L’onda lunga di Stoccolma: la conversione all’ambientalismo di Barbara Ward

Celebrata da Time Magazine come una delle più influenti personalità del Ventesimo secolo, dalle grandi visioni per il futuro, l’economista britannica Barbara Ward è una figura oggi poco conosciuta.[1] Tuttavia negli anni Sessanta e Settanta era considerata un’intellettuale di primo piano e una vera e propria icona del movimento ambientalista. Era stata a lungo giornalista di punta nella redazione esteri della rivista The Economist e titolare di cattedre di economia dello sviluppo ad Harvard e alla Columbia University, ed era amica e confidente di leader quali il Segretario delle Nazioni Unite U-Thant, i presidenti degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson e della Banca Mondiale John Woods e Robert McNamara, oltre a primi ministri britannici e leader del Terzo Mondo. Ispirò perfino le strategie sullo sviluppo e la lotta alla povertà del Concilio Vaticano II. Nel 1971 fondò l’Istituto Internazionale per lo Sviluppo e l’Ambiente e nei primi anni Settanta, nel contesto della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma nel giugno 1972, inventò il concetto di sviluppo sostenibile. Questo articolo racconta la storia di come Barbara Ward si convertì all’ambientalismo, descrivendo l’impatto della Conferenza di Stoccolma sulle idee relative a crescita, questione demografica e rapporti Nord-Sud.

Alla vigilia della Conferenza, Barbara Ward era nota per la sua abilità nel parlare di economia a un vasto pubblico. Brillante laureata ad Oxford, aveva iniziato a scrivere di economia e relazioni internazionali già durante la guerra, anni in cui fu vera e propria colonna portante dell’Economist.[2] Cattolica e profondamente religiosa, era vicina al partito laburista in politica e alle teorie keynesiane in economia. Alla fine del conflitto, affiancò al giornalismo un’intensa attività di partecipazione a trasmissioni radiofoniche di successo della BBC. Nel 1947, il direttore dell’Economist Geoffrey Crowther le affidò l’incarico di condurre un’inchiesta di carattere socio-economico negli Stati Uniti per capire “cosa avessero in mente gli americani”. I commenti sessisti non mancarono, ad esempio in un articolo comparso su Time Magazine si leggeva così: una ragazza spedita a fare un lavoro da uomo, abituata a pranzare e cenare con politici e economisti, brillante nella semplificazione e dall’incredibile facilità di espressione, anche se certo non un peso massimo del lavoro intellettuale, cosa mai avrebbe potuto combinare? Ebbene, Barbara Ward non si limitò a portare avanti l’inchiesta, ma utilizzò l’opportunità del viaggio negli Stati Uniti per iniziare una nuova carriera di opinionista, cominciando con una serie di conferenze sull’Europa e le relazioni transatlantiche.[3] Preoccupata del possibile ritorno all’isolazionismo degli Stati Uniti, divenne subito un’entusiasta promotrice del Piano Marshall dopo il giugno 1947 e nel 1951 scrisse Policy for the West in cui lo descriveva come “un esempio supremo di contenimento positivo, creativo e di successo”, il più trascinante esempio di arte di governo del mondo moderno. Nello stesso libro condannava invece la “nefasta influenza del Marxismo” che, a suo dire, aveva sovvertito le tradizioni “intensamente idealiste e liberali” della sinistra europea.[4] Di lì a poco si sarebbe trasferita prima in India e poi in Ghana. Vi andò al seguito del marito Robert Jackson, già mago della logistica delle forze alleate in Medio Oriente, che lavorava come consulente speciale del Primo Ministro ghanese e icona del panafricanismo Kwame Nkrumah al progetto gigantesca diga sul fiume Volta (la diga di Akosombo) e come analista per lo Special Fund delle Nazioni Unite, poi UNDP (United Nations Development Programme).

