L’empirismo organizzato: la chimica a Larderello nell’Ottocento
Livorno, 1836. Il Magistrato civile e consolare ((Il Magistrato civile e consolare istituito nel 1814 aveva giurisdizione civile e commerciale sulla città di Livorno. Venne abolito nel 1838 diventando il Tribunale di I istanza.)) è in difficoltà. Da oltre tre anni si sta trascinando una causa tra Giovanni e Tommaso Lloyd, commercianti anglo-livornesi, acquirenti di acido borico, e la manifattura “Vedova Chemin, Prat, Lamotte e Larderel”, venditori, per la mancata aderenza ai contratti da parte della società toscana. Le relazioni commerciali erano iniziate nel 1831 e prevedevano la consegna puntuale della merce in rate mensili con l’esclusiva per la Gran Bretagna e l’Irlanda, impegno che la ditta toscana non aveva rispettato vendendo anche ad altri mercanti l’acido prodotto.((I mercanti erano Fenzi, Coupland, Hepburn, Pillans per l’Inghilterra, Crockat per l’America.)) Per questo motivo i venditori erano già stati condannati nel 1832, ma in cambio della promessa di un futuro rispetto dei patti (in caso contrario avrebbero concesso un abbuono di lire 13 per ogni 100 libbre acquistate), i Lloyd avevano rinunciato a proseguire l’azione legale.((Durante la causa in corso la ditta Ved. Chemin e altri aveva anche venduto a Levy, Teissier, Donat di Marsiglia, ai fratelli Foulc e a Guglielmo Macbean. Da Francesco Domenico Guerrazzi, Relazione della causa Chemin ec. e Lloyd per acido borico in Relazione della causa che si agita davanti al Magistrato Civile e Consolare di Livorno relativamente ad acido borico maremmano venduto dai Signori Ved. Chemin, Prat, Lamotte, Larderel ai Signori Giovanni e Tommaso Lloyd e Sommario di perizie chimiche presentato dai Sig. Lloyd e C. per sostenere il proprio assunto, Livorno, Bertani, Antonelli e C., 1836, p. 3. Guerrazzi era un buon amico di Francesco de Larderel. Il fratello, Temistocle Guerrazzi, sarà l’autore, nel 1870, del busto di Paolina de Larderel. Da Luigi Pescetti, La famiglia de Larderel conti di Montecerboli, Livorno, Stab. Poligr. Toscano, 1940, p. 128/134.)) Oltre alle cause citate, ritardo delle consegne e vendita a terzi, si era creata nel frattempo un’altra dissonanza interpretativa sugli accordi sottoscritti ben più difficile da dirimere. La merce “proveniente dalla loro fabbrica”, infatti, avrebbe dovuto essere “di buona qualità, bene asciutta e non inferiore a quella fabbricata fin qui”((Francesco Domenico Guerrazzi, Relazione della causa…, cit., ivi.)), mentre il prodotto ricevuto era così ingombro di corpi estranei da non poter essere accettato al prezzo convenuto. I Lloyd, pertanto, avevano chiesto un abbuono sul prezzo o, per lo meno, avrebbero voluto concordare una perizia per stabilire quante impurezze ci fossero e decidere conseguentemente lo sconto. Di fronte al rifiuto della società venditrice, i Lloyd si erano rivolti nuovamente al Magistrato che, infatti, nel febbraio del 1834, aveva disposto di far eseguire la perizia richiesta sulle botti in questione, di approvare i due periti di parte, Paolo Villoresi per i Lloyd e Zanobi Lottini per i venditori, entrambi farmacisti di Livorno, e di aggiungere un terzo perito da parte del Magistrato, il professor Giuseppe Branchi, professore di chimica alla Imperiale e Reale Università di Pisa. Avrebbero dovuto decidere se l’acido borico in questione fosse della qualità e bontà contemplata dal contratto, se fosse più scadente del solito e, una volta indicati gli eventuali difetti, quale somma avrebbero consigliato per l’abbuono. I tre periti, mentre ammettevano che l’acido in questione conteneva effettivamente più del 20% di impurezze, non concordavano sulle conseguenze: due di loro lo giudicavano di buona qualità, il terzo invece di qualità scadente. La difformità di giudizio, pertanto, aveva reso necessaria la nomina di un quarto perito in grado di muoversi entro le relazioni svolte, perito che, individuato dal Presidente del Magistrato nella persona del dottor Luigi Michelotti, medico fisico e membro di numerose accademie, stabilisse “dove fosse la ragione e dove il torto”((Francesco Domenico Guerrazzi, Relazione della causa…, cit., p. 6.)).
Il 23 aprile 1836 si ha finalmente il responso. Michelotti consegna il suo parere chimico stabilendo che l’acido borico venduto è realmente scadente, che i Lloyd hanno diritto a rifiutarlo e ad esigere un’indennità proporzionata, indennità che tuttavia non si sentiva di decidere per la mancanza di analisi mirate alla determinazione della quantità dell’acido anidro e della quantità di acqua, compresa quella di cristallizzazione. Chiedeva, di conseguenza, la nomina di un quinto perito perché stabilisse quanto danno avessero risentito i compratori.
Non mi è dato sapere di come sia andata a finire la vicenda, ma la lettura delle perizie offre degli spunti interessanti. Spunti di carattere generale per i problemi legati alla storia interna della chimica nel periodo in esame (che cos’è l’acido borico? qual è la sua formula? quali sono le sue caratteristiche?), spunti relativi ai criteri dello scambio commerciale di merci (quando si definisce una merce di buona qualità?) e spunti di carattere specifico per la conoscenza delle tecnologie e dei processi adottati nell’estrazione dell’acido borico toscano.
L’acido borico
Ancora alla fine del Settecento Antoine-François de Fourcroy scrive che l’acido borico (o boracico come lo chiamavano allora) era di natura e composizione sconosciuta.((Antoine-François de Fourcroy, Système des connaissances chimiques et de leurs applications aux phénomènes de la nature et de l’art, t. II, Paris, Baudouin, [1800], p. 123.)) Era stato isolato da Wilhelm Homberg nel 1702 per sublimazione di solfato di ferro e di borace, chiamato per questo sale volatile narcotico di vetriolo o sale sedativo pensando che avesse una speciale proprietà medicamentosa e che l’acido solforico (chiamato allora vetriolo) contribuisse alla sua formazione.((Wilhelm (Guillaume) Homberg, Essays de chimie, in “Histoire de l’Académie royale des sciences avec les Mémoires de Mathématique et de Physique pour la même Année, tirés des Registres de cette Académie”, 1702, p. 50.)) Altri processi si erano succeduti usando diversi acidi. Louis Lemery, figlio del famoso Nicolas Lemery, aveva scoperto che si poteva ottenere, sempre con la sublimazione, anche con l’acido nitrico e cloridrico, mentre Claude Geoffroy nel 1732 lo estrae per via umida, versando cioè dell’acido solforico in una soluzione di borace evaporando e cristallizzando. Poiché tutti gli acidi adoperati con il borace sprigionavano l’acido borico, e sempre nella medesima forma, quest’ultimo non poteva dipendere dall’acido usato. Ciò nonostante, ancora a fine secolo XVIII, Giovanni Fabbroni vedeva nell’acido borico una modifica dell’acido cloridrico, e Lorenz Friedrich von Crell la presenza di carbone.((Icilio Guareschi, Nuova Enciclopedia di Chimica scientifica, tecnologica e industriale, vol. IV, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1906, p. 1101; Antoine-François De Fourcroy, Système des connaissances chimiques…, cit., p. 128.))
Nel 1745 e nel 1748 Théodore Baron((Sull’opera di Baron, cfr. Ferdinado Abbri, Théodore Baron e la chimica francese alla metà del Settecento, in M. Ciardi – F. Giudice [a cura di], Atti del X Convegno Nazionale di Storia e Fondamenti della Chimica (Pavia 22-25 ottobre 2003), Accademia Nazionale delle Scienze, Roma 2003, p. 99-102.)) dimostra che l’acido borico si può ricavare anche dagli acidi vegetali, non solo da quelli minerali, e che si può ottenere di nuovo il borace unendo acido borico con idrossido di sodio. Prova quindi che questo acido è “tout formé dans ce sel e que les acides que l’on emploie pour le précipiter ne contribuent en rien à sa formation”((Antoine-François de Fourcroy, Élèmens d’histoire naturelle et de chimie, 4° éd., t. II, Paris, Cuchet, 1791, p. 73.)). Ma che cos’era il sale sedativo? Un sale? Un alcali fisso? E come si formava? Non si sapeva veramente nulla, a parte l’ipotesi di una sua origine da materie grasse decomposte. La confusione nasceva principalmente dal composto di partenza che, sottoposto ai due soli metodi di analisi allora conosciuti, dissoluzione e calcinazione, dava il caratteristico odore empireumatico di materiale organico che si pensava costituente del borace.((Jean-Pierre Robiquet, Sur l’acide borique, “Annales de Chimie et de Physique”, t. XI, 1819, p. 203.)) Antoine Baumé, farmacologo francese e ideatore della scala empirica di misura della densità, alla fine del Settecento sosteneva di aver ricavato l’acido borico lasciando all’aria aperta in una cantina un miscuglio di argilla grigia, di grasso e di sterco di vacca. Gli esperimenti di Baumé non hanno certo aperto un fronte di ricerca ad eccezione del lavoro di Johann Christian Wiegleb il quale ha creduto di passare tre anni e mezzo della sua vita per fornire una smentita alla teoria proposta.((Antoine BaumÉ, Chymie expérimentale et raisonnée, Paris, Didot, 1773, t. II, p. 138; Jean Antoine Claude Chaptal, Elementi di chimica, I ed., t. I, Venezia, s. ed., 1801, p. 335.))
