L’ideologia dell’infosfera

Anticipazione dal libro Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale”, in uscita presso Rosenberg&Sellier.

A “massive information process”

Tale rappresentazione per la quale il mondo fisico, naturale, materiale viene ad essere sempre più attraversato, abitato e dominato da una società cosiddetta della conoscenza, trova ovviamente il suo fondamento nella diffusione gigantesca delle macchine informatiche, dei computer, e della crescita esponenziale del loro potere computazionale, della loro capacità cioè di immagazzinare, confrontare, elaborare e calcolare informazioni. Tale capacità enorme di “processare”, resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana (inaugurata e messa in opera dalla geniale macchina di Touring), concluderebbe, si afferma, una dimensione antropologica del conoscere, fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici, da intelligenze e memorie artificiali, in grado di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita.

Un autore, che, civettando con Hegel, ha scritto che ci muoviamo in uno spazio-tempo in cui è sempre più vero dire che “ciò che è reale è informazionale e che ciò che è informazionale è reale”, ha potuto coniare anche il termine di iperstoria per descrivere l’ingresso dell’umanità in una forma di vita in cui la maggior parte dei beni e della ricchezza economica sarà costituita da beni intangibili, prodotti attraverso l’accumulazione e l’uso di informazioni, di contro ai beni materiali, esiti di processi di lavoro agricoli o manifatturieri, che hanno caratterizzato il lungo percorso della storia del genere umano dalla sua uscita dalla preistoria fino ad oggi((“Potrebbe trovare utile rappresentare l’evoluzione umana come un missile a tre stadi: la preistoria, in cui non ci sono ICT (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione); la storia, in cui ci sono ICT che registrano e trasmettono informazioni ma le società umane dipendono principalmente da altre tipologie di tecnologie che riguardano le risorse primarie e l’energia; l’iperstoria, in cui ci sono ICT che registrano, trasmettono e soprattutto processano informazioni, in modo sempre più autonomo, e in cui le società umane dipendono in modo cruciale dalle ICT e dall’informazione in quanto risorsa essenziale per la loro stessa crescita” (L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina, 2017, p.6).)).

Per altro va detto che solo una inammissibile cecità potrebbe negare la profondità della trasformazione che l’intera umanità sta vivendo oggi con il nuovo sistema di codificazione e di trasmissione delle informazioni legato al digitale, ossia a un sistema di matematizzazione che consente di tradurre i linguaggi storico-naturali in segni di formalizzazione matematica, calcolabili ad una velocità enorme rispetto alle capacità delle mente umana.

La potenza civilizzatrice delle tecniche di grafia e di comunicazione linguistica è sempre stata fondamentale e imprescindibile nella storia dell’umanità. Si pensi al peso dell’invenzione della scrittura alfabetica e alla possibilità di tradurre la varietà numerosissima delle immagini pittografiche, che rappresentavano direttamente l’oggetto e non il suono, nei pochissimi segni dell’alfabeto: con la conseguenza di un sapere che cessava di essere monopolio dei pochi, anzi dei pochissimi, per essere invece oggetto di una tecnica di codificazione e di trasmissione accessibile a un numero assai più ampio. In tale prospettiva si pensi anche all’invenzione della stampa e al passaggio da una scrittura amanuense ad una scrittura a caratteri mobili con la diffusione gigantesca del libro che ne è derivata.

Oggi, con la tecnica digitale e i nuovi linguaggi alfa-numerici, siamo in una condizione tendenziale per cui l’intera umanità potrebbe comunicare con sé medesima e con la propria memoria, in uno scambio sempre più globale e accelerato di informazioni. Per dire, insomma, che, ben lungi dal cadere in improponibili arcaismi e regressioni culturali, dobbiamo tutti essere all’altezza della problematica civilizzatrice che le nuove tecniche informatiche ci aprono e alle progressive ed emancipative possibilità di uso che i nuovi strumenti ci offrono.

Ma questa possibilità di una unificazione del genere umano, va accolta come un’idea, nel senso peculiare affidato da Kant a questo termine, di idea-limite, cioè come immagine utopica e terminale della storia: non già realtà del nostro presente, ma valore verso cui mirare e tendere in un infinito approssimarsi ad esso. Perché la visione effettiva del nostro presente offre un panorama di realtà profondamente e drammaticamente difforme da tale promessa di civiltà.

È infatti proprio la rappresentazione del mondo come infosfera che mostra quanto e come la natura funzionale delle nuove tecnologie, quale strumento a disposizione dell’umanità, possa trasformarsi invece in un Assoluto di realtà e di potere che, colonizzando le nostre vite, si fa principio di degrado della democrazia e di decadenza della civiltà. Perché alla base della concezione dell’infosfera v’è un atteggiamento ideologico, oggi di larga diffusione, che teorizza essere il mondo un massive information process: ossia che l’intera realtà, naturale ed umana, senza eccezione alcuna sia costituita da informazione, che la materia non sia altro che informazione, che i nostri corpi e le nostre menti, nei loro componenti ultimi, non siano costituiti altro che da informazioni.

Può essere utile a tal proposito riferirsi a quanto scriveva nel 1990 il fisico americano John A. Wheeler:

Tutto è bit [It from bit]. O per dirlo in altri termini, ogni ‘cosa’ – ogni particella, ogni campo di forza, perfino lo stesso continuum spazio-temporale – deriva la sua funzione, il suo significato e la sua intera esistenza, seppure in taluni contesti indirettamente, dall’insieme di risposte fornite alle domande sì-o-no, di scelte binarie, di bit. ‘Tutto è bit’ [It from bit] simboleggia l’idea che ogni oggetto del mondo fisico ha alla base – una base in molti casi veramente profonda – una fonte e una spiegazione immateriale; ciò che definiamo realtà emerge in ultima analisi dalla formulazione di domande sì-no e dalla registrazione dell’insieme delle risposte evocate; in sintesi, tutti gli enti fisici sono in origine teoreticamente informazionali e questo è un Universo partecipativo((J. A. Wheeler, “Information, physics, quantum: The search for links”, in Complexity, Entropy, and the Physics of Information, a cura di W. H. Zurek, Rewood City (Ca), Addison-Wesley Pub. Co., 1990.)).

Il Bit (dall’inglese “binary digit”, cifra binaria) designa, com’è noto, nella teoria dell’informazione, a partire da Shannon, la quantità minima, l’unità di misura elementare dell’informazione, che, attraverso l’alternanza di 0 e 1, sceglie uno dei due valori possibili ed equipollenti. Ovvero esso indica la quantità minima di una informazione, che sceglie e distingue tra sì/no, vero/falso, acceso/spento. Orbene l’ideologia dell’infosfera giunge a teorizzare che l’intero mondo, dall’Universo fisico, alla mente umana, al DNA degli organismi viventi, fino all’economia, ai computers, sia strutturato, nella sua struttura elementare secondo processualità binarie-discrete, di natura informazionale, che, trascritte e codificate in linguaggio alfanumerico possono essere sottoposte a calcolo, a computazione, e comunicate a tutte le altri sorgenti programmate per decodificare e intendere quell’informazione. Come scrive in tal senso assai esplicitamente Luciano Floridi:

Stiamo lentamente accettando l’idea che si fa strada a partire da Turing, per cui non siamo agenti newtoniani, isolati e unici, come una sorta di Robinson Crusoe su un’isola. Piuttosto, siamo organismi informazionali (infor), reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale (l’infosfera), che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo((L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, op. cit., p. 106.)).