In quegli anni Barbara Ward divenne nota come esperta in sviluppo economico. Non era a dire il vero un’economista quantitativa; al giorno d’oggi verrebbe difficilmente considerata un’economista. Era piuttosto un’esperta in politica e sociologia dello sviluppo. Era ricercata per le sue capacità oratorie, sviluppate e allenate nell’intensa attività di conferenziera e con la partecipazione a salotti radiofonici e televisivi. Memorabile in particolare è l’apparizione in una nota trasmissione condotta da Eleanor Roosevelt, la già First Lady simbolo della promozione dei diritti umani, “Prospects of Mankind” – in una puntata dedicata all’Africa in cui Ward partecipò assieme al leader dell’indipendenza del Tanganika Julius Nyerere e al premio Nobel per la pace Ralph Bunche.[5] In questa occasione, come nei libri scritti negli anni Cinquanta e Sessanta, emerge in maniera evidente il suo background culturale. Spesso identificata per semplicità con le politiche di modernizzazione promosse dagli Stati Uniti, in realtà Ward rappresentava chiaramente la cultura imperiale britannica declinata in una particolare forma di missionarismo cattolico. La lettura dei suoi lavori è rivelatrice di questo aspetto spesso trascurato, dell’importanza cioè della dimensione imperiale intesa come missione civilizzatrice che caratterizza tutta la sua produzione, pensata per un pubblico di lettori molto ampio.[6] Dopo una prima fase dominata da riflessioni sulla politica internazionale e incentrata sulle preoccupazioni legate alla guerra fredda che vedono nel Piano Marshall l’apice del successo  (The West at Bay, 1948 e il già citato Policy for the West, 1951), negli anni Cinquanta Ward cominciò a scrivere lavori più ampi che oggi saremmo tentati di descrivere come opere di world history o di storia globale, chiaramente articolati nel linguaggio delle civiltà e dei cicli della storia alla Arnold Toynbee, con la civiltà cristiana sempre a svolgere un ruolo di protagonista nella nascita dell’Occidente, nella protezione dal dispotismo, nella promozione del progresso e del capitalismo. L’Europa e in particolare la Gran Bretagna avevano un ruolo predominante in questa storia di civiltà occidentale-europea. Spettava proprio all’Europa, sosteneva Ward, stabilire nuove relazioni con i paesi poveri e fornire aiuti, attraverso le Nazioni Unite oppure con un modello di intervento che assomigliasse al Piano Marshall, subentrando agli Stati Uniti nel ruolo di benefattori su scala mondiale. L’idea portante era quella dell’interesse illuminato, descritto soprattutto nei libri Faith and Freedom, del 1954, e Interplay of East and West, del 1957. Solo alla vigilia degli anni Sessanta emerse una rilettura della storia in termini meno entusiasti del successo culturale del colonialismo britannico. Stupisce non poco che le lodi dell’Impero fossero tessute anche di fronte a soggetti non necessariamente altrettanto convinti dei meriti del passato coloniale. In particolare, colpiscono gli apprezzamenti per la gestione britannica contenuti nelle lezioni presso lo University College in Ghana, raccolte poi nel volume Five Ideas that Changed the World, del 1959. Qui l’aspetto meritorio dell’espansione imperiale europea veniva identificato da Ward nell’esportazione del concetto e del modello politico di stato nazione. Un elemento che, sosteneva, aveva inevitabilmente incoraggiato le giuste aspirazioni all’indipendenza in Asia e in Africa.

A partire dagli anni Sessanta, assunse invece crescente spessore un altro discorso: il rapporto fra tecnologia, scienza e crescita economica. Nei libri pubblicati durante la Prima Decade dello Sviluppo (1960-1970) che Ward caricava di grande aspettativa,[7] l’interesse si spostò drasticamente sui temi della crescita e sulla sperequazione del reddito a livello mondiale. Fra le sue opere spiccano The Rich Nations and the Poor Nations (le CBC Massey Lectures del 1961), Towards a World of Plenty? (le Sir Robert Falconer Lectures del 1963, pubblicate nel 1964), It Can Be Done. An Approach to the Problem of World Poverty (Dag Hammarskjiold Lecture del 1965), Spaceship Earth del 1966 e The Lopsided World del 1968. In questi lavori da un lato continuava a lodare la Gran Bretagna come inventore del capitalismo e il Piano Marshall come modello da esportare per promuovere la crescita nel Sud del mondo (ad esempio in India and the West, del 1961),[8] dall’altro esprimeva una sempre più intensa preoccupazione per il divario Nord-Sud. L’auspicio, alla fine degli anni Sessanta, era quello di una conversione del sistema internazionale in una struttura più equa. A più riprese Ward ricordava quanto fosse centrale agire nella consapevolezza dell’unità del genere umano e riconoscere la necessità morale di promuovere sviluppo e giustizia sociale a livello internazionale (The Angry Seventies, 1970). È in questa fase, a cavallo degli anni Settanta, con l’avvio della Seconda Decade dello Sviluppo, che Barbara Ward si trasformò veramente da analista di politica internazionale ad ampio raggio, entusiasta sostenitrice negli anni della guerra fredda della missione di sviluppo occidentale in chiara contrapposizione con il mondo comunista, a spirito critico del pensiero sullo sviluppo. Questa trasformazione fu progressiva e avvenne sostanzialmente in due fasi.  Una prima fase, fra il 1968 e il 1972, in cui dominava la critica verso il sistema degli aiuti perché carenti dal punto di vista della distribuzione della ricchezza e una seconda fase, dopo la Conferenza di Stoccolma, in cui prevalse la preoccupazione per l’eccesso dei consumi che metteva a rischio l’equilibrio dell’ecosistema. 

