Marx sulla Russia
Marx è considerato il principale studioso e teorico del proletariato di fabbrica, cosa indubbiamente vera ma molto più complessa di quanto si pensi ordinariamente. Lo studio delle comunità contadine occupa un posto rilevante nei suoi lavori, per certi aspetti è un tema che attraversa tutta la sua opera, venendo a trovare nelle riflessioni sulla Russia un esito sorprendente e sconcertante. Il procedimento che adotta è storico e teorico, la spinta a concettualizzare attraverso quadri sintetici che abbracciano intere epoche è costantemente sorvegliata da verifiche puntuali, perché – come dirà ai suoi interlocutori russi – eventi di sorprendente analogia ma che si verificano in contesti diversi producono esiti del tutto differenti. L’intera ricerca è ispirata dalla ricostruzione della genealogia del capitale, del suo sviluppo e presa sulla società. In tale percorso si registra una dislocazione, un cambiamento non privo di contraddizioni e ripensamenti, nella posizione di Marx sul capitalismo e la rivoluzione.
In una prima fase, esemplificata dal Manifesto, Marx e Engels si esprimono per il più rapido sviluppo del capitalismo inteso come passaggio necessario e precondizione della rivoluzione proletaria (un certo marxismo condivide anche oggi analogo atteggiamento). In tale prospettiva si auspica la dissoluzione completa delle formazioni storico-sociali che frapponevano ostacoli all’impiantarsi del modo di produzione capitalistico. Tra queste un ruolo preminente è assegnato alle varie tipologia di comunità rurali che quindi appaiono come il ricettacolo dell’arretratezza, le basi su cui si reggono regimi dispotici. In una seconda fase, che viene maturando lentamente, e che risulta esplicita dagli anni ’70, le valutazioni di Marx mutano in modo sensibile, la resistenza e la lotta contro il capitale ricevono una diversa attenzione e apprezzamento. Marx non sembra più convinto che la classe operaia di fabbrica prodotto del generalizzarsi del modo di produzione capitalistico sia il soggetto rivoluzionario predestinato e capace di porre fine al dominio del capitale((Per altro, già nel Capitale (Libro Primo) aveva scritto che con l’affermarsi e generalizzarsi del capitalismo «si sviluppa anche una classe operaia che per educazione, tradizione e abitudine, riconosce come ovvie leggi naturali le pretese di quel modo di produzione» (K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1964 (5° ed.), p. 800).)) . È un esito mai esplicitato apertamente che discende da ordini differenti di analisi: l’approfondimento dello studio del capitale, della sua logica di funzionamento e di dominio sulla realtà; la presa d’atto dei cambiamenti che stavano avvenendo sulla scena politica del mondo, con la messa in crisi dell’egemonia europea, l’ascesa degli Stati Uniti, il delinearsi di una situazione rivoluzionaria in Russia.
L’attenzione di Marx e di Engels su quest’ultima data dalle origini della loro attività politica, con una intensificazione nel periodo della «Neue Reinische Zeitung», al tempo dei moti rivoluzionari del 1848-49, per proseguire ininterrottamente, sia pure con profondi mutamenti di accento specie da parte di Marx. La Russia (l’impero zarista) viene percepita come il bastione della controrivoluzione per il ruolo di contenimento svolto nei confronti della rivoluzione dell’89 e delle armate napoleoniche, nella Santa Alleanza, nella repressione di ogni movimento rivoluzionario e progressista che si manifestasse al suo interno e fuori dai suoi confini. Per Marx l’autocrazia russa era una metamorfosi della Moscovia, formatasi «alla scuola terribile e abbietta della schiavitù mongolica»; la sua espansione era sorretta da una volontà di potenza illimitata, sino alla conquista del mondo. La modernizzazione dispotica realizzata da Pietro i non ne aveva cambiato la natura, anzi era servita a fornirle la forza materiale per svolgere il suo ruolo di guardiana della reazione, realizzando a tal fine una sorprendente alleanza con il paese capitalistico per eccellenza, l’Inghilterra. Marx e Engels analizzano lo scenario storico e geopolitico dell’epoca alla luce della convergenza tra dispotismo zarista e imperialismo inglese. Le frizioni ai confini dei rispettivi imperi non dovevano nascondere la natura intimamente antirivoluzionaria e antiprogressista della loro azione, volta a bloccare lo sviluppo economico e sociale dell’Europa. Contemporaneamente la posizione di Engels e di Marx, in polemica con Bakunin e gran parte della sinistra dell’epoca, è di chiusura nettissima verso i movimenti di indipendenza dei popoli slavi, specie del sud, e ciò per due motivi principali: perché pensano che siano strumentalizzati dall’impero zarista con le sue mire di dominio sull’Europa e per la pretesa antistorica e assurda – scrive Engels – «di soggiogare l’occidente civilizzato all’oriente barbaro, la città alla campagna, il commercio, l’industria, l’intelligenza all’agricoltura primitiva dei servi slavi»((Cfr. K. Marx – F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, Rinascita, Roma 1949, p. 72.)) .
Tutto il dispositivo si basava però sulla pace sociale all’interno della Russia, quando questa viene meno il quadro cambia in modo sostanziale. Come scriverà anni dopo Marx a Engels, «il segreto dei successi della diplomazia russa abroad consisteva nel silenzio di tomba of Russia at home. Con il movimento interno l’incanto fu spezzato» (Marx a Engels, 10 settembre 1879). Da quel momento, che si può collocare agli inizi degli anni ’60, Marx dedica uno sforzo appassionato a capire il movimento interno alla Russia, Engels palesemente fatica a seguirlo su tale terreno, il che è la spia di divergenze profonde, teoriche prima che politiche. Per parte sua il sodale di Marx mantiene ferma l’attenzione sulla politica estera dello zarismo, sullo scenario geopolitico europeo, pervenendo a conclusioni e previsioni acute e molto interessanti. Il fatto nuovo è costituito dall’unificazione della Germania sotto la guida di Bismarck. Una Germania che è proiettata verso una guerra con la Russia, ma – dice Engels – «una guerra contemporanea contro la Russia e la Francia diventerebbe una lotta per l’esistenza nazionale, e nello sciovinismo che vi avvamperebbe il nostro movimento andrebbe in rovina per anni» (F. Engels, La politica estera dello zarismo, 1890). Sarebbe una vera guerra mondiale con molti milioni di morti, una guerra dei Trent’anni concentrata però in tre o quattro anni. In definitiva ne uscirebbe vittoriosa l’industria americana mentre l’Europa sarebbe ridotta a un’agricoltura di sussistenza.
