Gli autori di The Limits to Growth furono quattro (i coniugi Donella e Dennis Meadows, il climatologo Jørgen Randers e William Behrens III) coadiuvati da un gruppo di 17 ricercatori. Il principale artefice del modello, l’ingegnere elettronico Jay W. Forrester, non è indicato fra i collaboratori. Forrester al MIT si occupava di dinamica dei sistemi per il controllo ingegneristico. Dopo aver partecipato a un meeting del Club di Roma, nel 1970 aveva cominciato a studiare un modello, chiamato World2, mutuato dai sistemi dell’ingegneria e della cibernetica, applicabile però all’economia e all’ecosistema su scala globale. Il Club di Roma propose di sponsorizzare questo studio, ma Forrester preferì portare avanti le ricerche in modo indipendente. Fu il suo ex allievo Dennis Meadows ad allestire un team per il progetto del Club di Roma; la versione del modello usato per The limits to growth è nota come World ((V. Smil, The Earth’s Biosphere. Evolution, Dynamics, and Change, MIT press, Cambridge (MA) 2003.)).

Lo schema di un modello di dinamica dei sistemi è simile a un diagramma di flusso: ci sono taniche e serbatoi collegati da tubi; i flussi attraverso i tubi sono regolati da valvole; le valvole sono controllate da segnali che dipendono dallo stato dei serbatoi o dalla portata dei flussi che avvengono in altre parti del diagramma. In modo similare alla suddivisione in categorie dei terreni per il calcolo dell’impronta ecologica (§ II.1), il modello World ((V. Smil, The Earth’s Biosphere. Evolution, Dynamics, and Change, MIT press, Cambridge (MA) 2003.)) ha cinque settori principali: popolazioneagricolturaindustriarisorse e inquinamento. Nel settore popolazione, le quantità che riempiono i contenitori e che scorrono attraverso i tubi sono le persone; le valvole che controllano i flussi rappresentano i tassi di natalità, di mortalità e i processi che spostano le persone da una categoria generazionale alla successiva. Le equazioni dei livelli e delle velocità di flusso sono soggette a costrizioni radicate nelle leggi di conservazione della fisica. Per esempio, il livello di popolazione cambia solo per variazione dei tassi di natalità o mortalità e il contributo dei servizi sanitari, che influenzano l’attesa di vita e la mortalità, è correlato a questi tassi attraverso una dozzina di passaggi matematici.

Esaminando una singola regione del diagramma, si osserva come si comporta quel sottosistema. Il settore agricoltura ha fondi costituiti da terreni coltivabili che crescono quando nuovi territori sono trasformati in piantagioni e si riducono quando l’agricoltura è scalzata da fenomeni di degrado del suolo (erosione, inquinamento) o dallo sviluppo urbano. Per l’industria, il principale fondo è il capitale, che si misura in dollari ma rappresenta in realtà le fabbriche o altri impianti di produzione. Il livello del capitale è determinato dal bilancio fra entrate e uscite, investimenti ed effetti di svalutazione. Il settore risorse include solo quelle non rinnovabili, come le miniere e i combustibili fossili, per cui il livello di questo fondo non può aumentare. La velocità di consumo è l’unica variabile (valvola) che ne regola la disponibilità, definita dal prodotto fra popolazione totale e consumo procapite. Se si guarda all’intero diagramma non vi è possibilità di cogliere il significato di tutte le correlazioni con un unico sguardo. Per cogliere l’insieme occorre l’uso di un calcolatore che conservi la memoria dei livelli nei contenitori e dei flussi mentre il sistema evolve.

World3 in Limits to Growth copre il periodo dal 1900 al 2100; il codice fu pubblicato come allegato tecnico di The Limits to Growth ((Meadows, D. L., et al., Dynamics of Growth in a Finite World. Wright-Allen Press, Cambridge (MA) 1974.)) (i risultati sono accessibili in forma interattiva sul sito http://bit-player.org/limits curato dal giornalista scientifico Brian Hayes). Nella simulazione più comune, usando i valori di default per tutti i parametri, le risorse non rinnovabili si esauriscono entro la metà del XXI secolo causando un rapido declino dell’industria, della disponibilità di cibo e del livello di popolazione. Anche riaggiustando le condizioni iniziali fino a raddoppiare la quantità di risorse disponibili si altera il risultato, ma non lo si migliora: perché, per esempio, un livello maggiore di risorse, prodotti industriali e consumi porta a un’accelerazione dell’inquinamento, che soffoca la crescita — e perfino la vita — in pochi decenni. La forma persistente delle traiettorie del modello è sempre il superamento dei limiti di equilibrio seguito, presto o tardi, dal collasso.

 Oltre il limite

The Limits to Growth uscì in un periodo cruciale per la formazione della coscienza ecologica. Nei dieci anni precedenti erano stati pubblicati “Primavera silenziosa” di Rachel Carson (1962)((R. Carson, Silent spring, Houghton Mifflin, 1962.)), il saggio la “Tragedia dei beni comuni” (1968) di Garrett Hardin ((G. Hardin, The tragedy of the commons, Science, Vol. 162 (3859), 1243-1248, 13 Dec. 1968Disponibile in italiano su questo rimando Internet: http://www.oilcrash.com/italia/tragedy.htm)), “La bomba demografica” di Paul R. Ehrlich (1968)((P. R. Ehrlich,  Population bomb, Ballantine Books, New York 1968.))e “Il cerchio da chiudere” di Barry Commoner (1972)((B. Commoner, The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, Knopf New. York 1971.)). Quest’ultimo, presentò i rapporti tra popolazione, risorse e ambiente sotto forma di una semplice equazione (eq. 1) per cui l’intensità degli effetti negativi sull’ambiente, I, è proporzionale al numero di individui, P, e alla quantità e qualità di merci e servizi prodotti:

I = P x A x T                                                                      (eq. 1)

Nell’equazione (1), I è la quantità di inquinamento, P è il numero di persone, A è la quantità annua di merci e servizi per persona (secondo Commoner A era anche una misura del grado di ricchezza) – e T è la quantità di inquinamento per unità di merce o di servizi prodotti e consumati, sempre in unità di misura omogenee con quelle di I e di A – Commoner chiamò la grandezza T fattore tecnologico ((G. Nebbia, Presentazione in: B. Commoner, “Il cerchio da chiudere”, Garzanti, Milano 1986.)). Per diminuire il degrado dell’ambiente è possibile sia intervenire separatamente su ciascuno dei tre parametri P, A e T, sia intervenire su tutti insieme. Per ridurre l’intensità dell’inquinamento si può cercare di far diminuire la popolazione, o almeno di rallentarne il tasso di crescita, oppure si può agire sulla tecnica di produzione e sui consumi.

