L’influenza reciproca di politica ed economia nella costituzione e nello sviluppo dell’asse “Roma-Berlino”

1) Un ipotesi di lavoro

Gli studi sull’avvicinamento fra Italia fascista e Germania nazionalsocialista dopo il 1933, sulla costituzione dell’Asse, sul suo consolidamento fino alla stipulazione del patto d’Acciaio, ed infine sul rapporto fra le due potenze fasciste nel corso della Seconda guerra mondiale (in particolare nel periodo 1939-1943, quando i rapporti tra Roma e Berlino erano, almeno sul piano formale, paritari) hanno sottolineato il peso delle dinamiche politiche, ideologiche e di potenza. Minore attenzione è stata dedicata alla sfera economica, ed in particolare alla sua influenza sui processi decisionali a livello politico. L’ipotesi da cui ho preso le mosse è, invece, che le dinamiche economiche, in modo particolare quelle inerenti i flussi del commercio estero tra Italia e Germania (con le connesse questioni valutarie, in quel periodo particolarmente complesse e condizionanti) abbiano svolto un ruolo di notevole rilevanza. Non intendo rinverdire letture piattamente economicistiche, e nemmeno sostenere che dinamiche meramente economiche abbiano trainato i processi politici; sono invece convinto che lo stato dell’economia italiana (del suo commercio estero in primo luogo) non lasciasse alternative al gruppo dirigente fascista se non un’alleanza sempre più stretta con il Terzo Reich nella misura in cui quel gruppo dirigente intendeva svolgere una aggressiva politica di potenza. L’unica altra possibilità sarebbe stata, per il fascismo, quella di trasformarsi in una versione a più grande scala del salazarismo o del franchismo, cioè in un regime autoritario autocentrato che si limitava a gestire la propria conservazione ma rinunciava nello stesso tempo a qualsiasi velleità di grande potenza.

2) La Grande Crisi del 1929 ed i suoi effetti sul commercio estero italiano

Per l’Italia fascista (come del resto per molti Stati europei – prima fra tutti proprio la Germania) tra il 1918 ed il 1929 il principale partner commerciale  è rappresentato dagli Stati Uniti d’America. I flussi commerciali che in quel decennio attraversano l’Atlantico disegnano una situazione in cui l’Europa non rappresenta di per sé una unità economica significativa; anzi, emerge un quadro in cui sono gli USA ad intessere importanti relazioni economiche e commerciali con ciascuno degli Stati europei, i quali hanno tra loro scambi di grandezza assoluta e percentuale assai meno importante. La crisi pone bruscamente fine (dal 1929 al 1931) ad un quadro del genere e – per quanto riguarda l’Italia fascista – mette le basi perché si arrivi (verso il 1934) ad una situazione in cui è la Germania il principale partner commerciale. A questo proposito occorre fare attenzione alle statistiche sui flussi, esaminandone non soltanto le grandezze quantitative ma – principalmente – il variare dei rapporti percentuali. Infatti, da un lato siamo di fronte ad un calo complessivo – per tutti i paesi – del commercio estero, che solo verso la fine degli anni Trenta raggiunge di nuovo – e non completamente – i livelli consueti nel decennio precedente; dall’altro però – pur dentro a questa dinamica di generale contrazione – l’interscambio italogermanico diventa il più consistente in merci e valore. Se prima della crisi del 1929 l’export italiano (e quindi una parte importante dell’economia e della produzione del paese) era orientato verso gli USA, in seguito esso assume come terminale la Germania e si svolge sempre più in regime di compensazioni (clearing). Un primo accordo bilaterale in tal senso è firmato il 16 ottobre 1932; due anni dopo, il 26 settembre 1934, sarà sottoscritta un’importante intesa che fa rientrare nel clearing tutto quanto l’interscambio.