Non sappiamo quanto Marx potesse condividere la previsione engelsiana sulle dimensioni della guerra mondiale, con il differimento nel tempo della rivoluzione socialista, ben diversamente dalla posizione teorico-pratica di Lenin che vedrà nella guerra il vettore della rivoluzione. In una prima fase l’attenzione di Marx è attratta dai movimenti conseguenti alla guerra di Crimea che impone all’autocrazia la necessità di modernizzarsi, da cui la decisione di abolire la servitù, ma in termini tali da far esplodere forti conflitti sociali, sino a una possibile replica della rivoluzione francese, però «il Terrore di questi servi semiasiatici non avrà eguale nella storia». In ogni caso dagli inizi degli anni ’60 Marx è convinto che i due fatti nuovi di rilievo mondiale sono il movimento degli schiavi d’America (usa) e il movimento degli schiavi in Russia. La sua attenzione si concentrerà sempre più su questi due paesi dell’avvenire, abbandonando ogni eurocentrismo. Il futuro del capitale e della rivoluzione si giocherà attorno al loro destino. È una prospettiva capace di cogliere e anticipare il divenire storico e che però colloca Marx in una posizione eccentrica rispetto al nascente movimento operaio.
Negli anni seguenti, a differenza di Engels, è sempre più interessato agli sviluppi che si manifestano in Russia sino a individuare nell’arretrato e autocratico impero zarista l’anello debole dell’assetto capitalistico mondiale, non più il bastione della controrivoluzione ma il paese della rivoluzione, e non una rivoluzione borghese, impossibile per la sua composizione sociale, ma una rivoluzione socialista o comunista, che facendo leva sul radicamento delle comunità contadine avrebbe potuto abbreviare i tempi storici, saltare la fase capitalistica innescando una rivoluzione su scala europea e mondiale. In un percorso certamente non rettilineo, Marx arriva a conclusioni che coincidono con quelle del populismo rivoluzionario, in rottura esplicita con ogni variante del marxismo. È sintomatico che Engels, proprio in merito alla Russia e alle polemiche tra marxisti e populisti, puntualizzi che «la futura società socialista non potrà essere che il prodotto ultimo e specifico del capitalismo». Marx la pensa diversamente anche se solo nelle analisi che conduce sul mondo russo è possibile cogliere le conseguenze politiche delle sue riflessioni. La Russia diventa la cartina di tornasole per registrare i cambiamenti profondi e non pienamente esplicitati a cui era pervenuto il suo lavoro teorico nello studio del capitale. Le sue prese di posizioni antidogmatiche contro l’unilinearismo storico, le sue aperture al populismo rivoluzionario e alle comuni contadine, discendono sia dall’analisi della situazione politica mondiale sia da quel che sta accadendo in Russia che dallo studio sulla natura profonda del modo di produzione capitalistico.
Lenin elaborerà una posizione ancora diversa cercando di mantenere una convergenza di facciata con il marxismo secondo internazionalista di Engels, mentre non è possibile alcun accordo con il filo-populismo di Marx e con l’intera elaborazione che questi ha condotto sulla Russia, nelle sue diverse fasi, che viene fatta sparire o manipolata per ricondurla al nuovo canone in costruzione, il tutto sotto l’etichetta ingannevole del marxismo-leninismo. Se si pongono a confronto le tesi di Marx e di Lenin sulla rivoluzione russa risulta evidente l’inconsistenza di ogni preteso marxismo-leninismo. Marx si era schierato apertamente con il populismo rivoluzionario, inclusa la difesa e rigenerazione delle comuni contadine, ritenendo possibile il passaggio al socialismo senza la necessità dell’ulteriore sviluppo del capitalismo. Lenin aveva costruito il suo marxismo nella lotta contro il populismo, con l’obiettivo di distruggerne le basi teorico-ideologiche. Nei suoi studi sulla realtà russa voleva dimostrare il fondamento scientifico del marxismo e la validità universale delle leggi, a sua avviso individuate da Marx, che presiedono l’evoluzione storica e che valevano perfettamente per la Russia, rispetto a cui l’utopismo populista e tutti i discorsi sulle comuni contadine apparivano delle anticaglie reazionarie. Quanto al capitalismo non bisognava, vanamente, cercare di aggirarlo o di saltarlo ma propugnarne lo sviluppo più rapido possibile, unico modo per superarlo. La rivoluzione del ’17 rimescolò le carte ma esse erano truccate. Tutto il lavoro di Marx sulla Russia doveva essere censurato, cancellato, al fine di costruire un’ortodossia priva di fondamenta dato che la rivoluzione e suoi esiti la smentivano doppiamente, per il ruolo decisivo delle masse contadine e per la mistificazione inscenata in merito al carattere socialista o addirittura comunista dello Stato sovietico, evidente forzatura delle «leggi storiche», risolta a modo suo da Stalin.
La posizione eccentrica in cui viene a trovarsi Marx sulla questione russa risalta con evidenza considerando, al contrario, la convergenza di Engels con il loro principale avversario politico, Michajl Bakunin, che su una questione cruciale si rivela il più occidentalista dei populisti. Nel suo libro principale (Stato e anarchia, 1873) afferma che lo Stato aveva ormai schiacciato le comunità rurali; per altro a suo avviso «il principale difetto che paralizza e che ha reso sino ad oggi impossibile il sollevamento generale in Russia è la vita chiusa delle comunità rurali, l’isolamento e la separazione dei contadini che popolano il mir»((M. Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1968, p. 228.)) . Engels concorda alla lettera: «Il contadino russo vive tutto immerso nella sua obšcina; il resto del mondo gli interessa solo in quanto si ripercuote nella sua comune» ((F. Engels, Le condizioni sociali in Russia (1875), in K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 228.)) . In generale egli pensa che la marcia del capitalismo sia inarrestabile, l’unica cosa che concede ai suoi interlocutori populisti è che «per la Russia, in quanto ultimo paese invaso dalla grande industria e, insieme, in quanto paese con la popolazione agricola di gran lunga più numerosa, le circostanze di fatto sono tali da rendere più violenti che altrove i sussulti causati da questa metamorfosi economica»((F. Engels a N. Daniel’son, lettera del 24.2.1893, in K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, cit., p. 269.)) .
