Marino Ruzzenenti, Veleni negati. Il caso Caffaro, Milano, Jaca book, 2021
Il libro di Marino Ruzzenenti è una formidabile sintesi dei vent’anni trascorsi dal giorno in cui questo caso assurse agli onori della cronaca con lo scoop de “La Repubblica” (13 agosto 2001) che, purtroppo, a parte qualche ripresa nei giorni immediatamente successivi, mai più è tornata a ragionare sul Sin (Sito d’interesse nazionale) più inquinato d’Italia che meritoriamente portò alla luce. Un incomprensibile silenzio che ci ha sempre lasciato molto perplessi. Per fortuna il testimone abbandonato fu raccolto da altri coraggiosi giornalisti tra cui Riccardo Iacona con la sua trasmissione televisiva “Presa Diretta”.
Nonostante i flash back che opportunamente ci ricordano momenti salienti di un secolo di storia, per richiamare “l’opera omnia” sulla Caffaro di Ruzzenenti, Un secolo di cloro… e Pcb, il testo riporta fondamentali aggiornamenti, sia di cronaca sia scientifici, che collocano il caso in un contesto più ampio per stimolare riflessioni sulla storia industriale del nostro paese, l’etica delle istituzioni, la ricerca scientifica, la sanità pubblica e la stessa democrazia che non può non nutrirsi, pena la propria decadenza, della partecipazione attiva dei cittadini. Questo però richiede studio e impegno, se non si vuole che la responsabilità dei governanti ricada anche sui governati che li hanno eletti senza più verificarne l’operato.
Un’impeccabile sinossi, quella di Ruzzenenti, attenta però a non sacrificare mai l’humanitas al rigore storiografico. Per questo il libro si apre e chiude con un tributo alle vittime dell’inquinamento, di cui il personaggio reale di Pierino ne costituisce una emblematica rappresentanza, perché oltre a essere stato colpito da gravi danni economici e sanitari, ha subìto una profonda sofferenza esistenziale per un mondo strapazzato e stravolto da chi ha considerato la Natura come vuoto a perdere dopo averla spogliata di ogni sua risorsa.
Il testo ci fa ancora comprendere quanto la distinzione tra scienze umanistiche ed empiriche rappresenti un artefatto, perché le mitiche misure oggettive dei contaminanti che persistono ancor oggi nelle matrici ambientali e dei cosiddetti “eccessi”, più o meno statisticamente significativi, di deceduti e malati, costituirebbero sorprendenti effetti di confuse cause remote, incapaci di ricostruire la catena degli eventi che conducono alle cosiddette “associazioni causali”. E quindi alle responsabilità di individui e istituzioni che devono quanto meno essere raggiunte dalla sanzione sociale se quella penale è inibita dall’istituto ieri della prescrizione e oggi, più vergognosamente, dell’improcedibilità.
Senza un meticoloso lavoro storico, costruito sulla puntigliosa ricerca e documentazione delle fonti, che ha dato anima e senso ai “numeri”, il caso Caffaro, non incluso nella prima stesura del Decreto ministeriale che identificava i Sin, sarebbe rimasto forse ancora nel cassetto, insieme con quella relazione su L’inquinamento delle falde acquifere profonde ad uso potabile causato dalla Caffaro che riporta la data del 9 maggio 1980. A 4 anni dal disastro di Seveso, accaduto nella medesima Regione, sede di tre autorevoli università (di cui una proprio a Brescia), che ha comportato l’acquisizione di un importante background tossicologico sulle diossine ed epidemiologico sulla costruzione e il follow up di una coorte di popolazione esposta, questi dati furono totalmente ignorati dalle istituzioni che, quando vent’anni dopo furono messe all’angolo dall’evidenza dei fatti, strette in una sorta di falange virtuale hanno continuato a sostenere a oltranza posizioni negazioniste, con espressioni equipollenti a quelle dei no-vax dalle stesse deprecate, come ben documenta il libro. Risultato: niente soldi a Brescia dallo Stato centrale per (inutili) bonifiche.
Lavorare come semplici tecnici in queste istituzioni deviate è impresa ardua. Adeguarsi a ordini subliminali o rinunciare alla carriera e al lavoro, questo il dilemma in cui si sono trovati molti colleghi. La terza via, della resistenza, è ancora più ardua e può essere praticata nella misura in cui il controllo dei cittadini sulle istituzioni è forte e competente e in grado di esprimersi attraverso i media che di fatto impongono la trasparenza, quanto meno nelle società occidentali. Un esempio di prova d’ efficacia del “metodo democratico” è offerto dalla constatazione che oggi sono stati pubblicati per la prima volta da ricercatori bresciani due importanti studi “positivi” che hanno evidenziato a Brescia un nesso di causa tra sostanze diossino-simili e tumori primitivi del fegato, nonché malattie croniche a carico dell’apparato cardio-vascolare. Un’inversione di tendenza che, accanto al recentissimo nuovo intervento della Procura della Repubblica di Brescia negli stabilimenti Caffaro, fa ben sperare che la “dea bendata” non venga ancora catturata da “i bravi” di manzoniana memoria.