3) La struttura dell’import-export italogermanico negli anni Trenta

Occorre tener conto di due aspetti; prima di tutto della natura merceologica dei flussi (che cosa esporta e cosa importa dall’altro ciascuno dei partner), in secondo luogo del peso percentuale che l’import-export col partner ha rispetto al totale dell’import-export nazionale. Saltano agli occhi due nette asimmetrie, che qualificano il rapporto fra Italia e Germania negli anni Trenta come tipico di una relazione tra sviluppo e sottosviluppo, tale per sua natura da indurre una dipendenza non solo economica ma anche – in senso lato – politica (Albert O. Hirschman). L’Italia esporta in Germania principalmente prodotti agricoli destinati ad un consumo di lusso, o comunque non indispensabili per il paese importatore (frutta e verdura mediterranee e loro derivati – olio, vino), semilavorati industriali che incorporano tecnologia media e medio-bassa (tessili, abbigliamento e così via), e – in misura limitata – materie prime di qualche rilevanza (anche militare), come zolfo e mercurio. Non mancano, naturalmente, prodotti industriali a tecnologia avanzata (per il periodo a cui ci stiamo riferendo), come per esempio le automobili e la fibra artificiale, ma si tratta di quantità limitate in cifra assoluta ed in peso percentuale sul totale dell’export, e comunque si parla sempre di beni di consumo. Tra le principali voci dell’export tedesco in Italia, invece, troviamo macchine utensili (di cui l’economia italiana non era di per sé in grado di fare a meno) e materie prime di cruciale valore strategico, fra cui ha particolare rilevanza il carbone. Si tenga presente che all’epoca dipendevano dal carbone gran parte del sistema dei trasporti (ferrovie e navigazione), tutta quanta l’industria pesante, una quota notevole della produzione di energia elettrica, la disponibilità di gas combustibile per l’industria ed i consumi della popolazione (di quella urbana in particolare) – si faceva uso, infatti, del cosiddetto “gas di città”, ricavato dalla cokificazione del carbon fossile. Nel 1934 una quota aggirantesi grosso modo attorno al 50% dell’import italiano di carbone è di produzione tedesca; il resto gran parte britannico. La possibilità di diversificare gli approvvigionamenti, perciò, c’era, ma comportava decisioni cruciali anche ed in particolare sotto il profilo politico, decisioni che non potevano non assumere, arrivati ad un certo punto, un carattere di irreversibilità. Inoltre, mentre i flussi di import-export con la Germania rappresentavano per l’Italia la voce più importante (e progressivamente crescente con l’andar del tempo) dell’interscambio complessivo con l’estero, la quota rappresentata dall’Italia era di gran lunga minore nel commercio estero tedesco. Una interruzione o drastica riduzione dei flussi avrebbe perciò fatto piombare l’economia italiana in una reale crisi, mentre viceversa quella tedesca avrebbe patito solo disagi limitati.

4) Il processo si radicalizza alla metà del decennio

Normalmente viene sottolineata la svolta rappresentata dall’aggressione italiana all’Etiopia e dai suoi effetti sul quadro internazionale (e sui rapporti italo-britannici); vanno però considerati altri fattori, inerenti tanto l’economia quanto la politica economica. Secondo modalità diverse – ma dagli effetti convergenti – tanto a Berlino quanto a Roma vengono prese decisioni cruciali: in Germania con la decisione di dare il via al Vierjahresplan e la sconfitta delle tendenze (sostenute per esempio da Schacht) che favorivano una linea di rientro aperto nel mercato mondiale prevalgono i sostenitori della Großraumwirtschaft, cioè di un vasto spazio economico a guida germanica al cui interno i rapporti siano regolati tramite rapporti di clearing bilaterale e trilaterale, ed in cui cioè la forza relativa di ogni singola economia sia il fattore determinante; in Italia con la decisione di regolare il commercio estero attraverso intese in clearing sottoponendolo contemporaneamente al sistema delle licenze. Va sottolineata la coincidenza temporale tra la svalutazione della lira in seguito alla dissoluzione del “blocco dell’oro” (5 ottobre 1936), la sottoscrizione a Berlino, da parte di Ciano e von Neurath dell’intesa politica che una settimana dopo Mussolini avrebbe definito “Asse” (23 ottobre), l’apertura di una ulteriore trattativa generale sui rapporti economici bilaterali (24 ottobre) che si sarebbe conclusa il 10 dicembre successivo con la firma di un Protocollo confidenziale italogermanico, destinato ad aprire la strada ai successivi 14 Protocolli segreti per la regolazione globale dei rapporti economici reciproci che avrebbero scandito, fino alla crisi del 1943 le relazioni tra Roma e Berlino. Proprio nel momento in cui si va delineando l’alleanza, le due potenze fasciste conoscono un’evoluzione parallela che le porta a servirsi di una strumentazione analoga (gestione del valore della moneta che prescinde da qualunque ancoraggio ad equivalenti generali; fissazione dei reciproci rapporti di cambio sulla base di intese politico-economiche bilaterali ed al massimo trilaterali; controllo rigido del commercio estero), e che porta ad una sorta di “politicizzazione” dei rapporti commerciali più radicata e profonda di quanto non avvenga in condizioni normali. Le circostanze ed anche le motivazioni per cui questo avviene possono essere anche profondamente diverse (per la Germania giocherà un ruolo decisivo la drammatica carenza di valuta pregiata; per l’Italia vanno considerati il peso e le conseguenze dell’avventura etiopica), gli effetti finiscono con l’essere simili. Dato le modalità e le forme in cui si svolgeva il commercio italogermanico, scelte di questo genere portano Roma e Berlino ad una collaborazione sempre più stretta. Come si è detto, il presupposto può essere individuato nell’intesa di settembre 1934; va sottolineato come lo stato di acuta tensione sul piano politico che si sviluppa nell’estate dello stesso anno tra Roma e Berlino in conseguenza del tentativo di colpo di Stato messo in atto dai nazionalsocialisti a Vienna il 25 luglio non si sia riflesso in alcun modo sui contatti e sulle trattative in corso sulle questioni economiche e nemmeno sui flussi di import-export.