L’acido borico si chiamava anche sale volatile di borace, fiori di vetriolo filosofico, sal bianco degli alchimisti, fiori di Diana ma era più conosciuto come sale sedativo o sale di Homberg. Con la riforma della nomenclatura nel 1787 diventa acido boracico, nome preso da borace, principale prodotto commerciale, e fino al 1807 si pensava che fosse una sostanza semplice. Solo in quel periodo, infatti, Humphry Davy, con l’aiuto della corrente elettrica, aveva potuto decomporre l’acido borico ed ottenere una massa nerastra, ma la piccola quantità estratta non gli aveva permesso di fare altre ricerche. L’anno seguente Joseph Louis Gay-Lussac e Louis-Jacques Thenard scaldando l’acido borico con il potassio, appena scoperto da Davy, riescono sia a ricavare la massa nerastra, che propongono di chiamare boro, in quantità sufficiente per descriverne le proprietà sia a dimostrare che l’acido borico era formato da ossigeno e boro scatenando una querelle con Davy sulla primogenitura. Da boro, però, deriva la nuova denominazione dell’acido che da allora in poi si chiamerà acido borico.
Stabilita quindi grosso modo la composizione qualitativa dell’acido diventava ora più complicata la questione della formula da attribuire. Si va da un BO2 o un BO3 proposti da Jöns Jacob Berzelius per arrivare ai lavori di Amedeo Avogadro che nel 1821, lavorando sulle densità dei vapori, propone la formula B2O3 per l’acido anidro, formula che si usa ancora oggi. Rimaneva ancora da definire quanti acidi borici si conoscessero, quanta acqua cristallizzata vi fosse contenuta, se fossero o no idrati e capaci di condensazione e perché si avesse notizia di ben 11 borati. Problemi che si risolveranno solo alla fine del secolo XIX. Intanto nella prima metà dell’Ottocento, periodo preso in esame in questo scritto, ci accontenteremo di avere di fronte una sostanza ambigua, poco chiara e non ancora domata.
Il borace
Fin dai tempi più antichi si conosceva un solo composto del boro: il borace. Nel linguaggio chimico moderno significa un sale composto di ioni borato e sodio. Ma il nome borace fino al Settecento aveva un significato generico e si riferiva a sostanze diverse causando errori nella citazione di testi antichi. Si trovava in alcuni laghi della Cina, della Persia e dell’India ed era messo in commercio con il nome di tinkal((Il tinkal veniva pure chiamato crisocolla. Il termine però si attribuiva anche a un minerale di rame che s’impiegava per saldare i metalli e particolarmente l’oro.)), se proveniente dalla Persia o dall’India, altrimenti borace di Cina. Laghi poco profondi che si riempivano nella stagione invernale di acque nere e salmastre e che d’estate evaporando presentavano sulle rive cristalli della sostanza. Ma il borace era un prodotto della natura o dell’arte?((Antoine-François de Fourcroy, Élémens d’histoire naturelle…, cit., p. 66.)) La sua origine misteriosa aveva spinto a formulare congetture e supposizioni improbabili, ma date per certe, anche sui metodi per ottenere la sostanza:
Si fanno imputridire alcune sostanze animali come sono le raschiature delle ugne, l’urina, il sangue ec. con acqua di qualche sorgente alcalina in alcune tinozze di marmo. Dopo il corso di sei o sette settimane si lescivia la materia imputridita e si hanno cristalli di borace.((Jean Antoine Claude Chaptal, Elementi di chimica, cit., p. 336.))
I chimici erano fuorviati dal fatto che il tinkal, come si è già scritto, contenesse materiale organico che, però, era dovuto al metodo d’imballaggio. Il borace indiano, infatti, veniva raccolto su foglie di palma, inviato a Calcutta e spedito in Europa, dapprima semplicemente chiuso in sacchi, poi avvolto in argilla, calce e grasso. I due sistemi di spedizione ponevano dei problemi: il primo, per il grande caldo sofferto nel viaggio e per la lunghezza dello stesso, portava allo sfarinamento dei cristalli e alla perdita di peso; il secondo, per le eccessive sostanze estranee aggiunte, aveva bisogno di lunghe purificazioni. Uno dei primi porti che toccava era Venezia. Lì si raffinava, probabilmente arroventandolo, e veniva messo in commercio con il nome di borace di Venezia.((Giovanni Pozzi, Dizionario di Fisica e Chimica applicata alle arti, vol. II, Milano, Batelli e Fanfani, 1821, p. 424.)) Ma il luogo principale di lavorazione era Amsterdam dove si toglieva la materia saponacea formata dal grasso e dalle sostanze basiche che lo avvolgevano per il 25% del suo peso.((L’altro tipo commerciale di borace proveniente dalla Cina era più pulito: privo della parte “dell’intonaco terroso e grasso al tatto, il quale ha l’odore del sapone” non aveva bisogno di essere lavato. Da Louis-Jacques Thenard, Trattato di Chimica elementare teorica e pratica, Nuova traduzione sulla V ed., t. III, Firenze, Guglielmo Piatti, 1827, p. 76-77.)) Giorni e giorni di miscelazione continua in acqua fredda con calce per eliminare la maggior quantità delle impurezze, miscelazione effettuata non con mezzi meccanici ma stropicciando i cristalli con le mani. Giorni e giorni di macerazione in acqua calda, filtrazione, concentrazione della soluzione in caldaie di piombo, travaso in cristallizzatori coperti e circondati di paglia per impedire un raffreddamento troppo rapido. Oltre un mese di lavoro, o ancora di più in stagione invernale, periodo meno proficuo per la separazione dei cristalli a causa del freddo, per ottenere da 100 parti di borace greggio 75-80 parti di borace raffinato.(( Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica scientifica ed industriale, v. III, Torino-Napoli, Unione Tipografico Editrice, 1869, p. 277-278/280.)) Ma quale borace? Erano conosciuti due tipi secondo le condizioni di cristallizzazione: uno in grossi prismi esagonali che conteneva il 47% di acqua di cristallizzazione e l’altro in ottaedri con il 30%. Si poteva ricavare l’uno o l’altro secondo il grado di temperatura del borace durante il processo di cristallizzazione. Poiché la temperatura di passaggio da una forma all’altra era a 60 °C bisognava porre particolare cura al processo di raffreddamento interrompendolo non appena raggiunto questo limite.((Il primo, prismatico, aveva 10 molecole d’acqua a temperatura ambiente, il secondo, ottaedrico, 5 molecole d’acqua a 60 °C.)) Al momento finale della purificazione gli operai dovevano entrare nei tini di cristallizzazione per raccogliere il borace raffinato e staccarne i blocchi con lo scalpello o con l’accetta.
Il borace più apprezzato era quello ottaedrico, con minore quantità di acqua di cristallizzazione per cui si gonfiava di meno, di volume meno ingombrante, aveva un costo inferiore anche per il trasporto e il magazzinaggio. L’ottaedrico, se immesso in un’atmosfera carica di umidità, tendeva a riprendersi sfiorendo. Ma questo era un aspetto che piaceva agli acquirenti a dimostrazione che il borace aveva subito un ottimo processo di purificazione. Sarebbe stato meno apprezzato se si fosse presentato di forma regolare con “gli spigoli acuminati” ritenendo che questi fossero la caratteristica del borace più acquoso. In questo caso interveniva allora un ulteriore lavoro degli operai che a colpi di ascia dovevano smussare gli angoli dei cristalli.((Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 280.))
Dal momento che ilmercatopreferiva il borace in grossi cristalli era importante che la soluzione si raffreddasse con estrema lentezza, cosa che si otteneva foderando icristallizzatori all’interno di piombo e rivestendoli all’esterno di grosse tavole di legno con un coperchio che impediva l’evaporazione del liquido. I cristallizzatori a loro volta erano contenuti in una seconda cassa con intercapedine riempita di polvere di carbone, il tutto ricoperto di stracci.
Questa era un’operazione fatta per assecondare il commercio. Poiché il tinkal, o borace greggio, aveva un aspetto grigiastro ed era coperto dalla sostanza saponosa, derivata dal metodo di trasporto, e poiché i lunghi viaggi incidevano sulla integrità dei cristalli, i compratori avevano questi caratteri come modello di riferimento perciò i produttori di borace, per venire incontro ai gusti del pubblico, ricorrevano a finzioni. La merce doveva essere travestita e trasformata facendole assumere quella opacità o quel colore simile al tinkal che testimoniasse una certezza di bontà del prodotto.
A che cosa servivano?