In realtà tutto il marxismo otto-novecentesco, al di là delle grandi differenze politiche, è concorde nel concepire la storia secondo una successione che ha valore cogente. Plechanov, incarnazione del marxismo ortodosso, pensa che il capitalismo sia l’indispensabile antecedente del socialismo perché così stabilisce l’inviolabile legge della storia, ma anche Rosa Luxemburg ritiene che per i paesi arretrati la rivoluzione sia necessaria per creare «un apparato statale modellato sulle esigenze della produzione capitalistica»((R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1960, p. 409.)) . Nondimeno è proprio la Luxemburg, nell’ambito del marxismo dell’epoca, a dimostrare la maggiore sensibilità per le istanze fatte valere dall’ultimo Marx. In Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa (1904) scrive: «Tutti gli stadi economici che hanno preceduto l’ordinamento capitalistico non sono semplicemente delle nude forme di “non sviluppo” rispetto all’apogeo della creazione – il capitalismo – ma tipi diversi di economia aventi sul piano storico eguale legittimità»((Cit. da R. Luxemburg, Larivoluzione russa, a cura di M. Cappitti, bfs, Pisa 2017, p. 14.)).
Tra queste diverse forme rientra l’economia contadina a cui Marx, per altro, non attribuisce alcuna possibilità di effettiva vita autonoma. Questo per segnalare che la convergenza con il populismo era limitata alle sue correnti rivoluzionarie e socialiste. La forma della proprietà privata individuale gli interessa nell’ambito dello studio della circolazione semplice, in cui si ha sviluppo della divisione sociale del lavoro e produzione di valore di scambio, interpretandola come una forma di passaggio verso rapporti capitalistici, ovvero anche come «la pura forma fenomenica di un processo più profondo che sta dietro di essa»((K. Marx, Versione primitiva di Per la critica dell’economia politica, in Id., Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 99.)) . Il contadino singolo, titolare della proprietà privata del suo strumento di lavoro (la terra), «ha prodotto in quanto individuo privato indipendente di sua propria iniziativa, solamente determinato dal proprio bisogno e dalle sue proprie capacità (…) né come membro di una comunità naturale, né come individuo che partecipi direttamente come essere sociale alla produzione (…). Però egli ha prodotto valore di scambio (…). Il legame sociale è ora dato unicamente dalla merce, gli individui non sono né sussunti sotto una comunità naturale (insieme dei modi di produzione precapitalistici) né essi sussumono sotto di sé la comunità umana (comunismo). Essi producono come individui privati e stanno l’uno di fronte all’altro equivalenti e nello stesso tempo indifferenti; ciò che li pone in rapporto non è la loro umanità, il riconoscimento della particolarità individuale, ma il commercio»((Ivi, pp. 78 e sgg.)) . Il denaro è l’unica effettiva comunità, esistente materialmente fuori dagli uomini e loro contrapposta. «L’unico nexus rerum è diventato fra loro il denaro (…). Il contadino non ha più di fronte il possessore di altri beni come contadino, con il suo prodotto e il suo lavoro campestre, ma come possessore di denaro, dal momento che l’immediato valore d’uso è stato alienato attraverso la vendita, esso ha assunto attraverso la mediazione del processo sociale una forma indifferente»((Ivi, pp. 33-34.)) .
Come detto lo studio delle comunità contadine nelle loro molteplici forme e varietà tipologiche a seconda dei tempi e dei luoghi ha interessato a lungo Marx. La sua tesi di fondo, schematica ma potente, è che vi sono solo due forme fondamentali in cui si è andata definendo la posizione dei contadini: o fanno parte di una comunità, comunque definita e organizzata, attraverso la quale entrano in rapporto con la terra; o sono lavoratori liberi che posseggono solo la loro forza-lavoro e lavorano la terra come salariati agli ordini del capitale. La terza forma, quella del contadino proprietario della terra, al centro dell’ideologia borghese, è la più fragile e instabile perché può avere un futuro di progresso solo se recupera la dimensione comunitaria in forme associative, cooperative, collettive, oppure rischia continuamente di essere assorbita nel modo capitalistico di produrre.
Nell’ottica di Marx il contadino lavoratore e proprietario della terra incarna una forma ristretta di individualità, senza la possibilità che la sua personalità e specificità siano riconosciute, perché la relazione sociale è mediata dal denaro. Avviene così il passaggio al modo di produzione capitalistico, reso possibile dalla perdita della terra da parte dei contadini, che entrano in una nuova forma di servitù, non più verso il signore feudale ma verso la borghesia terriera che utilizza e sfrutta il loro lavoro in forma diretta o indiretta (affittanza capitalistica e rendita fondiaria). Sono passaggi storicamente complessi su cui Marx si impegna a fondo individuando le modalità attraverso cui in Europa si è passati dal feudalesimo al capitalismo. Bastino queste due citazioni: «La moderna proprietà fondiaria è la proprietà feudale, modificata però dall’azione del capitale»((K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. II, Einaudi, Torino 1955, p. 268.)); «Il monopolio della proprietà fondiaria è la base stessa del modo di produzione capitalistico»((K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1964 (5°ed.), p. 925.)).
Il presupposto dello sviluppo del capitale è che, in forme storiche diverse, avvenga la dissoluzione della comunità naturale contrassegnata dall’unione dei suoi membri tra di loro e con l’ambiente. L’incontro del lavoro, o meglio della forza-lavoro, con il capitale presuppone un processo storico di «dissolvimento del rapporto con la terra – terreno – quale condizione naturale di produzione con cui (il lavoratore) sta in rapporto come con la propria esistenza inorganica, laboratorio delle sue forze e dominio della sua volontà. Tutte le forme in cui si presenta questa proprietà presuppongono una collettività, i cui membri, pur se tra loro possono esistere delle differenze formali, sono proprietari in quanto suoi membri. La forma originaria di questa proprietà è pertanto la stessa proprietà comunitaria diretta (forma orientale, modificata nella forma slava; sviluppata sino all’opposto, ma pur sempre base nascosta anche se contraddittoria, nella proprietà antica e germanica)»((K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 100-101.)) .
