L’impresa irresponsabile. Scandali, potere economico e democrazia in prospettiva storica
«Come è potuto accadere che, nella sorpresa generale, obbligazioni Cirio per un controvalore di 1,125 miliardi di euro si siano rivelate carta straccia? Una prima risposta si trova appunto nella scarsa insistenza con cui si tenta di fare chiarezza su simili vicende prima che la verità si perda definitivamente». Così, alla fine del 2004, Massimo Mazzoni, esaminando a volo d’uccello la «deriva del capitalismo finanziario italiano» e proiettando gli scandali del nuovo millennio su un passato più o meno recente costellato di «finanzieri d’assalto, outsider, raider […] da Michelangelo Virgillito a Raffaele Ursini, da Florio Fiorini a Giancarlo Parretti, da Nino Rovelli a Gianni Varasi […] senza dimenticare la stagione di Sindona», sollecitava «lo storico, e in seconda battuta il giornalismo d’inchiesta […] a studiare e indagare» su questi fenomeni((M. Mazzoni, La deriva del capitalismo finanziario italiano: dalla cronaca giornalistica alla ricostruzione storica,«Passato e presente», settembre-dicembre 2004, pp. 127, 138.)). Nei dodici mesi trascorsi da allora, le cronache nazionali non hanno dato respiro agli appassionati della saga del malaffare, con una sequela incalzante di episodi non edificanti, e spesso tali da configurare esplicite ipotesi di reato, culminata nella questione dell’Antonveneta che ha travolto addirittura il vertice della Banca d’Italia. Da quel che si può evincere dai resoconti giornalistici, una volta di più le peculiarità del caso italiano vanno annoverate tra i fattori esplicativi centrali di tali accadimenti((Per un primo orientamento nelle più recenti vicende bancarie e finanziarie italiane, P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Torino, Bollati Boringhieri, 2000; S. La Francesca, Storia del sistema bancario italiano, Bologna, Il Mulino, 2004 e soprattutto R. Costi-M. Messori (a cura di), Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale, Bologna, Il Mulino, 2005. Sulla struttura della Banca d’Italia, D. Masciandaro-G. Tabelloni, La governance della Banca d’Italia, «Il Mulino», novembre-dicembre 2006, pp. 1019-1031.)). Alla luce di questi ultimi sviluppi non si può perciò che rinnovare la sollecitazione di Mazzoni, auspicando sforzi interpretativi che allarghino la recente meritoria discussione sul «declino» dell’apparato industriale e della grande azienda nella penisola((Vedi la rassegna di R. Garruccio, Un sistema sotto sforzo. L’ipotesi del declino industriale italiano, in «Contemporanea», gennaio 2005, pp. 173-183.)) e colmino l’inveterata assenza in Italia di studi sulla storia delle forme di governo del mondo degli affari((Il recente lavoro di sintesi, divulgativo ma informato, di R. Giannetti-M. Vasta, Storia dell’impresa industriale italiana, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 27-28, lamenta esplicitamente il ritardo della nostra storiografia su questo tema.)).
Tuttavia, per quanto l’Antonveneta, la vicenda Unipol, o il caso Parmalat presentino risvolti indubbiamente legati a problemi specifici, di breve e lungo periodo, del sistema produttivo ed economico nazionale, uno sguardo allargato all’ultimo ventennio nel mondo capitalistico avanzato, e in particolare negli Stati Uniti, mostra come le vicende italiane siano tutt’altro che eccezionali o isolate. Esse infatti si affiancano e sovrappongono a un ampio ventaglio di comportamenti – illegali o comunque in vario modo dannosi nei confronti dell’interesse pubblico e della società nel suo insieme, o di suoi segmenti quali i dipendenti di un’azienda, l’azionariato diffuso, i consumatori, l’ambiente – che hanno avuto come protagonisti grandi imprese e operatori di rilievo dell’universo industriale e finanziario, nel cuore della modernità e dell’innovazione più sofisticata: dalle frodi borsistiche di Wall Street degli anni Ottanta ai casi più recenti dei crac Enron e Worldcom((B. Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, Milano, Shake, 1998, pp. 34-37, e Id., Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo, Milano, Shake, 2005, cap. V.)).