Gli usi più antichi del borace si collegano alla sua capacità fondente che porta alla vetrificazione degli ossidi metallici. Questa proprietà è stata sfruttata per rendere più semplice la fusione dei materiali che compongono i vetri, le ceramiche e i colori per la porcellana. Uso che incomincia ad avere uno sviluppo nella seconda metà del Settecento in aggiunta al minio, al nitro, al sale marino, ai clinker e ai prodotti di incenerimento((Robert Dossie, The handmaid to the arts, vol. II, London, I. Nourse, 1758.)) ma, per l’alto prezzo dell’importazione del tinkal, il borace si riservava ai vetri particolarmente raffinati destinati agli specchi, per le lenti usate in astronomia, pregevoli per la limpidezza e inalterabilità. Si usava nelle fritte,((In passato era una sostanza non vetrosa con l’aspetto di una polvere parzialmente fusa. Oggi dalla fritta si prepara lo smalto per i prodotti ceramici.)) nelle invetriature per le stoviglie abbinato alla calce per una migliore trasparenza della vetrina e nello smalto che serviva da sfondo alla decorazione delle maioliche. La bellezza della verniciatura delle maioliche, cui si aggiungeva il borace, andava di pari passo con l’aumento della loro salubrità poiché diminuiva sempre di più la presenza del piombo, elemento notoriamente tossico. Pericolosità che era insita anche nei recipienti di rame che si preferirà sostituire con quelli di ferro, dopo averli coperti di uno smalto a base di borati, inattaccabile agli acidi e con un coefficiente di dilatazione correlato a quello del metallo.((Nel corso dei secoli l’uso del borace è aumentato. Oggi fa parte dei vetri speciali con aggiunte di ossido di bario, di zinco, di magnesio, allumina. I vetri possono servire per articoli pressati. Alcuni di questi sono infrangibili e si usano per particolari apparecchi chimici o in cucina. La loro lavorazione richiede fusioni a temperature altissime. La presenza di boro e di alluminio alla miscela conferisce alta resistenza agli acidi, basso coefficiente di espansione termica e buona resistenza meccanica allo sbalzo termico. I vetri più duri di tutti sono i borosilicatici. Per ottenere vetri ancor più resistenti agli sbalzi di temperatura e agli agenti chimici e perfettamente neutri, necessari ad esempio nei laboratori per analisi rigorose, si ricorre a miscele a base di borosilicati di zinco, bario, alluminio, sodio. Di questi fa parte il vetro Jena o di Murano. Un altro tipo di vetro speciale è il duran, un borosilicato che presenta un’ottima resistenza chimica ed è indicato anche per apparecchi a microonde. Molto resistente al fuoco è invece il pyrex, fortemente silicico, duro, e difficilmente fusibile. Cfr. Nicoletta Nicolini, Gigliola Terenna [a cura di], La collezione di vetreria scientifica, Siena, Nuova Immagine editrice, 1999.))
Troviamo il borace nelle lenti acromatiche che, alla fine del Settecento, Pierre Louis Guinand, operaio svizzero fabbricante di casse di orologi, riesce a migliorare fabbricando dischi perfettamente omogenei con un nuovo sistema di agitazione. Le lenti saranno usate dopo qualche anno nell’industria ottica preferendole a quelle realizzate con sovraccarico di piombo.((Cyril James Peddle, The manufacture of optical glass, “Transactions of Optical Society”, vol. 23, 1921-1922, p. 104.))
Si adoperava il borace per rendere meno porose le storte e le canne di refrattario usate in laboratorio: se immerse in soluzione e poste sul fuoco, il borace si amalgamava con gli ossidi del refrattario trasformandoli in vetro che uniformava la superficie sigillando le porosità.
Incontriamo il borace come antiossidante del ferro. Dopo aver bagnato e scaldato i pezzi di ferro con una soluzione borica, si generava uno strato vetroso tra il borato e l’ossido di ferro che, aderendo intimamente alla superficie di metallo, lo proteggeva dal contatto diretto dell’ossigeno.
Ma forse uno degli usi più antichi del borace è nella saldatura dei metalli. Difficile da effettuare per la formazione dello straterello di ossido tra le due superfici che impedisce la congiunzione delle due parti. Sporcando invece con borace le superfici da incollare, ponendole al fuoco, sovrapponendole e battendole, si eliminano le porzioni di ossido che fuse con il borace si trasformano in borati, e si hanno a disposizione le superfici vive, senza ossidi, che a questo punto si possono saldare facilmente. La proprietà della fusione con gli ossidi è stata usata in chimica analitica nell’analisi a secco fino a pochi anni fa per identificare un metallo o un ossido: con un filo di platino, la cui estremità era sagomata ad anello, si raccoglieva un poco di borace e si portava a fusione sulla fiamma. Il borace gonfiandosi perdeva l’acqua di cristallizzazione e formava una perla trasparente che, toccando l’ossido metallico in esame, sottoposta a fusione, si colorava in modo caratteristico a seconda dell’ossido.((Verde con il rame, azzurro intenso con il cobalto, violetto con il manganese, ecc. Anticamente l’analisi era fatta su carbone in cui, formata una cavità, si introduceva una piccola parte di borace che veniva fusa con il cannello ferruminatorio. A questa si aggiungeva l’ossido da esaminare, si fondeva di nuovo e si osservava il colore. Da Louis-Jacques Thenard, Trattato di Chimica…, cit., p. 75.)) (fig. 1)
Per l’intemperante “bramosia di parere e di brillare sia pur colla menzogna purché pasca l’illusione”((Giuseppe Meneghini, Sulla produzione dell’acido borico dei Conti De Larderel, Pisa, Tip. Nistri, 1867, p. 57)), il borace diventa anche la base per le imitazioni di tutte le pietre preziose con l’aggiunta di ossidi metallici opportuni quando nel 1734 Georges Strass fabbricherà un vetro con un’alta percentuale di piombo e borace a imitazione dei diamanti, simile ai cristalli flint, chiamati strass.((Icilio Guareschi, Nuova Enciclopedia di Chimica scientifica, tecnologica e industriale, vol. V, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1909, p. 230.))
La seconda importante caratteristica del borace è la capacità di sviluppare ossigeno. Questa proprietà viene sfruttata in Belgio e in Olanda usando la sostanza come sbiancante dei tessuti al posto della soda, troppo caustica.((Anche al giorno d’oggi in alcune famiglie si usa bollire i tessuti macchiati con il perborato di sodio che, sviluppando ossigeno, toglie le macchie.)) In questa veste era adoperato come detersivo per denti e capelli e come bibita rinfrescante assieme ad acido tartarico e bicarbonato.
Un impiego particolare nell’Ottocento riguarda ancora le candele steariche.((Le vendita delle prime candele steariche avviene in Francia nel 1837. La soda usata nella fabbricazione delle candele restava inglobata nell’acido stearico ardendo nel lucignolo di cui diminuiva la capillarità ostruendolo, per cui la combustione dopo un certo tempo languiva. Si pensò di rimediare bagnando il lucignolo di acido solforico ma questo corrodeva il cotone, in seguito de Milly decise di immergerle in una soluzione di acido borico. Da L’esposizione italiana del 1861. Giornale Illustrato, Firenze, Bettini, 1862, p. 294.)) Per evitare che lo stoppino bruciando si trasformasse in uno scheletro di cenere che avrebbe disturbato la luminosità della fiamma, si imbeveva il cotone di borace che, fondendo, trascinava via la cenere in piccole palline lasciando libero lo stoppino.
Ma il borace appare anche come ignifugo. Il tessuto, bagnato di una soluzione di borato di ammoniaca, se esposto al fuoco si carbonizzava senza infiammarsi, non si formava fiamma, il calore decomponeva il sale, liberava l’ammoniaca e il borato si fondeva formando una vetrina che impediva l’accesso all’ossigeno.((Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 284.))
