“Legami di ferro”

Beatrice Ruscio, Legami di ferro, Narcissus, Milano 2015, pp. 100.

Cento pagine intense in un reportage che si legge tutto d’un fiato. E un tema inconsueto: i legami delle merci che alimentano un processo produttivo, il grande centro siderurgico dell’Ilva di Taranto, ricostruiti attraverso i legami delle persone che con quei materiali entrano in rapporto. 

Beatrice Ruscio, in rappresentanza dell’associazione Peace Link e più in generale del popolo tarantino vittima delle emissioni inquinanti dell’Ilva, compie il lungo viaggio verso la regione amazzonica del Carajàs brasiliano da dove, in direzione opposta, via mare, giunge il minerale di ferro per alimentare gli altiforni tarantini, incontrando i popoli indigeni che vivono tra le polveri, i fumi e le scorie dei grandi impianti estrattivi e delle imprese siderurgiche del colosso, un tempo impresa statale brasiliana, ora multinazionale privata, Companhia Vale do Rio Doce. 

Gorgio Nebbia ci ha sempre insegnato che la storia delle civiltà è  innanzitutto storia delle merci e che solo ricostruendo i loro percorsi e le loro trasformazioni si comprende la complessa interazione della presenza umana con la natura e l’ambiente circostante, e dunque quella che oggi viene chiamata l’impronta ecologica. Alessandro Marescotti, presidente di Peace Link, che cura una bella introduzione al libretto della Ruscio, con i suoi amici ha voluto giustamente ricostruire a ritroso la storia di quel “maledetto” minerale di ferro che, ammucchiato nei parchi colpevolmente lasciati a cielo aperto dall’Ilva, ha ammorbato per decenni, con le sue polveri, il quartiere Tamburi. Beatrice Ruscio, “inviata speciale” incaricata da Peace Link, nel 2014 partì dunque per il Carajàs, per partecipare ad un seminario internazionale dei popoli che soffrono per l’attività della Vale e per incontrare le comunità indigene maggiormente esposte di Piquià de Baixo sopra le cui case “si stagliano i profili minacciosi di 5 industrie siderurgiche insediatesi nell’area, che sbuffano continuamente, giorno e notte, senza tregua, senza pietà”, mentre “sopra le loro teste… passa ininterrottamente, 24 ore su 24 … un treno enorme , di 330 vagoni, quello che trasporta il minerale di ferro dalle enormi miniere del Carajàs, lungo una ferrovia di quasi 900 chilometri  … fino ad arrivare al porto di São Luìs. Da lì verrà caricato su enormi navi e partirà per le più svariate destinazioni, tra cui l’Italia… e Taranto. Quello stesso minerale che rifornisce l’Ilva di Taranto, e che nel quartiere Tamburi si trova su ogni cosa, sui tetti delle case, sui parchi, sul bucato steso e sulle mani delle persone, è lo stesso che respirano gli abitanti di Piquià de Baixo, lo stesso che spazzano dalle loro case ogni giorno, scuotono dalle foglie degli alberi e si ritrovano addosso, sul cibo, nei polmoni”. Come a Tamburi, anche a Piquià gli abitanti da anni lottano per la loro salute e per la vita e hanno ottenuto, per le abitazioni più vicine alle fonti di emissioni, il reinsediamento in località più lontane e riparate a spese dell’impresa siderurgica nonché la condanna della stessa a indennizzare 21 famiglie per i danni morali e materiali subiti a causa dell’inquinamento prodotto nel quartiere.  

Forte, immediata, necessaria, dunque, la solidarietà – il “legame di ferro” – tra le vittime dell’ingiustizia ambientale dell’Ilva e della Vale, di qua e di là dell’Oceano. Un legame che era iniziato a Taranto, nella scuola De Carolis del quartiere Tamburi, il 26 settembre 2012, con Federico Veronesi, missionario laico comboniano, e Danilo Chammas, l’avvocato di “Justicia nos trilhos” (Giustizia nei binari), l’associazione che organizza tutte le popolazioni esposte alle polveri e ai rumori del grande treno Carjàs-São Luìs della Vale. In quell’incontro era stata presentata la mostra fotografica Il prezzo del ferro di Marcelo Cruz, che documentava l’impatto sociale e ambientale che subiscono le popolazioni residenti ai margini di quella linea ferroviaria. Da allora il legame si è consolidato, in particolare attraverso il documentario Polmoni d’acciaio, resistenze locali ad ingiustizie globali, di Paolo Annechini e Andrea Sperotti, con la supervisione del missionario comboniano Dario Bossi e di Marco Ratti: il documentario, diffuso in contemporanea in Brasile e in Italia il 28 aprile 2014, mette a confronto tre impianti siderurgici, lontani  migliaia di chilometri tra loro, e gli impatti sulle comunità e sul territorio: l’Açailandia-Vale di Piquià de Baixo, Maranhão, Brasile; la TKSA, joint-venture Thyssen Krupp-Vale di Santa Cruz, Rio de Janeiro, Brasile;  l’Ilva di Taranto (https://www.youtube.com/watch?v=qEf9ar_Nmn8)