Marx qui e in altri luoghi disegna un quadro storico generale da cui risulta che la proprietà comune della terra non caratterizza questa o quella situazione, ad esempio quella russa, ma è un dato generale riscontrabile in ogni contesto, lo sfondo comune su cui si innestano, in ambienti storici da mettere a fuoco, i processi di dissolvimento senza di cui non avrebbe potuto insediarsi il capitale. La proprietà comune non è una specificità russa, cosa su cui per altro concordava il populismo rivoluzionario a partire dal principale referente di Marx su questi temi: Nikolaj Cernyševskij((Cfr. M. Natalizi, Nikolaj Gavrilovic Cernyševskij. Scritti politico-filosofici, Fazi, Roma 2011.)). È vero invece che in Russia, e altrove, le forme comunitarie stavano dimostrando una tenace e sorprendente resistenza, tanto più che esse agivano in presenza di due fenomeni decisivi per spezzare il preteso assoluto determinismo del modo di produzione capitalistico quale tappa necessaria per arrivare al socialismo e comunismo. Il progresso tecnico-scientifico e la diffusione su scala sociale di intellettuali liberi, non asserviti al potere, rendeva possibile il passaggio dalla comunità originaria, tipicamente incarnata dalle comunità contadine, ad una forma superiore di organizzazione sociale (il comunismo) senza che l’associazione libera da dominio degli uomini tra di loro trovasse il suo rovescio in una soggezione generale degli uomini verso la natura((Su ciò si veda il primo capitolo de Il Capitale. Libro primo.)). Sarà poi lo stesso Marx ad avanzare dubbi su tempi e modi del rovesciamento della soggezione in dominio sulla natura, secondo l’immaginario prometeico condiviso dal materialismo storico e dalle varie ideologie filo capitalistiche (liberismo, positivismo ecc.). Un tale cruciale passaggio implicava un superamento attraverso una duplice rottura con i suoi due principali autori di riferimento: Hegel e Feuerbach. In merito si vedano principalmente gli studi di Roberto Finelli(( R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Id., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014.)) .
Indagando la natura del capitale Marx si rende conto che è molto più difficile spezzarne le catene di quanto risultasse dalla visione storica unilineare, assunto base del marxismo quale ideologia del progresso. All’inizio si ha sia dissoluzione che ricomposizione: il denaro compra sia le condizioni oggettive del lavoro che il lavoro vivo dei lavoratori divenuti «liberi». Su questa base prende avvio l’accumulazione capitalistica che realizza l’unificazione di lavoratori liberi, spogliati delle loro condizioni oggettive di lavoro, con i mezzi di produzione. Il capitale diventa tale mettendo al lavoro l’unica merce che il lavoratore può mettergli a disposizione, la sua forza-lavoro. Il processo di dissoluzione e il processo di unificazione si saldano dando vita al modo di produzione capitalistico, incentrato sulla valorizzazione del capitale: «Il prodotto del processo di produzione capitalistico non è né un semplice prodotto (valore d’uso) né semplice merce, cioè prodotto dotato di valore di scambio; il suo prodotto specifico è il plusvalore; merci che possiedono più valore di scambio cioè rappresentano più valore di quello anticipato per la loro produzione in forma di merci e denaro (…). Il suo prodotto non è solo merce ma capitale»((K. Marx, Capitolo sesto inedito, La nuova Italia, Firenze 1969, pp. 32-33 e 48.)) . Il capitale in processo per mantenersi e espandersi ha bisogno continuamente di uomini ridotti alla condizione di forza-lavoro, quindi l’accumulazione come spogliazione deve potersi rinnovare di continuo, ma l’unificazione non è meno decisiva. Tra lavoro e capitale non c’è solo opposizione ma saldatura reale, non c’è solo conflitto ma convergenza. Il capitale soggettivizza una forza-lavoro conforme alla sua finalità autoproduttrice, avviene così il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale: il capitale, valore che si valorizza, sussume sotto di sé il lavoro e realizza la sua propria «comunità materiale» che non potrà essere spezzata per linee interne o per il prodursi di crolli e catastrofi perché la distruzione diventa essa stessa creatrice di nuovo capitale , come dimostra il ciclo storico in atto di distruzione sistematica della natura (in continuità e simbiosi con l’industrializzazione e perpetuazione della guerra).
In tutta evidenza negli ultimi scritti sulla Russia, soprattutto negli abbozzi della lettera a Vera Zasulic, Marx si ricollega alle analisi che aveva condotto nei Grundrisse, in specifico nei quaderni poi pubblicati come Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehen, incentrati sulle diverse forme comunitarie che precedono l’impiantarsi del modo di produzione capitalistico. Un insieme diversificato di «comunità naturali», in cui la forma sociale dominante, la comunità, «si presenta non come risultato ma come presupposto dell’appropriazione (temporanea) e dell’utilizzazione comunitaria del suolo»((K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 452.)). La priorità della comunità, innanzitutto nel rapporto con la terra, fa sì che l’individuo non possa assurgere alla condizione di lavoratore libero (di vendere la propria forza-lavoro). Le analisi e le vie d’uscita che cerca nelle diverse e tormentate stesure del documento rimasto incompiuto e conosciuto come lettera a Vera Zasulic (esponente di punta del populismo rivoluzionario) hanno il loro riferimento diretto nelle Formen. Dove prevale la proprietà comune della terra, nelle diverse tipologie, orientale, antico-romana, germanica, «l’individuo non può mai presentarsi nell’isolamento in cui si presenta quale lavoratore libero. Se le condizioni oggettive del suo lavoro sono presupposte come condizioni che gli appartengono, egli stesso è soggettivamente presuppo-sto come membro di una comunità, la quale media il suo rapporto con la terra. La sua relazione con le condizioni oggettive del lavoro è mediata dalla sua esistenza come membro della comunità»(( Ivi, p. 464.)) .
Abbandonando e criticando l’unilinearismo positivistico che stava prendendo piede nel marxismo, negando la necessità storica che in ogni paese dovesse affermarsi come modo di produzione dominante il capitalismo, Marx riparte dalla differenza qualitativa maggiore cheaveva individuato rispetto al modo di essere e di riprodursi del capitale. Lo «scopo dell’economia e della produzione materiale, in tutte le società premoderne legate alla terra, non è la produzione della ricchezza di per sé, nella sua astrazione come accade nella modernità, ma la conservazione e la riproduzione del singolo in quanto designata e definita dalla peculiare relazione che lo lega alla comunità»((R. Finelli, Un parricidio compiuto…, cit., p. 52.)). Ovvero, come dice ancora Marx, «il fine economico è la produzione di valore d’uso, la riproduzione dell’individuo considerato nei suoi rapporti determinati»((K. Marx, Lineamenti…, cit., p. 463.)).