Giuseppe Meneghini si chiedeva nel 1867 a quanti altri usi industriali e scientifici si sarebbe potuto estendere nell’avvenire l’impiego dell’acido borico oltre a quelli già accennati e a qualche collirio o cosmetico.((Giuseppe Meneghini, Sulla produzione dell’acido borico…, cit., p. 59.)) Effettivamente il borace e l’acido borico troveranno molte applicazioni grazie alle caratteristiche e alla versatilità delle due sostanze.((Oggi è presente in metallurgia dove migliora nelle leghe le caratteristiche dell’acciaio ad alte temperature, in elettronica, nell’industria nucleare come moderatore del flusso di neutroni nel cuore dei reattori, funzione esplicata ad esempio nell’incidente del 1986 di Cernobyl. È usato come agente protettore del legno e per il suo colore verde in pirotecnica. Si trova anche in ottica per la sua trasparenza ai raggi infrarossi, utilizzato per fibre di vetro isolanti, nella fabbricazione di parafulmini, nella preparazione di prodotti farmaceutici, plastificanti, tensioattivi, detergenti ecc.)) Ma al tempo di Hoefer, quando si scopre l’acido borico nel lagone di Monterotondo, e per tutta la gran parte dell’Ottocento, la sostanza era adoperata solo per formare il sale sedativo di Homberg e per la preparazione del borace. In altri campi, paradossalmente rappresentanti settori opposti tra il consapevole e non, l’acido borico ci accompagnerà nella vita di tutti i giorni. Il primo è collegato a Henry Roberts quando nel 1878, nella farmacia della Legazione Britannica di via Tornabuoni a Firenze, unisce l’acido borico al talco creando il Borotalco, una polvere bianca con azioni antisettiche ed assorbenti che entrerà nella cosmetica come cipria per signore.((Secondo la direttiva del Consiglio europeo (76/768/CEE) del 27 luglio 1976 e pubblicata nella G.U.C.E. il 27 settembre 1976 n. L 262, l’acido borico è stato vietato nei prodotti cosmetici, in particolare nei prodotti destinati alla cura dei bambini sotto i 3 anni. Per questo motivo dal 1978 il Borotalco non contiene più acido borico ma è rimasto il nome brevettato nel 1904, il diritto esclusivo all’uso della denominazione e la confezione con l’immagine inizio secolo della nurse con bambino mentre viene cosparso di Borotalco. Per una breve storia sul Borotalco cfr. Loris Jacopo Bononi, Un caso esemplare: la comunicazione pubblicitaria della Manetti e Roberts, in Pepa Sparti [a cura di], L’Italia che cambia attraverso i manifesti della raccolta Salce, Firenze, Artificio, 1990, p. 257-266.)) L’altro quando Jacquez nel 1856 riconosce il potere dell’acido borico nel ritardare la fermentazione dello zucchero e la putrefazione della carne. La sostanza viene aggiunta allegramente in numerosi alimenti, permessa o no secondo la legislazione degli stati ed in quantità diverse da stato a stato. Così in Italia dal 1890 era espressamente vietata nel latte, nelle marmellate, nella birra,((Cfr per l’Italia il R.D. 3 agosto 1890, n. 7045; per l’estero Vittorio Villavecchia, Dizionario di Merceologia e di Chimica Appplicata, V ed., vol. 1, Milano, Ulrico Hoepli, 1949, p. 84.)) ma era permesso il borace nel burro; in Spagna è autorizzata solo nella conserva di pomodoro e negli insaccati, in Danimarca nel lardo da esportazione, negli Stati Uniti nella carne e nel burro. In questo modo si è bevuto birra perfettamente limpida e senza odore con l’artificio, usato burro non proprio genuino e si è mangiato carne “fresca” che aveva anche 20 giorni. Ma nel 1995 dopo gli ultimi studi dell’OMS attestanti la pericolosità dell’acido borico sulla riboflavina, di cui inibisce il trasporto al Sistema Nervoso Centrale, la sostanza è stata definitivamente vietata dalla CE in tutti gli alimenti tranne che nel caviale.((Direttiva 95/2/CE 20 febbraio 1995 in G.U. 18.3.1995 n. L 61; D.M. 27/02/1996 n. 209 in G.U. 24/04/1996 n. 96. In Italia già nel D.M. del 31 marzo 1965, che disciplina gli additivi chimici consentiti (G.U. del 22 aprile 1965 n. 101), non figura l’acido borico. Secondo le regole del Comitato scientifico dell’alimentazione umana l’acido borico e il borace sono catalogati come conservanti con le lettere rispettivamente E284 e E285.))
La qualità
In attesa degli sviluppi della chimica analitica, avvenuti alla fine dell’Ottocento, il controllo della qualità delle merci con le eventuali sofisticazioni e frodi si fondava sulla cultura del singolo commerciante. In suo aiuto vengono pubblicati numerosi testi che lo guidano nell’accertamento della bontà del prodotto. Erano controlli inizialmente basati sul gusto, sull’odorato, sulla vista, poi su qualche analisi di riconoscimento ma sempre lontani, per ovvie ragioni, da quella unificazione delle analisi chimiche resa necessaria per evitare incertezze, dipendenti dall’impiego di metodi diversi. Il problema toccava in particolare le questioni doganiere da cui derivavano ritardi nei pagamenti e contenziosi di lunga durata. Tutte queste tematiche vengono affrontate per la prima volta, compresa la standardizzazione dei metodi, nelle Conferenze di chimica tenute a Parigi nel 1910 e nel 1912 e sviluppate a Roma nel 1920 nella I Conferenza internazionale di chimica.((Union Internationale de la Chimie Pure et AppliquÉe, Comptes Rendus de la Première Conférence Internationale de la Chimie, Rome 22-24 juin 1920, Paris, Jean Gérard, 1921, p. 69.)) Per tutti i paesi diventava della massima importanza conoscere il metodo ufficiale di analisi di ogni stato quando si voleva spedire la merce all’estero e, in particolare per i prodotti alimentari, i conservanti permessi e le loro quantità massime consentite.((Ivi, p. 31.)) La mancanza di una comparazione tra i differenti metodi di analisi, dell’accordo sul modo di esprimere i risultati e sulle scale di valori per la purezza dei reattivi erano accresciute dal fatto che solo nel 1907 la Commissione internazionale dei pesi atomici aveva potuto fissare il valore degli stessi pesi atomici, base di ogni calcolo chimico, le cui differenze causavano degli scarti di prezzo considerevoli tra il venditore e il compratore.
Prima di demandare quindi al di fuori di sé il controllo della qualità o l’andamento dei processi manifatturieri, e giungere a situazioni più obiettive, il giudizio sulla bontà del prodotto si basava sull’esperienza. Effettuata usando la vista, ad esempio, come consigliato da Francesco Balducci Pegolotti che, nella pratica della mercatura del 1315, descrive le “mercatantie per sé e come vogliono essere” in modo che i negozianti sappiano riconoscerle. Ed il
borrace si è una pietra fatta a modo d’allume, ed è circondata d’una pasta fatta a modo di merda d’orecchie d’uomo, e quella che à piue pietra e meno pasta, e che la pietra sua è più grossa e più bianca e più chiara forbendola della detta pasta, tanto è migliore e vale meglio.((Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, in Giorgio Nebbia, Aspetti storici del problema del controllo della qualità delle merci nel Mondo antico e nel Medioevo, “Quaderni di Merceologia”, vol. 1, 1962, p. 356-357. Ringrazio il prof. Nebbia per la gentile segnalazione.))
Oppure esperienza basata sul gusto come quella dell’operaio che nella fabbricazione delle stoviglie assaggiava la miscela di acido borico, borace e soda il cui cambio di sapore da acidulo a zuccherino determinava la fine del processo.((Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 283.))
L’acido borico, “scuriccio di colore”, della fabbrica di Larderello doveva essere asciutto e di buona qualità. Che cosa significa? A un primo livello di pratica merceologica, secondo gli scritti dell’epoca, asciutto voleva dire che, come per lo zucchero, non doveva rimanere ammassato e conservare l’impronta delle dita se stretto tra le mani. Di buona qualità significava non inferiore a quella fabbricata precedentemente. La vaghezza delle definizioni si rispecchiava anche nelle suddivisioni del prodotto presentato alle esposizioni industriali; nell’esposizione del 1850 a Firenze, ad esempio, vi era: 1) acido borico greggio, 2) acido borico depurato, 3) acido borico maggiormente depurato, 4) acido borico perfettamente depurato. In questo contesto però l’indeterminazione non aveva un grande peso ma in campo commerciale non poteva sorprendere l’eventuale contenzioso.((Rapporto generale della Pubblica Esposizione dei prodotti naturali e industriali della Toscana fatta in Firenze nel Novembre 1850 nell’I. E R. Palazzo della Crocetta, parte I, Firenze, Tip. Casa di Correzione, 1851, p. 26.))
L’acido borico venduto dalla fabbrica toscana conteneva più del 20% di corpi estranei. Non si poteva di certo ritenere un buon prodotto poiché il commercio del periodo poneva un limite al 10% per essere giudicato “acido borico di Maremma mercantile”.((Il limite non era rigido, alcune case per esempio la Coupland, non accettavano l’acido nemmeno all’8%. Cfr. Paolo Villoresi, Voto di scissura contro l’opinione dell’Ill. Sig. Dot. G. Branchi Professore di Chimica alla Imperiale e Reale Università di Pisa e dell’Eccellentissimo Sig. Dott. Zanobi Lottini farmacista in Livorno nella perizia per acido borico delle fabbriche maremmane venduto dai Signori Ved. Chemin, Prat, Lamotte e Larderel ai Signori Giovanni e Tommaso Lloyd negozianti gli uni e gli altri domiciliati in Livorno, in Francesco Domenico Guerrazzi, Relazione della causa…, cit., p. 4-8.)) Se quindi si arrivava a questi alti valori non può essere che effetto di una trascuratezza nella fabbricazione, imperocché in quanto alle materie insolubili, sarebbesi potuto allontanarle, facendole depositare alle acque, prima di porle a evaporare, e in quanto ai sali più solubili dello stesso Acido Borico, sarebbesi potuto renderne minori le quantità tirando le acque stesse a minor grado di consistenza prima di porle a cristallizzare.((Paolo Villoresi, Voto di scissura…, cit., p. 9.))