Tali comportamenti chiamano prepotentemente in causa il tema, presente a intermittenza nella riflessione e nella pratica sociale del Novecento, della cosiddetta «responsabilità sociale dell’impresa», cioè dei rapporti fra l’impresa, i suoi azionisti, i dipendenti, l’opinione pubblica e l’ambiente sociale e politico circostante. Il tema è stato oggetto negli ultimi anni di un’attenzione esponenziale da parte di economisti, esperti di organizzazione aziendale, consulenti di organismi imprenditoriali e pubblici, statali e sopranazionali. Spesso, però, si è assistito a un prevalere della retorica rispetto alle concrete domande politiche e sociali che la questione implicava((Sul caso statunitense una sintesi nel lavoro del giurista L.E.Mitchell, Corporate irresponsibility: America’s newest export, New Haven, Yale University Press, 2001; su quello italiano M. Magatti-M. Monaci, L’impresa responsabile, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, e M. Magatti, Responsabilità e agire economico. Una pista di lavoro, ,«Studi di sociologia», ottobre-dicembre 1999, pp. 403-424; per un panorama d’insieme, V. Capecchi, Impresa e responsabilità sociale, Roma, Carocci, 2005, e l’istituzionale A. Habisch-J.Jonker-M. Wegner-R. Schmidpeter, Corporate Social Responsibility Across Europe, Heidelberg-New York, Sprinter, 2005. Per gli aspetti legati alle questioni dello sviluppo, la sezione monografica di «International Affairs», 2005, 3.)). Più limitato è stato l’interesse degli storici, anche se recenti sviluppi fra gli studiosi d’oltre Atlantico fanno sperare nella maturazione di un’adeguata attenzione al problema((Vedi il classico lavoro di M. Heald, The Social Responsibilities of Business. Company and Community, 1900-1960, Cleveland, The Press of Case Western University, 1970, e poi A.B. Carroll, Corporate social responsibility, in «Business and Society», September 1999, pp. 268-296, e F. Fasce, La democrazia degli affari. Comunicazione aziendale e discorso pubblico negli Stati Uniti, 1900-1940, Roma, Carocci, 2000. Per l’Italia, ha posto la questione P. Rugafiori, Gerolamo Gaslini: un imprenditore filantropo tra etica e politica, «Contemporanea», luglio 2005, pp. 447-484, e vedi anche R. Garruccio e G. Maifreda (a cura di), Giannino Bassetti. L’imprenditore raccontato, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.)).
In questa rassegna proviamo, perciò, ad assumere la categoria della responsabilità d’impresa come chiave interpretativa, sospinti da un paio di stimolanti sforzi di analisi e riflessione intorno alle aggrovigliate vicende imprenditoriali e finanziarie più recenti, apparsi da poco in Italia. Senza sottovalutare la peculiarità dei singoli casi e la persistente importanza dei fattori nazionali, vorremmo spostare il quadrante della riflessione dalle cronache degli scandali ai processi strutturali, più articolati e corposi, che sembrano esservi sottesi, e ai loro legami con il passato. L’enfasi che porremo sulla situazione statunitense deriva, oltre che dall’attenzione primaria che vi prestano i libri qui discussi, dal fatto che, come si diceva, di recente la storiografia statunitense ha fatto da battistrada sui temi della responsabilità sociale e del governo d’impresa((Vedi più sotto, alle note 23-25, 28, 30-32.)).