Alla fine degli anni Sessanta, Ward venne ampiamente coinvolta nella riflessione sulle delusioni dello sviluppo, nel suo ruolo di Albert Schweitzer Chair alla Columbia University. Titolare di una cattedra in sviluppo economico internazionale, organizzò svariate iniziative invitando economisti e sociologi dello sviluppo di diverse generazioni provenienti in molti casi dal Sud del mondo, creando una rete di contatti che avrebbe mantenuto nel corso di tutti gli anni Settanta. Quando Maurice Strong, allora alla guida della Canadian International Development Agency e appena incaricato di organizzare la Conferenza sull’Ambiente Umano alle Nazioni Unite, la contattò per proporle di collaborare con lui, Barbara Ward aveva appena terminato i lavori di un incontro di economisti che riflettevano sul Rapporto Pearson del 1968 immaginando cosa dovesse cambiare nel sistema in vista della Seconda Decade dello Sviluppo. I risultati dell’incontro sarebbero usciti nel 1971 con un titolo destinato a diventare di moda:The Widening Gap: Development in the 1970s.[9] La principale preoccupazione in quel tempo, promossa dagli economisti dello sviluppo di nuova generazione come Dudley Seers e Mahbub ul Haq, era appunto la questione della povertà che molti ormai consideravano come una priorità da affrontare in modo diverso rispetto al passato. Come ricordano i suoi biografi, fino al 1971 Barbara Ward non si era occupata di questioni ambientali. Era stata chiamata in causa nell’organizzazione della Conferenza di Stoccolma per le sue doti di comunicazione e la sua capacità di fare rete coinvolgendo i paesi in via di sviluppo. Di fatto la sua missione, che abbracciò pienamente, era quella di far emergere la consapevolezza della questione ambientale nei paesi poveri. La preparazione di quello che sarebbe diventato il testo di riferimento per la Conferenza di Stoccolma, il best-seller Only One Earth, scritto assieme al biologo René Dubos con la collaborazione di David Runnalls, fu certamente un momento di svolta. Cambiò la sensibilità di Barbara Ward sulle questioni ambientali e le sue convinzioni in merito alla crescita. Only One Earth partiva da lontano nel descrivere il rapporto dell’uomo con la natura, dalla preistoria ad oggi. Descriveva le tre forze che guidano l’evoluzione dell’uomo: la scienza, il mercato e la nazione. Dopo aver affrontato i temi fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema– la domanda di risorse e il loro utilizzo, la questione dei consumi, la crescente concentrazione di popolazione negli ambienti urbani- si concentrava su inquinamento, utilizzo del suolo e delle acque internazionali, demografia e rivoluzione verde. Nelle conclusioni toccava anche l’importanza dell’atmosfera e del cambiamento climatico, sostenendo che era necessario divenire consapevoli della necessità di affrontare le questioni ambientali tutti insieme, in una nuova unità di intenti e badando bene anzitutto ad evitare le guerre. Il libro era il risultato di un accurato lavoro di ricerca, una sintesi molto densa che, pur intesa come operazione di divulgazione, nasceva dal confronto con una lista lunghissima di personalità importanti, scienziati e politici, interpellati in merito all’ecosistema, al ruolo dell’uomo e della tecnologia. Aveva chiaramente l’intento di conquistare “i profani intelligenti e informati” che, scriveva Ward, “possono spesso essere giudici più sagaci perché la loro visione generale della complessità dei problemi umani non è deformata da quella sorta di campanilismo che si accompagna di frequente alle specializzazioni tecniche.”[10] Il libro, uscito appunto in occasione della conferenza, e recensito ampiamente da giornali e televisioni in tutto il mondo, in uno sforzo davvero importante di sensibilizzazione sui temi ambientali a livello mondiale, fu accompagnato anche da un documentario.[11]