Di questa vera e propria metafisica dell’informazione – posto che per metafisica s’intenda la riduzione dell’intera realtà a un unico principio – sono evidentemente assunzioni implicite sia una interpretazione delle scienze biologiche come essenzialmente risolte nella genetica, ossia una visione del vivente come tutta contenuta e determinata dall’alfabeto chimico depositato nel DNA, sia una teoria dell’omogeneità del cervello umano ad una macchina informatica, per la quale la nostra attività cognitiva utilizzerebbe ed elaborerebbe fondamentalmente informazioni. Vale a dire che una metafisica dell’Essere come Informazione non può non includere in sé una interpretazione del DNA come software, privo di materialità, e programmante a priori l’ontogenesi dell’organismo vivente, senza considerazione alcuna delle inter-relazioni complesse, spesso casuali e impredittibili, che si danno tra cellula, organismo ed ecosistema. Così come lo stesso monoculturalismo informazionale non può che giungere ad una teoria del conoscere in cui la mente umana opererebbe, secondo l’architettura dell’Intelligenza Artificiale, come una rete computazionale che, totalmente interna e indipendente dal corpo, immagazzina e lavora su dati in ingresso per fornire soluzioni e dati in uscita. Perché, se pure è innegabile che la mente dell’essere umano si sviluppa solo all’interno di uno corpo, è altrettanto vero che “allorchè questo ha dato luogo a una vita cosciente, la vita del sé può essere totalmente interna e indipendente da quel corpo e dalle facoltà che ha reso possibili”((Ivi, p. 79.)).

Codice informatico e ambivalenza pulsionale

Eppure c’è qualcosa che immediatamente fa problema in questa teoria dell’Universo Computazionale e che, a ben vedere, si rivela essere una falla che rischia di far crollare tutto l’edificio. Ed è la questione del confronto e dell’irriducibilità tra mondo del discreto e mondo del continuo, tra mondo della discrezionalità e serialità del numero e mondo della fluidità e della plasticità della vita. Alla base della teoria della possibilità di tradurre il linguaggio naturale nel linguaggio artificiale alfa-numerico della macchina dell’informazione c’è, abbiamo detto, l’alternanza di O e 1, ossia l’assunzione che il segnale informatico separi nettamente il vero dal falso e che scelga, senza dubbio alcuno o senza terza via possibile, o l’una o l’altra delle opzioni di verità/falsità messe in campo dal programma di recezione e di computazione dei dati. Tale alternanza e nettezza di scelta, tale discontinuità tra sì e no, indispensabile a garantire l’obiettività e la scientificità dell’informazione, è la base della sua matematizzazione numerica, secondo la quale ogni dato possibile risulta identificato dallo scarto verso destra o verso sinistra del codice binario iniziale 0 e 1 (nella sequenza 0101010). Per tale verso la discontinuità seriale propria della scansione del numero traduce e codifica in linguaggio matematico una immagine della verità/realtà caratterizzata anch’essa da scansioni, differenziazioni, delimitazioni nette e precise((Per “una genealogia dell’intelligenza artificiale” cfr. T. Numerico, Big data e algoritmi. Prospettive critiche, Roma, Carocci, 2021 (1° cap., pp. 25-55).)).

Ora, come non pensare, rispetto a tutto ciò, quanto di opposto ci ha insegnato, invece, l’opera di Freud e la psicoanalisi, quando, almeno a partire dalla presa di coscienza della pulsione di morte, ci ha parlato dell’ambivalenza strutturale dei nostri movimenti affettivi di base, che non consentirebbe in alcun modo di tracciare una linea netta di divisione tra bene e male, tra positivo e negativo, tra sì e no. Ma è l’intero dibattito sulla pulsione di morte nella tradizione psicoanalitica contemporanea che ha approfondito ancora di più quanto nel fondo della psiche umana tendenze alla costruzione di legami, di aperture e di cooperazioni con il mondo s’intreccino con tendenze opposte miranti alla distruzione e all’annientamento di ogni legame. La collocazione dell’Altro (nel senso dell’altro essere umano) nel cuore del Sé, che costituisce l’Identità peculiare della vita umana rispetto alle altre specie viventi, non può non generare, proprio in quanto Altro, che attrazione ed amore quanto, in pari tempo, diffidenza, ostilità ed invidia. Ne deriva un impasto pulsionale che mescola appunto gli opposti e che conferisce alla nostra vita emotiva, fonte primaria del nostro giudicare, un carattere composito. mescolato e ambivalente, che risulta incompatibile con l’alternanza tra la luce nitida e il buio delle tenebre, ossia con il manicheismo del sì e del no.

Ma ancora di più la psicoanalisi, insieme alla neurobiologia, ci insegna che la pretesa di rendere la mente indipendente dal corpo, di far funzionare la mente in assenza della presenza e dell’elaborazione di una percezione affettivo-emozionale, è talmente in contrasto con la realtà dell’essere umano, tale da generare, sul piano filosofico del pensare, solo concezioni metafisiche ed astratte, così come sul piano psicologico, patologie e malattie mentali fino alla cancellazione della propria corporeità.

Come ha ben scritto al riguardo lo psicoanalista Riccardo Lombardi:

Se postuliamo che l’accoglimento e la considerazione che la mente fa del corpo sia l’irrinunciabile punto di partenza di ogni operazione pensante – Antonio Damasio direbbe che ‘la mente dovette prima essere per il corpo o non sarebbe potuta essere’ (Damasio 1994,24) – ne consegue che l’assenza di riferimento alla realtà del corpo implichi inevitabilmente anche assenza della mente((R. Lombardi, Metà prigioniero, metà alato. La dissociazione corpo-mente in psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p. 25. Qui Lombardi fa riferimento al testo di A. Damasio, Descartes’ Error. Emotion, Reason, and the Human Brain, New York, Putnam, 1994 (trad. it., L’errore di Cartesio, Milano, Adelphi,1995).)).

Una delle tesi fondamentali di una psicoanalisi molto sollecita verso le istanze della fisicità biologica e dell’essere corpo animale del soggetto umano è infatti quella di sostenere che la nostra attività mentale abbia come contenuto primario del suo interesse la vita del nostro corpo, che sia cioè un’attività conoscitiva e pensante in primo luogo introversa ed autoriflessa piuttosto che essere contemplatrice attonita e aristotelicamente meravigliata del mondo esterno. Secondo quanto teorizza lo psicoanalista italo-argentino Armando B. Ferrari: “Il presupposto da cui partire è che il corpo è l’oggetto, per eccellenza della mente, ed è la sua realtà prima”((Armando B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Roma, Borla, 1992, pp. 29-30.)). Vale a dire che la genesi e lo scopo più propri della mente umana appaiono essere legati alla funzione di accogliere e dare coerenza alle sensazioni ed emozioni che invadono dall’interno il corpo dal momento in poi della nascita. E di mettere in relazione, al fine della continuità e della maggiore potenza possibile di vita, tale complessa dinamica del mondo interno con la multiformità e la complessità del mondo esterno.

L’ipotesi da cui muove dunque la nostra critica dell’ideologia dell’infosfera è che l’attività della mente umana realizzi operazioni pensanti, autenticamente tali, solo se esse muovino da sensazioni-emozioni di origine corporea e che la psiche sia propriamente in attività solo quando riesca a trasformare le proprie emozioni in pensieri: in un transito che va costantemente dal corporeo emozionale al concettuale-rappresentativo e viceversa, secondo la complementarietà disomogenea delle facoltà che costituisce la struttura peculiare dell’essenza umana.

Il pensiero nasce dalla necessità di soddisfare le esigenze e le pulsioni del corpo (principio di piacere) nel confronto con la complessità della realtà esterna (principio di realtà). Nasce dalla necessità di contenere l’urgenza e l’invasività della dinamica corporea nella dinamica psichica, attraverso un distanziamento/accoglimento della prima, che consenta di pensare e trovare la soluzione più adatta e più realistica. Secondo quella che è stata, a mio avviso, la lezione più propria e più irrinunciabile di Freud. Per cui è dunque proprio nel benessere/malessere del corpo, nella riproduzione armonica e fisiologica, o asimmetrica e patologica, della sua omeostasi, che si origina la fonte prima e originaria del significato del nostro agire e pensare. Nel verso appunto del valore di fondo che indica, indirizza e giudica della direzione del nostro vivere.