Al contrario nelle società moderne, dove il lavoratore è separato dalla proprietà del suolo e dello strumento di lavoro, l’economia conquista la sua autonomia e supremazia, «anzi, privando a sua volta di autonomia le altre sfere del vivere sociale, le rende compatibili e disponibili alla propria logica tendenzialmente assoluta e onnipervasiva»((R. Finelli, Un parricidio compiuto…, cit., p. 54.)). Se è vero che su questo piano il discorso di Marx è rimasto embrionale e in buona parte «ignoto a se stesso» (R. Finelli), ci pare legittimo segnalare che le sue analisi sulla comunità contadina e la rivoluzione russa rappresentano il tentativo più interessante per spezzare la doppia gabbia del capitale e di un’alternativa ad esso subalterna. Un tentativo rimasto ignoto alla generalità dei marxisti, che ha al centro la sorprendente (o sconcertante) valorizzazione delle potenzialità anticapitalistiche dell’obšcina, senza che ciò implichi un cedimento in senso organicistico, dato che viene costantemente ribadito il valore universale e irrinunciabile della libera individualità, inteso come esito della modernità. Il tema dell’individualità è cruciale nel Marx della maturità che ha abbandonato l’organicismo comunitario feuerbachiano, mentre anche l’assunzione del proletariato come classe universale che rappresenta l’intero genere umano secondo la costruzione teleologica del materialismo storico è revocata in dubbio. Ciò senza mai abbandonare il tema originario della critica all’individualismo borghese, in cui l’individuo non è libero ma sottomesso al primato dell’economia, cioè del capitale.
Negli ultimi dieci anni della sua vita la Russia divenne fondamentale per Marx, non solo perché era il paese in cui la sua opera destava più interesse, ma per il ruolo geopolitico che gli aveva sempre attribuito, solo che il bastione della controrivoluzione gli appariva ormai come l’anello debole della catena, il luogo in cui la rivoluzione avrebbe potuto manifestarsi con una intensità senza pari. Il populismo rivoluzionario russo, sullo sfondo della esplosiva questione contadina, lo aveva colpito profondamente e indotto a rimeditare e precisare la sua concezione della storia, respingendo vigorosamente l’unilinearismo del nascente marxismo, allargando il concetto di proletariato alle masse contadine, aprendo l’orizzonte della rivoluzione verso i paesi extraeuropei. Né le tormentate ultime ricerche marxiane, con tutte le loro implicazioni, né l’atteggiamento populista rivoluzionario nei confronti del mondo contadino furono ripresi dal marxismo russo e internazionale prima o dopo la rivoluzione del 1917.
I problemi posti dalle analisi di Marx sulla comune contadina e la rivoluzione russa non erano di facile soluzione, di qui la convergenza unanime nel farle letteralmente sparire con un’operazione di censura e autocensura che ha coinvolto gli stessi curatori dei suoi scritti sull’argomento, dimostratisi indisponibili non diciamo a trarne delle conclusioni ma almeno a non negare l’evidenza. Un nodo politicamente irrisolvibile nelle coordinate del marxismo era quello del ruolo della classe operaia, il soggetto della rivoluzione, che viene a essere messo in discussione quando si ipotizza la possibilità di una rivoluzione in cui il soggetto sociale preponderante sono i contadini delle comuni, gli esponenti di una formazione sociale arcaica; per di più, a differenza di quanto pensavano Engels e tutti i marxisti, una rivoluzione in grado di evitare alla Russia di passare sotto le forche caudine del modo di produzione capitalistico. Secondo l’analisi di Marx in Russia non si era ancora formata una classe sociale libera, cioè privata di ogni rapporto sostanziale con il mondo-ambiente e quindi capace di vendere il proprio corpo-lavoro come unica fonte di sostentamento della propria vita. La presenza socialmente predominante delle comuni contadine era un freno al processo di liberazione-separazione che produce il freie Arbeit, l’operaio «portatore del lavoro in quanto tale – ossia del lavoro come valore d’uso del capitale». E il Marx degli anni ’80 auspica non una tale liberazione ma il contrario. La Russia comunitaria e rivoluzionaria si colloca così agli antipodi degli Stati Uniti, il paese in cui per la prima volta era diventata «praticamente vera l’astrazione della categoria “lavoro”, “lavoro in generale”, lavoro sans phrase» 23 , venendo alla ribaltacome la terra d’elezione del capitale, paese in cui si afferma in modo sistematico e generalizzato il dominio del capitale sulla forza-lavoro, la normalità e naturalità del mettere assieme forza-lavoro e mezzi di produzione da parte del capitale.
Gli sviluppi del movimento rivoluzionario in Russia e il formarsi di un embrionale marxismo russo rendeva tanto importante quanto problematica una esplicita presa di posizione di Marx, direttamente coinvolto nelle dispute interne e esterne alle varie correnti del populismo. In breve si può dire che egli si collocasse sulle posizioni di Cernyševskij criticando invece apertamente Herzen che accusava di panslavismo e di cedimenti al liberalismo, ma che sicuramente gli riusciva sospetto per i legami con Bakunin, proprio mentre lo scontro tra marxisti e anarchici causava il fallimento della Prima internazionale. La contrapposizione Herzen – Cernyševskij, oggetto di valutazioni opposte rispettivamente neiPoscritti della prima e seconda edizione tedesca de Il Capitale (Libro Primo), non è priva di ambiguità e risulta palesemente strumentale – come succede spesso nel Marx politico –. Infatti egli argomenta la sua predilezione per Cernyševskij sostenendo di trovare nella sua teoria dell’obšcina la valorizzazione sia della comunità che dell’individualità, ma questa era, ancor prima, la parola d’ordine di Herzen: «Preservare la comune e rendere libero l’individuo», tanto da indurlo a polemizzare apertamente con le tendenze collettivistiche e settarie ben presenti tra i rivoluzionari russi, sino al caso limite del machiavellismo selvaggio e fanatico di Necaev.