Dubos e Ward di fatto parteciparono a Stoccolma come i protagonisti scientifici della conferenza, con il compito di descrivere la preparazione di Only One Earth e i suoi contenuti. Aprirono i lavori di una sessione di discussione a parte, chiamata Environmental Forum, spesso descritta come una contro-conferenza, distinta dalle sessioni ufficiali popolate dai rappresentanti dei governi e delle organizzazioni internazionali ammessi come partecipanti o come osservatori. Le discussioni del Forum erano animate dai protagonisti del dibattito in corso. Erano invitati fra gli altri il biologo e autore del bestseller The Closing Circle (1971) Barry Commoner, l’antropologa Margaret Mead, il fondatore del Club di Roma e ispiratore del discusso rapporto sui Limiti dello Sviluppo Aurelio Peccei.  Ward e Dubos riscossero un enorme successo, sia fra i delegati ufficiali, sia soprattutto fra un ben più ampio pubblico di attivisti di varie provenienze e appartenenze, spesso membri di organizzazioni non governative, in particolare giovani. Fu proprio questo pubblico, e il fervore della partecipazione giovanile ad ispirare ancora di più l’impegno di Barbara Ward, come dichiarò lei stessa a più riprese, durante la conferenza e nei mesi successivi.

Il discorso di apertura di Dubos, più pacato, e di Ward, molto accorato, andava ben oltre la descrizione di Only One Earth. In particolare Ward incitò il pubblico a uno scatto di orgoglio e responsabilità. Evidenziava quanto Stoccolma fosse un momento di entusiasmo che portava con sé una svolta nella percezione del ruolo dell’uomo sulla terra. Come ai tempi della Rivoluzione Copernicana, sosteneva, l’umanità era giunta al punto di riconsiderare la gestione del pianeta. “Non possiamo illuderci di continuare in questa maniera”, affermava con enfasi, immaginando che i due terzi della popolazione mondiale vivano in situazione di miseria per assicurare ricchezza all’altro terzo. Era necessaria una revisione radicale che anzitutto partisse dalle disuguaglianze e poi tenesse conto delle risorse e introducesse un’etica dei consumi compatibile con la sopravvivenza del pianeta. L’impegno per una nuova moralità nelle relazioni internazionali e nella gestione equilibrata delle risorse sarebbe stato un elemento costante nelle future riflessioni. A Stoccolma, Barbara Ward si era convertita. Da eroina della crescita promossa dal capitalismo occidentale era divenuta critica instancabile degli eccessi del consumo capitalista e dell’arroganza dello stato nazionale. Attratta dall’attivismo dei giovani partecipanti, si era messa a disposizione per scrivere il comunicato ufficiale delle ONG presenti a Stoccolma, assieme a Margaret Mead.  Ripetutamente aveva sottolineato quanto le nuove generazioni rappresentassero davvero una speranza di riscatto, una promessa di successo della nuova “Rivoluzione Copernicana”, e della trasformazione del sistema internazionale.