Fu così che si cominciò a parlare del nostro pianeta come di una navicella spaziale (Earth Spaceship): come in una astronave, anche sulla Terra esiste una riserva limitata di risorse naturali e i rifiuti restano all’interno dello stesso pianeta. L’illusione della crescita della popolazione, delle merci, del denaro, si traduce in un impoverimento delle risorse naturali e in una degradazione dell’ambiente.

Il libro commissionato dal Club di Roma, ebbe grande successo: ne risultano vendute dieci milioni di copie. I suoi autori hanno sempre sostenuto che i grafici e le curve dei loro programmi dovevano essere interpretati non come previsioni del futuro ma come indicatori di tendenze dinamiche o come modi di comportamento, e i modelli, erano comunque offerti esplicitamente come guida per le decisioni politiche. Dopo diverse analisi di The Limits to Growth, a intervalli di circa vent’anni, si possono trarre alcune conclusioni: 1) il messaggio del libro è corretto: ci sono dei limiti fisici, la crescita esponenziale è insostenibile; 2) una società che misura il proprio benessere attraverso la ricchezza economica, va incontro a problemi controintuitivi ((J. W. Forrester, Counterintuitive behavior of social systems. In Collected Papers of Jay W. Forrester. Wright-Allen Press, Cambridge (MA) 1975.)); 3) esiste la possibilità di affrontare i problemi prima che sia troppo tardi; 4) ogni scelta che incida fortemente sul benessere della popolazione deve poggiare su basi scientifiche particolarmente solide e condivise.

La metrica dell’ambiente: simulazioni e calcoli come strumento di sostenibilità

Le osservazioni precedenti illustrano la difficoltà di una descrizione ordinata e univoca della condizione ambientale e, all’interno di questa, umana; indicano inoltre la necessità di considerare come principio emergente nella coscienza storica contemporanea il tema della complessità: un principio sfuggente, ma costante dei passaggi di crescita o di transizione da un livello più semplice a uno più composito, una tendenza dei sistemi termodinamici aperti, che si afferma nel tempo.

Momenti successivi di complessità e interdipendenza hanno determinato il corso della Big History (la storia dell’universo)Errore: sorgente del riferimento non trovata fino all’emergere della specie umana. Il premio nobel per la fisica del 1977, Phil W. Anderson, ha ricordato che “quando nuovi livelli di complessità fanno la loro apparizione, sembrano operare secondo regole nuove (proprietà emergenti, nel gergo della teoria della complessità)((Philip W. Anderson, More is Different, Science, Vol. 177, No. 4047, Aug. 4, 1972, pp. 393-396))”. Alcuni passaggi evolutivi dell’universo, dalla formazione delle stelle partendo dalla polvere cosmica, all’evoluzione degli organismi multi-cellulari dalle sostanze organiche, alla nascita delle città da gruppi sparsi di abitanti, hanno molti tratti in comune: sono tutte “transizioni verso una maggiore complessità, che prendono piede attraverso la creazione di nuove forme di interdipendenza, mentre le entità esistite prima in forma più o meno indipendente sono incorporate entro strutture nuove e più grandi”Errore: sorgente del riferimento non trovata.

Nessun modello è in grado di rinchiudere la complessità dei sistemi naturali in un unico schema. Anche per questa ragione, nella gestione di temi complessi come quelli naturali e sociali è fondamentale il coinvolgimento di tutti i soggetti in causa; la partecipazione non è un’opzione ma una necessità per mantenere attive le dinamiche culturali e democratiche. Le considerazioni critiche e le obiezioni che anche piovvero, da parte di economisti, matematici e ingegneri ((H. S. D. Cole, C. Freeman, M. Jahoda, K. L. R. Pavitt (eds.), Models of Doom: A Critique of The Limits to Growth. Universe Books, New York 1973.)) sul metodo applicato e sui risultati di The Limits to Growth, fanno parte di queste dinamiche. Un grande esperto di energetica, Vaclav Smil, ha definito l’intera impresa come “un esercizio di disinformazione e oscurantismo”. Una delle critiche più comuni è che World3 contenga complicazioni superflue: se l’intento è mostrare che una crescita esponenziale non può continuare all’infinito, non c’è bisogno di elaborazioni elettroniche, modelli molto più semplici – come il prototipo predatore-preda sviluppato all’inizio del Novecento dal matematico statunitense Alfred J. Lotka e dall’italiano Vito Volterra – forniscono risultati analoghi.

Un’obiezione all’opposto fu che il modello era troppo semplificato: se si vuole descrivere l’intera società umana e l’ecosistema planetario, occorrono molti altri parametri. Il settore risorse di World3, per esempio mette insieme tutte le materie prime della produzione industriale — carbone e petrolio, ferro e alluminio, diamanti e pietre per costruzione — formando un unico generico insieme di sostanze misurato con un’unità astratta chiamata quantità di risorse. L’inquinamento è gestito allo stesso modo: una singola variabile raccoglie tutto, dai pesticidi alle scorie dei reattori nucleari. Oppure, per quantità come la disponibilità di cibo procapite sono riportate medie mondiali, senza indicazioni sulle disparità nella sua distribuzione.

La critica più significativa fu sui dati in ingresso (input) del modello: come la stima totale delle risorse non rinnovabili (che si rilevò sottostimata, mentre si trovavano nuovi giacimenti), e i valori delle costanti che determinano la portata delle interazioni (per esempio, l’effetto negativo dell’inquinamento sull’agricoltura). Il gruppo di Meadows tentò di definire accuratamente questi valori, ma non fu possibile valutare il loro livello di incertezza, che rimane tuttora molto ampio per la complessità del sistema – ambientale, sociale ed economico su scala globale – considerato.