Pretendere di far funzionare la mente in assenza di questa fonte corporea di senso, trasformare cioè la compresenza di sentire e conoscere in una dissociazione della mente dal corpo, significa produrre un pensiero che pensa ed elabora concetti e configurazioni astratte senza fondamento. Ovvero produrre un pensiero che pensa, potremmo dire, solo in orizzontale, deprivato dell’asse verticale: un pensiero cioè che, senza il supporto essenziale delle emozioni, senza l’ineffabilità del corpo, si fa solo discorsivo e loquace, elabora linguaggi e simboli connessi tra loro solo in orizzontale e dunque tali da non incontrare mai un significato extralinguistico che li riempia e li saturi((Per l’introduzione di una antropologia costruita sui due assi, verticale e orizzontale, cfr. il già citato A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Ma dello stesso autore cfr. anche Adolescenza. La seconda sfida. Considerazioni psicoanalitiche sull’adolescenza, Roma, Borla, 1994.)).

Ma parimenti deve essere ben chiaro, per chi voglia seguire questo nostro discorso, che teorizzare il darsi di un funzionamento mentale profondamente connesso con sensazioni ed emozioni non significa certamente cadere in posizione irrazionalistiche che pretendano celebrare la forza e la verità dell’immediatezza del sentire di contro alla supposta sterilità e falsità di una ragione persa in concettualità e universalità disincarnate.

Giacchè ciò che qui non viene per nulla escluso è proprio il valore della costruzione e della memorizzazione di invarianti nell’esperire umano, che con il loro reiterarsi divengono strumenti indispensabili di orientamento e di azione e che, come tali, costituiscono il tessuto della conoscenza scientifico-razionale e delle sue molteplici tipologie di codificazione. È indubbio infatti, a mio avviso, che l’essere umano produce, attraverso la memoria, gli universali come schemi invarianti dell’agire, i quali per farsi valere in modo generale devono farsi via via relativamente indipendenti e astratti da ogni contesto specifico e irripetibile di azione. Così come è indubbio che con il linguaggio tale processo di universalizzazione viene ulteriormente fissato e definito, facendosi base di ogni ulteriore processo di concettualizzazione e di codificazione.

Solo che, in pari tempo, va ben sottolineato quanto in questo processo cognitivo il valore logico, il valore di verità, dell’informazione dipenda, in ultima istanza, dal valore biologico della soggettività che interpreta il mondo, producendo e utilizzando universali linguistico-razionali, con lo scopo primario della sua riproduzione di vita in un ambiente storico-sociale-naturale determinato.

Vale a dire che l’informazione rimanda sempre ad una interpretazione, ossia alla problematica pratico-esistenziale da cui muovono i criteri di scelta e di costruzione dei suoi parametri universalizzanti, in alternativa a tutti gli altri che vengono esclusi. Ogni codice oggettivo e impersonale dipende dalla antropologia culturale della soggettività (di natura più collettiva che non individuale) che lo costruisce, in una compenetrazione di significato pubblico e di senso soggettivo che sottrae ogni possibilità ad ogni teoria del conoscere inteso come riflesso e percezione di un mondo presuntivamente esterno ed oggettivo. A conferma di quanto la teoria kantiana della conoscenza come sintesi, ossia come azione delle funzioni trascendentali della soggettività rimanga ferma nel suo essere pietra di volta di un’antropologia epistemologica moderna: azione di sintesi cioè di una datità che rimarrebbe in frammenti di molteplicità, e priva di senso alcuno, senza l’intervento di procedure a priori di unificazione.

Informazione e mente “incarnata”

Del resto che l’informazione sia l’esito ultimo, nella sua astrazione e codificazione, di un processo di interpretazione, e dunque di sguardi prospettici fortemente soggettivizzati, è confermato da quanto argomenta, a tal proposito, la biologia contemporanea più aggiornata in senso evoluzionistico-darwiniano. Si può dire infatti che nella vita organica si dà origine a processi cognitivi solo come reazione a disturbi, frizioni e collisioni che impattino un organismo dall’esterno lo obblighino a dare significato e definizione a un contesto disgregato e frammentato. Ben lungi dall’essere percezione passiva, la conoscenza è così costruzione e assegnazione di senso ad un reale che altrimenti persisterebbe in una condizione di frammentazione e aporeticità. È cioè l’interpretazione, intenzionata dal conatus sese servandi di un organismo vivente che mette in atto tutte le sue pratiche possibili di adattamento ecologico all’ambiente nel quale si trova a vivere. Ed il senso, nel suo significato biologico originario, è appunto la risposta alla deformazione che un organismo vivente subisce e patisce dalla variazione e dalla complicazione potenzialmente costante del suo ambiente di vita.

Come scrive assai lucidamente al riguardo Giuseppe Longo, matematico, informatico ed epistemologo della biologia:

È sempre un organismo, come unità, che agisce e si muove, che attribuisce significato a un segnale in arrivo o a una perturbazione. I ‘cambiamenti correlati’ indotti da un colpo – una parafrasi delle ‘variazioni correlate’ di Darwin all’interno degli organismi e all’interno di un ambiente – sono resi possibili solo dall’unità dell’organismo e dalla sua storia in un ecosistema. La formazione del senso è dunque storica, a cominciare dalla storia filogenetica e poi da quella ontogenetica, compresa l’embriogenesi per gli organismi multicellulari((Giuseppe Longo, “Information at the Threshold of Interpretation Science as Human Construction of Sense”, in A Critical Reflection on Automated Science. Will Science Remain Human?, a cura di M. Bertolaso e F. Sterpetti, New York, Springer, 2019, p. 68. Ma per una più approfondita conoscenza dell’ampia opera di Giuseppe Longo vedi: http://www.di.ens.fr/users/longo.)).

Sono le costrizioni e le criticità che obbligano le dinamiche e la motilità dei corpi viventi a mettere in campo sfide cognitive e interpretative, aggiunge Longo, in tutta l’amplissima scala della biologia organica, dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari fino all’essere umano.

L’agency [L’agire] è all’origine del significato, poiché un segnale, un disturbo, una collisione che impatta un’ameba in movimento ha ‘significato’ per l’ameba a seconda del modo in cui influenza la sua originaria intenzionalità, nel senso che può favorire o contrastare le anticipazioni dell’ameba((Ibidem.)).

Ma quanto descritto è il medesimo processo di generazione del senso, fatte ovviamente le debite distinzioni nella scala dell’evoluzione), quale si dà nell’essere umano, il cui peculiare sviluppo di ampiezza cerebrale consente il darsi di funzioni mentali adeguate a confrontarsi con sfide ambientali quanto mai varie e complesse. Vale a dire che nella specie homo sapiens le pratiche di adattamento dell’organismo vivente all’ambiente giungono a realizzarsi attraverso mentalizzazione, linguaggio e pensiero razionale, in un percorso evolutivo per il quale la stessa ragione discorsiva e concettuale nasce e si sviluppa, senza alcun primato o autonomia dalla necessità biologica di conformarsi a un ecosistema quanto mai esteso e diversificato.

C’è indubbiamente una distanza enorme, in realtà parecchie “transizioni critiche” – scrive G. Longo – tra tale formazione biologica del senso, quale azione e reazione di un organismo in un ecosistema, e le costruzioni significative della conoscenza umana. Eppure, le dinamiche evolutive e storiche della formazione della conoscenza hanno le loro radici, e le loro condizioni di possibilità, in questi aspetti primari della vita: la cellula eucariota in movimento, l’embriogenesi di un organismo multicellulare, la cui unità agente e la cui motilità permettono di interpretare, anzi di forzare ad attribuire significato ai suoi ‘attriti’ deformanti all’interno degli ecosistemi. Per un lungo percorso evolutivo e storico, questa formazione originale del senso, quale deformazione di un’unità agente, diventa costruzione della conoscenza nella comunità umana in comunicazione, con i suoi livelli propri di interazione, ossia con la sua unità più propria((Ibidem.)).

Ciò significa affermare che, anche per quanto concerne l’essere umano, la fonte di ogni semantica dei suoi processi cognitivi – il principio che dà senso alle sue conoscenze e che distingue quindi tra il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto – sta nel mantenimento e nella riproduzione della propria individualità organica. Significa cioè dire che, anche nell’ambito di una semantica umana, il soggetto del senso è l’unità dell’organismo, nelle diverse modalità della sua realizzazione.