Punto di partenza della nostra ricognizione è un libro col quale, nel 2004, lo storico economico Giulio Sapelli, reduce da un periodo di studio trascorso negli Usa per indagare sulla «nuova teoria della classe agiata», ha provato a rileggere lo scandalo Enron, appena compiutosi sotto i suoi occhi. Al momento di licenziare il lavoro, essendo nel frattempo scoppiata la «bolla» Parmalat, Sapelli non ha potuto sottrarsi a un confronto fra le due vicende. Secondo lui, esse rientrano entrambe in un quadro di capitalismo globale caratterizzato da tre elementi, strettamente legati, in varia misura già noti agli studiosi proprio anche grazie a precedenti lavori dello stesso autore((In particolare il pionieristico G. Sapelli, Gruppi d’impresa e trasformazione della sovranità popolare, «Stato e mercato», dicembre 1987, pp. 345-373.)): rafforzamento della comunità degli affari (pur nelle sue significative differenziazioni interne) rispetto ad altre forze e interessi sociali; maggior potere «situazionale» (ovvero «potere che deriva a un attore individuale o sociale […] dalle risorse di cui dispone») del management e crescente finanziarizzazione, nel duplice senso dell’allargamento a dismisura delle operazioni borsistiche, indotto dalla ricerca affannosa di nuove fonti di utili nel mercato globalizzato, e della tendenza per cui «le proprietà delle imprese non finanziarie sono sempre più controllate da gruppi di interesse finanziari»((G. Sapelli, Giochi proibiti. Enron e Parmalat capitalismi a confronto, Milano, Bruno Mondatori, 2004, p. 70. Sulla finanziarizzazione cfr. soprattutto C. Marazzi, E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, e Capitale e linguaggio. Dalla New Economy all’economia di guerra, Roma, DeriveApprodi, 2002.)). Tutti caratteri, questi, che hanno abbassato la capacità di controllo e regolazione della società (nazionale e internazionale) nei confronti del sistema dell’impresa transnazionale. Si sono aperti così allettanti interstizi per nuovi e più spregiudicati tipi di affari, mentre crescevano l’autonomia e l’arbitrio dei vertici delle aziende, in un circolo vizioso di collusioni con le strutture private di certificazione dibilancio che avrebbero dovutoverificarne la correttezza di comportamenti. Il che, prosegue Sapelli, sembra avvicinare pericolosamente quello che egli chiama il «capitalismo dispiegato» degli Usa, in una certa misura capace di autoregolazione, al suo corrispettivo «eurasiatico», «familistico», attraversato da fenomeni castali e più propenso, specie nella sua versione italiana, alle degenerazioni anche di natura strettamente criminale((G. Sapelli, Giochi proibiti, cit., p. 104. Vedi anche dello stesso autore, Cleptocrazia. Il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica, Milano, Feltrinelli, 1994.)).
Dicevamo «sembra» perché, a ben vedere, l’analisi dei «capitalismi a confronto» condotta dallo studioso torinese si risolve in una conferma della sostanziale differenza tra le due situazioni, ovvero della maggiore capacità di risposta, autocontrollo e responsabilità del sistema statunitense. Ne sono prova, secondo Sapelli, tanto le modalità di denuncia e sanzione dei fenomeni di corruzione, quanto la prontezza di reazione legislativa manifestata dai rispettivi sistemi politici. Decisamente diversi sono stati infatti i percorsi di individuazione e segnalazione all’autorità nelle pratiche Enron e Parmalat: interni alla comunità del business e dell’impresa stessa, nella prima; esterni, con azione, dapprima, per quanto tardiva, della Consob, su sollecitazione di un’associazione dei consumatori, e poi giudiziaria, in quella italiana. Per non parlare delle reazioni legislative: alla legge Sarbanes-Oxley – che prevede un forte inasprimento delle pene per il falso in bilancio ed è stata approvata da un ampio schieramento bipartitico del Congresso americano nell’estate del 2002, a soli sei mesi dal crack Enron – ha fatto riscontro nella nostra penisola l’introduzione di una misura di tutt’altro segno, che configura, è stato osservato, la «modica quantità del falso in bilancio»((G. Rossi, Capitalismo opaco, a cura di F. Rampini, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. XV.)).