Lo stesso fatto che l’acido borico proveniente dalla fabbrica non fosse bianco a scaglie micacee, ma assomigliasse allo “zucchero di Batavia”, zucchero di canna di Giava molto ricco in saccarosio ma piuttosto scuro, non era un paragone positivo. Nonostante il cambiamento del materiale dei cristallizzatori, da legno a piombo per evitare che assumessero “colore straniero”, come ci tiene a precisare Larderel nel 1830 nella sua prima autopresentazione a valente tecnico,((Francesco Larderel, Memoria sull’acido boracico scoperto in Toscana e sulle sue applicazioni, in Giorgio Mori, Per la storia dell’iniziativa industriale in Italia nel secolo XIX, “Annali dell’Istituto Gian Giacomo Feltrinelli”, anno II, 1959, p. 618 o Giorgio Mori, Studi di storia dell’industria, II ed., Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 414. La possibilità del legno di colorare i cristalli era già stata osservata da Louis-Jacques Thenard. Cfr. Louis-Jacques Thenard, Trattato di Chimica…, cit., p. 77.)) avevamo di fronte quindi un acido bigio sudicio, mescolato a una quantità considerevole di solfati di ammonio e di magnesio, di materie terrose e perfino di ossidi provenienti dai vasi che servivano per l’evaporazione.((Louis-Jacques Thenard, Trattato di Chimica elementare teorica e pratica, Nuova traduzione sulla V ed., t. II, Firenze, Guglielmo Piatti, 1827, p. 105.))
Le impurezze pregiudicavano molte applicazioni, non potevano entrare nella composizione delle vernici delle porcellane inglesi, ad esempio, ed erano un carico inutile per le spese di trasporto. Anselme Payen insisteva anche sulla loro eliminazione con lavaggi metodici, trattando a parte le acque madri che oltre tutto avrebbero anche dato altri prodotti da utilizzare.((Solo con impurezze sotto al 10% l’acido borico si poteva utilizzare direttamente nelle porcellane tenere, nelle terre de pipe fini e nei cristalli, associato a ossido di zinco. Henri Durval, Exploitation du lac boracifère de Monterotondo et des terrains environnants, “Annales de Chimie et de Physique”, 3° serie, t. 46, 1856, p. 363; Anselme Payen, Acide borique des suffioni de la Toscane, “Annales de Chimie et de Physique”, 3° serie, t. I, 1841, p. 255. Il nome di Payen compare anche nel consiglio di amministrazione della Société d’Hesecque e C. nell’atto costitutivo del 1838, uno dei tanti momenti della struttura societaria della ditta di Larderello. Cfr. Mirella Scardozzi, Francesco Larderel, un imprenditore dell’Ottocento tra «centro» e «periferia» dello sviluppo, in Lucia Frattarelli Fischer, Maria Teresa Lazzarini [a cura di], Palazzo de Larderel a Livorno. La rappresentazione di un’ascesa sociale nella Toscana dell’Ottocento, Milano, Electa, 1992, p. 28-47.)) (fig. 2) Inoltre si erano accresciute anno per anno, forse per l’alterazione progressiva del terreno martoriato dalle correnti di vapore, per i vapori stessi che agivano da estrattori dei componenti solubili del terreno, costituito da argilla, o per il riciclo di acque molto sporche che fornivano di conseguenza un acido borico da sottoporre a un serio lavoro di purificazione. Dalle prime partite di acido borico messo in commercio da Giuseppe Guerrazzi, più attento sembra sia a far assumere un carattere deciso all’acido borico in modo da farlo subito riconoscere sul mercato sia alla pulizia del processo e delle vasche, si era arrivati a grossolane depurazioni. Non si può dire che la società Larderel fosse colpevole di “frode o di malizia umana”((Paolo Villoresi, Voto di scissura…, cit., p. 25.)), ma certo non si poteva prescindere da un problema di sciatteria, testimoniata dal fatto che la casa era molto spesso costretta ad accordare sconti sul prezzo.
Il controllo della qualità nell’industria di Larderello veniva fatto empiricamente dagli stessi operai con l’areometro di Baumé che permetteva di valutare la densità di un liquido con una semplice lettura. In seguito, all’apertura della farmacia, il farmacista era diventato, per regolamento generale dello stabilimento, il responsabile del lavaggio dell’acido “onde sia ridotto alla possibile minore impurità” e, se richiesto, doveva analizzare l’acido creduto impuro o umido con l’obbligo di un rapporto. Inoltre doveva sorvegliare i fornelli e le caldaie adriane in modo che l’acido venisse “fabbricato con la sola impurità accordata in commercio”.((In caso di una prima o seconda mancanza avrebbe dovuto pagare una multa di 30 paoli. Dalla terza avrebbe perso il posto. Da Francesco de Larderel, Regolamento generale dello stabilimento dell’acido boracico composto di nove fabbriche fatto dal proprietario Cavalier Priore Francesco de Larderel Conte di Montecerboli, dicembre 1849, in Terzilio Bocci, Paolo Mazzinghi, I soffioni boraciferi di Larderello, Poggibonsi (Siena), Ed. La Magione, 1994, p. 130.)) Qual era il metodo ufficiale di analisi che avrebbe dovuto adottare il farmacista? Si basava su due sole operazioni: la determinazione dell’umidità e dell’acido borico reale. Per quanto riguarda la prima il campione si metteva in stufa a calore moderato fino a peso costante, cosa da raggiungere con una certa difficoltà e quindi possibile di controversia. La differenza tra le pesate forniva la quantità dell’acqua presente. La seconda sfruttava la proprietà dell’acido di sciogliersi nell’alcool ordinario. Il campione, infatti, seccato in stufa, si trattava con alcool, si triturava, si decantava e si filtrava. Il residuo sul filtro veniva ancora lavato con alcool finché questo bruciava con fiamma verde, indice della presenza di acido borico. Dopo averlo disseccato si pesava il residuo insolubile che aggiunto all’acqua non doveva oltrepassare il 18-20%.((Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 305.))
Sembra, però, che la costanza del titolo commerciale non fosse raggiunta con il rigore dei procedimenti, ma sfruttando la diversa qualità dell’acido prodotto nelle varie fabbriche. Poiché in alcune di queste il prodotto conteneva solo il 5% di impurezze, in altre oltre il 25 %, si mescolava il tutto nel magazzino centrale in modo da avere un titolo medio. La proporzione delle impurezze presenti erano giudicate “mostruose” da Giuseppe Orosi il quale rilevava che “i fabbricanti di borace si lamentavano delle molte impurità dell’acido borico che ricevono dall’Italia, le quali aumentano le spese di spedizione e di trasporto e nuocciono alle applicazioni industriali”. Se si fosse presa l’abitudine, come suggeriva Payen, di comperare l’acido a titolo puro, i fabbricanti non avrebbero esitato a purificarlo nei luoghi di produzione con grande vantaggio di tutti.((Ivi, p. 304. “Titolo” in origine voleva dire purezza di un metallo nobile. La parola titolazione è usata da Gay-Lussac nel 1835 per determinare l’argento con una soluzione standard di cloruro di sodio, ma la titrimetria come analisi era già utilizzata nella metà del XVIII secolo per un rapido controllo della qualità, necessario per l’altrettanto rapido sviluppo delle industrie (in particolare salnitro e industria tessile). Cfr. Ferenc Szabadváry, History of Analytical Chemistry, Oxford-London-Edinburgh-New York-Toronto-Paris-Frankfurt, Pergamon Press, 1966, p. 197.))
D’altra parte i tempi non erano maturi per un vero e proprio laboratorio chimico. Perfino all’inizio del Novecento non era abituale trovare un laboratorio o la semplice presenza di chimici nelle industrie. Ciò a causa della scarsa pressione degli industriali riottosi a prendere alle dipendenze personale tecnico giudicato troppo costoso e oltre tutto inutile. Se assunti avevano un carico di lavoro notevole per seguire sia il lavoro analitico sia la sorveglianza della produzione, pretesa d’altra parte già vista nel regolamento del farmacista locale.((Nicoletta Nicolini, Il pane attossicato – Storia dell’industria dei fiammiferi in Italia 1860-1910, Bologna DSE, Napoli Cuen, 1996, p. 62-63; Ettore Molinari, L’importanza del chimico nell’industria moderna, “Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze”, 1917, p. 271-280.))
