Maschio guerriero, maschio protettore: il paradosso mortale dentro il patriarcato
Per me uomo, bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.
Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.
Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc, che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).
Ma infine s’impara anche che, acquisizione felice di più recenti studi antropologici, è diventato possibile storicizzare la nascita del patriarcato. Voglio dire che di fronte alla disperante nozione che affonda quella nascita nella notte dei millenni, oggi siamo in grado di datarla con una certa sicurezza a circa tre, quattro mila anni fa, che fanno in tutto solo trenta, quaranta secoli, che in fondo non è gran che: siamo in definitivamente eredi di una quarantina di generazioni di sapientes e non è più così difficile pensare che il patriarcato come è nato possa anche morire. Nel senso che intanto non solo sappiamo cosa non vogliamo ma anche quali radici abbiamo da estirpare, che poi facendo ciò si possa anche finire molto verosimilmente col togliere molta aggressività e subliminale capacità di condizionare le genti all’organizzazione capitalistica del mondo, neoliberismo incluso, non può che consolarci.
Si dice a ragione allora insistentemente: il femminicidio è soprattutto un problema di uomini e sono costoro a doversene fare carico pubblicamente. E viene aggiunto subito che riguarda tutti gli uomini, non solo alcuni uomini, che è l’aspetto più difficile da sbrogliare. Perché c’è da superare la tentazione diffusa di addebitare il femminicidio a colpi di follia esplosi in un uomo, magari apparentemente mite e innocuo: del quale solo dopo perlopiù si viene a sapere che esercitava violenze continue e di vario tipo che accumulatesi a un certo punto esplodono.
A monte dunque di questi casi, mitezza apparente ma violenza più o meno nascosta, sembrerebbe che ci sia un tipo di uomo che non ha comunque inibizioni a usare la violenza, né di educazione né di scelta volontaria. Anche se occorrerebbe aggiungere che evidentemente non gli provengono, oggi in particolare, sufficienti inibizioni nemmeno dalla scuola, dalle istituzioni, dalla politica che, nei periodi di crisi come quello che viviamo, dovrebbero far argine nella testa dei ‘violenti’.
Coloro che invece fanno argine per scelta volontaria e che non hanno mai “toccato una donna con un dito” e che dichiarano con fermezza che mai lo farebbero, sembra debbano essere automaticamente esclusi dalla categoria sospetta, il che appare a prima vista anche legittimo.
Tuttavia in questo modo da una parte la violenza viene anch’essa naturalizzata (come avviene dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna), assunta quasi a codice genetico che solo il lungo lavoro della civiltà dei costumi può modificare sottraendo l’umano alla sua ferina barbarie, mentre sappiamo che violenti si può diventare per mille ragioni. Dall’altra la mancata storicizzazione dei comportamenti cui la violenza induce impedisce di ragionare sulle forme di violenza diverse da quelle fisiche, quelle per intenderci che all’interno della relazione impongono di fatto alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali (la cura della casa, del cibo, dei figli, ecc.), dei suoi ‘doveri’ di madre, moglie ecc., sottraendole libertà e parità nelle scelte (in una infinita serie di varianti dovuta a condizione sociale e cultura).
Questo è forse il territorio meno esplorato perché è il più complesso, dato che oggetto dell’analisi non può essere più soltanto il maschio che si sente depositario naturale di una serie di privilegi ma la relazione stessa, soprattutto quella familiare, nella quale anche la donna, pur partendo sempre da una condizione di inferiorità, è costretta ad accettare una serie di compromessi appena compatibili con la sua soggettività nonostante ne avverta il fondo di limitazione e compressione. Si tratta “di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello”((Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà Bollati Boringhieri 2011.)).
Che si tratti di violenza omicida o di quella silenziosa nel quotidiano, il nostro presente è segnato irrimediabilmente dal venir meno dei secolari privilegi dell’uomo, il che fa terribilmente comodo al neocapitalismo, soprattutto nostrano, che sollecita romanticamente il maschio in crisi al recupero di posizioni mettendo a produzione le sue passioni (basta dare un’occhiata agli spot pubblicitari). In ogni caso la violenza snuda il marchio del dominio dell’uomo sulla donna, che di individuo in individuo si caratterizza in una scala infinita di forme che la relegano nell’inferiorità fisica intellettiva e morale, che aprono la strada a umiliazione, schiavitù, deumanizzazione, fino alla reificazione nell’oggetto sessuale di cui il maschio, che se ne sente proprietario, può decidere quando vuole la vita o la morte.