È indubbiamente giusto rimarcare questa differenza, come hanno fatto notare, del resto, altri autorevoli osservatori((Ibidem, specie l’Introduzione di Rampini e cfr. anche R. Costi-M. Messori, Per lo sviluppo,cit., p. 61.)). Forse, però, occorre metterla temporaneamente da parte per cogliere il passaggio complessivo, nella struttura e nel governo dell’impresa contemporanea, che, all’ombra di questi casi, si va disegnando, come lo stesso Sapelli in fondo, per quanto in maniera sfumata, suggerisce. Questa è la strategia adottata dal sociologo Luciano Gallino in un libro lucido e amaro, dal quale abbiamo preso in prestito il titolo per la nostra rassegna((L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi, 2005.)), e che, nella sua radicalità, è in linea, del resto, con la visione «declinista» dell’attuale condizione industriale italiana manifestata in altra occasione dallo stesso autore((L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi, 2004.)). Secondo Gallino, anzitutto va riconosciuto che «la geografia degli scandali societari non pare avere confini». In secondo luogo, li si può leggere, a suo avviso, solo risalendo pazientemente alle trasformazioni che hanno investito nell’ultimo quarto di secolo il rapporto fra azionisti, manager (direttori-membri del consiglio di amministrazione, con in testa il Chief Executive Officer [Ceo], o amministratore delegato-presidente) e dirigenti operativi (capi delle divisioni funzionali e operative nelle quali l’impresa è articolata). Esse sono state tali da configurare, nelle parole di Gallino, la transizione dal «capitalismo manageriale produttivista» al «capitalismo manageriale azionario». Il primo, dice il sociologo torinese, ruotava attorno all’impresa fordista a centralità manageriale, sull’asse della separazione fra proprietà e controllo. Sotto la spinta delle agitazioni sociali, delle sfide e opportunità del mercato di massa e dell’azione regolativa statale, tale impresa aveva accettato un certo grado di responsabilità sociale e contribuito a elaborare un assetto keynesiano di parziale regolazione pubblica, fondato su contrattazione collettiva e consumi di massa. Il secondo tipo di capitalismo invece ha visto – nel quadro della crisi e della caduta verticale degli utili a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, della globalizzazione e della finanziarizzazione – il ritorno in forze degli attori proprietari (anche e soprattutto di tipo istituzionale, come fondi pensione e fondi di investimento) e l’affermarsi della massimizzazione del valore azionario, di breve e brevissimo periodo, come unico orizzonte-missione dell’azione imprenditoriale. Con gli effetti di volatilità e distruzione di risorse (eliminazione di posti di lavoro, stipendi e pensioni; distruzione di azioni dei piccoli shareholder; attentati alla qualità e quantità dei beni e servizi per i consumatori), perdita di senso di continuità e conseguente tendenza a comportamenti illegali o comunque irrispettosi del benessere collettivo che sono sotto gli occhi di tutti e che inducono Gallino a parlare di impresa «irresponsabile». Un’impresa, cioè, che «al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività»((L. Gallino, L’impresa irresponsabile, cit., pp. VII, XVIII, 44, 47, 95-99, 128. Vedi anche, per alcuni riferimenti storici, A. Casiccia, Il trionfo dell’élite manageriale. Oligarchia e democrazia nelle imprese, Torino, Bollati Boringhieri, 2004)).