Intorno al 1854 nella fabbrica Larderel si era effettivamente organizzato un laboratorio per Edoardo, il più giovane dei figli che aveva studiato chimica a Parigi con Payen e Jean-Baptiste Dumas. Purtroppo la morte precoce del ragazzo, avvenuta nello stesso anno, farà accantonare il progetto fino al 1884 quando Florestano de Larderel, nipote di Francesco e suo successore alla guida dell’industria, sente la necessità di affrontare il momento difficile della fabbrica con il ricorso della chimica, chiamando Ferdinando Raynaut che si era laureato con Sebastiano De Luca a Napoli.((Nel 1899 Ferdinando Raynaut sarà assassinato a Larderello per ignoti motivi. Cfr. Raffaello Nasini, I soffioni e i lagoni della Toscana e l’industria boracifera, Roma, Tip. Ed. Italia, 1930, p. 146; Terzilio Bocci, Paolo Mazzinghi, I soffioni boraciferi…, cit., p. 92.)) Il laboratorio dopo la morte di Edoardo sarà chiuso. Si sa solo che verrà riaperto per una quindicina di giorni nel 1857 per Charles Sainte-Claire Deville e Félix Le Blanc, preparatori a l’École polytechnique di Parigi, in occasione della loro visita a Larderello per lo studio delle emanazioni gassose.((Charles Sainte-Claire Deville, Félix Le Blanc, Sur les émanations gazeuses qui accompagnent l’acide borique dans les Soffioni et Lagoni de la Toscane, “Comptes Rendus Hebdomadaires des Séances de l’Académie des Sciences”, t. 45, 1857, p. 750; Raffaello Nasini, Albo dei visitatori, in I soffioni boraciferi e l’industria dell’acido borico in Toscana, Atti del VI Congresso Internazionale di Chimica Applicata, Roma 1906, vol. I, Roma, G. Bertero e C., 1907, p. 668. Charles Sainte-Claire Deville, geofisico e meteorologo, fratello di Henri, aiuto di Elie de Beaumont al Collége de France, entrerà, un mese dopo la visita a Larderello, all’Accademia di Francia. Félix Le Blanc, il cui padre era proprietario della miniera di pirite di Montecatini prima della Società Sloane, Hall e Coppi, era aiuto di Dumas al Jardin des Plantes.)) Ma nel 1867 la descrizione del Meneghini che si sofferma su “una collezione dei prodotti naturali e dei preparati relativi all’industria”((Giuseppe Meneghini, Sulla produzione dell’acido borico…, cit., p. 25.)) fa supporre che più delle dotazioni scientifiche sarà privilegiato l’aspetto di museo industriale merceologico annesso alla farmacia.
I processi
Saponi, vetri, sale, allume, salnitro, zucchero erano i principali prodotti industriali fino all’inizio dell’Ottocento. Prodotti diversi ma accomunati da semplici processi che potevano includere l’uso dei forni o la distillazione o la purificazione per cristallizzazione o combinazioni dei tre. I processi industriali rispecchiavano gli identici procedimenti usati nei laboratori, come era identica la fonte di energia, cioè la legna.((Nelle lavorazioni in Italia si continua ad utilizzare anche nell’Ottocento questo tipo di combustibile, mentre in Inghilterra, già dal 1615, è vietato l’uso per le fornaci a causa sia dell’aumento del prezzo per eccessiva domanda sia della diminuzione della materia prima.)) I metodi di produzione accennati non erano veri e propri processi di fabbricazione, ma una serie ripetuta di trasformazioni fisiche che nel caso delle ultime sostanze citate purificavano una materia già esistente.
Se mettiamo a confronto la raffinazione del sale marino o dell’allume o dello zucchero con quella dell’acido borico vediamo che seguono sostanzialmente lo stesso ciclo produttivo. L’evaporazione dell’acqua di mare è il più antico procedimento conosciuto e non è cambiato molto nel corso dei secoli. Il sale marino veniva fatto evaporare in speciali fabbricati detti di graduazione, lunghi da 250 a 350 metri muniti di tettoie, a volte collegati da canali sotterranei, sotto cui vi erano grandi recipienti molto bassi e inclinati con dei fori che permettevano il passaggio dell’acqua salata da un livello superiore all’inferiore. Raggiunta la densità opportuna l’acqua salata passava in altri bacini e da qui alle caldaie dove veniva evaporata con il calore fornito da legna o carbon fossile o vapore. Qui avveniva la cristallizzazione e la valutazione del titolo con delle pallette di cera, di diversa densità, rese pesanti dal piombo.
Così è per l’allume. A Montioni, miniera riaperta dal 1821 da Luigi Porte che insieme a Sebastiano Kleiber e Giacomo Luigi Leblanc ne era diventato livellario fino al 1837, anno del riscatto del livello da parte del governo, il trattamento del minerale avveniva con acqua calda, cioè per lisciviazione. La soluzione era condotta in appositi cassoni ottenendo allume per cristallizzazione senza addizione di alcali. Infine, scolata l’acqua, si distaccava dalle pareti dei recipienti l’allume cristallizzato, si lavava e si trattava l’allume impuro depositato sul fondo con un’altra lisciviazione.
Così è anche per lo zucchero. Abbiamo la lavatura metodica degli zuccheri greggi, la loro dissoluzione con chiarificazione e decolorazione, la cristallizzazione, un’ulteriore lavatura dei cristalli ottenuti e l’asciugatura all’aria o alla stufa. L’evaporazione del sugo veniva fatta in un primo tempo in caldaie aperte per diretto riscaldamento con legna o carbone ma all’inizio dell’Ottocento si era preferito adottare una batteria di evaporatori di Halette, costituiti da un recipiente molto basso sotto il quale vi era un tubo a serpentina percorso da vapore. Lo zucchero cristallizzato, seccato in stufe, veniva messo in commercio in pani a tronco di cono, particolarmente richiesti, ottenuti da forme di terracotta. Ancor più funzionale era l’utilizzo diretto del vapore ottenuto dal riscaldamento di altro sugo zuccherino, metodo che dallo zucchero era stato esportato ad altre industrie.((Icilio Guareschi, Felice Garelli, Nuova Enciclopedia di Chimica scientifica, tecnologica e industriale, vol. XII, parte III, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1927, p. 948-949.)) Secondo Jean-Baptiste Dumas era consigliabile costruire la stufa per raffineria sullo stesso principio del forno per cristallo, cioè il vetro tedesco alla potassa della fine del 1600.((Jean Baptiste Dumas, Trattato di chimica applicata alle arti, vol. VI, Milano, Ved. Stella e Giacomo figlio, 1844, p. 189.)) È singolare il suggerimento, perché nello stesso periodo di Dumas erano apparsi i lagoni coperti di Larderel che con la loro forma a cupola e con le nervature richiamano, come una ricerca di analogie formali, un vero e proprio forno da vetro, descritto in modo esteso da Agricola nel libro XII del De Re Metallica.((Agricola, De re metallica, libri XII, Basilea, Froben, 1556, p. 473/474/476.)) (fig. 3; 4)
Gli impianti dell’acido borico sfruttavano l’esperienza consolidata di questi processi. Si “sorprendevano” i vapori imbrigliando il foro d’uscita con un alto camino, nei primi tempi di legno poi di ferro, in modo che si potesse lavorare senza pericolo. In seguito si preparava il terreno attorno al soffione costruendo un bacino più o meno circolare con un muro di pietre e calce idraulica, senza ricoprire la base poiché l’argilla del terreno avrebbe formato un naturale pavimento impermeabile. Il muro aveva un foro che si chiudeva con un tappo di legno. Levato il camino e riempito il bacino con acqua ad un’altezza proporzionata alla forza del soffione, il lagone entrava in attività.((Giuseppe Meneghini, Sulla produzione dell’acido borico…, cit., p. 12; Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 299.)) I lagoni si costruivano in serie su terreno degradante, collegati tra loro tramite condotti. L’acqua che entrava nel primo bacino si scaldava in breve tempo fino a 100 °C, si lasciava 24 ore, poi si faceva passare nel secondo per altre 24 ore e così via per tutta la serie dei lagoni, procedimento più redditizio rispetto alla prolungata sosta dell’acqua nello stesso lagone. (fig. 5) Come per l’evaporazione del sale marino si filtrava l’acqua borica con fascine di legna, sistema adoperato all’inizio in Lombardia, poi in Sassonia, dal 1559 adottato nelle saline bavaresi ed in seguito diffuso ovunque.((Jean Baptiste Dumas, Trattato di chimica applicata alle arti, vol. II, Milano, Stella e figli, 1831, p. 348; Raffaello Nasini, I soffioni boraciferi…, cit., 1907, p. 619. Un secondo sistema d’evaporazione del sale, estratto da sorgenti salate, faceva uso di corde tese verticalmente sotto la tettoia. Francesco Larderel aveva provato ad utilizzarlo nel 1827, ma lo dovette abbandonare per l’eccessiva durata dell’operazione. Cfr. Francesco Larderel, Memoria sull’acido boracico…, in Giorgio Mori, Per la storia dell’iniziativa industriale…, cit., p. 616.)) Successivamente la soluzione borica, giunta al bacino di chiarificazione, veniva lasciata in riposo per altre 24 ore in modo da decantare le sostanze sospese. Da qui si arrivava alle caldaie di evaporazione, costruite prima in lastre di ferro poi di piombo, incassate in un leggero piano inclinato sopra traverse di legno sotto cui circolava il vapore. Dal 1842 si istituiscono le caldaie a diaframmi, lunghe anche 90 metri, chiamate adriane, i cui tramezzi con ondulazioni trasversali rallentavano lo scorrimentodella soluzione.((Anticamente le caldaie erano costruite in serie e comunicanti tramite sifoni; quando la soluzione era sufficientemente concentrata (fino a 10° dell’areometro Baumé) si trasportava nei cristallizzatori. Il sistema aveva bisogno di molta mano d’opera. Secondo Larderel le adriane evaporavano più di 100.000 kg di acqua in 24 ore invece dei 72 come nel passato, secondo Selmi al contrario 18.000 litri. Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 302; Conte [Francesco] De Larderel, Cenni sulla produzione dell’acido borico in Toscana, Livorno, Tip. Giulio Sardi, 1858,p. 10.)) (fig. 6; fig. 7) Questa, arrivando alle estremità nella densità voluta, passava ai cristallizzatori, tini di legno sulle pareti dei quali si formava in 4 giorni la crosta dell’acido. Le acque madri si facevano uscire dal tino e ritornavano alle caldaie di evaporazione, acque che Larderel, pur essendo consapevole che se da un punto di vista scientifico avrebbero dovuto essere trattate a parte, riteneva non dessero inconvenienti dal lato commerciale se miscelate con le acque di chiarificazione.((Francesco de Larderel, Notice sur la production de l’acide boracique en Toscane, “Comptes Rendus Hebdomadaires des Séances de l’Académie des Sciences”, t. 23, 1846, p. 348.)) (fig. 8) Per ultimo i cristalli si facevano sgocciolare in cesti di vimini e poi si portavano negli essiccatoi anch’essi riscaldati dai vapori dei lagoni.