La complessità è un fenomeno della natura con correlazioni anche di tipo filosofico: comprendere l’importanza delle correlazioni fra le componenti è più importante che conoscere a fondo ogni parte di un sistema ed è un atteggiamento da incorporare nella coscienza storica moderna. Tutto l’insieme di queste relazioni è stato oscurato dalla principale implicazione della rivoluzione scientifica: la transizione dall’organismo alla macchina come metafora del cosmo, della società e dell’esistenza individuale; un modello di pensiero che ha creato la visione meccanicistica della natura, lente della scienza moderna. Al contrario, la consapevolezza dell’interdipendenza fra parti diverse è un principio imprescindibile per dipanare la crisi che ci imbriglia.

Nei modelli simulativi, per rispecchiare il senso della complessità, le equazioni dei livelli sono associate a costanti e coefficienti, talvolta a intere tavole di variabili ognuna delle quali rappresenta un ampliamento dei gradi di libertà del modello e – pertanto – della sua incertezza. Non si può sapere se un valore sia corretto o errato, ma va sottolineato che nelle basi di ogni modello sono implicite molte scelte decisive. E quando si approfondisce un programma, si trova sempre spazio per ulteriori elaborazioni. Per esempio, gli effetti dei servizi sanitari variano secondo la maggiore o minore attenzione per i giovani o gli anziani. Questi effetti possono essere incorporati nel modello, insieme con altri, ma non sappiamo con quale vantaggio, né fin quando occorre incorporarli.

Tuttavia, è possibile porre limiti anche all’incertezza: quando nel 1992 ((D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers. Beyond the Limits: Global Collapse or a Sustainable Future. Earthscan Publications, London: 1992.)) e nel 2004 (( D. H. Meadows, J. Randers, D. Meadows, Limits to Growth: The 30-year Update. Green Publishing, Chelsea 2004.)) uscirono le edizioni aggiornate di The Limits to Growth, le stesse conclusioni del 1972 furono reiterate, con solo piccoli aggiustamenti. Nel 2009 la validità del lavoro è stata difesa sulla rivista American Scientist ((C. A. S. Hall, J. W. Day, Revisiting the Limits to Growth After Peak OilAmerican Scientist, Apr 24, 2009 http://www.esf.edu/efb/hall/2009-05Hall0327.pdf)): quando le previsioni sono state confrontate con i dati reali del periodo 1970–2000 è stata riscontrata una buona corrispondenza ((G. M. Turner, A comparison of The Limits to Growth with 30 years of realityGlobal Environmental Change 18:397–411 (2008).)). Anche il chimico italiano Ugo Bardi, infine, ha pubblicato un manifesto a sostegno di The Limits to Growth ((U. Bardi, The Limits to Growth Revisited. Springer Verlag, New York 2011.)).

Definire i limiti: sviluppo sostenibile

La consapevolezza dei problemi ecologici crebbe dopo il 1972 anche per la crescita di danni e disastri ambientali: la scoperta del buco dell’ozono nella stratosfera (1974), l’incidente con fuoriuscita di diossina a Seveso (1976), l’incidente all’impianto nucleare statunitense di Three Mile Island (1979), l’insorgenza del virus HIV responsabile dell’AIDS (1981), l’incidente all’impianto chimico di Bhopal in India (1983) – che causò la morte di circa 10.000 persone, – e l’incidente all’impianto nucleare di Chernobyl, in Ucraina (1986) prima di quello di Fukushima (2011) in Giappone.

Nel 1987, le Nazioni Unite svilupparono un’azione per la presa di coscienza pubblica della perniciosa situazione ecologica creata dalla specie umana. Fin dal 1983 Gro Harlem Bründtland, ex Primo Ministro della Norvegia con formazione nel campo delle scienze e della salute pubblica, era stata incaricata dal segretario generale dell’ONU, Javier Pérez de Cuéllar, di presiedere la World Commission on Environment and Development (WCED) – nota anche come Commissione Bründtland – con il compito di unire i paesi aderenti all’ONU nell’impegno comune contro il profondo deteriorarsi dell’ambiente e delle risorse in esso contenute. Nel 1988, fu creato anche l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il foro scientifico formato da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale.

I lavori della Commissione Bründtland si conclusero alla fine del 1987, dopo la produzione del rapporto Our Common Future – noto anche come Bründtland Report – nell’ottobre dello stesso anno. Quel rapporto coniò e definì il concetto di Sviluppo sostenibile come “soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. Sembrerebbe una novità, questa definizione, in relazione almeno ai precedenti proclami positivisti, tesi a dare come garantito il benessere per tutti, ancor più per le generazioni future. Gli studiosi hanno mostrato però che i principi filosofici, il vocabolario e il contesto concettuale della sostenibilità hanno antecedenti più antichi nella storia del pensiero sulle relazioni fra genere umano e mondo naturale.

Molti studiosi si concentrarono sul concetto di sostenibilità, identificandolo come puro e buono, altri assunsero invece un atteggiamento più critico cercando di capire cosa si celasse dietro la sua ascesa nel discorso pubblico. Vi è il dubbio che il concetto di sviluppo sostenibile sia solo un’esca per riaffermare i modelli di crescita esistenti, la fede nella tecnologia e nella gestione tecnocratica, e – soprattutto – le gerarchie di potere sociale già affermate. La vaghezza di definizione del concetto lo rende soggetto all’accusa di ambientalismo cosmetico, di facciata. Ponendo l’enfasi sull’eguaglianza intergenerazionale – come è scritto nel Rapporto Bründtland – i singoli e le nazioni possono distogliere l’attenzione dai problemi del presente e dell’ineguale distribuzione di ricchezza e potere.