Una presa di posizione esplicita di Marx sul destino delle comunità rurali si avrà con la lettera all’«Otecestvennye Zapiski» del novembre 1877 (pubblicata però solo nel 1884) e, ancor più, nella lettera alla Zasulic del 1881, ma l’evoluzione in senso filopopulistico, e a sostegno dell’ obšcina, si può rintracciare in modo evidente nelle lettere che scrive a Ludwig Kugelmann e in modo più velato nella stessa corrispondenza con Engels. Nella lettera al primo del 17 febbraio 1870 scrive: «Ciò che immiserisce i contadini russi è la stessa cosa che sotto Luigi xiv immiseriva quelli francesi: le imposte statali e l’obrok ai grandi proprietari terrieri. Invece di produrre la miseria, soltanto la proprietà collettiva della terra ebbe l’effetto di mitigarla. Inoltre è una menzogna storica che questa proprietà collettiva sia mongolica. Come accennai diverse volte nei miei scritti, essa è di origine indiana e si riscontra perciò presso tutti i popoli civili europei all’inizio del loro sviluppo»(( K. Marx, Lettere a Kugelman, Rinascita, Roma 1950, p. 125.)). Contestualmente si delinea il processo di allontanamento di Marx da quelli che stavano diventando i dogmi di un marxismo fortemente influenzato dal positivismo. Nella Prefazione all’edizione francese delCapitale (1872-75), a differenza di quanto scriveva nella Prefazione del 1867 (prima edizione del Libro Primo), limita ai paesi già industrializzati la funzione di immagine del loro futuro che assegna ai paesi leader nell’industrializzazione. Spia evidente, seppure sotto traccia, della sua ricerca di vie alternative all’industrializzazione capitalistica, non senza l’influenza dell’evolversi della situazione russa. Scrivendo a Friedrich Sorge nel settembre dello stesso 1877, sostiene che la Russia è sull’orlo di un rovesciamento rivoluzionario: «La rivoluzione comincia questa volta in Oriente».
Nella lettera all’«Otecestvennye Zapiski» Marx prende apertamente posizione contro uno dei futuri capisaldi dell’ortodossia marxista, respingendo la scelta di «trasformare il (suo) schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli indipendentemente dalle circostanze storiche nelle quali essi sono posti, per giungere infine alla forma economica che garantisce, con il maggiore slancio del potere produttivo del lavoro sociale, lo sviluppo integrale dell’uomo». Eventi analoghi in contesti diversi hanno esiti differenti, per trovare la chiave interpretativa serve uno studio analitico-comparativo, «non ci si arriverà mai col passe-partout di una teoria storico-filosofica generale, la cui virtù suprema consiste nell’essere soprastorica»((Marx Engels Lenin, Sulle società precapitalistiche, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 285-87. Questa raccolta, pur molto discutibile per l’impostazione datane dal curatore M. Godelier, ha il vantaggio rispetto a quella di Maffi di presentare nella loro integrità i materiali a cui ci riferiamo.)). Quanto alla Russia la conclusione a cui egli è giunto è che se «continua a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha camminato, perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto ad un popolo, e subirà tutte le inevitabili peripezie del regime capitalistico»((Ivi, p. 285.)) .
Il successo delle opere di Marx tra i rivoluzionari russi era grande quanto le difficoltà che incontravano nel mettere a fuoco le sue tesi sul capitalismo, la Russia, la rivoluzione. Emblematica la lettera del 22 settembre 1880 che il populista Gerasim Romanenko scrive a Nikolaj Morozov: «Marx e Engels dicono che il socialismo sarà una conseguenza dello sviluppo estremo del capitalismo. Molti hanno dimostrato che questa strada non è obbligatoria e il migliore tra coloro che hanno sostenuto questa tesi è stato Cernyševskij. Ora io voglio dimostrare che la via indicata da Marx è semplicemente impossibile ovunque»((Cit. da F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, Torino 1952, pp. 1089-90.)) . In tale contesto il 14 febbraio 1881, Vera Zasulic scrive a Marx chiedendogli la sua opinione «in merito al possibile destino della nostra comune rurale e in merito alla teoria della necessità storica, per tutti i paesi del mondo, di passare per tutte le fasi della produzione capitalistica»((Cit. da M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, Milano 2011, p. 272.)). Su entrambi le questioni la risposta di Marx è che non c’è alcuna legge storica che imponga la dissoluzione della comune e il percorso obbligato lungo gli stadi dello sviluppo capitalistico. Ma di lì a poco la Zasulic diventa marxista e la lettera fu conosciuta solo all’interno della cerchia ristretta dei neo-marxisti facenti capo a Plechanov.
Nella lettera, specie negli irrisolti abbozzi preparatori, Marx ribadisce che «coloro che credono nella necessità storica della disgregazione della proprietà comunale in Russia non possono in alcun caso provare tale necessità con la mia esposizione della marcia fatale delle cose in Europa occidentale»((Karl Marx a Vera Zasulic, Secondo abbozzo, in Marx, Engels, Lenin, Sulle società…, cit., p. 267. La scoperta delle diverse stesure risale al 1911 da parte di David Rjazanov che le trovò nelle carte di Paul Lafargue. La lettera effettivamente spedita da Marx alla Zasulic fu ritrovata nell’archivio di Pavel Axel’rod. Questi documenti furono resi pubblici sempre da Rjazanov (poi fatto assassinare da Stalin nel 1938) nel 1925 nei «Marx-Engels Archiv» da lui curati. Un’illustrazione sintetica e corretta di tali materiali è contenuta in M. Rubel, Karl Marx et le socialisme populiste russe, in «Revue socialiste», n. 11, 1947, ma l’autore di Marx critico del marxismo (ed. it. Cappelli, Bologna 1981) era visto con gran sospetto dai marxisti e i suoi scritti non venivano presi in considerazione.)). Stabilito questo punto fermo l’altra tesi, in piena sintonia con tutto il populismo rivoluzionario, è che solo la rivoluzione poteva salvare la comune, non è «un problema teorico»: «Per salvare la comune russa è necessaria una rivoluzione russa (…). Se la rivoluzione sopraggiunge a tempo, (la comune) si svilupperà presto come elemento rigeneratore della società russa e come elemento di superiorità sui paesi asserviti dal regime capitalistico»((Karl Marx a Vera Zasulic, Primo abbozzo, in op. cit., pp. 266-67.)) .
A sostegno delle sue argomentazioni, in evidente rottura con il marxismo coevo e successivo, Marx porta una serie di argomenti che formano una trama complessa in cui rientrano: la questione della rivoluzione in Russia su cui Marx si interroga a fondo ribaltando la posizione russofoba mantenuta sino agli anni ’60; gli studi di argomento etnologico che lo assorbono negli ultimi anni di vita, spostando il focus delle sue ricerche, o almeno complicandolo decisamente, al di là del mondo industrializzato europeo-occidentale; la radicale riconsiderazione del capitale e della sua presa sulla società, senza più alcuna fiducia nel ruolo progressivo della borghesia.