I lagoni, anche quelli coperti studiati per convogliare il vapore alle caldaie di evaporazione, erano costosi, ingombranti ed avevano sempre bisogno di una continua manutenzione. Lo stesso inconveniente vi era nei lagoni a terrazza, che riprendevano i dispositivi usati, per esempio, nella lisciviazione del carbonato di sodio greggio partendo da una soluzione concentrata, ma per l’acido borico sarebbe stato necessario un processo diverso. L’estrazione dell’acido borico doveva avvenire per semplice passaggio del soffione che fuoriusciva a velocità fortissima nell’acqua presente in basso strato, condizioni difficili per ottenere il massimo rendimento.((Philipp Schwarzenberg, Die Technologie der chemischen Producte welche durch Großbetrieb aus unorganischen Materialen gewonnen werden, Braunschweig, Friedrich Vieweg und Sohn, 1865, p. 44.)) L’unico beneficio del contatto prolungato dei vapori con i lagoni non riguardava l’acido borico ma il solfato ammonico, iattura per l’industria per l’abbondante quantità, di grande solubilità e “di grave imbarazzo nella pratica estrazione dell’acido borico, per cui nei lagoni di Travale riusciva molto difficile, per non dire impossibile, il poter giungere a separare economicamente l’acido borico”((Emilio Bechi, I soffioni boraciferi di Travale, Memoria letta nell’adunanza ordinaria del 10 maggio 1863, “Continuazione degli Atti della R. Accademia economico-agraria dei Georgofili di Firenze”, Nuova Serie, vol. 10, 1863, p. 245.)). Tenendo conto quindi anche della volatilizzazione dell’acido con il vapore si poteva calcolare una perdita di processo di più del 20%.
È noto che anche l’uso del vapore fosse già conosciuto. Un uso in un primo tempo singolare come l’eolipila di Erone, la pompa a vapore per fornaci da laboratorio, altrettanto ben descritta da Biringuccio e Agricola, che rappresenta uno dei primi impieghi del vapore. In seguito, la scoperta di questa nuova fonte di energia, indipendente da fonti energetiche fisse come i corsi d’acqua o i mulini a vento, aveva già aperto, sebbene in ritardo di quasi cento anni, nuove possibilità in campo tecnico e scientifico.((Già all’inizio del 1600 si è cercato di utilizzare il vapore come fonte energetica, ma il primo esemplare di pompa a vapore per miniera è del 1705 di Thomas Newcomen fino ad arrivare al grande successo della macchina di James Watt, adottata indifferentemente in tutti i tipi di industrie dalle tessili alle metallurgiche.)) Il vapore era entrato persino nei procedimenti chimici con Nicholas Crisp e con John Theophilus Desaguliers.((John Theophilus Desaguliers, Heating by Steam for various Manufacturing Purposes, A. D. 1720, N° 430 in www.energy.rochester.edu/uk/patents/430.htm.)) Il primo, osservando il consumo eccessivo di legna per la concentrazione di liquidi, consigliava di sfruttare il vapore prodotto dal distillato caldo e più concentrato per scaldare la soluzione meno concentrata, mentre il secondo aveva preso un brevetto nel 1720 per l’utilizzo del vapore come regolatore di calore, processo consigliato per la raffinazione dello zucchero, per il sapone, per il sale, ecc.
Il vapore a Larderello era presente dappertutto e giustamente Francesco de Larderel aveva pensato di sfruttarlo per l’evaporazione delle soluzioni. Avrebbe potuto osare di più? Forse non agli inizi, quando il quantitativo di acido borico prodotto era già sufficiente per il mercato, ma nonostante la sua idea, avanzata già nel 1830,((Francesco Larderel, Memoria sull’acido boracico…, in Giorgio Mori, Per la storia dell’iniziativa industriale…, cit., p. 619. Nel filone del risparmio energetico si deve ascrivere l’uso, da parte di Larderel “dei fornelli fatti sul metodo Rumford” (Memoria, cit., p. 614). Benjamin Thompson, conte di Rumford, aveva pubblicato nel 1796 un saggio sui focolari portandovi notevoli miglioramenti ed economia di combustibile. Ben presto il sistema Rumford si diffuse in tutto il mondo. Cfr. Benjamin Thompson, Essay IV of Chimney Fireplace, in www.gutenberg.org/etext/1025.)) di poter impiegare il vapore come forza motrice, si deve aspettare il 1867 per la sua attuazione, nel momento in cui il figlio Federigo sostituisce i primi pompatori, mossi a vapore, ai bindoli tirati dai cavalli.((Molto spesso le fabbriche rimanevano chiuse nel periodo estivo per la mancanza d’acqua. Si cercava di supplire con acque provenienti dalla condensazione dei vapori immesse in pozzi di raccolta. Le acque, se necessario, venivano utilizzate per i lagoni asciutti.)) Ma appare più come “un comporre per nessi elementari”((La frase, inserita in un altro contesto, è di Paolo Portoghesi, Infanzia dell’architettura industriale nella Maremma toscana, in Giorgio Marinelli [a cura di], Larderello: alle origini dell’energia geotermica, Firenze, Alinari, 1990, p. 42.)) dato che nel 1874 sembra ancora una pratica poco diffusa, sebbene fosse presente a Travale nello stabilimento Coppi e Hall dove collaborava anche Emilio Bechi.((C. Kurtz, Die Borsäurefabrikation in Toscana, “Jahresbericht über die Leistungen der chemischen Technologie”, vol. XX, 1874, p. 452-453. La Società Anonima Borica Travalese si era costituita nel 1861 con un capitale di 700.000 lire e sede a Firenze. L’anno precedente aveva ottenuto al pubblico incanto dal Tribunale di I istanza di Siena la liberazione dei lagoni e soffioni della Bandita, detta della Travalese (vicino Montieri), con una perizia di Emilio Bechi. Facevano parte della Società Pietro Igino Coppi, Carlo Schmitz, Ubaldino Peruzzi, Orazio e Alfredo Hall, Giovanni Pappudoff, Giorgio Maurogordato, Isach Sonnino. Lo scopo della Società, che sarà posta in liquidazione nel 1875, era lo sfruttamento dei lagoni e la produzione di borace e di altri prodotti per il commercio. In Archivio Centrale dello Stato, Ministero Agricoltura Industria e Commercio – Divisione Credito e Previdenza. Industrie, banche e società, b. 45.))