Giorgio Nebbia spiega che “quando è cominciata la grande contestazione nei confronti dell’impoverimento delle riserve di risorse naturali e dell’inquinamento dell’ambiente, il mondo economico ha capito subito il carattere sovversivo dei cambiamenti proposti dall’ecologia e si è organizzato mobilitando i suoi scienziati i quali hanno inventato la parola sostenibile, che dovrebbe significare qualcosa che dura a lungo, che è sopportabile. In italiano esisteva il suo contrario, insostenibile, cioè insopportabile, che non può durare a lungo. La sostenibilità, come proposta dalla Commissione Bründtland nel 1987, dovrebbe soddisfare le necessità della presente generazione in modo da lasciare le stesse risorse alle generazioni future. Ma una frase popolare americana dice che non si può mangiare la torta e poi averla ancora disponibile, to eat a pie and have it. Le leggi ineluttabili della fisica e della chimica spiegano che l’avere qualcosa per soddisfare le necessità della presente generazione impone di lasciare meno risorse fisiche e naturali alle generazioni future. Quindi, è la nostra condizione umana che non può essere sostenibile. Finite le risorse di un luogo si possono cercare le stesse in un altro luogo, in un altro continente (il nome stesso continente sta ad indicare un posto che contiene qualcosa di utile), ma alla fine si arriva di fronte allo sterminato oceano, senza pascoli, miniere, pozzi, foreste. Ci si scontra con un limite”. Errore: sorgente del riferimento non trovata

Per quanto la sostenibilità possa assumere accezioni equivoche, rappresenta comunque uno dei concetti più ricchi di significati potenzialmente positivi. Restano aperte molte domande, oltre che sul significato, sulle implicazioni dell’ascesa del concetto di sostenibilità nella cultura contemporanea. Lo stesso vale per sviluppo, crescita, rinnovabilità (delle risorse e dell’energia): sull’uso e abuso di questi termini e sulla loro interpretazione si fonda l’immaginario occidentale, così come il futuro del pianeta e dei suoi abitanti. Un punto centrale è la nascita di nuove prospettive etiche, di nuove scelte dei singoli e delle società come risultato della crisi economica e culturale che si cela dietro l’ascesa di questa nuova terminologia.

La Conferenza di Rio (1992)

Un’interpretazione retriva del concetto di sostenibilità fu data nel corso della Conferenza Ambiente e Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED), a Rio de Janeiro nel 1992, quando davanti ai delegati parlò con grande chiarezza George H. W. Bush (senior). “Noi crediamo che la strada verso Rio debba puntare su entrambi i fronti: la protezione ambientale e la crescita economica, ambiente e sviluppo”, spiegò l’allora presidente degli Stati Uniti. “è chiaro: per sostenere lo sviluppo, dobbiamo proteggere l’ambiente, e per proteggere l’ambiente, dobbiamo sostenere lo sviluppo” ((George H. W. Bush, Address to the United Nations Conference on Environment and Development in Rio de Janeiro, Brazil (12 June 1992).)). Aggiungendo poi: “Lo stile di vita americano non è negoziabile”.

Dal Summit di Rio, il termine sostenibilità – intercambiabile con sviluppo sostenibile – ha cominciato a circolare nella politica ambientale ed economica. Il suo significato è stato esteso a un ampio insieme di discipline: i politici e gli economisti denunciano l’insostenibilità del debito pubblico, gli imprenditori lamentano l’insostenibilità delle pratiche commerciali e le ONG cercano di mettere in pratica nei paesi poveri pratiche socio-economiche sostenibili per le conseguenze ecologiche e per l’esistenza stessa delle popolazioni coinvolte. Le campagne di propaganda attribuiscono patenti di sostenibilità a prodotti, città, attività turistiche e molto altro senza alcuna misura quantitativa, o anche solo qualitativa, che ne permetta una verifica indipendente. Finora le teorie dello sviluppo non hanno preso in seria considerazione il cambiamento ecologista. La fede nella concezione lineare del progresso, l’ottimismo tecnologico e la continua ricerca dell’abbondanza materiale – anche se adornata dell’attributo sostenibile – tendono a rafforzare il pensiero comune, non il suo cambiamento. La rincorsa della crescita economica, senza tener conto dei limiti naturali, è insostenibile.

Alcuni considerano scontata e non negoziabile la necessità della sostenibilità, la questione è come ottenerla – attraverso un risveglio etico, un’identificazione razionale dei limiti, la beneficenza strutturata o con un aumento delle regole … Se dobbiamo trovare la strada per una svolta verso forme di società più durevoli e meno invasive dell’ambiente, dobbiamo rigorosamente pesare i nostri progressi in modo tale che i tecnici possano poi dare un significato pratico anche questo concetto rendendolo condivisibile (o confutabile) secondo sistemi di misura comuni. Questo processo cognitivo imporrebbe un ripensamento delle gerarchie nella conoscenza scientifica e culturale, strettamente legato ai modi in cui definiamo le scale di bisogni e valori nella nostra esistenza.

Le metriche della sostenibilità

Secondo il metodo scientifico non può esservi conoscenza senza misura (( “Nelle scienze fisiche, il primo passo, essenziale per la conoscenza di un argomento, è trovarne i principi di ordine numerico assieme a metodi praticabili per misurare le qualità connesse con essi. Quando si può misurare ciò di cui si parla, e si può esprimerlo in forma numerica, allora si può dire di conoscerne qualcosa; ma quando non si può misurarlo, quando non lo si sa esprimere con dei numeri, allora la conoscenza è di tipo scarso e insoddisfacente. Potrebbe forse essere l’inizio della conoscenza, ma il pensiero avanza a malapena verso il livello della scienza, qualunque sia l’argomento”. Sir William Thomson Kelvin, — da “Lecture to the Institution of Civil Engineers”, London (3 May 1883), in “Electrical Units of Measurement”, Popular Lectures and Addresses (1889), Vol. 1, p. 80-8.)), non si può gestire ciò che non si può quantificare: senza confronto fra prima e dopo, non si può sapere se una certa azione abbia provocato un danno o un beneficio. Questa affermazione non è valida per ogni entità, ma lo è per le grandezze fisiche e per i beni merceologici. Il problema di ogni valutazione quantitativa è la definizione del misurando e di un suo sistema di misura praticabile e condiviso. C’è inoltre il rischio di credere che l’unica forma di conoscenza possibile sia quella derivante dalle misurazioni: il modo in cui raccogliamo la conoscenza, definisce il tipo di sapere e ciò che conosciamoErrore: sorgente del riferimento non trovata; per esempio, quel che sappiamo del clima lo abbiamo acquisito attraverso modelli  su scala mondiale((B. Hayes, Computing science: Balanced on a pencil pointAmerican Scientist (1993) Vol. 81, p. 510–516.))