5) Il potenziale conflitto per l’egemonia nell’area danubiano-balcanica e la sua regolazione in base ai rapporti di forza interni all’Asse

L’area danubiano-balcanica rappresentava un vecchio obiettivo per i progetti espansionistici coltivati dai gruppi dirigenti italiani, tanto politici quanto economici; accanto al noto atteggiamento di protezione politico-militare assunto dall’Italia mussoliniana verso la piccola Austria, registriamo infatti una serie di tentativi di spingere i gruppi dirigenti dei piccoli paesi danubiani a costruire legami economici più stretti e ravvicinati tra di loro (per esempio il progetto di unione doganale tra Vienna, Praga e Budapest, che avrebbe dato ridato vita ad una significativa parte dello spazio economico austroungarico, posto però questa volta sotto l’egemonia dell’Italia mussoliniana e che avrebbe costituito un ottimo terreno per la penetrazione economica delle imprese italiana). Il momento più alto di questa politica è rappresentato dai trattati Brocchi (1931 e 1932), i cui presupposti datano da prima della Grande Crisi, e che Roma cerca di sviluppare negli anni successivi (i Protocolli di Roma sulla collaborazione economica tra Italia, Austria e Ungheria sono del 1934). La costruzione di uno spazio economico danubiano ad  egemonia italiana è vista con grande preoccupazione dai responsabili della politica commerciale di Berlino (come traspare dalle relazioni periodiche dell’Handelspolitische Abteilung – Sezione di politica commerciale -dell’Auswärtiges Amt), perché proprio sulla stessa area fa obbligatoriamente conto ogni ipotesi di Großraumwirtschaft. In fin dei conti, sarà proprio il divario tra le rispettive economie di Roma e di Berlino a fare la differenza: il peso del contributo italiano all’import-export complessivo dei paesi danubiani ora citati -nonché della Jugoslavia – è assai meno rilevante (per quantità assoluta, percentuale e tipologia merceologica) di quello tedesco. Di fatto, nella seconda metà degli anni Trenta, si assiste al progressivo abbandono (ancorché mascherato dagli artifici retorici) da parte italiana del tentativo di costruire una propria area economica che riunifichi alto e medio corso del Danubio. D’altra parte allentare l’alleanza con il Terzo Reich voleva dire rinunciare del tutto ad una politica di potenza, e si trattava di un’alternativa mortale per il gruppo dirigente fascista. Nello scacchiere europeo sud-orientale qualunque ipotesi espansiva potrà solo esprimersi, da questo punto in avanti, attraverso lo strumento dell’avventura militare accoppiato ad una politica di pressioni vieppiù velleitarie sullo strapotente alleato.

6) Chi guadagna e chi perde dalla configurazione del commercio estero italogermanico nella seconda metà degli anni Trenta?