Uno dei contesti dove meglio si precisò il carattere di missione morale dell’azione per l’ambiente portata avanti da Barbara Ward fu la Commissione Pontificia Justitia et Pax. Ward era l’unica donna nella Commissione e, fin dalla costituzione nel 1967, era incaricata di seguire la questione dello sviluppo. Nel documento pastorale da lei redatto e discusso dalla Commissione dopo la Conferenza di Stoccolma, nel settembre 1972, la critica all’arroganza dello stato moderno e del capitale emergevano prepotentemente. Uno dei temi costanti era la constatazione che molti dei miti del progresso che avevano caratterizzato l’ottimismo degli anni della ricostruzione – e che avevano le loro radici nel pensiero positivista – non erano più validi. L’idea che la scienza fosse in grado di piegare la natura all’utilità del genere umano, che la crescita materiale fosse illimitata e che lo stato nazionale fosse libero di decidere come agire e in particolare come utilizzare le risorse per l’interesse nazionale e senza alcun limite: tutto questo era chiaramente una sciocchezza. Era invece evidente che le risorse non erano illimitate e che il pianeta non era in grado di sostenere una crescita sproporzionata. Le economie moderne dovevano smettere di consumare in eccesso e convertirsi al riciclo dei materiali, al risparmio energetico e alla bonifica ambientale. Questi concetti furono ripetuti fino alla nausea da Barbara Ward nei mesi subito successivi alla Conferenza di Stoccolma, in rapporti confidenziali, discorsi, articoli. Il potenziale distruttivo della crescita incontrollata, alimentato da cupidigia economica e arroganza nazionale divenne l’oggetto principale delle sue critiche accese.[12] Queste riflessioni sono particolarmente approfondite nel contributo forse più completo e articolato, A new creation? Reflections on the environmental issue, sunto delle posizioni elaborate in Justitia et Pax. I principi di sussidiarietà e di responsabilità effettiva, argomentava Ward, suggerivano che lo Stato moderno offendeva il buon ordine sia quando rivendicava un potere eccessivo esautorando organismi più piccoli sia quando pretendeva di arrogarsi responsabilità di controllo ambientale di cui era incapace.

L’impegno di Barbara Ward per l’ambiente diventò assorbente dopo Stoccolma. Nel nuovo incarico quale Presidente dell’Istituto Internazionale per lo Sviluppo e l’Ambiente (International Institute for Environment and Development, IIED), assistita da un gruppo molto attivo ed efficiente di giovani studiosi, portò avanti la causa ambientale assieme a quella dello sviluppo. Sostanzialmente, la causa dello sviluppo sostenibile. Cosa significava tuttavia per Ward sostenibilità dopo Stoccolma? Preparando la Conferenza, Ward aveva lavorato per portare avanti un discorso di compatibilità fra crescita e salvaguardia dell’ambiente. Tuttavia progressivamente l’idea di sostenibilità era stata sopraffatta dalla nuova dinamica di scontro Nord-Sud acuitasi a Stoccolma, ed era stata pressoché assorbita dalla critica al sistema da parte dei proponenti di un Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI). Paradossalmente Ward, che era la figura simbolo di una modernizzazione “imperiale” anglosassone, divenne la protagonista di un tentativo di compromesso fra sostenitori delle strategie di sviluppo su programma, in collaborazione con le organizzazioni economiche internazionali (in primis la Banca Mondiale), e sostenitori del NOEI animati dalle idee di uno sviluppo autonomo rispetto alle dinamiche del sistema economico internazionale che penalizzava le periferie. Questo passaggio avvenne attraverso il crescente coinvolgimento di Ward nel sistema di esperti di riferimento delle Nazioni Unite, attorno alle figure di fidati collaboratori come Maurice Strong, divenuto Segretario generale dello United Nations Environment Programme (UNEP) nato con la Conferenza di Stoccolma, e Mahbub ul Haq, l’economista nominato direttore del Policy Planning della Banca Mondiale.

Al termine della conferenza di Stoccolma, la tensione fra rispetto dell’ambiente e necessità di sviluppo era sostanzialmente rimasta irrisolta, salvo un impegno dei paesi in via di sviluppo a partecipare all’UNEP e alle sue attività di monitoraggio ambientale, in cambio di un occhio di riguardo rispetto alla priorità dello sviluppo economico da sostenere con un flusso costante di aiuti. Tante questioni erano state rimandate a incontri specifici sponsorizzati dalle Nazioni Unite che proprio negli anni Settanta inaugurarono una nuova stagione di grandi conferenze su temi globali: cibo, popolazione, donne, insediamenti umani. Ward partecipò a tutte, ed ebbe un ruolo di primo piano in particolare nella preparazione della conferenza Habitat, la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Urbano tenutasi a Vancouver nel 1976, per cui scrisse The Home of Man (1976).