Nel caso della sostenibilità dobbiamo chiederci che cosa precisamente questo concetto rappresenti, cosa vogliamo quando chiediamo sostenibilità e come dovrebbero esser messe in atto le pratiche sostenibili. Studiosi, giornalisti e militanti in difesa dell’ambiente hanno cominciato a porsi queste domande. I problemi ambientali e sociali sono complessi e apparentemente inestricabili, esistono però alcuni equilibri naturali –punti di svolta fra declino e possibilità di recupero – per i quali il rischio di superamento della soglia appare maggiormente preoccupante; su questi è concentrata l’attenzione nel mondo((R. Engelman, The Sustainability Metric, in “State of the World 2013: Is Sustainability Still Possible?”, The World Watch Institute 2013, p. 17.)).

Confini planetari

Un’impostazione per definire strumenti di misura della sostenibilità consiste nel partire dai limiti più ampi e più critici, quelli fisici e biologici del pianeta oltrepassati i quali è a rischio il futuro della specie umana, riassunti schematicamente in tabella I. Vi sono argomenti prioritari: il sistema climatico e la biodiversità, per esempio, ma anche alcuni cicli di sostanze minerali – come l’azoto, il fosforo, il carbonio – o le variazioni che coinvolgono trasformazioni del suolo, degli oceani e dell’atmosfera. Evidenziare i confini entro cui queste variazioni possono aver luogo o essere controllate senza danni permanenti richiederà doti oggettive di valutazione e un affinamento delle capacità di misura delle grandezze fisico-chimiche correlate.

Le variazioni climatiche e l’inquinamento atmosferico

Criteri di misura della sostenibilità sono individuabili con immediatezza in specifici settori, per esempio le variazioni climatiche dovute all’effetto serra si stabilizzeranno quando il flusso di gas inquinanti, CO2 in particolare, immessi dall’umanità nell’atmosfera sarà inferiore a quello che la biosfera è in grado di riassorbire. Un ritorno progressivo verso un livello sostenibile delle emissioni atmosferiche può essere ipotizzato e perseguito, lasciando come impegno più difficile quello di definire il livello di sostenibilità dei comportamenti individuali e nazionali, perché in realtà le emissioni aumentano ogni anno e siamo sempre meno capaci di sostenibilità nel contributo all’inquinamento atmosferico. Malgrado ciò, i modelli climatici offrono un punto di riferimento per gli studi sulla sostenibilità, i modelli di circolazione complessiva dell’atmosfera e delle correnti oceaniche, assieme ai modelli sui ghiacci delle banchise polari e sulla chimica dell’atmosfera sono correlati da flussi di aria, acqua, calore e altre entità, che il modello integra sulla scala del tempo permettendoci di fare previsioni sui decenni futuri. Inoltre, nel 1972 il modello di The Limits to Growth si basava su ipotesi non statisticamente verificabili fissate da una dozzina di ricercatori. Oggi, la comunità scientifica che si occupa di variazioni climatiche è costituita da diverse centinaia di persone, con una supervisione istituzionale e la partecipazione pubblica, in un processo conoscitivo che sta andando avanti da quaranta anni ed è fortemente teso alla raccolta di dati, alla verifica della loro provenienza e alla quantificazione dell’incertezza loro associata. I modelli di circolazione globale non sono basati su stime grezze o su ipotesi, ma su decenni di misure meticolosamente controllate — un sistema che Paul Edwards, in A Vast Machine, chiama “l’infrastruttura di conoscenze del clima”((Paul N. A. Edwards, Vast Machine: Computer Models, Climate Data, and the Politics of Global Warming. MIT Press, Cambridge, MA, 2010.)).

È rilevante che i modelli climatici si concentrino principalmente su processi fisici e chimici, per i quali le relazioni scientifiche fondamentali sono in genere ben comprese: conosciamo gli spettri di assorbimento ed emissione delle radiazioni luminose delle molecole nell’atmosfera e sappiamo come un volume d’aria risponde al riscaldamento o a una variazione di pressione. I sistemi sociali, economici e biologici non obbediscono alle leggi fisiche, né ad altre leggi con la stessa forza predittiva. In questo senso il problema del clima non è quello più difficile da risolvere, anche se la richiesta di precisione posta ai modelli climatici è stringente, non si chiede loro solo di “illustrare le tendenze dinamiche di base” del sistema, ma ci si aspetta predizioni quantitative così precise da valutare variazioni della temperatura media globale dell’ordine dell’uno per cento.

Energia

Gli studi quantitativi sulle fonti energetiche (rinnovabili e no) sono in corso da tempo per definire i singoli parametri di sostenibilità energetica – anche perché il settore delle energie rinnovabili è fra i pochi promettenti per mantenere basso l’impatto delle emissioni di gas-serra. Le metodologie di misura sviluppate per la sostenibilità delle fonti energetiche si basano su concetti diretti, come il rapporto fra energia ricavata ed energia investita (Energy Returned On Energy Invested – EROEI), che inesorabilmente definisce i limiti entro i quali l’umanità è in grado di immagazzinare energia e in quanto tempo. La grandezza EROEI è usata per quantificare quali risorse naturali sono utilizzabili in forma sostenibile perché perfettamente riciclabili — cosa che esclude le fonti fossili e tutte le altre interamente consumate con l’utilizzo.

Biodiversità

Altri criteri, ben più problematici, andrebbero rintracciati per definire la sostenibilità della diversità biologica. Vi è così tanta incertezza sulle cause e sulla velocità dell’estinzione delle specie viventi che è molto difficile definire quale sia il punto di equilibrio per un sistema a bio-diversità sostenibile. Questo significa che per questa grandezza la costruzione di un sistema di misura condiviso sarà un processo evolutivo, un obiettivo su cui lavorare e confrontarsi, in un lungo percorso di studio dei sistemi e delle risorse ambientali.