In che misura questa tendenza incida già oggi effettivamente in profondità sulla struttura economica d’insieme delle società a capitalismo avanzato e come la si possa affrontare è evidentemente un argomento apertissimo alla discussione e soprattutto alla ricerca. Basti pensare, per tornare al caso italiano, alle analisi di Bonomi e Rullani, che leggono, in controluce, proprio nella «fine dell’uomo dell’organizzazione»((W. Lazonick, Evolution of the New Economy Business Model [inedito, 2005].)) lamentata da Gallino, le nuove opportunità legate alla nascita del «capitalismo personale» dei distretti e dell’economia diffusa((A. Bonomi- E. Rullani, Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Torino Einaudi, 2005, pp. 17 sgg.)). Fenomeni, questi ultimi, che, tuttavia, non sono a loro volta immuni, come ha recentemente notato un esperto in materia quale Carlo Trigilia, dai pericoli delle distorsioni clientelari di «impiego delle reti come strumento di appropriazione particolaristica di risorse pubbliche»((C. Trigilia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 47.)). Né è nostra intenzione avventurarci sul terreno delle lezioni operative e politiche che si possono trarre dal passaggio individuato da Gallino, lezioni per le quali rinviamo il lettore alle numerose, interessanti proposte avanzate sia da Gallino che da Sapelli.
Piuttosto, ci sembra opportuno spostare più esplicitamente il discorso sul piano storico, sottoponendo la ricostruzione contenuta ne L’impresa irresponsabile alla verifica di alcuni significativi contributi provenienti dalla storiografia statunitense, apparsi negli ultimi anni, prima e dopo la pubblicazione del libro, e comunque in esso non utilizzati. Nel contempo, raccogliendo l’importante indicazione di Gallino sul fatto che il tema del governo dell’impresa tocca un nervo scoperto della «democrazia sostanziale» contemporanea((L. Gallino, L’impresa irresponsabile, cit., p. 6.)), proveremo a suggerire una pista per ulteriori ricerche, in chiave diacronica, sulla questione. Esse forse possono arricchire di elementi fattuali e interpretativi l’enorme, ma spesso convulsa, discussione in corso oggi a livello internazionale intorno allo stato e alla direzione di marcia della democrazia. Una discussione convulsa, occorre aggiungere, perché sospesa fra una comprensibile urgenza politologica((C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2004.)) e di dibattito corrente((P. Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica e potere della vita quotidiana, Torino Einaudi, 2004.)); un’acuta, ma in fondo ancora embrionale, riflessione storiografica sui fondamenti intellettuali e politici del concetto stesso di «democrazia»((G. Duso (a cura di), Oltre la democrazia. Un itinerario attraverso i classici, Roma, Carocci, 2004, e il più controverso L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004, su cui si veda la discussione in «Passato e presente», gennaio-aprile 2005. Una recente sintesi in D. Beetham, Democracy, Oxford, Oneworld, 2005.)); e alcuni rilevanti, ma per ora, isolati, tentativi di ricostruzione storica d’insieme che privilegiano il rapporto, politico e sociale, sinistra-democrazia((G. Eley, Forging Democracy. The History of the Left in Europe, 1850-2000, Oxford, Oxford University Press, 2002.)).