In tale ambito di riflessioni risulta esemplare, come ho già ricordato in altri luoghi((Rinvio al mio Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, pp.87-107.)), il passaggio di Spinoza, quanto alla riflessione sui princìpi del bene e del male, da un’etica del conoscere a un’etica del sentire. Come ha assai bene illustrato Emanuela Scribano, nel Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, opera che precede la stesura dell’Etica, Spinoza lega il desiderio alla conoscenza. La conoscenza di ciò che è bene precede e fonda l’attrazione della nostra volontà: “il desiderio è quell’inclinazione che la mente ha verso qualcosa che stima come buono; ne segue che prima che il nostro desiderio si diriga esteriormente verso qualcosa, noi abbiamo già concluso che tale cosa è buona”((Spinoza, Breve trattato, in Opere, a cura di F. Mignini, Milano, Mondadori, 2007, II, 16, p. 161.)). Il desiderio è ciò che consegue dal conoscere, volto verosimilmente verso un principio del bene oggettivo ed esterno alla mente: “il desiderio dipende dal concetto delle cose, […] l’intendere deve avere una causa esterna”((Ivi, II, 17, pp. 166-167)).

Invece nell’Etica, che segue anche se di poco la composizione del Breve trattato, la tesi del rapporto tra conoscere e desiderare si capovolge: “a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere buono; ma, al contrario, noi giudichiamo essere buona una cosa perché vi tendiamo, la vogliamo, appetiamo e desideriamo”((Spinoza, Etica, a cura di P. Cristofolini, Pisa, ETS, 2019, III, Prop. IX, Scol., p. 161.)). Qui il giudizio di valore, che distingue tra bene e male, segue il desiderio e, in tal modo, è a un sentimento, e non a una conoscenza d’intelletto o di ragione, che viene assegnata l’origine dei valori morali. Secondo quanto è teorizzato esplicitamente in Etica IV, Prop. 8: “la conoscenza del bene e del male non è altro che un sentimento di gioia o di tristezza, in quanto ne siamo consapevoli”((Ivi, p. 247)). La gioia è il sentimento dell’aumento della nostra potenza di vita, è il sentimento del “passaggio dell’uomo da minore a maggiore perfezione”((Ivi, “Definizioni dei moti dell’animo”, Parte terza, II, p. 217.)).

Ed è appunto alla minore o alla maggiore intensità di questo nostro sentire, alla capacità di generare laetitia, e non tristitia, che Spinoza affida il criterio per ri/conoscere e distinguere il bene dal male. Appare dunque quanto mai evidente l’enorme rivoluzione teorica compiuta dal maestro sefardita-olandese: soprattutto riguardo ai modelli dell’etica antica e medievale, ma anche nei confronti della nuova filosofia moderna e del cartesianesimo. La fonte dei valori non è un’autorità o un principio di legittimità esterno, a cui ci si deve adeguare o approssimare, ma è una fonte interiore che, proprio in quanto interiore, non attiene a rappresentazioni o a concetti ma a quelli che Spinoza ha definito “affectus”, cioè moti dell’animo o sentimenti.

Ciò che è conoscere per l’essere umano – e non per un occhio divino e disincarnato – è dunque solo un pensiero incarnato. Un pensiero che muove quanto a senso e direzione del suo agire dal sentire quanto gli domanda il corpo, per la propria riproduzione omeostatica al livello più elevato di potenza possibile (il “conatus” di Spinoza), e che, nello stesso tempo, confronta quell’inesauribile e inevitabile domandare con la selezione del mondo ambiente: alla ricerca di quanto possa soddisfarlo, non secondo allucinazione e fantasia, ma secondo concretezza e realtà. Il conoscere cioè non è mai percezione o registrazione/contemplazione di un mondo esterno, già dato, ma è sempre azione, nel senso di interpretazione, selezione e costruzione. Interpretazione, perché deve riuscire ad ascoltare e a decifrare il proprio contenuto emozionale interno. Selezione e costruzione, perché estrae dal mondo esterno solo quei segmenti che si connettono alla realizzazione del suo interesse vitale e che vengono dunque organizzati e sintetizzati secondo la sua preintenzionalità di valori. Il mondo non appare dunque e non prende forma senza una soggettività pre/liminare che lo costruisca attraverso i suoi a priori bio/logici e attraverso la propria anticipazione del futuro, e che fa venir meno, sul piano gnoseologico, ogni empirismo ingenuo di tipo associazionistico.

È Il soggetto che sintetizza l’oggetto e che “crea” il mondo. Ma l’a priori, quale funzione trascendentale di sintesi, deve abbandonare la sua configurazione solo spazio-temporale o logico-categoriale e assumere, ora, una strutturazione corporea. Si fa infatti apriori non logico-epistemologico ma apriori biologico, pur senza perdere in alcun modo l’appartenenza e l’inclusione in una soggettività, secondo quanto prescrive la filosofia di Kant.

Filogenesi e ontogenesi

Ma è pure evidente che nell’incontro tra filosofia, psicoanalisi e biologia, che qui stiamo proponendo, uno dei nodi di fondo sia costituito dal proporre il corpo d’ognuno come fonte originaria e permanente del senso del proprio vivere e, nello stesso tempo, impedire che tale primato corporeo possa implicare un riduzionismo naturalistico, per cui ogni soggettività umana, cioè ogni individualità unica e irripetibile, si annullerebbe nell’eguaglianza della ripetizione del fenotipo e della riproduzione del genere biologico-animale. Perchè il nostro materialismo, che del corpo fa il “primario” e della mente il “secondario”, se intende proporre una mente incarnata, non intende ovviamente rinunciare a un corpo con un elevato grado di individualizzazione e a una conseguente forte affermazione di soggettività.

Ma a risolvere questo non facile passaggio di un corpo che già nella sua dimensione biologica include una dimensione profonda di identità differenziante ci aiuta il ritornare, di nuovo, all’Etica di Spinoza. Precisamente a quello che viene comunemente definito il Trattatello di fisica del Libro II° e che concerne la lunga ed articolata esposizione della Proposizione XIII, dedicata appunto alla composizione e alla struttura del corpo umano. Una fisica del corpo umano, a cui è da premettere una metafisica, perché essendo per Spinoza l’unica sostanza quella di Dio ed essendo Dio l’immanenza dell’intera realtà, esso è l’insieme di tutti i suoi attributi, tra cui quello dell’estensione e del pensiero, di cui corpo e mente umana rappresentano modi, cioè realizzazioni determinate e finite. Da ciò deriva che il corpo ha dignità divina (“Intendo per corpo un modo che esprime in un certo e determinato modo l’essenza di Dio in quanto considerato come cosa estesa”((Ivi, II, Definizione I, p.77))), e che ogni sua componente fisiologica e fisica possiede tale valorizzazione onto/teologica. Tanto più che il corpo umano, essendo sostanza solo quella di Dio, non è sostanza, nel senso di essere qualcosa di compatto, omogeneo e autoconsistente in sé (“all’essenza dell’uomo non appartiene l’essere della sostanza, ossia la sostanza non costituisce la forma dell’uomo”((Ivi, II, Proposizione X, p. 87))), perché il corpo è costituito, invece, da una funzione che lega e connette un complesso di relazioni, ovvero, detto in modo più semplice, da una proporzione che si dà tra i moltissimi individui o corpi semplici che lo compongono (“il corpo umano è composto da moltissimi individui – di diversa natura – [plurimi individui diversae naturae] ognuno dei quali è assai composito”((Ivi, II, Proposizione XIII, Postulato II, p. 99.))).

Nell’orizzonte della fisica di Cartesio, in cui ragiona ancora Spinoza, e secondo cui le dimensioni fondamentali del mondo esteso sono movimento e quiete, tale proporzione che struttura il corpo spinoziano è costituita dalla relazione che si dà in ogni corpo complessivamente tra la quantità generale di movimento contenuta in esso e la quantità generale di quiete. Cioè ogni corpo complesso è identificato e definito da una frazione, che pone in rapporto una quota determinata di movimento con una quota determinata di quiete. Ma con l’aggiunta che quella frazione è a sua volta funzione delle numerosissime frazioni di moto e quiete che definiscono le molte individualità, i “plurimi individui diversae naturae”, che compongono il corpo in questione.