Le comunità contadine affondano nel tempo e però sono ancora ampiamente presenti in luoghi diversi e con differenti tipologie, «uno di questi tipi – dice Marx – che possiamo chiamare comune agricola è quello dell’attuale comune russa», che quindi costituisce «il tipo più recente della formazione arcaica della società». A seconda dei contesti può prevalere l’elemento privato o quello collettivo. La Russia si presenta con la forma più moderna del tipo arcaico ed essendo «emancipata dai forti e ristretti legami di parentela naturale, la proprietà comune del suolo e i rapporti sociali che ne derivano, le garantiscono una salda base, mentre la casa privata e la corte rustica, dominio esclusivo della famiglia individuale, la coltura parcellare e l’appropriazione privata dei suoi frutti, danno all’individualità un impulso incompatibile con le strutture delle comunità primitive»((Karl Marx a Vera Zasulic, Terzo abbozzo, in op. cit., p. 275.)) .
Si configura una differenza sostanziale rispetto alla situazione europea-occidentale, qui la proprietà privata affermatasi con il feudalesimo e il suo dissolvimento, viene soppiantata dal capitalismo agrario: «Si tratta dunque della trasformazione di una forma di proprietà privata in un’altra forma di proprietà privata. Per i contadini russi, si tratterebbe al contrario di trasformare la loro proprietà comune in proprietà privata»((Karl Marx a Vera Zasulic, lettera dell’8 marzo 1881, in op. cit., p. 278.)). Risalta la peculiarità della situazione russa, perché «la Russia è il solo paese europeo in cui la “comune agricola” si sia mantenuta sino ad oggi su scala nazionale (…) come forma quasi predominante della vita popolare, diffusa su un immenso impero, non già in residui sparsi»((Karl Marx a Vera Zasulic, Primo abbozzo, in op. cit., pp. 260-61.)).
D’altro canto la Russia non è isolata dal resto del mondo e può approfittare degli sviluppi avvenuti nei paesi dove si è imposto il capitalismo, appropriandosi delle acquisizioni positive «senza passare sotto lesue forche caudine»((Ivi, p. 260.)). Argomento su cui molto insisteva Cernyševskij. In definitiva Marx pensa che sia possibile trarre vantaggio dalla contemporaneità del non contemporaneo, realizzando la rinascita in una forma superiore di un tipo sociale arcaico, ciò in presenza di una crisi del capitalismo o meglio dell’esaurirsi della sua funzione progressiva, per cui la rivoluzione in Russia si manifesterà come spinta potente volta alla rigenerazione dell’ obšcina. Cosa che, in dimensioni a lungo oscurate dall’ideologia e dalla storiografia, avvenne con le due rivoluzioni del 1905 e 1917, prima della disintegrazione attuata dai marxisti giunti al potere sull’onda delle sollevazioni contadine((Sullo sfondo di tale serrate e decisive vicende, conviene richiamare uno dei passi in cui Marx accenna alla realizzazione della comunità umana (comunismo), quando: «I produttori associati regolano razionalmente il loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo invece di essere dominati da esso come una forza cieca», aggiungendo che condizione necessaria del passaggio ad una forma comunitaria superiore è la riduzione della giornata di lavoro. (Cfr. K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, cit., p. 933).)) .
Una vera saldatura tra Marx e il populismo rivoluzionario segna i suoi ultimi anni di vita che coincisero con la fase culminante e la rapida crisi del più importante raggruppamento populista russo: la Narodnaja Volja, la cui attività era sfociata nell’assassinio dello zar Alessandro II il 1 marzo 1881. Ma la convergenza di Marx con i narodvol’cy era inaccettabile per il marxismo, di qui è scaturita una continua opera di rimozione e manipolazione, considerata indispensabile per la costruzione di un canone ideologico, sia da parte delle correnti marxiste rivoluzionarie, in particolare il leninismo, sia da parte di quelle riformistiche, socialdemocratico-occidentali, non senza conseguenze sull’intero pensiero marxista novecentesco. L’accordo tra Marx e la Narodnaja Volja concerneva sia la prospettiva strategica: un socialismo incentrato sulle comunità contadine, che i compiti immediati: abbattimento dell’autocrazia anche con l’uso del terrorismo. Contrariamente a ciò che è stato sostenuto ininterrottamente all’interno del marxismo e della storiografia ad esso ispirata si deve prendere atto che Marx, attraverso passaggi successivi e cause molteplici, convenne esplicitamente e innegabilmente con l’utopismo comunitario populista e con le stesse scelte terroristiche dei narodvol’cy. È da ricordare che tale evoluzione e esito non posero solo difficili problemi al marxismo in costruzione, nonostante l’esplicita contrarietà di Marx alla trasformazione del suo lavoro teorico in ideologia, ma allo stesso Engels, che su alcuni punti chiave mantenne posizioni differenti, e in fondo allo stesso Marx, come risulta dalle bozze della lettera a Vera Zasulic, forse materiali preparatori di un opuscolo promesso al Comitato Esecutivo della Narodnaja Volja, che poi non vide la luce anche per la piega degli avvenimenti presa in Russia. La scelta di Marx per la Narodnaja Volja dipese dal fatto che era l’unica organizzazione che avesse la dimensione di un vero partito politico, sia pure necessariamente clandestino, capace, come fa osservare Venturi, di raccogliere e indirizzare le forze più efficienti ed attive della generazione rivoluzionaria degli anni ’70.
Nei fatti con il suo lavoro di ricerca, soprattutto dopo la caduta della Comune di Parigi, e grazie al forte successo delle sue opere, nonché con gli intensi contatti con l’intelligencija rivoluzionaria, Marx diede un contributo rilevante allo sviluppo del populismo russo, contribuendo a farne la prima compiuta formulazione di un’alternativa al modello politico e economico europeo-occidentale. L’ultimo Marx convenne esplicitamente con il nucleo ideologico portante del populismo: la rivoluzione sarebbe scoppiata in Russia prima che in ogni altro paese, avendo come base le comuni contadine e l’incontro con il socialismo europeo. Una previsione che venne sconfitta attraverso molte peripezie e però suggestiva alla luce degli scenari successivi, che per certi aspetti arrivano sino a noi, specie nei paesi extraeuropei.
La posizione che Marx finisce con l’assumere, sino alla piena convergenza con la tesi populista che fosse possibile una rivoluzione sociale su base comunitarie contadine, rigenerando l’obšcina e facendo proprie le conquiste scientifiche e tecniche dell’Occidente, costituisce una svolta politica e teorica rispetto a cui lo stesso Marx risulta titubante nel trarne tutte le conseguenze. È un fatto che il suo argomentare comporta una rottura esplicita con un caposaldo del marxismo come scienza della storia, ovvero la centralità della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, quale chiave interpretativa della dinamica storica. Con ogni evidenza nella Russia dell’Ottocento le forze produttive non si erano sviluppate a un punto tale da rendere matura una rivoluzione che adeguasse a tale sviluppo i rapporti di produzione, secondo quanto previsto dal materialismo storico e dalla sua concezione del divenire del processo storico.