Se nella sostanza conferma la transizione individuata da Gallino, la ricerca storica statunitense emersa a cavallo del nuovo millennio fornisce tuttavia alcuni tasselli che meglio definiscono attori e direzione di processi che andranno comunque ancora esaminati in dettaglio, vista l’assenza o la limitatezza delle fonti aziendali attualmente disponibili. Da queste ricerche emerge anzitutto come almeno una parte dei manager, che, nella ricostruzione di Gallino danno a tratti l’impressione di occupare una posizione secondaria rispetto al «ritorno della proprietà», abbiano invece svolto, se guardiamo ai Ceo degli innumerevoli casi di imprese che hanno provato, con successo, a «cannibalizzare» altre imprese, un ruolo decisivo, come del resto indica Sapelli con la sua tesi del loro aumentato potere situazionale. È interessante, però, seguire il loro mutamento di pelle sul piano ideologico, con il passaggio da una logica di direzione aziendale «tecnocratica» e «corporatista» a una di stretta impronta neoliberista – forgiata da economisti aziendali, giuristi e soprattutto analisti del mercato finanziario – di «imprenditori nell’impresa»: capaci di mettere da parte, in nome degli automatismi di mercato e del proprio interesse, ogni senso di responsabilità e di preoccupazione di medio periodo nei confronti di azionisti, dipendenti e futuro della struttura come istituzione((M. Granovetter, Coase Revisited: Business Groups in the Modern Economy, «Industrial and Corporate Change», 1995, n. 1, pp. 125-126; W. Lazonick and M. Sullivan, Organization, Finance, and International Competition, «Industrial and Corporate Change», 1996, n. 1, pp. 44-45; W. H. Becker, Finanza, tecnologia e governance: la recente «rivoluzione» nel management dell’impresa americana, «Imprese e storia», gennaio-giugno 2003, pp. 9-32; E. Englander-A. Kaufman, The End of Managerial Ideology: From Corporate Social Responsibility to Corporate Social Indifference, «Enterprise & Society», ottobre 2004, pp. 404-450.)). Su questo terreno si è prodotta la convergenza((Cfr. la sezione sul tema contenuta nell’annale «Political Power and Social Theory», vol. 17, 2005, in particolare i saggi di F. Dobbin, D. Zorn ed E. Clemens.)) – più oggettiva e occasionale che programmatica, ma non per questo meno gravida di conseguenze in termini operativi – fra tali manager, gli investitori istituzionali (e familiari) e quegli analisti del mercato finanziario, che, oltre a dare un rilevante contributo operativo alle nuove modalità di funzionamento del sistema economico, gli hanno fornito, come si diceva, la base teorica e culturale neoliberista (l’azienda come nient’altro che un insieme di contratti individuali rescindibili in ogni momento)((E. Guthey, Ted Turner’s Corporate Cross-Dressing and the Shifting Images of American Business Leadership, «Enterprise and Society», marzo 2001, pp. 111-142.)).
Ma la ricerca storica statunitense degli ultimi anni contiene anche indicazioni preziose, per quanto ancora non raccolte in un organico quadro d’insieme, rispetto all’intera parabola dell’evoluzione delle forme di governo della grande impresa. Ne traspaiono percorsi analitici più mossi e accidentati, più attenti alla complessa dialettica di continuità e rottura e alle zone grigie fra un modello e l’altro, di quelli disegnati da Gallino. Quest’ultimo sembra infatti suggerire implicitamente una sequenza in tre fasi: dal mondo dei «baroni ladri» ottocenteschi((M. Josephson, Capitalisti rapaci. La grande epopea dell’industria americana in un capolavoro indeito di storia economica: “The Robber Barons”, Roma, orme editori, 2004 [New York 1934]. Per un’immagine critica di Josephson, D.E. Shi, Matthew Josephson, bourgeois bohemien, Yale, Yale University Press, 1981.)), ai manager «weberiani» e «responsabili» dell’universo chandleriano della produzione di massa e del «compromesso keynesiano», all’attuale fase che alcuni apparentano a un «ritorno al futuro» ottocentesco((D. Remnick (ed), The new gilded age: The New Yorker looks