Musei e sistemi museali della tecnica e del lavoro industriale in Italia.
1.Il contesto storico.
Una identificazione (e delimitazione) precisa dei musei della tecnica e del lavoro industriale non è agevole, vi sono infatti musei scientifici che hanno un rapporto diretto con la storia delle tecnologie industriali, come nel caso del Museo Leonardo Da Vinci di Milano, che ultimamente ha assunto il nome di “museo della scienza e della tecnologia” per sottolineare un legame innegabile, fattosi sempre più stretto e cogente, al di là della lamentata separatezza tra scienza e industria nel nostro Paese. D’altro canto esistono musei del lavoro contadino che forniscono elementi su una vicenda che ha assunto un andamento travolgente: l’industrializzazione se non la scientificizzazione dell’agricoltura.
Una ulteriore dimensione a cui qui si può solo dedicare un accenno concerne la cultura operaia, le condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici di fabbrica e delle loro famiglie. Sia pure con impostazioni differenziate esistono musei dedicati al mondo del lavoro industriale in tutti i Paesi europei, ed è possibile individuare, a grandi linee, i principali modelli nella rappresentazione della cultura operaia: quelli sorti per influsso dell’archeologia industriale, quelli legati alla storia della tecnica di impianto positivistico, quelli legati al movimento operaio e alla storia del lavoro, quelli attenti alla quotidianità piuttosto che all’innovazione. Su questo sfondo, che rimanda a peculiarità nazionali, si sta affermando una sorta di modello europeo che combina l’adozione delle nuove tecnologie sul piano dell’allestimento e della divulgazione con la centralità dell’asse storico-sociale dal punto di vista dei contenuti. L’Italia è rimasta estranea a questo movimento, facente perno sulla rivendicazione della dignità e valore del lavoro industriale. Da noi, al contrario, mentre si diffondeva in profondità, ben oltre il tradizionale triangolo di Nord-Ovest, il processo di industrializzazione dell’economia e modernizzazione della società, si aveva un’ampia diffusione dei musei della cultura contadina ma nessun museo dedicato alla condizione operaia. L’investimento ideologico oscurava l’attenzione per gli aspetti concreti della storia operaia, dal sapere tecnico alla vita quotidiana. Anche l’attenzione del mondo imprenditoriale per la propria storia era scarsa se non assente.
Solo di recente la situazione è cambiata, sull’onda del forte e rinnovato interesse che un po’ ovunque si sta manifestando per i musei, a cui si affida la memoria del Novecento e di un modo di produrre travolto dall’avanzare della nuova economia globalizzata. In questa ottica i tradizionali operai di fabbrica non sono diversi dai contadini, anch’essi appartengono ad un “mondo che abbiamo perduto”. Non è quindi un caso che negli ultimi anni si sia registrata una diffusione a macchia di leopardo dei musei del lavoro industriale concretizzatasi soprattutto verso “musei spontanei”, di ambito locale, dedicati al lavoro di fabbrica o di miniera. Si sta in qualche modo ripetendo la vicenda tipica dei musei del mondo contadino, con rischi di frammentazione molto forti. Di qui la sollecitazione degli enti sovralocali all’adozione di formule organizzative di tipo reticolare o sistemico. Con risultati sinora modesti che contrastano con i successi delle migliori esperienze europee, che hanno saputo cogliere nel territorio un forte elemento unificatore, specie per istituzioni museali dedicate alla cultura materiale, alle tradizioni e vocazioni produttive delle diverse zone.
L’Italia, nella fase di avvio della sua rivoluzione industriale, ha notoriamente sofferto della carenza di materie prime e fonti energetiche per l’industria, mentre è riuscita a sviluppare alcuni significativi comparti delle attività di trasformazione, sino a diventare un Paese industriale di notevole importanza. Nonostante queste caratteristiche, i musei dedicati alla storia dell’industria non sono riusciti ad affermarsi, neppure alla conclusione del ciclo fordista, sull’onda dell’archeologia industriale, ultimamente diffusasi anche a livello di insegnamenti universitari, al di là della “moda” dei primi anni Ottanta.