Ora è appunto quella proporzione (quella determinata “ratio, secondo il lessico spinoziano) che costituisce il luogo di fondazione e il principio d’individuazione di ogni corpo umano. Essa è la chiave, la ragione, del suo mantenersi e permanere, secondo quanto viene affermato da Spinoza nella Prop. XIII, Definizione. “Quando un certo numero di corpi della stessa o di diversa grandezza subisce dagli altri una pressione tale che essi si debbano addossare gli uni agli altri, oppure si muovono allo stesso o a diversi gradi di velocità in modo tale da trasmettersi reciprocamente il movimento secondo una certa regolarità (certa quaedam ratio), diremo che quei corpi sono uniti tra loro e che tutti assieme compongono un solo corpo o individuo, il quale si distingue da tutti gli altri in virtù di questa unione di corpi”((Ivi, p. 97.)).

Come ha bene argomentato quel grande studioso di Spinoza che è A. Matheron, la composizione multipla di quella funzione che individua un corpo complesso, essendo composta di molte funzioni, esprime i gradi di variazione massima e minima all’interno dei quali si possono modificare le relazioni tra le diverse componenti interne, senza che venga messa in questione la sopravvivenza di quell’organismo((A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Paris, Les Editions de Minuit, 1988, pp. 63-78.)). Per la natura stessa di una proporzione, all’interno dell’insieme organico si può dunque tollerare una variazione di quiete o di movimento in una componente a patto che quella variazione sia compensata da variazioni in senso opposto nelle altre componenti. Cosicchè a Spinoza può essere legittimamente attribuita una forte valorizzazione del principium individuationis, di contro l’accusa di panteismo monistico che gli muoverà successivamente Hegel((Sulla connessione tra principium individuationis e individualità dei corpi cfr. F. Toto, L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza, Milano-Udine, Mimesis, 2014.)). Ogni corpo infatti, nella sua visione, nasce e si costituisce attraverso una determinata cifra, una determinata proporzione, che, diversa da quella di tutti gli altri corpi, è propria di una sola individualità e che nello stesso tempo è capace di accogliere dentro di sé ampi gradi di differenziazioni e variazioni, purchè compatibili con la persistenza e salvaguardia della sua ratio individualizzante.

Quello che è riuscito a pensare dunque Spinoza, a partire dalla sua valorizzazione di ogni corporeità come modalità in atto del divino e dalla sua concezione antisostanzialistica di ogni corpo come individuo di molti individui, è stata una concezione del corpo, vorremmo aggiungere noi, come societas, come relazione e integrazione di molte individualità, che devono mantenere tra loro pari dignità e simmetria, pena la disgregazione e la morte della sua unitaria organicità. Ma, va subito detto, una teoria del corpo, quella spinoziana, che per la sua natura di funzione di funzioni e non di sostanza, è societas interna in quanto, in pari tempo, è societas esterna, giacchè per la loro sopravvivenza i molti uno dell’Uno hanno bisogno di una società esterna parimenti ricca e differenziata che possa dare alimento, energia e cura, a ciascuno di essi.

Vale a dire che il principium individuationis è così forte nel pensiero di Spinoza da rifondare e arricchire anche il concetto di società. Società interiore e società esteriore coesistono, si confrontano e si riflettono l’una nell’altra. Affinchè non vi sia tristitia, atrofia di componenti vitali, dispotismi e asimmetrie, nella società interiore della corporeità è necessario che quel corpo complesso viva in un ambiente esterno, in una societas esteriore, che non sia univoca e monocorde, ovvero che non sia bloccata in forme e pratiche di vita reiterativamente identitarie, ma che sia multiversa e multiculturale, valida per la sua differenziazione ad alimentare le molteplici differenze della societas interiore.

Il corpo umano – come scrive il grande intagliatore di lenti – ha bisogno, per rigenerarsi, di moltissimi altri corpi, dai quali viene di continuo quasi rigenerato((Spinoza, Etica, op. cit., II, Prop. XIII, Postulato IV, p. 99.)).

Così individuo e comunità, ma comunità nel duplice senso di comunità interiore e comunità esteriore, nell’Etica di Spinoza vanno insieme. Ogni individuo è caratterizzato e distinto, da tutti gli altri individui, a mezzo di una costituzione corporea specifica. Assumerla a principio e riconoscerla, nella sua potenza di vita, significa vivere secondo letizia. Negarla e disconoscerla significa vivere secondo tristitia. Ma laetitia e tristitia, quanto a possibilità di una riproduzione omeostatica al massimo livello possibile di quel corpo vivente, rimandano, appunto, al policulturalismo o, viceversa, al monoculturalismo di una comunità di corpi esterna, che può dare alimento a quella potenzialità biologica o, al contrario, reprimerne e impedirne il passaggio da potenza ad atto.

Del resto, ben oltre la originalissima teorizzazione spinoziana, va ricordato l’ampio convergere contemporaneo, teorico e di ricerca tra scienze biologiche, scienze psicoanalitiche, medicina e antropologia quanto al nesso tra costituzione corporea e individuazione. Il tema di una soggettività biologica viene infatti sempre più approfondito non tanto e non solo quanto a catene di eredità genetiche che trasmettono nel corpo individuale la storia delle generazioni che l’hanno preceduto ma anche quanto a formazione/deformazione del corpo in questione in base all’agire di un “inconscio transgenerazionale”, che, a partire dal contesto primario di cura, sollecita nel bambino una determinata struttura di costituzione fisica rispetto ad altre.

Informazione e conoscenza

A conclusione di questo rapidissimo excursus spinoziano, quello che qui dunque va sottolineato – rispetto al tema più vasto della presunta identificazione tra informazione e conoscenza che connota l’ideologia informatica – è che è sempre da un organismo di corpo vivente, dalla riproduzione della sua unità nel confronto con la problematica del mondo-ambiente, che nasce il senso ultimo dell’agire e del conoscere. È sempre e solo l’unità di un organismo, con la sua necessità di sopravvivenza e di trascorrere da tristitia a laetitia, a costruire e a dare senso al mondo, anticipando nel progetto del futuro il significato dell’azione, anche conoscitiva, da scegliere e comporre nel presente. E a tal proposito è opportuno ritornare a Giuseppe Longo e a quanto egli scrive sulla differenza radicale che si dà tra la costruzione e lo sviluppo di un organismo vivente, che procede sempre attraverso differenziazione di una unità, e la costruzione di una macchina in generale che procede attraverso assemblaggio di parti o, particolarmente con la computing machine, attraverso spostamenti a destra o a sinistra sull’asse dell’alternanza di ‘0’ e ‘1’:

Per quanto riguarda il confronto tra organismi e macchine, compresi i computer, si noti che l’embriogenesi si ottiene per riproduzione con differenziazione (reproduction with differentiation) da un singolo organismo, lo zigote. In ogni fase dell’embriogenesi la riproduzione delle cellule preserva l’unità dell’organismo. La differenziazione non ha nulla a che fare con l’assemblaggio di parti, elementari e semplici, con cui costruiamo qualsiasi artefatto. Un bambino non si ottiene attaccando una gamba, incollando un naso, introducendo un occhio in un buco, ma mediante differenziazione riproduttiva delle singole cellule. Così, ad ogni fase, l’unità dell’organismo è preservata ed è un soggetto di senso. Per cui le sensazioni e le reazioni ad esse acquistano significato in relazione al livello proprio dell’individuo in formazione, venendo appunto interpretate. Ciò è radicalmente diverso dall’assemblaggio per pezzi di qualsiasi macchina, che preclude la formazione costitutiva del significato come interpretazione della “deformazione” di un’unità biologica auto-construtturata, differenziantesi e auto-conservantesi nell’ambito della sua correlazione con un ambiente. Una “interpretazione” è sempre il risultato di una costruzione storica e contestuale del senso: storie diverse, come l’embriogenesi e l’assemblaggio, producono significati diversi((G. Longo, Information at the Threshold of Interpretation, op. cit., p. 68.)).