Sulla questione della sostenibilità e di più eque politiche di redistribuzione del reddito a livello mondiale sollevate e discusse a Stoccolma, vennero avviate alcune iniziative ponte con le richieste dei paesi in via di sviluppo avanzate nell’ambito del NOEI in agenda alle Nazioni Unite nel 1973-1974. Barbara Ward ne fu protagonista. Nell’ottobre 1974 presiedette le riunioni di un gruppo di esperti collegato a UNEP e UNCTAD (la United Nations Conference for Trade and Development) riunitosi a Cocoyoc in Messico su iniziativa del presidente Luis Echeverria Alvarez con l’intento di discutere di “Modelli di utilizzo delle risorse, ambiente e strategie di sviluppo” per elaborare, sostanzialmente, delle linee guida sulla compatibilità fra ambiente e sviluppo.[13] Nella dichiarazione di Cocoyoc vennero accolti molti dei concetti formulati da Ward che condannavano l’arroganza dello stato nazione e gli eccessi del capitalismo. Essi vennero intrecciati con i punti fondamentali per una nuova teoria dello sviluppo vicini alla riflessione degli economisti del Sud del mondo e fondati in modo esplicito sul principio dello sviluppo autonomo, la self-reliance. Erano invece rifiutate esplicitamente l’idea di puntare sul mero soddisfacimento dei bisogni fondamentali (le teorie dei basic needs) ma anche gli elementi che richiamavano una ricetta universale per lo sviluppo, modellata sullo sviluppo economico capitalista dell’Occidente, in particolare l’idea che i paesi di recente indipendenza dovessero ambire a raggiungere, con una crescita accelerata, i paesi ricchi del Nord del mondo seguendone le tappe. Il documento-sintesi del gruppo di Cocoyoc si scagliava contro tipi di sviluppo caratterizzati da consumi eccessivi che, secondo una delle espressioni preferite da Ward, violavano i limiti interni dell’uomo e i limiti esterni della natura.  Era nell’interesse illuminato dei paesi ricchi, insisteva Ward, moderare i consumi, collaborare con la natura e dimostrare solidarietà con le generazioni future. Certamente vi sarebbero state delle resistenze sistemiche per il mantenimento dell’attuale sistema di mercato, recitava il documento nella sua parte più radicale, con sanzioni, embarghi, e azioni di counter-insurgency. Ma la linea da seguire era il pieno accoglimento del NOEI, con nuovi approcci allo sviluppo, diversi modelli di consumo, tecnologie pulite, riduzione degli sprechi e uso delle risorse più efficiente, razionalizzazione degli insediamenti umani.[14]

Il coinvolgimento di Barbara Ward nelle iniziative che proponevano riflessioni innovative sulle strategie globali in vari ambiti fu incessante, benché reso difficoltoso dalla malattia – un cancro al seno in stadio avanzato. Nel 1977 Ward fu l’ispiratrice della Commissione Nord-Sud, anche nota come Commissione Brandt – a cui tuttavia non prese parte direttamente. Animò invece in modo continuativo la rete delle Tavole Rotonde Nord-Sud (North-South Roundtables), promossa dalla Society for International Development (SID), che tentava appunto di tenere aperto il canale di compromesso fra le idee degli ambientalisti e le ambizioni di giustizia sociale a livello di sistema economico internazionale portate avanti dal Terzo Mondo.[15] All’interno delle tavole rotonde, Ward discusse la questione della scarsità di cibo, peggiorata dal cambiamento climatico, e le nuove frontiere delle questioni energetiche. Sul questo punto, la prospettiva era quella di incoraggiare la rivoluzione tecnologica per identificare strategie migliori di efficienza energetica. La questione energetica, al centro del dibattito globale con la crisi petrolifera (lanciata con la prima crisi nel 1973-74 e incalzata dalla seconda del 1978-79) divenne un tema centrale per il gruppo di lavoro dell’IIED. Il Programma Energia dell’IIED criticava le visioni di quelli che con un certo scherno Ward chiamava i technofixers, i patiti della tecnologia convinti che il progresso tecnologico da solo avrebbe risolto tutti i problemi. In Progress for a Small Planet, del 1979, rifletteva su sostenibilità e direzioni da prendere per un “nuovo ordine industriale”, separando la qualità della vita da alti livelli di consumo e produzione di rifiuti. Temeva in particolare l’aumento dell’uso dell’automobile, anche nelle sue versioni “ecologiche”, guardando con terrore alla prospettiva di un subcontinente indiano motorizzato come gli Stati Uniti. Temeva anche i programmi di energia rinnovabile basati sulla biomassa che rischiavano di sostituire la produzione di cibo per le popolazioni locali. Questi elementi, centrali nelle sue considerazioni, esprimevano preoccupazioni ancora attuali.