at the culture of affluence, New York, Condé Nast, 2000.)). Per quanto suggestiva e utile, tale sequenza e le sue singole scansioni interne vanno probabilmente ripensate, ad esempio prestando più attenzione alle battaglie giuridiche e politiche dalle quali nasce e poi evolve la corporation, con una progressiva curvatura verso il diritto privato, a scapito di quell’origine semipubblica che, secondo alcuni studiosi, giustifica la richiesta di una sua responsabilità nei confronti della società((Una sintesi della letteratura in F. Fasce, Democrazia degli affari, cit., cap. I, da integrare con J. Bakan, The corporation. La patologica ricerca del profitto e del potere, Roma, Fandango, 2004 [New York, 200], e soprattutto B. Young Welker, Recasting American Liberty. Gender, Law, Race, and the Railroad Revolution, 1865-1920, New York, Cambridge University Press, 2001.)). Oppure prestando attenzione all’intreccio di razionalità organizzativa e di pratiche clientelari, non aliene da forme estese di corruzione, che, come mostrano indagini recentissime, caratterizzò il sistema ferroviario tardo ottocentesco, considerato invece tradizionalmente il primo esempio di burocrazia d’impresa e l’anticipazione di quello che Gallino chiama modello manageriale «produttivista»((R. White, Information, Markets, and Corruption: Transcontinental Railroads in the Gilded Age, in «Journal of American History», giugno 2003, pp. 19-43.)). Allo stesso modo, bisognerà ricostruire il complesso magma sotteso all’affermarsi di tale modello, tenendo conto delle esplicite alternative organizzative rinvenibili nei settori e nelle aree, lontane o comunque nella sostanza estranee, alla mass production, che Philip Scranton ha definito di «incessante novità»((P. Scranton, La diversità industriale: sistemi di produzione, mercati e una società del consumatore americano, 1870-1930, «Nuova civiltà delle macchine», 1996, nn. 3-4, pp. 77-95, e Endless Novelty. Specialty Production and American Industrialization, 1865-1925, Princeton, Princeton University Press, 1997.)). Così come occorrerà incorporare il ruolo svolto nell’edificazione dell’impresa moderna, direttamente o più spesso indirettamente, in un’altalena di consenso e dissenso, incontro-scontro, da agenzie di regolazione pubblica((Per una sintesi recente della vasta letteratura sulla regolazione, F. Fasce, Democraziadegli affari, cit., cap. I, da integrare con W.C. Wells, Antitrust and the formation of the postwar world, New York, Columbia University Press, 2002.)), da lavoratori dipendenti, tecnici, consumatori e cittadini(( M. Jacobs, Pocketbook Politics. Economic Cizitenship in Twentieth-Century America, Princeton, Princeton University Press, 2005, e, per uno sguardo comparato, M. Daunton and M. Hilton (eds), The Politics of Consumption. Material Culture and Citizenship in Europe and America, Oxford, Berg, 2001.)). Da quanti insomma, come portatori di interessi in vario modo separati, rispetto alla direzione aziendale, sul piano della distribuzione delle risorse e talora anche fautori di ipotesi di gestione, radicalmente o parzialmente alternative, sottolinearono, con la loro presa di parola, i punti di tensione concreti fra capitalismo e democrazia, fra governo gerarchico di fabbrica ed eguaglianza politica fuori dei suoi cancelli((Primi spunti in A. Casiccia, Il trionfo, cit., e soprattutto in D. Montgomery, Citizen-Worker. The Experience of Workers in the United States with Democracy and the Free market during the Nineteenth Century, New York, Cambridge University Press, 1993; H.J. Harris, Bloodless Victories. The Rise and Fall of the Open Shop in the Philadelphia Metal Trades, 1890-1940, New York, Cambridge University Press, 2000, e Id., Industrial Paternalism and Welfare Capitalism: «Where’s the Beef?» – or «Show Me the Money!», in R. Baritono, D. Frezza, A. Lorini, M. Vaudagna, E. Vezzosi (a cura di), Public and Private in American History. State, Family, Subjectivity in the Twentieth Century, Torino, Otto, 2003, pp. 459-484.)).