Ciò che ritorna in questo passo è il tema cruciale della distanza tra una onto/antropologia del continuo e misurazioni e codificazioni che si basano su intervalli e discontinuità. L’essere umano per la continuità della sua vita, già s’è detto, ha un indispensabile bisogno e necessità di codificare. Di estrarre cioè delle invarianti dalla interazione costantemente mutevole e in divenire tra il suo organismo vivente e l’ambiente circostante: ossia dei patterns di comportamento o universali che possano valere per l’orientamento del suo agire con valenza ripetitiva e indipendente da un’esperienza singola e circostanziata. La concettualizzazione, quale capacità appunto di produrre gli universali, è facoltà intrinseca alla mente umana e alla necessità del suo adeguarsi a un contesto di realtà estremamente più complesso e variabile di quanto riescono ad affrontare le altre specie viventi. Il linguaggio naturale è la prima forma di codificazione e, insieme di trasmissione/comunicazione, delle invarianti dell’esperienza e come tale è matrice indispensabile della vita della mente, dal sentire al conoscere, dal sentimento al concetto e alla sua comunicazione. Ma altre codificazioni seguono e derivano da quella linguistica, a seconda del grado di astrazione e generalizzazione che possono raggiungere: secondo la diversa natura degli universali che li caratterizzano, da quelli delle scienze della natura a quelli delle scienze storico-culturali, fino alla codificazione più astratta e numerica delle scienze geometriche e matematiche.

Ne consegue che possiamo definire “informazione” il complesso delle invarianti, nella loro diversità di natura e contenuto, in quanto conoscenza che può essere trasmessa e generalizzata. Ma, appunto, tale informazione per essere realmente conoscenza deve essere interpretata, cioè ricondotta a valere ed operare in un contesto di vita del tutto specifico e determinato, che torni ad assegnare a quell’universale il suo significato concreto ed emozionale a fronte di questioni e problemi da elaborare e risolvere.

Da questo punto di vista si potrebbe dire dunque dire che tanto più la conoscenza si trasforma in informazione – informazione che può essere codificata, trasmessa, infine oggi matematizzata e calcolata – quanto più quel conoscere si allontana e si astrae dalla sua motivazione corporeo-emozionale. Tesi che va sostenuta, senza ovviamente cadere nell’estremizzazione della confutazione della ragione operata da Nietzsche e in una attribuzione del principio di verità/realtà alla sfera del solo sentire di contro ad un effetto di falsità assegnato strutturalmente alla conoscenza linguistico- concettuale. Giacchè linguaggio e concetto sono invece indispensabili a che il cucciolo dell’uomo abbandoni una modalità primaria della mente e, confrontandosi con la realtà, giunga a provvedere ai suoi bisogni. Come ha ben argomentato Freud è infatti solo la funzione del linguaggio a consentire alla mente di sottrarsi alla pretesa di un soddisfacimento immediato, di necessità solo allucinatorio, della propria bisognosità e di relativizzare l’assolutezza del principio di piacere attraverso la discorsività linguistica: la quale, agganciando la scena del desiderio alla catena del linguaggio, la sottrae appunto alla sua assolutezza e la relativizza connettendola con altre parole/immagini.

Ma proprio questa teorizzazione freudiana ci conferma che il linguaggio viene in qualche modo dopo nella vita della mente. Viene dopo la bisognosità corporea dell’essere umano, con la funzione peculiare di simboleggiarla, di farla venire cioè alla luce della mente e del suo riconoscimento, per mediarla con le condizioni e le possibilità della realtà esterna.

Quello che vogliamo cioè dire, in questo passaggio teorico assai delicato, è che la mente umana, essendo sempre mente di un corpo, non può mai ridursi ad essere mente solo linguistica. La funzione linguistica – come ha ben teorizzato appunto Freud con la sua distinzione tra “rappresentazione di cosa” (Sachevorstellung) e “rappresentazione di parola” (Wortvorstellung)((Cfr. S. Freud, L’interpretazione delle afasie. Uno studio critico, trad. it. a cura di F. Napolitano, Macerata, Quodlibet, 2010, particolarmente pp. 90 -132. Sulla distinzione freudiana tra Sachevorstellung e Wortvorstellung mi permetto di rinviare anche al mio “Perché l’inconscio non è strutturato come un linguaggio” in Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi e altri scritti, a cura di R. Finelli e P. Vinci, Roma, Newton Compton, 2010, pp. 7-25.))- è sempre connessa con una funzione rappresentativa a-linguistica, formata dalle immagini psichiche dei cinque sensi esterni e insieme dall’immagine psichica del senso interno, costituito, come abbiamo fin qui detto, dalla rappresentanza emozionale del corpo nella mente. In questo senso la valenza universale del significato della parola/linguaggio, che le deriva dall’essere parte di un codice sociale, s’intreccia con la valenza particolare del significato emozionale-corporeo che appartiene alla più propria e incomparabile esperienza interiore. E proprio per tale connessione – e dunque per la priorità biologica della formazione e della nascita del corpo rispetto all’acquisizione della capacità linguistica – il senso come sentimento idiosincratico interno dirige e dà senso al significato linguistico di codificazione sociale. Vale a dire che la primaria funzione simbolica dell’essere umano, ben prima di quella del linguaggio, appare essere quella del corpo che si fa simbolo a sé medesimo nel suo presentarsi alla mente attraverso la rappresentanza emozionale del sentire: simbolo, appunto, che, in quanto frontiera tra il quantitativo e il qualitativo, ha da essere oggetto di un’ermeneutica, di un’interpretazione. Ma appunto interpretato e compreso, attraverso l’intervento, insostituibile, della simbolizzazione della parola/linguaggio che nel momento stesso in cui interviene con la valenza universalizzante del linguaggio naturale, consente all’invasività dell’affetto corporeo di sottrarsi al contesto solo autistico-idiosincratico e di entrare mitigato nella vita della mente, sospendendosi alla catena discorsivo/riflessiva delle parole.

Senza questa connessione tra le due tipologie di linguaggio, il linguaggio non verbale del corpo e il linguaggio verbale della lingua naturale, non si dà effettivo funzionamento alla vita della mente, ovvero si dà vita a un pensiero che, astratto dal corpo, può comporre solo codici e universalità astratte, cioè a pensieri che si connettono tra loro secondo princìpi di una connessione logica solo formale, solo verbale-discorsiva. Se quale fonte e verifica ultima dei significati dei linguaggi naturali – fino a includere in questo orizzonte di senso anche le invarianti e gli universali della conoscenza scientifica- non rimane l’ineffabilità del corpo, il pensiero non può che acquisire un senso meccanicistico, ovvero in altri termini, ma è dire sempre la medesima cosa, acquisire un senso di potenza e autosufficienza infinito, proprio perché liberatosi, attraverso cancellazione, dai limiti e dal peso di ogni corporeità.

Ma è dunque proprio questa pretesa indipendenza e dissociazione della mente dal corpo, questa supposizione fallace di un pensiero che, per esser tale, non abbia bisogno di elaborazioni di dati sensoriali, che sta alla base di quella che, per ritornare all’inizio del nostro discorso, abbiamo definito l’ultima delle ideologie, nello scambio che surrettiziamente propone tra informazione e conoscenza. Il programma di un computer processa i dati d’ingresso secondo un insieme di regole del tutto formali, che, per il loro formalismo, non devono far riferimento ad alcun significato. La trasformazione dei linguaggi naturali in linguaggi alfa-numerici consente la possibilità di calcolare segni, alla fin fine, matematici secondo le regole di un calcolo che muove dal codice binario fatto di “O” ed “1”. L’informazione in questo modo viene trasformata in stringhe di segni che vengono elaborate obbedendo al principio primario della non-contraddizione e alle regole formali del calcolo matematico. Queste regole costituiscono le sintassi delle processualità informatiche, che possono variare quanto a tipologia di linguaggio di calcolo prescelto, ma che sono tutte necessariamente sintassi senza semantica, giacchè le loro modalità di muovere segni rispondono solo alla regola di fondo di comporre nessi ed operazioni di calcolo, evitando la contraddizione.