Da tante parti, Ward è considerata un’esponente di quello che è chiamato “planetary thinking”, pensiero planetario.[16] Certamente la prospettiva di riferimento era quella globale, delle organizzazioni internazionali a carattere universale in cui era coinvolta o con cui aveva un rapporto privilegiato. Tuttavia nel pensare alle soluzioni proposte per avviare una rivoluzione ecologica, Ward vedeva esplicitamente un ruolo di protagonista per l’Europa, un’assunzione di responsabilità speciale del continente europeo e, più specificamente, della Comunità Europea. Era convinta della posizione unica dell’Europa comunitaria come uno soggetto determinato a impegnarsi nella salvaguardia dell’ambiente. E vedeva un modello di azione nel Piano Marshall, che in passato aveva già descritto come la fantastica invenzione di politica economica che aveva evitato al mondo intero di ricadere nel protezionismo e nella crisi nel secondo dopoguerra. Ora, di fronte alla crisi degli anni Settanta, la memoria tornava agli anni Trenta e alle disastrose conseguenze politiche. Evitare una crisi economica globale era una fissazione di lungo corso di Barbara Ward, che aveva affrontato il tema ripetutamente nei suoi scritti. Negli anni Settanta, da Presidente della SID, proponeva una soluzione composita che cominciava da una moderazione nei consumi dei paesi ricchi. Ciò non avrebbe comportato di per sé una riduzione della produzione, alimentata dalla domanda di beni provenienti dai paesi in via di sviluppo, ancora giustamente impegnati a inseguire la crescita. I beni per i paesi in via di sviluppo però non erano destinati al libero mercato. Dovevano essere forniti dai paesi ricchi a quelli poveri con una generosa e coordinata politica di doni modellata sul Piano Marshall. Le risorse, gestite dalla Banca Mondiale e dalle altre banche regionali, sarebbero venute fra l’altro dai risparmi originati da un disarmo generalizzato, nei paesi capitalisti e in quelli comunisti.[17] Questa volta, era compito dell’Europa assumere molta parte del fardello di sostenere l’economia mondiale – doveva sostituirsi agli Stati Uniti come campione degli aiuti, almeno per partire. Doveva aprire la strada a una nuova concezione politica, etica e sociale, contrastando le minacce poste dalla scarsità di materie prime, dalla sovrappopolazione e dal degrado irreversibile dell’equilibrio ecologico. Era giunto il momento che l’Europa sostenesse realmente un nuovo ordine economico internazionale basato su “un patto planetario” sul modello del Piano Marshall, con le istituzioni regionali del sistema internazionale come attori cruciali in grado di supervisionare “l’uso degli aiuti per garantire che raggiungessero i loro veri obiettivi di sviluppo e ambientali”. In fondo, alla fine degli anni Settanta, Ward riprendeva il concetto di Europa potenza civile, esaltandolo in maniera estrema nella sua dimensione altruista di giustizia sociale a livello globale.[18]

Certo, il futuro immaginario di economia planetaria ispirata dal bene comune era effettivamente una prospettiva poco plausibile, e la stessa Ward si iscriveva in un piccolo gruppo di visionari dai grandi sogni. Edward Heath, il Primo ministro britannico che spesso la consultava negli anni della Commissione Brandt, diceva che Barbara Ward aveva la capacità di vedere i problemi in termini globali e di riconoscere che servivano soluzioni globali, promosse dalle organizzazioni internazionali. Senza dubbio però il limite maggiore del suo pensiero era che, nelle proiezioni più ambiziose, era davvero troppo visionario. Ward era convinta che le persone fossero in grado di cambiare dal basso i processi storici, superando l’opposizione dei poteri forti, e credeva molto nella società civile e nella forza dei movimenti. Tuttavia, nel contesto della crisi degli anni Settanta, benché i concetti di gestione globale, moderazione dei consumi, riciclo dei materiali filtrassero nel pensiero politico, essi non trovarono certo terreno fertile per essere tradotti in iniziative immediate. Molte delle idee riprese e condivise da Ward sarebbero riemerse nel lungo periodo e formano senza dubbio parte del discorso politico sulla sostenibilità anche al giorno d’oggi.