Acqua

Anche la quantità di acqua potabile sulla superficie della Terra è stata calcolata più volte. Gli studiosi di idrologia hanno quantificato attentamente gran parte del ciclo dell’acqua sul nostro pianeta. Non ne saremo mai privi, ma alcune società stanno andando verso situazioni di scarsità d’acqua perché ne usano così tanta che le precipitazioni non riescono a ripristinare il livello dei fiumi, dei laghi e in generale dei bacini idrogeologici. I comportamenti umani non sostenibili di diverso tipo hanno lasciato un segno evidente in modo particolare nei mari, con l’acidificazione, l’aumento di temperatura, la diminuzione dell’ossigeno disciolto, le ondate di eutrofizzazione e il continuo declino del pescato. Una sfida impegnativa sarà quella di connettere la quantificazione di ognuno di questi fenomeni con le metriche delle attività umane che li generano: anche questo fa parte del lavoro di misura della sostenibilità.

Economia

Uno dei primi sistemi di misura da riformare è quello utilizzato per valutare la vitalità economica nazionale: il Prodotto interno lordo (PIL). Il sostentamento dell’economia e della prosperità richiede un ripensamento, se le nostre pratiche devono diventare sostenibili. Gli economisti Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi hanno elaborato un rapporto, commissionato dal Governo francese, che dopo decenni di rincorsa del PIL propone l’introduzione anche di parametri ambientali negli indicatori di benessere ((J. E. Stiglitz, A. Sen, J. P. Fitoussi, Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, Paris, 2009.)). Un risultato che proviene da una scuola di pensiero denominata economia ecologica ((R. Costanza (a cura di), Ecological Economics: The Science and Management of Sustainability. Columbia University Press, New York 1991.)).

Sfera sociale

Per la sostenibilità della sfera sociale, prendendo ispirazione dai confini planetari, si può esplorare quali metriche potrebbero aiutarci a comprendere se una società tratta i propri individui oltre i limiti di sopravvivenza a lungo termine. La pace sociale è probabilmente il tipo più difficile di sostenibilità da sottoporre a misura, ma senza società pacifiche la difesa dell’ambiente naturale serve a poco. Il problema di come vivere insieme su un pianeta affollato si presenterà comunque e potrebbe richiedere la messa in campo della più importante metrica della sostenibilità fra tutte quelle da sviluppare.

Sostenibilità e democrazia

Democrazia ecologica

Sul piano politico ed economico riorganizzando tutte le possibili dimensioni della sostenibilità si pongono due questioni basilari: quale sia il ruolo che lo stato può svolgere nel sostenerle e se il mercato possa generare sostenibilità in qualcuna delle sue forme. Garret Hardin9, ha messo in guardia dal potenziale distruttivo che deriva dalla liberalizzazione dei beni e degli spazi comuni lasciati nelle mani del solo interesse economico. Ma anche altri studiosi, come Jeffrey Sachs (( J. D. Sachs, Common Wealth: Economics for a Crowded Planet. Penguin, New York (NY) 2008.)), hanno dimostrato la necessità di una maggiore cooperazione, e di un intervento di gestione dello stato più diretto e più lungimirante. Wendell Berry((W. Berry, What Matters? Economics for a Renewed Commonwealth, Counterpoint, Berkeley (CA) 2010.)), difensore delle comunità rurali, propone forme di localismo fondate su un rinnovato spirito di scambio reciproco e di auto-responsabilità per la gestione sostenibile delle risorse.

Vi è scarsa correlazione fra le forme di governo e la sostenibilità ambientale; la democrazia o le politiche e le istituzioni liberali di una società non sono garanzia di un suo minore impatto ecologico. Esistono, però, forme di partecipazione democratica in grado di sostenere (o inibire) i percorsi di sensibilizzazione e indirizzamento dei temi ambientali. Sono i principi della democrazia ecologica che, pur enfatizzando l’importanza del sistema democratico tradizionale per i problemi dell’ambiente, osserva la necessità di un accompagnamento delle pratiche di sostenibilità focalizzato sulle interazioni sociali con l’ambiente, un ambito che travalica le azioni centralizzate delle democrazie liberali e che si esplicita attraverso i diritti di cittadinanza scientifica: informando e sviluppando responsabilità, partecipazione e fiducia.

Le preoccupazioni attuali per la sostenibilità dei sistemi naturali e umani si manifestano in un periodo di grande incertezza. Dagli anni settanta dello scorso secolo l’abbondanza industriale è messa in discussione. La crescita delle nazioni in via di sviluppo, shock energetici, pesanti fardelli fiscali, il rilancio delle ideologie di mercato e rapidi cambiamenti nella divisione globale del lavoro hanno minato alla base le assunzioni politiche che avevano portato al vantato benessere occidentale nella seconda metà del Novecento. I sistemi economici si sono fatti incastrare dall’uso di tecnologie non sostenibili e non compatibili con l’ambiente e ora i costi della conversione sono così elevati e i risultati incerti che il risultato è la paralisi. Anzi peggio, perché i progetti di costruzione delle grandi istituzioni sociali dei primi due terzi del secolo, che hanno generato un’abbondanza senza precedenti – sostenuta dallo stato sociale e dall’intervento misto dell’economia pubblica e privata – sono andati in fumo. La ricerca della crescita infinita e degli alti livelli di consumo riformulata in termini di sostenibilità diventa una ricerca dei modi per assicurare e riproporre i successi del passato.

Per correlare la ricerca sull’impatto ambientale agli ambiti della democrazia, mentre si definisce la metrica della sostenibilità, va osservato che un sistema di misure per la conservazione dell’ambiente potrebbe mettere in luce anche i problemi sociali e le diversità su scala locale e globale nella distribuzione delle risorse. Ogni limitazione nella disponibilità di un bene porta con sé scelte sulla sua distribuzione, oltre che sul suo uso, e se le scelte non sono eque portano a situazioni di conflitto, ingiustizia e sofferenza. È importante allora che considerazioni sull’equa distribuzione delle risorse siano inserite negli strumenti metrici dell’ecologia. Su questa via, i concetti integrati di confine planetario e di impronta ecologica offrono metodologie di quantificazione influenti, con implicazioni scientificamente robuste e indicazioni immediate per scelte politico-economiche eque.