Un passo avanti nella produzione si compie con la perforazione artesiana. Viene suggerita nel 1838 da Giuseppe Gazzeri in una lettera polemica al direttore, apparsa sul Giornale di Commercio, lettera che, in opposizione al dilagante entusiasmo verso l’industria Larderel, risulta quasi più come invito ad appropriarsi della ricchezza del sottosuolo aumentando la concorrenza. Considerando che Larderel possedeva molti lagoni e poco terreno, sarebbe stato possibile per i proprietari dei territori limitrofi trarre profitto dall’opportunità “d’un numero indefinito di soffioni e di lagoni artificiali, alcuni dei quali potrebbero anche formarsi a spese dei già esistenti”((Giuseppe Gazzeri, “Giornale del Commercio, Arti e Manifatture”, decennio II, anno I, n. 31, 1° agosto 1938, p. 2.)). Una corrente di studio geologica dell’epoca era persuasa che l’acido borico non fosse distribuito sotto ciascun soffione in ammassi isolati, ma facesse parte di un unico immenso deposito. Per questo motivo, perforando, si sarebbe potuto accedere al “grande magazzino” in qualunque punto si fosse voluto.((Damiano Casanti, Nota sull’acido borico della Maremma Toscana, “Il Nuovo Cimento – Giornale di Fisica, di Chimica e Scienze affini”, t. III, 1856, p. 111.)) L’intuizione di Gazzeri, probabilmente scaturita dalle analoghe trivellazioni per la ricerca del carbone, fonte energetica fondamentale per la fusione del ferro nei forni di Follonica verso cui erano puntati gli interessi granducali,((Per la storia della geologia toscana si veda Pietro Corsi, La scuola geologica Pisana, in Storia dell’Università di Pisa, Giardini, 2001, vol. 2, p. 889-927.)) viene messa in pratica con successo da Vincenzo Manteri nel 1840 con una semplice trivella a mano, poi con una trivella artesiana fornita dall’amministrazione di Follonica, intorno al lago di Monterotondo, dove si fonderanno poco dopo gli stabilimenti Durval.((La proprietà del Lago fu contesa a lungo da Larderel e da Durval. I tribunali diedero ragione a quest’ultimo concedendo a Larderel il permesso di sfruttare le acque per l’alimentazione di una sola caldaia, mentre Durval ne aveva 7, riscaldate dal vapore di 15 fori di trivellazione. Durval, unico a rispondere nelle deposizioni scritte dell’Inchiesta Industriale nel 1872, produceva in quel periodo 250.000 kg di acido all’anno e lo vendeva in Inghilterra. Secondo la sua opinione avrebbe prodotto di più se non ci fossero stati dazi d’introduzione per il ferro; l’industria soffriva per le enormi spese di trasporto, per la mancanza di strade e per la difficoltà a trovare “capioperai in luogo privo di industria e fra gente indisciplinata”. Cfr. Atti del Comitato dell’Inchiesta Industriale, Deposizioni scritte, categoria 15 § 8, Roma, Stamperia Reale, 1872, p. 8; Statistica del Regno d’Italia – Industria mineraria, Relazioni degli Ingegneri del Real Corpo delle Miniere, Firenze, Tip. Tofani, 1868, p. 219-220.)) Henri Durval infatti, “stretto dalla penuria di vapori”((Statistica del Regno d’Italia – Industria mineraria, Relazione degli Ingegneri…, cit., p. 217.)) e vedendo nella trivellazione la soluzione ai suoi problemi, utilizza i getti artificiali per il riscaldamento delle caldaie, metodo più efficiente rispetto alla complicata costruzione dei lagoni coperti.
La trivellazione apre effettivamente un altro periodo nell’industria dell’acido borico. Francesco Larderel non si mostra molto fiducioso nelle possibilità offerte dalla nuova pratica. Nei suoi Cenni sulla produzione dell’acido borico del 1858 attribuisce alla sonda artesiana un’azione sovente infeconda:
Accade spesso che dei vapori, a cui la macchina ha dato sfogo, si presentano con una forza di tal natura da far concepire le più grandi speranze, ma anche ben presto diminuiscono di loro intensità e scompaiono poi totalmente. Finalmente questi vapori, fino ad ora almeno, non hanno potuto essere utilizzati che come agente calorifero per la concentrazione; mai hanno potuto alimentare un lagone, e per conseguenza non si è potuto averne direttamente acido borico; e solo hanno potuto indirettamente contribuire alla produzione.((Conte [Francesco] de Larderel, Cenni sulla produzione…, cit., p. 15. Negli scritti dell’epoca si è posto l’accento sul fatto che Francesco Larderel avesse pensato prima di Gazzeri di sfruttare la perforazione artesiana e ne fosse stato sconsigliato da Payen durante la visita nel 1835 a Larderello. Lo scienziato in realtà era rimasto impressionato dai soffioni in generale, dal difficile lavoro degli operai e dallo scampato pericolo di Brugnelli, suo accompagnatore, che aveva rischiato scottature gravissime per il terreno cedevole. Cfr. Anselme Payen, Acide borique des suffioni…, cit., p. 255; Francesco de Larderel, Notice sur la production…, cit., p. 353.))
In attesa della grande collaborazione tra scienza e industria che avverrà alla fine del secolo, la situazione dell’acido borico a Larderello, intorno agli anni ‘70 mostrava segni di stanchezza. Pur continuando a ricevere premi nelle esposizioni industriali per la grandiosità della struttura e per l’ordinamento sociale degli opifici, incominciavano a rendersi più esplicite alcune critiche per il fatto che da qualche anno l’industria permanesse in uno stato stazionario.((Esposizione agraria e industriale della città di Pisa per le province di Pisa e Livorno (maggio 1868),Relazione dei Giurati, Pisa, Tip. Nistri, 1870, p. 213.)) Giànell’esposizione del 1860 a Firenze, in verità, si era sottolineato che si adoperavano “elementarissimi procedimenti di scienza, onde alimentare con un prodotto impuro, al 16 o al 18 per 100 le fabbriche altrui, e riacquistare anco pel nostro bisogno trasmutato in borace con la soda di Francia”((Esposizione Italiana tenuta in Firenze nel 1861, Relazione dei Giurati, vol. II, classe X, Firenze, Tip. G. Barbera, 1864, p. 419.)).
Nonostante il grido dunque di “si faccia senno!” perché si aumentasse la produzione, si togliesse il monopolio e si ribassasse il prezzo, vista la presenza ormai definitiva dei borati naturali,((Francesco Selmi, Enciclopedia di Chimica…, cit., p. 305-306.)) l’industria procedeva con i suoi bindoli a cavalli, senza utilizzare i residui((Il primo concime azotato con il 50% di solfato d’ammonio non proviene da Larderello ma è fabbricato a Travale dalla Società Coppi. Cfr. Raffaello Nasini, I soffioni boraciferi…, cit., 1907, p. 587.)) e senza fabbricare prodotti più puri. Non è un caso che Fausto Sestini nel 1877, accompagnando i propri studenti a visitare Larderello e Montecatini, istituisca un parallelo tra le due realtà e sottolineando la “meravigliosa miniera, ottimamente scavata, macchinari moderni, i più recenti perfezionamenti, valenti tecnici alla direzione” affermi:
a Montecatini la natura domata, utilizzato mirabilmente tutto quello che dalla terra poteva trarsi; a Larderello la natura brutale, l’incompleta utilizzazione dei tesori che uscivano dal suolo, a Montecatini la sapiente direzione, a Larderello nessuna direzione, tutto lasciato in balìa dei pochi operai.((Raffaello Nasini, I soffioni e i lagoni…, cit.,1930, p. 2.))
L’amore di Francesco Larderel, come più volte da lui stesso dichiarato, per “quei luoghi e l’industria” che gli avevano dato “fama e sostanze”((Francesco de Larderel, Apologia del conte cavaliere Priore Francesco De Larderel, Livorno, Vignozzi e Nepote, 1846, in Raffaello Nasini, I soffioni boraciferi…, cit., 1907, p. 597; Luigi Pescetti, La famiglia de Larderel…, cit, p. 42; Conte [Francesco] de Larderel, Cenni sulla produzione…, cit., p. 10.)) non è da mettere in dubbio. L’ex commerciante di stoffe aveva raggiunto un patrimonio personale considerevole con
un’attività e uno stile di vita nuovi [che] è tanto più spudorata e pesante se vista nella sua essenza di totale appropriazione di ogni elemento produttivo, di esproprio assoluto, non soltanto in senso strutturale (materie prime, forza-lavoro, territorio) ma anche in misura ideologica, arrivando a pretendere un forzoso riconoscimento della popolazione nel nuovo paese […].((Luigi Guiotto, La fabbrica totale, paternalismo industriale e città sociali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 96.))
Francesco Larderel nel 1841 produceva 750.000 kg di acido borico senza la spesa di macchine, di materie prime, di combustibile. Una condizione idilliaca che avrebbe potuto sfruttare con maggiore impegno da un punto di vista della strategia d’impresa. Prima della scoperta, alla fine del secolo XIX, dei giacimenti di boracite di Stassfurt, di boronatrocalcite dell’America meridionale e di colemanite della California, la Toscana era l’unica produttrice di acido borico. Per quasi tutto il secolo l’industria di Larderello si è sentita appagata dal poco efficiente livello di utilizzazione delle risorse che non l’hanno spinta in investimenti di processo, in mutamenti strutturali o di strategia. Malgrado le sollecitazioni dei chimici, Francesco Larderel, ma anche i suoi eredi, non erano giunti al massimo della produzione, sia nella ricerca di ottimizzazione dei processi e sia nell’utilizzazione dei residui, probabilmente per l’esclusività di vendita ai Lloyd, avvenuta nel 1847 che, se ha salvato i Larderel dai debiti ed ha loro garantito guadagni sicuri, ha spento ogni stimolo nella ricerca.
Contrariamente al suo desiderio di essere riconosciuto come fabbricante dalle grandi capacità tecniche, Francesco Larderel, sicuramente di rilevante capacità intuitiva, si è mosso nell’economia del Granducato con abilità e successo, privilegiando le attività speculative e legando il proprio nome all’aristocrazia e alla grande borghesia toscana.((Gabinetto scientifico letterario Giovan Pietro Vieusseux – Archivio Contemporaneo, Mostra del Fondo de Larderel – Viviani della Robbia. Dalla storia di una famiglia in Toscana (1841-1943). Industria nobiltà e cultura, Firenze, Tip. Il Sedicesimo, 1982, p. 20.))
*Dipartimento di Chimica, Università degli Studi La Sapienza – Roma
Il saggio è stato pubblicato in Il calore della terra- Contributo alla Storia della Geotermia in Italia a cura di M. Ciardi e R. Cataldi, Pisa, Ed. ETS, 2005.