Si può dire che il settore che ha ricevuto le maggiori attenzioni, specie da parte del sistema delle autonomie, è quello minerario, di importanza marginale nel modello italiano di industrializzazione. Anche in questo caso i progetti sono rimasti spesso sulla carta, ma non mancano musei e parchi minerari operativi o che stanno per diventarlo. In Valle d’Aosta è stato costituito dal 1990 il Museo minerario alpino di Cogne, dedicato ad illustrare lo sfruttamento del giacimento di magnetite più alto d’Europa. Non è però mai decollato e l’attività si limita a visite guidate. Scarsi risultati ha avuto anche l’istituzione, nel 1992, del “Museo minerario regionale” che dovrebbe articolarsi in diversi poli siderurgico-minerari. Musei e percorsi museali, più o meno attrezzati, sono stati dedicati in Liguria all’estrazione della pietra di ardesia e in Toscana all’importantissima vicenda del marmo di Carrara, in contesti di grande suggestione ambientale e storico-sociale. Esemplare, e in rapida espansione, anche per il diverso contesto culturale, è il Museo provinciale delle miniere di Vipiteno (Bolzano), dove la scelta di creare un sistema ha potuto concretizzarsi in termini operativi. Oltre alla sede museale di Vipiteno, comprende la miniera e gli impianti di Monteneve-Ridanna, un villaggio minerario, le miniere di rame di Predoi. È uno dei pochi esempi italiani di museo open air pienamente funzionante. In provincia di Brescia, nell’ambito del Parco Minerario dell’Alta Val Trompia, sono visitabili i poli museali “La miniera Marzoli” e la “Miniera S. Aloisio”, che a loro volta fanno parte del sistema museale promosso dalla Comunità Montana della Valle Trompia. In diverse regioni sono allo studio o sono stati formalmente istituiti musei minerari di indubbie potenzialità turistico-culturali. Quelli già aperti e che funzionano al momento non sono molti. Un capitolo da ricordare è quello dei numerosi progetti di valorizzazione delle aree minerarie dismesse della Sardegna che dovrebbero sfociare nell’istituzione del Parco Geominerario, Storico e Ambientale, incentrato sul bacino del Sulcis-Iglesiente. In definitiva anche se il settore minerario induce di per sé ad intraprendere la via dei sistemi territoriali, le realizzazioni compiute sono davvero poche.
In Piemonte l’esistenza di una importante storia industriale e molte iniziative di studio non hanno prodotto risultati significativi e innovativi nel settore dei musei industriali. Una peculiarità interessante del Piemonte è rappresentata piuttosto dalla costituzione di numerosi ecomusei e dal tentativo di collegarli tra di loro. La rete degli ecomusei della provincia di Torino si articola in ben 27 siti con una notevole attenzione per il filone tecnico-industriale. Segnaliamo: ad Alpignano, l’Ecomuseo dedicato ad Alessandro Cruto, inventore della lampadina; ad Avigliana il Museo “Dinamitificio Nobel”; a Chieri, l’Ecomuseo del tessile; a Cirié l’impegnativo progetto di realizzare un Ecomuseo dell’IPCA, una delle fabbriche simbolo del disastro ambientale. Molto attenti alle tradizioni industriali locali sono poi l’Ecomuseo del Biellese e l’Ecomuseo del Lago d’Orta e Mottarone (comprendente la Fondazione “Museo Arti e Industria” di Omegna).
Concepito negli anni Trenta il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, inaugurato nel 1953, è il più grande museo industriale italiano. Diviso in numerose sezioni espositive di complessivi 23.000 mq su un totale di 40.000 mq, copre un arco cronologico e tematico molto vasto, avendo come fulcro ideale la figura di Leonardo Da Vinci, a cui il museo è dedicato.
In tempi recenti, anche con mostre temporanee, si è cercato di rinnovare un’impostazione delle collezioni di tipo ottocentesco, bisognosa di radicali innovazioni concettuali e di allestimento. Il Museo vive principalmente sulla fruizione didattica, che copre circa l’80% delle visite, anche per il rapporto istituzionale mantenuto a lungo con il Ministero della Pubblica Istruzione. In questo settore il rinnovamento è stato più incisivo, con la creazione di “laboratori” interattivi che incontrano il favore di docenti e allievi. Accanto al ruolo tradizionale di conservazione delle collezioni, l’accento viene posto sulla diffusione della cultura scientifica. In questo campo, grazie al decisivo apporto della Fondazione Cariplo, il Museo Leonardo da Vinci ha recentemente inaugurato una politica di intervento sul territorio regionale tramite il progetto EST, che prevede azioni coordinate, per tre anni, con i musei lombardi della scienza e della tecnica, al fine di diffondere la cultura tecnologica e scientifica nelle scuole dell’obbligo.