Quis fuit horrendos primus qui protulit enses? Chi afferrò per primo le armi per la guerra? Quando al liceo negli anni cinquanta traducevamo Tibullo (e Virgilio, due specialisti nell’ipostatizzare un paradiso agreste e pastorale senza guerra del quale dopo un secolo di guerre civili non potevano che sentire la mancanza) non potevamo immaginare che cinquant’anni dopo accanto a quella domanda avremmo dovuto farne altre.
Quale frase d’amore fra due teneri amanti risuonò mai per prima dentro gli orrori della guerra: Ti proteggerò io oppure Proteggimi?
In ogni caso in quel momento la divisione dei ruoli era già cosa fatta. E non è che per se stessa non fosse cosa buona. Anche se ormai del bisogno della donna di essere protetta e accudita durante la gravidanza e il parto abbiamo conoscenza che è una costruzione culturale (non sappiamo forse che certe contadine partorivano sulla terra nuda mentre la lavoravano?), tuttavia sappiamo che ogni divisione del lavoro ha vantaggi per ogni membro di una comunità. Il problema è che poi su quella divisione di ruoli tra uomo e donna si venne incistando un sistema gerarchico di poteri che vogliono dominio da una parte e sottomissione dall’altra e che quei ruoli si sono fissati dentro una rete sempre più fitta di doveri e obblighi ‘definitivamente’, al punto che essi hanno finito con l’essere percepiti come ‘naturali’.
Quando è nato il mio primogenito agli inizi degli anni settanta, mio padre, lui che aveva scelto di fare l’artista rompendo con la famiglia patriarcale, e che la famiglia disastrata che fu costretto da quelle stesse regole patriarcali a mettere su l’aveva appunto subita, si ricordò improvvisamente dei ‘naturali’ ruoli nei quali era stato educato e suggerì a mia moglie (già femminista) di lasciare la scuola per dedicarsi al figlio e alla casa (e a me suppongo).
Il potere che derivò un tempo al signore della guerra per essere tornato vincitore si riflette sin dentro la propria casa come estensione di dominio, nel senso che essa storicamente diventa la ‘patria’ da difendere sempre e che per la sua sicurezza deve funzionare secondo le regole che il signore ha esperito vincenti in battaglia: gerarchizzazione, obbedienza, disciplina e fedeltà. La donna ora riceve dalle mani del neo patriarca l’investitura di esecutrice fedele e disponibile di compiti ‘privati (sesso compreso)’, importanti quanto i ‘pubblici’ di sua competenza e di fatto interamente dipendenti dalle sue decisioni.
Quante/i della mia generazione, che hanno steso tenere relazioni d’amore nell’epoca della contestazione antiautoritaria, sono sfuggite/i a questa codificazione di ruoli? La disponibilità a proteggere e ad essere protette, la disponibilità ad una divisione aggiornata tra l’uno e l’altra dei compiti di cura, almeno nelle coppie che hanno resistito, ha finito spesso (ma non sempre, e non così raramente come sostengono certe femministe che parlano di ‘perle rare’ dimenticando tra l’altro che in Italia sono spesso stati uomini a introdurre certi temi del femminismo), a causa dell’organizzazione sociale del lavoro che richiede tempi sempre più cogenti per la produzione e la riproduzione a discapito della relazione che ne viene soffocata, col costringere ad accettare quanto di più collaudato e comodo arrivava dalla tradizione di quei ruoli. Intendo la contrattazione tra tempi dei doveri comuni e tempi del piacere per sé. Nella quale la donna, spinta all’analisi dall’insorgenza femminista, si trovò a scoprire di godere di pochissima libertà rispetto all’uomo, di essere cioè imbrigliata in una dinamica di dominio tutta a favore dell’uomo: verso la quale non si sentiva più disponibile né tanto né poco, dimodoché anche l’uomo ha dovuto rimettere in discussione la propria identità e rileggerla storicamente. La follia da sola non spiega perché la violenza omicida si accanisca sulla donna, ma scardinare la mentalità da guerrieri dominanti che si è radicata dentro di noi in un percorso millenario non è né sarà compito facile.