È d’obbligo in questo senso ricordare che simboli alfabetici e numeri non si danno in natura e che appunto, per questa loro peculiarità di segni privi di materialità, possono essere ordinati e strutturati in sistemi formali, codificati cioè secondo regole determinate di coerenza interna e di calcolo, che, come tali, non hanno mai necessità di attingere ad una semantica di significati. La caratteristica precipua dell’intelligenza artificiale e delle logiche computazionali che ne stanno alla base è infatti quella del formalismo: ossia di una sintassi, che attraverso regole matematiche e topologiche, scrive e ri-scrive, a secondo dei livelli di elaborazione e calcolo, un insieme di segni. Dopo aver tradotto appunto la continuità dell’esperire umano e la fluidità del suo costante variare nella discontinuità spaziale del codice, che appunto necessita dell’esteriorità dello spazio per codificare secondo l’alternanza e la giustapposizione degli “0” e degli “1”. Ma stringhe, topologie e architetture spaziali di segni che lavorano secondo una sintassi di regole precise di spostamento e di calcolo non possiedono di per sé una semantica, che deve essere loro altresì assegnata dalle intenzioni e dalle utilità specifiche del programmatore che istituisce ed organizza la modalità di una determinata accumulazione ed elaborazione di dati.

L’informazione informatizzata non può dunque stare da sola, non può essere autonoma. Ha bisogno dell’interpretazione, cioè di una attribuzione di senso, che non può derivare dal suo formalismo di regole computazionali. Conviene di nuovo citare in tal senso Giuseppe Longo: “Disumanizzare la scienza sottraendo le sue nozioni all’interpretazione e alla teorizzazione umana non funziona. Tutto dipende quindi se la nozione di informazione cui fa riferimento un autore oltrepassi o meno la soglia dell’interpretazione”((G. Longo, Information at the Threshold of Interpretation, op, cit., p. 75. La distinzione fondamentale tra informazione e interpretazione introdotta da Longo mi sembra non venga messa in discussione neppure dalla realizzazione e dal funzionamento, per ora molto problematico, del cosidetto “quantum computing”. Mentre i computer classici codificano e calcolano informazioni attraverso i bit (binary digit), che attraverso l’alternanza di “0” e “1”, aperto e chiuso, danno luogo a un processo di calcolo lineare, il quantum computer, che sfrutta la fisica e la meccanica quantistica, utilizza come unità d’informazione il qubit, che può avere contemporaneamente sia il valore “0” che il valore “1”. Attraverso il calcolo parallelo, ossia la sovrapposizione, nello stesso istante, di più linee di calcolo, il qubit si trova nello stesso tempo in più stati diversi. Il che significa che il computer quantistico è in grado di processare un numero molto più ampio di soluzioni per un singolo problema, con una velocità di calcolo e una ottimizzazione combinatoria incomparabile con il calcolo sequenziale del computer classico. Sfruttando proprietà peculiari della fisica quantistica come la sovrapposizione di stati e la indeterminazione della particella elementare, in quanto esistenza simultanea di tutti i suoi stati possibili, il computer quantistico amplia enormemente le possibilità di codifica delle informazioni, trovando la migliore soluzione fra tutte le soluzioni fattibili. Se, lanciata una moneta in aria, il computer classico registra, una volta caduta a terra, una faccia o l’altra, il computer quantistico codifica una moneta a terra che continua a girare su sé stessa, fino a che la nuvola di probabilità collassa, secondo il gergo dell’informatica quantistica, in una misurazione, la più ottimale possibile, che bloccherà la rotazione, obbligandola a mostrare una delle sue facce. I computer quantistici sono in uno stato di ricerca e di applicazione ancora iniziale, dati l’enormità dei costi dovuti anche alla grandezza dei problemi di raffreddamento dei circuiti, prossimo allo 0 assoluto (pari a -273,15 gradi Celsius), necessari a proteggere da radiazioni e influenze esterne la fragilità e l’estrema instabilità dei qubit. Ma ciò che qui interessa dire, al di là di competenze che non sono certo di chi scrive, è che la sovrapposizione e la moltiplicazione contemporanea di linee di calcolo non supera comunque lo statuto intrinsecamente discreto del calcolare. Vale a dire che, malgrado l’enorme quantità di relazioni e di correlazioni, anche il computer del futuro (posto che sia quello quantistico) non sarà in grado di sviluppare e correlare significati. Posto che il significato rimanda, come si prova ad argomentare in questo testo, allo statuto di continuità della relazione tra corpo biologico-emozionale e mente, alla penetrazione costante del sentire nel conoscere, ed alla irriducibilità, per questo asse verticale, della nostra mente alla rete neuronale del nostro cervello.)).

Il linguaggio tra l’Uno e il Bino

Le considerazioni che si sono svolte sin qui poggiano, com’è evidente, sulla peculiare relazione che s’è posta tra senso e linguaggio. Per noi il linguaggio non pone, non crea il senso, ma lo esplicita, lo rivela. Il senso è del corpo, è nel corpo. Vale a dire che il linguaggio, nella sua funzione positiva, lo porta alla luce mettendolo in una relazione di ricambio organico con la configurazione della realtà esterna e delle sue istituzioni, e dandogli dunque significato. Nella sua funzione negativa lo nasconde e lo reprime, astraendo dalla sua fonte corporeo-emozionale più profonda e consegnandosi, quanto a significato, al senso obbligato e deindivualizzato di realtà e istituzioni.

La rimozione di questa connessione senso/significato, senso alinguistico e significato linguistico, è stata alla base della svolta linguistica, celebrata e frequentata da buona parte della filosofia del ‘900, ossia della tesi, che nella sua schematicità essenziale, ha proclamato che l’“Essere è linguaggio”. Laddove per noi, seguendo la tradizione migliore della psicoanalisi, inaugurata da Freud e approfondita sul medesimo piano di rigore teoretico dalla scuola inglese di Klein e Bion – oggi riattualizzata e ripensata da autori come Armando B. Ferrari e Riccardo Lombardi – quello che viene proposto come base ultima della fondazione del senso è l’umanità del corpo e la sua composizione biologica ed emozionale. È il corpo interpretante che va assunto, in conclusione, come matrice originaria di ogni interpretazione.

Altrimenti se, sull’asse verticale di costituzione dell’umano, non ci si ferma e non ci si trattiene nel corpo, si precipita nell’abisso della differenza ontologica di Heidegger, con la sua riproposizione nel cuore della cultura moderna di una categoria così arcaica e logorata della filosofia antica e della scolastica medioevale, come quella di Essere.

Il riferimento critico alla filosofia del pastore dell’Essere è qui imprescindibile perché la legittima sua ricerca di un’ermeneutica del senso che si liberasse dai limiti di un pensiero solo scientistico-calcolante, ha finito coll’aprire, a dire il vero, una voragine di regressione culturale attraverso la quale si è infilata buona parte della cultura postmoderna. Lo sfondamento dell’esistenza umana nell’arcaicità ontologica del principio dell’Essere, ben al di là del dualismo del Bino nell’Uno tra mente e corpo, sottraendo ogni materialità e conclusività di fondo alla soggettività umana, ha compiuto il “miracolo” di reintrodurre la trascendenza religiosa dell’antico e del premoderno nel cuore della nostra modernità, anzi della postmodernità. Infatti attraverso la riformulazione geniale, quanto luceferina, della massima filosofia novecentesca dell’immanenza, qual è stata quella di Edmund Husserl, il filosofo di Messkirch è stato in grado di concepire una fenomenologia dell’affettività, che sembra approfondirsi nella tematizzazione delle emozioni più proprie dell’umano, e dunque in un’antropologia quanto mai laica, antilogicistica e corporale. Laddove il privilegio emozionale è assegnato, a ben vedere, alla sola angoscia, come espressione emotiva dell’esser-per-la-morte, con la forte implicazione alla trascendenza ontologica dell’Essere che quella condizione emotiva comporta. Vale a dire che attraverso un argomentare e un dispositivo fenomenologico Heidegger è riuscito a riproporre un impianto ontologico, istituito su una categoria filosofica pure così estenuata e così obsoleta come quella di “Essere”((Sulla critica della categoria di Essere, come esito di una ipostatizzazione arcaica del linguaggio e di una tradizione indebita di una “parola” in una “cosa”, si vedano gli studi imprescindibili sull’origine della filosofia antica di G. Calogero, Storia della logica antica. I. L’età arcaica, Bari, Laterza, 1967; Id., Studi sull’Eleatismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977.)). E, sfondando in tal modo ogni possibile fondo dell’umano, ha legato le sorti di ogni esistenza personale come di ogni epoca storico-sociale all’imprescrutabile e indefinibile arbitrarietà di un Essere, che per noi altro non è che l’esito di una reificazione arcaica, cioè di una parola trasformata e ipostatizzata in sostanza e soggettività di cosa.