Un sistema museale provinciale, di cui si parla in altra parte di questo studio, è stato recentemente progettato sotto l’egida della Provincia di Milano; dovrebbe riunire una decina di musei d’impresa, avendo come filo conduttore il design, inteso come tratto distintivo del territorio milanese.
Sedimentato nel tempo e molto intenso è stato l’impegno dei Musei Civici di Lecco sull’archeologia industriale. Si segnala la realizzazione di un percorso attrezzato nella Valle del Gerenzone (“la via del ferro”) e di due itinerari nel territorio lariano (“le vie della seta”) che dovrebbero rilanciare l’attività di alcuni musei industriali del settore: il Museo didattico della seta di Como inaugurato nel 1990, il rinnovato Civico Museo Setificio di Abbadia Lariana all’interno di un filatoio e di una filanda ottocenteschi, il Museo della Seta Abegg di Garlate, con un grande torcitoio in legno del XVIII secolo.
Innumerevoli i progetti non decollati, come il Museo d’area dell’archeologia industriale lungo il corso dell’Adda, dove vi è una concentrazione di monumenti di primario interesse (Ponte in ferro di Paderno, opifici, centrali idroelettriche, ecc.), mentre è attualmente arenata l’operazione di conservazione del villaggio operaio di Crespi d’Adda, inserito nella lista dei siti di interesse mondiale dell’Unesco.
Laborioso e complesso risulta il varo del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, intitolato ad Eugenio Battisti, principale ispiratore degli studi di archeologia industriale in Italia. La realizzazione del Museo è stata inizialmente promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti, a cui si è unita la Fondazione Civiltà Bresciana. Nonostante la mancanza, ad ora, di una sede adeguata sono state costituite sezioni di notevole importanza, sia per quel che riguarda i settori tipici dell’industrializzazione bresciana e lombarda (in primis tessile e meccanico) sia allestendo sezioni speciali (cinema e media). Recentemente un Accordo di Programma tra numerosi enti stanzia le risorse per la realizzazione delle opere su quattro poli espositivi: a Brescia città, in una fabbrica dismessa, di 15.000 mq, sede principale; in periferia il Museo del Ferro di S. Bartolomeo; in Val Camonica il Museo dell’energia idroelettrica di Cedegolo; a Rodengo Saiano in Franciacorta il magazzino visitabile del sistema.
Caratteristica saliente del museo bresciano, che si candida ad essere la principale realizzazione italiana nel settore specifico dell’archeologia industriale, è il fatto di essere stato concepito sin dall’inizio su più località, creando un sistema suscettibile di espansione, sia a livello di strutture museali che di itinerari attrezzati.
Passando al Veneto non muta un panorama caratterizzato da progetti rimasti sulla carta, ovvero che con ostinazione vengono tenuti aperti nonostante le solite difficoltà. Segnaliamo l’importante lavoro di studio e recupero svolto nel vicentino. Mettendo in rete vari piccoli musei esistenti in provincia, è sorto il Museo Territoriale dell’Industria Vicentina (ora confluito nella rete dei Musei dell’Alto Vicentino), con musei sia industriali che etnografici.
Uno dei più significativi musei dell’industria sorto in Italia negli anni ‘90 è il Museo del patrimonio industriale di Bologna, localizzato alla periferia della città in una fornace Hoffman, nei pressi del Canale Navile. Il nucleo centrale delle collezioni è rappresentato dai materiali didattici (disegni, modelli, macchine, ecc.) sedimentati in più di un secolo di attività presso la scuola-officina Aldini Valeriani. Un’importante sezione del museo è dedicata all’industria serica (sec. XIV-XVIII) con la ricostruzione di un grande modello di mulino da seta, antesignano del sistema di fabbrica. Il museo, inizialmente denominato Casa dell’innovazione, è dotato di strumenti di comunicazione interattivi, svolge attività divulgativa e di ricerca e pubblica una rivista di buona qualità (il semestrale “Scuolaofficina”). Il suo compito principale è di far conoscere la storia della piccola e media industria meccanica bolognese, scontando però una sorta di doppio isolamento: rispetto alla città e rispetto al territorio, non essendo state previste antenne o strutture collegate.