Per rispondere occorre distinguere tra il triennio precedente lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1936-1939) ed i quattro anni successivi (1939-1943 – la fase della non belligeranza rappresenta a mio parere una periodizzazione interna a questo secondo periodo). Nel primo arco di tempo l’asimmetria esistente tra rapporti di forza economici (squilibrati a favore di Berlino) e rapporti politici (formalmente paritari), in un contesto che vede la Germania perennemente angustiata dalle difficoltà valutarie e dalla scarsità di valuta lascia una spazio di manovra al partner più debole, che può cavarne vantaggi a breve (anche non così consistenti come lascia intendere, nelle sue memorie, Felice Guarneri) pur senza che il meccanismo della dipendenza si alteri. Del resto, la stessa struttura del rapporto di clearing (che per funzionare deve risultare, alla lunga, a somma zero) lascia la possibilità all’Italia di reagire contro l’accumularsi di un passivo da parte tedesca che rischia di funzionare come una forma occulta di finanziamento di quote del riarmo germanico da parte della più fragile economia italiana. La minaccia, spesse volte agitata (per quanto mai attuata, e comunque privata di parte notevole delle sua efficacia dalla stessa struttura dell’export italiano in Germania) dallo stesso Guarneri di bloccare o ridurre le esportazioni italiani nel Reich, cessa di essere un’arma nel momento in cui Hitler avvia l’attacco alla Polonia; da quel momento le questioni puramente economiche passano in secondo piano di fronte alla prioritaria tematica della condotta della guerra, rispetto alla quale l’Italia non può che svolgere una funzione di supporto – salvo scegliere, cosa estremamente improbabile per i motivi a cui ho già accennato, di rovesciare a 180° le alleanze. Da quel momento in poi Berlino lascia precipitare il suo deficit nei confronti dell’alleato fascista che arriva nel volgere di pochi mesi (anche grazie all’arruolamento di manodopera italiana per la Germania ed al conseguente flusso di rimesse) a quantità molto grandi; di fronte alle rimostranze di Roma (costretta a sempre più pesanti anticipi di cassa) i gruppi dirigenti tedeschi fanno presente, con durezza, che proprio questo (cioè una forma di finanziamento indiretto allo sforzo bellico tedesco e di assunzione a proprio carico di parte delle spinte inflazionistiche connesse) è il vero contributo italiano alla condotta comune della guerra. Va da sé che questa valutazione trova tante maggiori pezze d’appoggio quanto più tramonta ogni velleità italiana di condurre una “guerra parallela”.

7) Dipendenza economica e non belligeranza: le radici materiali di un bluff

Molto è stato scritto sulla non belligeranza, sulle sue motivazioni e sui suoi possibili sbocchi; si è sostenuto che essa avrebbe potuto protrarsi nel tempo e che solo il repentino crollo della Francia di fronte alle colonne corazzate tedesche abbia determinato Mussolini ed i suoi gerarchi ad abbandonarla decidendo di entrare in guerra. In realtà Roma si lega mani e piedi a Berlino ben prima dell’estate 1940: in seguito al’annuncio, dato da Londra il 1° febbraio, che la Royal Navy avrebbe sequestrato tutte le merci tedesche o dirette in Germania anche se trasportate da naviglio neutrale (bloccando perciò l’80% delle forniture di carbone tedesco all’Italia, che viaggiava per mare), le autorità italiane reagiscono chiedendo all’alleato germanico di garantire la copertura di tutto il fabbisogno dell’Italia, con la clausola che il trasporto avvenisse per ferrovia, e contemporaneamente rifiutano sdegnosamente la proposta britannica di sostituire con proprio carbone la percentuale finita sotto embargo. Berlino si dichiara disponibile, rimarcando che il conseguente onere, pesantissimo, era giustificato in primis da motivi politici, al fine cioè di “rendere l’Italia totalmente indipendente dalla Gran Bretagna” (Carl Clodius). All’inizio di marzo 1940 l’accordo è sottoscritto. Con esso le possibilità di autonomia dell’Italia scendono a zero. Nonostante ciò, nei mesi seguenti la Germania dosa i rifornimenti, indispensabili sia per mantenere in efficienza l’apparato militare italiano, sia per garantire il regolare proseguimento della produzione industriale e la prosecuzione della vita quotidiana nelle città, vengono dosati col bilancino in modo che l’alleato italico percepisca costantemente sul collo la gelida stretta della scarsità. D’altro canto, la conquista della Polonia prima, della Francia, del Belgio e del Lussemburgo dopo (con i ricchi bacini carboniferi di cui essi dispongono) contribuiscono a rendere più rigida la dipendenza italiana dai flussi il cui ritmo è deciso a Berlino. La prosecuzione della non belligeranza, cioè, era da questo punto di vista possibile solo se l’Italia mussoliniana si acconciava a svolgere un ruolo meramente gregario del Terzo Reich, per di più con la prospettiva di non guadagnarci un bel nulla in caso di vittoria finale hitleriana. Altro che porsi alla testa di un futuribile blocco di neutrali! L’unica alternativa radicale, lo ripeto, era il rovesciamento drastico delle alleanze, prospettiva incompatibile con la permanenza al potere di quel gruppo dirigente in quel contesto storico preciso, e che comunque avrebbe comportato l’accettazione di una sorte simile a quella che sarà riservata, dopo il 1945, alla Spagna franchista od al Portogallo salazarista. Ipotesi inconcepibile nella primavera estate del 1940 per i gruppi dirigenti – tanto politici quanto economici – dell’Italia fascista.