Non meno importante delle forme di governo dell’impresa e dei loro complessi rapporti con la liberaldemocrazia in evoluzione nella quale l’azienda operava è, del resto, la questione della corporation come modello di governo estensibile, in tutto o in parte, al resto della società. È un modello delle relazioni sociali tutt’altro che coerente o condiviso per intero dalla stessa comunità degli affari((S. M. Jacoby, Modern Manors. Welfare Capitalism Since the New Deal, Princeton, Princeton University Press, 1997.)). Tale modello – in linea di massima gerarchico-funzionale, tecnocratico, liberista a oltranza e tendenzialmente antipolitico, anche nella fase keynesiana e «corporatista» – probabilmente presenta, però, nel tempo, una diversa configurazione di questi elementi e della loro gerarchia interna. Lo vediamo emergere a tratti, in trasparenza, nelle iniziative di difesa e promozione dell’immagine, della singola impresa e di quella del business nel suo insieme, presso l’opinione pubblica con le attività cosiddette di public relations che accompagnano tutto il Novecento((R.S. Tedlow, Keeping the Corporate Image: Public Relations and Business, 1900-1950, Greenwich, JAI Press, 1979; R. Marchand, Creating the Corporate Soul. The Rise of Public Relations and Corporate Imagery in American Big Business, Berkeley, University of California Press, 1998)). Più recentemente, secondoTheodore Lowi, lo abbiamo visto affermarsi come rampante «governo della corporation», a cavallo delle campagne presidenziali dell’ultimo trentennio, dominate dai comitati elettorali di diretta ispirazione industriale e finanziaria((T. Lowi, La scienza delle politiche, Bologna, Il Mulino, 1999, e Id., Think Globally, Lose Locally, «Boston Review», April/May, 1998. Vedi anche T. Ferguson, Golden Rule. The Investment Theory of Party Competition and the Logic of Money-Driven Political Systems, Chicago, Chicago University Press, 1995.)): tanto da ravvivare il dibattito sulla celebre ipotesi del politologo Charles Lindblom intorno alla costante prevalenza del big business fra i gruppi di interesse in grado di condizionare significativamente la polity((Riassume il dibattito relativo A. McFarland, Interest Groups and Political Time: Cycles in America, «British Journal of Political Science», luglio 1991, pp. 257-284. Vedi anche G. Graziano, Le lobbies, Roma-Bari, Laterza, 2002.)). O, ancora,ne abbiamo sentito un’eco particolarmente significativa sia nelle pratiche di «marketing politico», che vedono la trasposizione di tecniche commerciali e manageriali in ambito elettorale e ormai anche governativo((F. Fasce, Comunicazione commerciale e campagne elettorali negli Stati Uniti del Novecento. Alle origini del marketing politico, «Acoma», inverno 2004, pp. 80-99.)), sia nelle attuali discussioni sulla governance come strada alla democrazia, d’impronta aziendalista e neoliberista, alternativa al government((S. Belligni, Miss Governance, I presume, «Meridiana», 50-51, 2004, pp. 181-209.)). Ma si è ancora ben lontani da un quadro d’insieme della mutevole presenzaeffettivadella corporation sulla scena pubblica e dei suoi compositi rapporti con la società politica e le sue istituzioni((Un primo abbozzo in D. Vogel, Kindred Strangers. The Uneasy Relationship between Politics and Business in America, Princeton, Princeton University Press, 1996. Molto promette la nuova storia politica esemplificata da M. Jacobs, W. Novak, J.E. Zelizer (eds.), The Democratic Experiment. New Directions in American Political History, Princeton, Princeton University Press, 2003.)). Come suggerisce un ampio programma di ricerca intorno al formarsi e riformarsi, nel corso del tempo, delle élite e alle relazioni fra potentati economici, società e politica, appena apparso negli Stati Uniti((S. Fraser and G. Gerstle (eds), Ruling America. A History of Wealth and Power in a Democracy, Cambridge, Harvard University Press, 2005. Interessanti indicazioni anche in un lavoro d’insieme, da «paracadutista», come quello di K. Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano, Milano, Garzanti, 2004 [New York, 2002].)), riuscire a comporre tale quadro potrebbe aggiungere un tassello decisivo alla storia della democrazia nel Novecento. E potrebbe contemporaneamente consentirci di avviare una discussione laica e impregiudicata sulla responsabilità sociale dell’impresa: una discussione capace di coglierne le sfaccettate articolazioni, in una prospettiva comparata di lungo periodo.