Da queste iniziative è sorto un gemellaggio tra Taranto e Piquià che si è completato con il viaggio di Beatrice Ruscio e la sua partecipazione al seminario Carajas 30 anos, tenutosi a São Luìs tra il 5 e il 9 maggio 2014, occasione per il reportage Legami di ferro. Il seminario, promosso dal comboniano Dario Bossi e tenutosi all’Università federale dello Stato del Maranhão, aveva lo scopo di esaminare dal punto di vista delle comunità e dei movimenti sociali 30 anni di storia della holding transnazionale Vale e degli effetti della sua presenza nei 38 paesi nei quali opera. Ruscio informa sommariamente dei tanti contributi e relazioni che si sono avvicendati, soffermandosi in particolare  su alcuni: il caso di una comunità di El Hatillo in Colombia dedita alle attività agricole e zootecniche letteralmente sconvolta e di fatto costretta a dislocarsi altrove a causa degli impatti insostenibili delle attività estrattive di carbone avviate da Glencore e da Vale Coal, filiale della multinazionale Vale; vicenda analoga, ma forse ancor più drammatica, quella degli abitanti di Moatize  in Mozambico, zona considerata come una delle maggiori riserve di carbone al mondo, sfruttata a partire dal 2007 da Vale Monçambique, anch’essa della multinazionale Vale. Qui sarebbero addirittura 1.365 le famiglie costrette a lasciare il territorio e a reinsediarsi alle condizioni imposte dalla Vale, diventandone nei fatti quasi degli ostaggi.  

Necessariamente  e correttamente Ruscio dedica un capitolo alla Companhia Vale do Rio Doce, ricostruendone la storia e la dimensione multinazionale che ha assunto. Vale , ovviamente, come tante imprese ad alto impatto ambientale, si è dotata dal 2009 di una  struttura no-profit, il Fondo Vale, che promuove e finanzia tante iniziative sul terreno della cosiddetta “sostenibilità”, cooperando con istituzioni pubbliche ed anche con organizzazioni sociali e associazioni “ambientaliste”. Questa opera di “greenwashing” non ha però evitato alla Vale, nel gennaio del 2012, il “premio” Public Eye Award 2012, riservato ad aziende che si distinguono per attività non rispettose dell’ambiente e dei diritti,  come “peggiore multinazionale al mondo”. Il “riconoscimento” è stato consegnato durante il World Economic Forum di Davos, in Svizzera, dai promotori, Dichiarazione di Berna e Greenpeace Svizzera. 

Infine il lavoro della Ruscio si conclude con un utile compendio del “caso Ilva”, frutto della rielaborazione delle relazioni dalla stessa presentate al seminario di São Luìs sull’inquinamento ambientale e il diritto alla salute e sulla contaminazione da diossina nella catena alimentare. 

Ma il “legame di ferro” tra Taranto e il Brasile non si è concluso con questa comunicazione: continua, e vale la pena di seguirlo, sul sito di Peace Link  https://www.peacelink.it/legamidiferro/.

Anche perché questa bella e sorprendente storia ci può aiutare a ritrovare la bussola in questo momento tanto confuso: confrontarsi con questa dimensione transnazionale del capitalismo cosiddetto globalizzato, da un canto può insinuare in noi un senso di quasi impotenza, dall’altro, però, ci fa capire con chiarezza che la risposta ai disastri della globalizzazione neoliberista non può affidarsi al ritorno ad un nazionalismo esclusivo ed escludente, che, tra l’altro,  non ha più alcuna base strutturale, economica e finanziaria, su cui reggersi. Certo le politiche anche a livello nazionale, pur consapevoli dei limiti in cui operano, devono e possono contenere gli effetti sociali ed ambientali più distruttivi della globalizzazione, ma solo ricostruendo “legami di ferro” tra le comunità ed i popoli che nelle diverse parti del mondo soffrono, forse e con fatica, si potrà riprendere un percorso virtuoso come umanità pacificata con se stessa e con la natura.  

Brescia, 22 maggio 2019