[1] F. Golden, “A Century of Heroes”, Time Magazine Special Edition, 26April 2000. Barbara Ward era anche conosciuta con il nome da coniugata, Lady Jackson, poi Baroness Jackson of Lodsworth. Per una biografia di Barbara Ward: David Satterthwaite, Barbara Ward and the Origins of Sustainable Development, IIED 2006 e Jane Gartlan, Barbara Ward: Her Life and Letters, London : Continuum, 2010. Sul ruolo di Barbara Ward alla conferenza di Stoccolma e sull’impatto di Stoccolma si veda anche il mio saggio in uscita, “Barbara Ward and the Transformative Power of the Stockholm Conference. At the Birth of Sustainable Development”, Annali Fondazione Luigi Einaudi 2023.

[2] https://www.economist.com/christmas-specials/2000/12/21/ninety-plus-and-still-young

[3] “The Press: Barbara Abroad”, Time Magazine, 19 May 1947, https://content.time.com/time/magazine/article/0,9171,933674,00.html

Flaminia Giovanelli, Donna impegnata nel sociale: il carisma di Barbara Ward, disponibile all’indirizzo http://www.iustitiaetpax.va/content/giustiziaepace/en/attivita1/sottosegretario/2011/–donna-impegnata-nel-sociale–il-carisma-di-barbara-ward—inte0.html

[4] Barbara Ward, Policy for the West, Harmondsworth : Penguin Books, 1951, p.57.

[5] Prospects of Mankind; Africa: Julius Nyerere Interview (1959) https://www.youtube.com/watch?v=MSmYoNmN40s

[6] Louis Fletcher, “Barbara Ward and the Colonial Origins of Development,” in https://whit.web.ox.ac.uk/article/barbara-ward-and-colonial-origins-development

[7] Sulla Prima Decade dello Sviluppo: Barbara Ward, It Can Be Done. An Approach to the Problem of World Poverty, London; Dublin: Geoffrey Chapman, 1965.

[8] Barbara Ward, India and the West, [S.l.] : Hamish Hamilton, 1961.

[9] Barbara Ward, J. D. Runnalls, and Lenore D’Anjou (ed.), The Widening Gap. Development in the 1970’s. A report on the Columbia Conference on International Development, Williamsburg, Virginia, and New York, February, 15-21, 1970, New York ; London : Columbia University Press, 1971.

[10] Ward B., e Dubos, R., Una sola terra. Cura e mantenimento di un piccolo pianeta, Milano, A.Mondadori Editore, 1972.

[11] Survival of Spaceship Earth, 1972, https://www.youtube.com/watch?v=hjs47S8twjc

[12] Molti dei contributi di quel periodo sono ora raccolti in Luigi Piccioni, Chiesa ed Ecologia 1970-1972: Un dialogo interrotto, I quaderni di Altronovecento, 10, 2018; Barbara Ward, “La questione ecologica. Un vicolo cieco?”, “L’osservatore romano”, 24 settembre 1972; e Id., A New Creation? Reflections on the Environmental Issue, Città del Vaticano: Pontifical Commission Justice and Peace, [1973].

[13] Development Dialogue, 1974 (2).

[14] “The Cocoyoc Declaration”, in International Organization, Summer, 1975, Vol. 29, No. 3, pp. 893-901

[15] Richard Jolly, “Society for International Development, the North–South Roundtable and the Power of Ideas”, Development, Palgrave Macmillan; Society for International Development, vol. 50(S1), 2007, pp.47-58.

[16] Da ultimo si veda Ben Huf , Glenda Sluga e Sabine Selchow, “Business and the Planetary History of International Environmental Governance in the 1970s”, Contemporary European History (2022), 31, pp.553–569, doi:10.1017/S0960777322000546.

[17] “Statement by the chairman of the society for international development Barbara Ward,” Colombo, Sri Lanka, August 1979, Historical Archives European Union, Fonds Giulio Fossi, GF 144.

[18] Sul concetto di Europa potenza civile si veda il documento fondante, François Duchêne, “The European Community and the Uncertainties of Interdependence” in A Nation Writ Large? Foreign Policy Problems before the European Community, Max Kohnstamm e Wolfgang Hager (ed.), London: Macmillan, 1973.