La Toscana, che vanta un patrimonio storico-industriale di grande importanza, è una delle regioni più ricche di progetti, e non mancano alcune realizzazioni concrete. Tra queste si segnala il Museo della miniera di mercurio di Abbadia San Salvatore (Siena), facente parte del sistema museale provinciale di Siena, nonché il Museo della Geotermia di Larderello (Pisa). Molto ambizioso, e però di difficile realizzazione, è l’auspicato sistema museale del ferro nell’area litoranea e nell’isola d’Elba, un territorio in cui le attività estrattive e produttive dagli Etruschi giungono sino ad oggi.
C’è un evidente squilibrio tra ciò che esiste, ad esempio il Museo di storia e arte delle miniere di Massa Marittima (Grosseto), o il simbolico Museo del ferro di Follonica (Grosseto) e quel che si dovrebbe fare per conservare storia e memoria di un importante passato industriale – si pensi a Piombino -. Per il periodo più recente segnaliamo la realizzazione del Parco Minerario Naturalistico nell’area della grande miniera di pirite di Gavorrano (Grosseto), e il recupero culturale delle strutture antiche e medioevali di Campiglia Marittima (Livorno), il cui successo, anche di pubblico, dimostra la percorribilità della valorizzazione del patrimonio storico-industriale.
La necessità di perseguire la via delle reti museali e di veri e propri sistemi è stata colta da uno dei più prestigiosi musei scientifici italiani. L’Istituto e Museo della Scienza di Firenze ha promosso, nel 2002, uno Studio di fattibilità per la Rete dei musei scientifici fiorentini.
Nonostante l’innegabile squilibrio Nord-Sud anche in tema di industrializzazione, l’Italia centro-meridionale non è certo priva di un passato produttivo di grande interesse storico, sia per le fasi premoderne che per il Novecento (si pensi a casi come Terni o Napoli). Il panorama dei musei dell’industria, o comunque di strutture deputate alla conservazione e studio del patrimonio industriale, è nondimeno ancora più rarefatto che nel Settentrione. Non a caso in Umbria, dove è stato possibile realizzare, anche per le ridotte dimensioni, un sistema museale regionale, e pur essendo attiva l’attenzione per l’archeologia industriale, non esiste né un museo dedicato alla tecnica e all’industria né un sistema tematico su tale filone.
In Campania sono stati tenuti a battesimo i primi studi italiani di archeologia industriale, di sicuro il filone che ha dato il maggior impulso al rilancio dei musei dell’industria dopo decenni di abbandono. È il caso delle ricerche animate da Eugenio Battisti su San Leucio, interessante esempio di utopia illuministico-industriale. Non sembra, comunque, che le grandi aree ex industriali di Napoli siano destinate ad ospitare strutture dedicate alla storia e memoria industriale della città; tra le opzioni forti in direzione della scienza e della natura, la fase industriale, per altri versi attualissima, rischia di essere cancellata. Un grande recupero di archeologia industriale è stato realizzato con la “Città della scienza”, inaugurata nel 1996 e allestita in alcuni edifici della gigantesca ex area industriale di Bagnoli. Sicuramente l’intervento più vistoso a livello nazionale nel campo della diffusione della cultura tecnico-scientifica e che però, non a caso, non ha rapporti, se non simbolici, con la storia del lavoro industriale e con il contesto territoriale locale e regionale.
Si è detto della scarsa attenzione delle imprese italiane per il loro passato storico. Su questo sfondo, dopo il maturare dell’attenzione per gli archivi, anche il patrimonio industriale in senso lato ha cominciato a suscitare qualche cura da parte dei suoi principali titolari, il mondo delle aziende. A tal fine è risultato prezioso il lavoro di sensibilizzazione per la cultura storica svolta da strutture quali il Centro per la cultura d’impresa di Milano, la Fondazione Ansaldo di Genova, la Fondazione Dalmine (Bergamo), l’ICSIM “Franco Momigliano” di Terni, la stessa Fondazione Micheletti di Brescia che hanno variamente attirato l’attenzione sulla conservazione e lo studio del patrimonio storico-industriale delle aziende. In tale ambito una svolta si è avuta con la recente istituzione dell’Associazione Italiana musei e archivi d’impresa “Museimpresa”.