Un’ulteriore conseguenza dell’approccio marxiano è che la classe operaia, la classe formata dal processo di espropriazione e ricomposizione operata dal capitale, non appare più come il soggetto unico e necessario della rivoluzione. È possibile una rivoluzione contro il capitale, prima che la sua presa di possesso sulla società diventi totale, senza che essa sia una rivoluzione contro Il Capitale come legittimamente argomentava Gramsci in termini marxisti, che non erano più quelli dell’ultimo Marx. Gli eventi storici successivi che qui possiamo solo evocare confermarono l’intuizione di Marx sulla possibilità che una rivoluzione socialista se non comunista scoppiasse in Russia, principalmente ad opera dei contadini o di soldati contadini o di operai ancora legati alla campagna. Ma i marxisti giunti al potere si impegnarono a fondo per rimettere a posto le cose, e alla fine con Stalin ci riuscirono, cancellando la via d’uscita intravista da Marx in sintonia con il populismo russo. Non in modo rettilineo ma con una sostanziale coerenza l’ultimo Marx cerca di spezzare la gabbia en tro cui rimarrà rinserrato il marxismo: superiorità – inferiorità; paesi avanzati – paesi arretrati; sviluppo – sottosviluppo, da cui è derivata la gara con il capitalismo nel realizzare la crescita massima, illimitata, dell’economia.
Le conseguenze dell’obliterazione delle riflessioni di Marx sulle comunità contadine in Russia (e non solo) furono durature, costringendo i marxisti anticapitalisti e anticolonialisti o ad aderire a una ortodossia che ne minava la forza politica e teorica o a percorrere in solitudine e contro i diktat di Mosca e della Terza internazionale un percorso originale e convergente con quanto Marx aveva anticipato. Il caso più significativo (ma non unico) è quello del peruviano José Carlos Mariátegui((Si veda M. Lowy,Il marxismo romantico di José Carlos Mariátegui, in Rivoluzione e sviluppo in America Latina, a cura di P.P. Poggio, vol. IV de L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Fondazione Luigi Micheletti – Jaca Book, Milano 2016, pp. 385-96, con esplicito riferimento alla lettera di Marx alla Zasulic.)) . Solo lentamente la ricerca storica e etnologica ha preso atto delle dimensioni sorprendenti, ubiquitarie, delle molteplici forme di proprietà comune della terra e di quelli che oggi, mentre sono sempre più minacciati, saccheggiati e distrutti in modo irreversibile, si chiamano beni comuni. Non si tratta affatto di un ritardo casuale e innocente ma dell’altra faccia della presa di possesso della terra da parte del capitale, con il ruolo decisivo dello Stato, degli intellettuali e dei tecnici, che hanno sancito il carattere naturale e storicamente progressivo della proprietà privata della terra e delle sue risorse, compresa l’acqua e ormai anche l’aria (respirabile).
Tra gli infiniti esempi, in ragione delle sue conseguenze tragiche e persistenti, accenniamo al caso di Israele e della Palestina. A causa della percezione che gli occidentali, a partire dai britannici, avevano del mondo contadino arabo, la proposta delle Nazioni Unite del 1947 di spartizione della Palestina con gli ebrei partiva dal presupposto che più del 70% della terra non appartenesse legalmente alla popolazione araba, per cui si argomentava che gli arabi palestinesi avevano scarsi legami con la (loro) terra. Ma «la cosiddetta miri, cioè la terra di proprietà statale, che rappresentava la stragrande maggioranza della terra in Palestina, non deve essere considerata come terra “abbandonata” ma, al contrario, come terra che apparteneva alla popolazione che vi abitava, la considerava propria e la coltivava, sebbene non ne fosse legalmente proprietaria»((A. Marzano, La semplificazione dell’altro. Il caso della Palestina, in «Passato e presente», n. 101, 2017, p. 137, in riferimento a L. Kamel, Imperial Perception of Palestine, Tauris, London-New York 2015.)). Sotto la sottile crosta giuridica non è difficile riconoscere la presenza di una forma diffusa di possesso comunitario della terra. Cosa che avrebbe dovuto molto interessare uno dei pochissimi estimatori degli scritti di Marx sulle comuni rurali, il Martin Buber di Pfade in Utopia (1950) che considerava le frammentarie note marxiane «il tentativo più importante di abbracciare sinteticamente il tema delle comunità di villaggio russe»((M. Buber, Sentieri in utopia, Comunità, Milano 1967.)). Il riconoscimento delle somiglianze e differenze doveva sfociare nella diffusione di strutture comunitarie pre e post statali, in cui fosse possibile il confronto e la cooperazione tra culture diverse alla scoperta di radici comuni. Le vicende in Palestina, in Russia, e quasi ovunque, sono andate diversamente con il prevalere della potenza, se non della pulsione di morte, sulle ragioni dei singoli e delle comunità, asservendo gli uni e le altre a forze astratte, dispotiche e incontrollabili, contro cui Marx condusse la sua ultima, e poco nota, battaglia.
A dire il vero, lentamente, l’interesse per l’ultimo Marx, la Russia e le comunità contadine si è accresciuto, con le implicazioni storiche e teoriche che, in qualche modo, avevo intravisto e in parte messo a fuoco; ne sono scaturite ricerche importanti, molto diverse tra di loro, mi limito a citare i nomi di Theodor Shanin e di Enrique Dussel. Più recentemente in Italia, a parte alcuni studi specialistici, si sono dedicati allo studio dell’ultimo Marx storici della filosofia e del marxismodi una nuova generazione, tra cui Luca Basso, Marcello Musto, Massimiliano Tomba. Un punto di discussione concerne la genealogia, oltre che il rilievo, della rottura dell’unilinearismo e eurocentrismo di Marx; la mia tesi (di mezzo secolo fa) è che la questione russa giocò un ruolo cruciale, altri pensano che il cambiamento di prospettiva derivasse principalmente per l’attenzione verso i paesi extraeuropei, ovvero dai risultati di ricerche etnologiche come l’Ancient Society (1877) di Lewis Morgan. È evidente che giocarono più componenti ma continuo a pensare che la Russia, anche per le implicazioni strategiche e rivoluzionarie, abbia giocato un ruolo decisivo nel riorientamento politico e teorico di Marx.
Testo tratto dall’introduzione a P.P. Poggio, La rivoluzione russa e i contadini, Jaca Book, Milano 2017