Per esempio, la pressione ambientale definita dall’impronta ecologica può essere applicata su scala globale, tenendo conto dei confini planetari in termini di capacità di carico e produzione di biomassa. Sulla Terra ci sono solo 11.9 miliardi di ettari di aree con ecosistemi produttivi. Se queste aree fossero distribuite in modo egualitario fra i 7 miliardi di abitanti del pianeta, ognuno ne avrebbe 1.7 ettari globali equivalenti (gha) – secondo le stime del Living Planet Report, la media mondiale dei consumi del 2012 equivale a 2.7 gha per abitante. Secondo l’indicatore di impronta ecologica, la capacità di carico planetaria è oltrepassata per più del 50 percento.

Cosa accadrebbe se una comunità ricca decidesse di impegnarsi seriamente per diminuire il proprio impatto ecologico è spiegato nel rapporto State of the World 2013, del World Watch Institute ((Si vedano di K. Raworth,L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizioni Ambiente 2017 e Defining a Safe and Just Space for Humanity, in “State of the World 2013: Is Sustainability Still Possible?”, The World Watch Institute 2013, p. 28.)). In Italia, la provincia di Trento è in prima fila su questo percorso ((Si veda il Piano Strategico di Sviluppo Sostenibile Val Rendena, http://www.comune.pinzolo.tn.it/files/getbyid/1968.)). Nel mondo, la città di Vancouver (600.000 abitanti, 11.467 ettari di territorio) in Canada, già sede dei giochi olimpici invernali del 2010 aspira a diventare “la città più ecologica del mondo”. Gli abitanti di Vancouver hanno un’impronta ecologica di 4.2 gha per persona, suddivisi in consumi per cibo (2.13 gha, 51 %), trasporti (0.81 gha, 19 %), abitazione (0.67 gha, 16 %), beni commerciali (0.58 gha, 14 %), acqua (0.04 gha, < 1 %). Inserendo dal conteggio i servizi provinciali e nazionali, che comporterebbero un incremento del 18 % circa (0.76 gha), l’impronta di Vancouver salirebbe a 4.96 gha. Per rientrare nei confini planetari, i suoi abitanti dovrebbero ridurre i consumi del 66 % almeno, cominciando da quelli alimentari, sbilanciati verso le proteine animali – il contributo dovuto al trasporto di cibo è dell’ordine del 3 %. Dovrebbero poi modificare le modalità dei propri spostamenti, principalmente suddivisi fra uso di autovetture (55 %) e viaggi aerei (17 %). Il contributo dei consumi abitativi è ridotto rispetto ad altre situazioni anche perché l’80 % dell’energia elettrica della città proviene da impianti idroelettrici. Solo il 14 % dell’impronta è dovuta a beni terziari di consumo, anche per una buona capacità di raccolta differenziata da parte dell’amministrazione cittadina.

Se gli abitanti di Vancouver diventassero vegetariani, evitassero l’uso di auto e aerei a favore delle biciclette e dei mezzi pubblici, vivessero in case passive alimentate da energia fotovoltaica evitando ogni consumo di combustibili fossili e riducessero della metà i propri beni di consumo la loro impronta ecologica potrebbe scendere del 44 % (da 4.96 a 2.8 gha), ancora 1 gha in più rispetto alla soglia planetaria. Vancouver ha un piano d’azione per ridurre il proprio impatto del 33 % entro il 2020 e del 66 % entro il 2050, intervenendo in 10 aree prioritarie: cibo, trasporti, costruzioni, economia, rifiuti, variazioni climatiche, acqua, accesso alla natura, aria pulita e impronta ecologica. Ogni settore contribuisce ad alleggerire l’impronta.

Anche se gli obiettivi dichiarati dall’amministrazione di Vancouver appaiono lontani, è chiaro che l’intreccio delle questioni economiche, industriali, sociali ed ecologiche impone un’etica della responsabilità che gran parte della società ha cessato di fare propria. Il dibattito attuale mette in crisi le idee tradizionali di scienza e progresso, ma non il diritto-dovere della conoscenza e della consapevolezza che continuano a essere temi dominanti.

La democrazia ecologica ha bisogno di compartecipazione, di condivisione degli impegni da parte di tutti i cittadini. La comunicazione assume un ruolo decisivo: non c’è democrazia ecologica senza un buon sistema di comunicazione scientifica e ambientale. Per ricomporre le controversie tecnologiche contemporanee occorre anche analizzare la trasformazione dei processi di produzione della conoscenza e l’emergere, per la loro analisi pubblica, di consistenti forme di mobilitazione e partecipazione. Una questione importante riguarda il concetto di fiducia, mai separabile dagli aspetti di carattere cognitivo, come pretende invece la visione economicista. La fiducia non è il surrogato del curriculum dell’esperto di turno, ma un carattere imprescindibile di ogni processo di trasmissione e validazione della conoscenza (educativo), che non si soddisfa solo con cerimonie pubbliche, né si tratta di un processo attivabile a piacimento, sulla base dei bisogni della politica.

Analogamente si può argomentare sulla necessità di rigettare nozioni antiquate che vedono un’impossibilità di relazione stretta fra uomo e natura. Un testo di storia dell’ambiente, La morte della natura di Carolyn Merchant (1980) (( C. Merchant, The Death of Nature: Women, Ecology, and the Scientific Revolution. Harper & Row, San Francisco (CA) 1980.)), analizza gli spostamenti concettuali attuati dalla rivoluzione scientifica fra XVI e XVIII secolo, che hanno stabilito le nozioni-chiave di modernità, progresso e sviluppo e che sono state il fondamento culturale per realizzare l’attuale condizione di insostenibilità della società contemporanea. Occorre una nuova definizione di sviluppo che veda i cambiamenti sociali non – in ottica illuminista – come una liberazione dalla natura, né – in ottica positivista – come una caduta da una condizione paradisiaca idealizzata, quanto come il riconoscimento della profonda partecipazione della specie umana nel mondo naturale.