È dunque fondamentale per una antropologia filosofica, che sappia essere all’altezza della nuova era tecnologica del mondo digitale, essere in grado di ben distinguere il dualismo originario e fondante che sta a base dell’esistenza umana. È cioè necessario lasciar cadere, come categoria costitutiva di un modernismo reazionario, la differenza ontologica teorizzata da Martin Heidegger e lasciar introdurre invece la differenza che si istituisce in ogni essere umano tra fisicità del corpo e attività della mente, mettendo a tema l’ampiezza delle forme che si possono dare nella connessione o, viceversa, nella disconnessione e separazione tra un corpo che pretende alla riproduzione improcrastinabile dei suoi bisogni vitali ed una psichicità che nasce per contenere, e nello stesso tempo realizzare, quella bisognosità corporea, mediandola con le possibilità di soddisfacimento reale offerte dal mondo-ambiente. È la differenza che Armando B. Ferrari ha concettualizzato, come già si diceva, come la compresenza dell’Uno e del Bino, ossia come la vicenda di un corpo (definito come Uno, per la sua continuità e coerenza organica) e di una mente che, quale funzione che nasce per la conservazione della vita, ha come oggetto del suo pensare in primo luogo null’altro che il proprio corpo, per cui in tale “riflettere su quell’Uno” si costituisce come intrinsecamente Bina. Ovviamente potendosi dare, in tale dualità di relazione interiore, l’incontro tra l’Uno e il Bino, così come, all’opposto, non darsi, implicando tale polarizzazione di estremi, tutte le possibili relazioni di riconoscimento e dialogo, di opposizione e conflitto, di dominio e di odio, di composizione e di amore che connotano la vita interiore d’ognuno. Ma con l’esplicita acquisizione, da parte nostra, che se di dualismo si deve parlare, lo si può fare sensatamente solo ritraducendo l’ontologico heideggeriano nell’antropologico freudiano-psicoanalitico, vedendo la mente umana come “un perenne tentativo di comprendere la propria essenza fisica”. E con la conferma che la radice prima ed ultima del nostro senso della vita – appunto nel verso di ciò che dà la direzione – sta nella nostra corporeità emozionale, nelle movenze dei suoi affetti quali rappresentanti nella psiche delle proprie vicissitudini fisico-chimiche, dei propri processi bio-fisiologici. Quel senso precedente il linguaggio di cui si diceva sopra, e che il linguaggio non deve creare ma solo portare alla luce, portare ad espressione, immettendolo in un contesto di rappresentazioni infrapsichiche e di relazionalità intersoggettive, che vengono a loro volta intenzionate e rese significative appunto dalla tensione unificante generata da quella originaria potenza pulsionale. Anche qui per sottolineare quanto la differenza interiore dell’Uno e Bino sia determinante e risolutiva nell’affrancarci dalla differenza ontologica di Martin Heidegger e, specificamente dall’assolutizzazione e dalla metafisicizzazione del linguaggio che ne ha derivato il pastore dell’Essere.

In Heidegger il linguaggio è infatti onnipervasivo della vita umana, non lasciando spazio alcuno né senso a una dimensione extralinguistica dell’esperire.

L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola […] In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo perché il parlare ci è connaturato […] Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo((M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1988, p. 27.)).

L’essere umano per Heidegger vive da sempre nel linguaggio, è da sempre in una permanente dimensione linguistica: condizione che rende impossibile trascendere lo stesso linguaggio così come renderlo oggetto di riflessione e di un metalinguaggio, secondo quanto pretendono di fare linguistica e filosofia del linguaggio. Tale intrascendibilità del linguaggio ne fa la condizione originaria del nostro vivere ed esperire perché attraverso l’atto linguistico noi apriamo il mondo e facciamo giungere all’apparire ogni possibile ente. “Là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale, non ha neppure luogo alcun aprimento dell’ente. […] Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione”((M. Heidegger, Sentieri interrotti (Holzwege), trad. it. di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 57.)). Il linguaggio, costituendo l’orizzonte entro cui le cose vengono all’essere, è così “la casa dell’Essere”: casa di cui l’essere umano, a ben vedere, non può essere possessore ma solo ospite o persona di servizio, dato che, per la sua intrinseca coalescenza con l’Essere, gli uomini sono “die zum Sprechen der Sprache gebraucht” (gli usati dal linguaggio per parlare). Vale a dire che non sono essi che possiedono il linguaggio, bensì è il linguaggio che possiede gli esseri umani.

Di contro, nella prospettiva della differenza antropologica dell’Uno e Bino che stiamo tematizzando, il linguaggio non porta alla luce il senso dell’Essere bensì porta alla luce il senso del corpo pulsionale nello stesso momento in cui mette in connessione la sua intenzionalità biologico-emozionale con l’ambiente ecologico-sociale del mondo esterno, attraverso i significati culturalmente e socialmente acquisiti propri delle sue stesse parole. Il linguaggio, come ha insegnato Wittgenstein, implica, nelle sue parole, norme e valori, modalità di azione e di prassi secondo convenzioni e norme sociali. Nell’antropologia dell’Uno e Bino il linguaggio è tutto questo, ma è contemporaneamente connessione di significato e di senso. Ossia è mediazione tra principio di piacere e principio di realtà, perché porta alla luce il senso e l’intenzione dell’affetto con un atto di nominazione che tiene conto, già nel suo stesso discorrere, delle possibilità, insieme materiali e normative, che il mondo ambiente offre o non offre di soddisfacimento a quell’intenzione originaria.

Ma su tutto ciò dovremo tornare, perché è proprio su una possibile divaricazione costante tra luogo e funzione del senso e luogo e funzione del significato che si gioca quella separazione tra semantica e sintassi che pare caratterizzare i processi di matematizzazione e di calcolo delle informazioni all’interno delle nuove tecnologie digitali. Senza col dire ciò ovviamente che si voglia aderire a un’improponibile e regressivo rifiuto dello sviluppo macchinico e tecnico. Ma avendo bene la consapevolezza che non può essere funzione e possibilità delle macchine, quale che sia il loro livello di accumulazione ed elaborazione dati, la identificazione e la messa in campo dei valori e delle scelte di fondo che organizzano e regolano le società umane. Giacchè la definizione di un valore attiene non a procedure formali-quantitative ma, in ultima istanza, da ciò che garantisce, sollecita e sviluppa ogni essere umano come Bino di un Uno, ossia come unità fisico-emotivo-mentale, che si prova per tutta la sua vita ad esperire la laetitia della coerenza delle sue parti piuttosto che la tristitia della loro scissura e della loro lotta intestina((Scrive a tal proposito opportunamente Teresa Numerico: “Nelle situazioni in cui gli esseri umani prendono delle decisioni, di solito i contesti sono molto opachi dal punto di vista epistemologico. La stessa descrizione del problema non permette una sua perfetta formalizzazione. Non sempre si applicano regole precise e univoche quando si decide come risolvere casi concreti. Le valutazioni sono il frutto di espressioni cognitive e insieme emozionali, che richiedono capacità creativa e manifestano preferenze soggettive anche implicite. Le scelte sono l’esito di decisioni di cui le persone si assumano la responsabilità, ma che non possono essere davvero confrontate con altre opzioni” (T. Numerico, Big data e algoritmi, cit., p.32. Ma cfr. anche pp. 251-259).)).