Merci e imprese
Il film “Pretty Woman” racconta l’incontro di un ricco miliardario (miliardi di dollari) con una intelligente prostituta e l’amore che sboccia fra i due con reciproca salvezza: per il miliardario la salvezza consiste nel passare da una vita impegnata a fare soldi mediante soldi ad una vita impegnata a fare soldi fabbricando delle cose. C’è una battuta che mi è tornata molte volte in mente, in particolare in questi ultimi anni e mesi: la ragazza chiede al miliardario che cosa lui faccia e il miliardario risponde che fa quattrini comprando delle società in difficoltà e rivendendole a pezzi ad altre società che le “ristrutturano” licenziando una parte degli operai; il ricavato dalla vendita dei vari pezzi è superiore al prezzo pagato per la vecchia società tutta intera. La ragazza chiede allora: “E tu non hai mai prodotto niente?”, e il miliardario risponde, un po’ sorpreso: “Niente”. Alla fine il miliardario decide di investire soldi per rimettere in piede un vecchio cantiere e si mette a fabbricare navi, cioè beni materiali, utili non solo a fare soldi.
Avendo passato la vita a studiare come si fabbricano le cose, le merci, mi sono più volte chiesto che cosa fa un imprenditore. Veramente ho sempre creduto che l’intraprendere consistesse nell’investire soldi per acquistare macchinari, materie prime, per pagare salari, fabbricando merci – scarpe, conserva di pomodoro, benzina, automobili, edifici, eccetera – o servizi: ferrovie e treni per consentire alle persone di spostarsi, telefoni o televisioni per comunicare informazioni, eccetera. Merci e servizi da vendere in cambio di denaro: per definizione la quantità di soldi ricavati deve essere superiore ai soldi spesi per produrre merci e servizi e la differenza è il giusto profitto, il premio per l’imprenditore, che gli consente di comprare altre materie e macchinari e di pagare altri lavoratori che sono poi quelli che comprano le merci e i servizi che lui e altri come lui producono, e così via. Carlo Marx, il sociologo ottocentesco che è stato il più acuto critico della società capitalistica, spiega bene che questo processo si può schematizzare nella circolazione denaro-merci-denaro. Lui poi proponeva altre soluzioni che peraltro non si sono mai realizzate.
L’esperienza mostra che certe merci e servizi costano troppo ad un imprenditore privato o non hanno molti clienti – le ferrovie sono utili ai cittadini al di là del loro costo di produzione, i carri armati non hanno molti clienti fra i cittadini – e allora interviene lo stato a investire soldi per costruire e far funzionare ferrovie o acquedotti o carri armati, tramite propri funzionari. Le perdite – la differenza fra il ricavato dei biglietti ferroviari venduti e il costo delle linee ferroviarie – sono coperte con le tasse che tutti in cittadini pagano (dovrebbero pagare) per avere i trasporti ferroviari o i carri armati, eccetera.
Mi rendo conto che si tratta di uno schema semplificato e anche un po’ ingenuo, ma quanto più ci si discosta da tale schema tanto più traballante è una economia. Si è diffusa una filosofia secondo cui quando un imprenditore sbaglia – produce merci sbagliate, o in quantità eccessiva non assorbita dal mercato – qualcuno ci rimette e in genere è lo stato, cioè la comunità dei cittadini, di quelli benestanti e di quelli poveri, pensionati o disoccupati. Se le ferrovie spendono troppi soldi per comprare costose vetture di lusso o costruire linee ad alta velocità poco utilizzate, la differenza è pagata per una certa quota da pensionati che sulle vetture di lusso non metteranno mai piede o dai pendolari che al più in ferrovia fanno venti chilometri al giorno su treni sovraffollati. Se un imprenditore fabbrica automobili di lusso costose e che non si vendono, per permettergli di pagare (o licenziare) gli operai si ricorre a soldi dello stato e ancora una volta i pensionati devono accontentarsi di pensioni più basse per consentire ad alcuni milionari (di euro) di comprare automobili di lusso a basso prezzo.
Per molti consumatori ingenui come me, nomi come Parmalat, Cirio, e, ieri, Montedison, Alfaromeo, eccetera, erano associati a cose concrete, dallo yogurt alla conserva alla plastica, più o meno buone, forse, ma di cose si trattava, che soddisfacevano bisogni umani, che probabilmente avrebbero potuto essere perfezionate.
La crisi del sistema imprenditoriale dipende, a mio parere, da scelte di produzione di merci e servizi sbagliati, o troppo costosi perché assicurano a poche persone salari e profitti favolosi, o perché non trovano clienti nel mercato. Una volta si invitava lo stato a interrogarsi e a interrogare gli imprenditori su quello che veniva prodotto, e come e perché e in quale luogo. Non si trattava di una intromissione bolscevica nelle aziende, ma di una collaborazione per evitare che gli errori ricadessero sulla collettività di un paese, cioè sulla parte più debole di ciascun paese.
Purtroppo, per assicurare la sopravvivenza e convincere delle virtù di un sistema economico spesso sbagliato, si è diffusa la tendenza ad “aziendalizzare” tutta la vita, anche nel linguaggio, come se l’azienda, l’impresa e i successi finanziari privati, fossero il “più perfetto” strumento per regolare rapporti fra individui, i massimi artefici del benessere. Ma siamo certi che il benessere individuale e collettivo – lo sviluppo umano – aumentino grazie ai mutamenti linguistici per cui gli uffici pubblici sono chiamati agenzie, le ferrovie sono chiamate “aziende”, i viaggiatori sono chiamati “clienti”, i maestri e i professori sono diventati “tutor” al punto che un giorno anche gli scolari delle elementari saranno chiamati clienti delle loro scuole?
Alla luce dei crescenti insuccessi di spregiudicate imprese, alla luce delle decine di miliardi di euro che apparentemente si dissolvono nei paradisi fiscali (e finiscono nelle tasche di alcuni), alla luce di continue “scoperte” di centinaia di miliardi di euro di evasioni e frodi fiscali – una massa enorme di denaro che sfugge ai calcoli dell’inflazione e del prodotto interno lordo. una frazione enorme dei circa milletrecento miliardi di euro del PIL costituito dalle spese e dai salari e dalle tasse degli italiani che le tasse pagano – sarebbe il caso che lo stato, unico difensore degli interessi collettivi, indagasse veramente che cosa si produce in Italia e come lo si produce, e quali effetti merci e servizi hanno sull’ambiente e sul benessere umano, individuale e collettivo.
Finalmente si torna a parlare di etica del lavoro e dell’impresa; ne parlano i vescovi nelle diocesi investite da crisi e disoccupazione, cominciano a parlarne anche i più illuminati fra gli imprenditori – e fanno bene perché anche loro, proprio come i loro dipendenti, rischiano di essere travolti dai loro colleghi avventurieri e dalle imprese e scelte sbagliate.