La grande popolarità delle forme retoriche ed etiche che si rifanno alla sostenibilità è una novità che probabilmente rimarrà con noi per un po’ perché risponde alle ansie sulle prospettive di mantenimento della nostra presunta abbondanza. Se è così, il modo in cui definiamo e misuriamo concetti come crescita o progresso richiede una trasformazione, un processo di cambiamento fondamentale nel pensiero e nella pratica, che alcuni hanno già avviato. È anche richiesta una revisione di molte delle nostre istituzioni fondamentali – lo stato, il mercato, il sistema dell’educazione – tutte investite dall’ondata di preoccupazioni per un futuro sostenibile.

Parlare di sostenibilità, in fondo, solleva questioni fondamentali su chi siamo, cosa desideriamo e come possiamo conoscere il mondo intorno a noi. La partecipazione pubblica alla ridefinizione di questi temi sta già avvenendo e non è un avvenimento sul quale la politica potrà recuperare a posteriori: la partecipazione come espediente cui ricorrere quando i meccanismi decisionali s’inceppano su questioni controverse. è un elemento da incorporare stabilmente nei processi di valutazione; le scelte tecnologiche sottintendono una visione del mondo di tipo politico – una visione dell’uomo e del suo posto nella natura – ed è su questa base che occorre discutere, partecipare e prendere le decisioni.

Le origini antiche della sostenibilità in campo agroalimentare

Studiosi di varie discipline hanno cominciato a occuparsi delle modalità di inclusione della sostenibilità nelle proprie pratiche professionali. Per quanto nel 1987 sia apparsa innovativa, in prospettiva storica l’enunciazione del concetto di Sviluppo sostenibile da parte della Commissione Bründtland arrivò in realtà in coda a una molto più antica serie di riflessioni storiche su come gli uomini abbiano alterato il mondo naturale. Diversamente formulato, il concetto di sostenibilità per esempio era radicato nella borghesia mercantile, sviluppatasi in Europa dall’epoca dei comuni assieme alla computistica, attenta a quantificare accuratamente la disponibilità di ogni merce potenzialmente scambiabile, così come a pianificare le possibilità di guadagno. La nota serie dei numeri (1,1, 2, 3, 5, 8 …) di Leonardo Pisano Fibonacci (1170–1240) ipotizzava la velocità di crescita di coppie animali in funzione del tempo di maturazione sessuale; Luca Pacioli (1445-1517) definì il metodo contabile della partita doppia per il controllo monetario della gestione mercantile; fra 1350 e 1600 furono sviluppate serie matematiche per il calcolo dell’interesse composto.

La sensibilità per la protezione dell’ambiente, paradossalmente, crebbe con l’espansione coloniale europea. L’incontro con nuovi ambienti e nuove popolazioni, fece evolvere l’idea di natura, talvolta anche trovando in essa una sublimazione ideologica, un desiderio di conservazione da contrapporre alle evidenti devastazioni che cominciavano ad essere perpetrate nelle periferie coloniali degli imperi occidentali, sostenute dagli interessi dell’espansione (crescita) commerciale ed economica ((R. H. Grove, Green Imperialism: Colonial Expansion, Tropical Island Edens and the Origins of Environmentalism, 1600-1860. Cambridge University Press, Cambridge 1995.)). L’ecologismo è stato fin dalle sue origini remote espressione di società ricche e opulente, con mentalità coloniale abbinata a un diffuso disagio per il degrado ambientale in corso17.

La nozione di sostenibilità fu sviluppata anche dalle scienze agrarie del XVII e XIX secolo, fondate sul concetto di circolazione dei nutrienti essenziali (Macronutrienti: C, N, P, K, Ca, Mg, S; micronutrienti: Fe, Mn, B, Mo, Cu, Zn, Co) dentro gli ecosistemi. I timori che la rottura di questi processi circolari potessero portare a un degrado permanente generava preoccupazioni e opere di prevenzione allora come oggi. Il fatto che gli uomini abbiano trasformato negli ultimi secoli i sistemi naturali in modo mai attuato prima, ha spinto il chimico Paul Crutzen – premio Nobel 1995 per gli studi sulla chimica dell’atmosfera – e il biologo Eugene Stoermer a definire una nuova era geologica, denominata antropocene ((P. J. Crutzen, E. F. Stoermer, The Anthropocene, Global Change Newsletter 41 (2000), p. 17-18.)), il cui avvento è databile dal diciottesimo secolo.

Il sociologo tedesco Ulrich Beck considera la nozione di sostenibilità come una reazione naturale alla crisi ambientale che è il risultato concreto della sottostima dei pericoli creati dall’abbondanza: il superamento della scarsità attraverso l’industrializzazione e la produzione di massa ha portato con sé rischi nuovi, dall’inquinamento locale alle variazioni climatiche globali, che evocano la necessità di nuovi paradigmi e, soprattutto, di nuove politiche con base ecologica.

Oggi, gli architetti e gli ingegneri propongono nuove relazioni fra forniture, utilizzo e scarto dei materiali, cercando di riformare l’era dell’irresponsabilità industriale a favore di nuovi progetti capaci di integrare i sistemi ecologici nei processi di produzione. Il processo produttivo dovrebbe rispecchiare quello del mondo naturale con il quale dovremo imparare a sincronizzarci rinunciando a sogni di dominio: è questo lo scenario futuro per le relazioni umane con la natura.

Una nuova sostenibilità ecologica richiede innanzitutto di incorporare pratiche sostenibili nell’allevamento e nell’agricoltura, che sono le attività principalmente in grado di garantire cibo, salute e lavoro, coniugati con attenzione per l’ambiente. Le esperienze svolte in alcuni paesi africani hanno dimostrato la possibilità effettiva di ridurre la povertà con programmi nazionali di scolarizzazione e di sostegno alle attività di produzione agroalimentare. Sono esattamente questi i settori che per primi andrebbero rinnovati, e che dovrebbero ricevere il sostegno dei governi, del settore privato e delle istituzioni internazionali.