Un’esperienza molto interessante, e che potrebbe fungere da volano per il decollo di sistemi museali a rete e su tematiche omogenee, è quella dei musei legati ad uno specifico distretto produttivo, una peculiarità del sistema economico italiano che ha avuto un innegabile successo, portando l’industrializzazione ben al di là del vecchio “triangolo” e dimostrando forti capacità competitive. Segnaliamo in tale ambito per lo stretto legame con il sistema produttivo locale, il Museo dello Scarpone e della Calzatura sportiva di Montebelluna (Treviso), nonché i diversi musei dell’occhiale sorti in provincia di Belluno.
I musei aziendali apparentemente si collocano agli antipodi dei musei spontanei, di forte impronta identitaria e comunitaria, ma in realtà può anche esserci convergenza allorché il valore aggiunto dato dalla tradizione storica, una sorta di certificato di qualità, o che almeno è recepito come tale dai consumatori, viene a coincidere con la memoria collettiva locale, che vi riconosce la propria storia e ne va orgogliosa. Il museo diventa una sintesi della storia di quella comunità, percorsa attraverso i prodotti del lavoro e del sapere tecnico di generazioni non più del tutto anonime. A maggior ragione l’implementazione di sistemi museali tematici può rappresentare una delle chiavi di volta per la costruzione di veri e propri distretti culturali integrati ai distretti socio-economici, che costituiscono tuttora l’ossatura più solida dell’apparato produttivo italiano.
Se si considera il differenziale di velocità tra i tempi dell’innovazione tecnologica e quelli della sua assimilazione a livello sociale e culturale, si comprende la funzione che possono svolgere strutture museali non incentrate esclusivamente sulla conservazione e divulgazione delle tecnologie e del patrimonio industriale del passato ma capaci di funzionare come centri di ricerca, di discussione e riflessione attorno allo snodo tecnica-società, innovazione-territorio, confrontandosi con i complessi problemi che derivano alle nostre società post-moderne dalla compresenza di differenti dinamiche storico-temporali. Ci pare che questa sia una via da percorrere per dare sostanza al tempo presente in un mondo soggetto alla tentazione di liberarsi della storia, appiattendosi sull’immediato. Gli stessi musei dell’industria possono soggiacere a questa spinta inseguendo il futuro, ed essendone sempre superati, come nel caso degli science-center di ispirazione americana. È vero che per catturare il pubblico, esperite le risorse dell’interattività e della virtualizzazione, perfettamente allineate con l’attuale modo di produrre centrato sulla progettazione e simulazione, non resta che puntare sulla spettacolarizzazione, facendo leva sulle emozioni e il gusto estetico di visitatori-consumatori disponibili a farsi coinvolgere in un’esperienza inusuale. I livelli di lettura e di fruizione possono però essere molto diversi, dal gioco alla conoscenza, dall’emozione alla riflessione, dal creare artificialmente un “non luogo” al calare in precisi contesti territoriali tanto la storia che l’innovazione proiettata sul futuro. In fondo si tratta sempre di fare un viaggio dentro la tradizione forte della modernità, di allestire una macchina culturale in grado di aiutare la comprensione del mondo. In ogni caso una bella sfida all’uso della storia che ha preso piede nella stampa e nei media, con una concentrazione agitatoria e ripetitiva attorno a pochissimi temi, contribuendo allo svuotamento e rarefazione dell’esperienza storica. In controtendenza rispetto alla velocità crescente delle cancellazioni imposte dall’innovazione tecnologica, i musei del lavoro industriale si prefiggono di salvare gli oggetti, i documenti, i “monumenti” cruciali della modernità contemporanea, proponendo una storia in pubblico per la gente comune, una storia della tecnica calata nel territorio.
Su questo sfondo che richiama interessanti realizzazioni europee, il panorama italiano dei musei dell’industria e soprattutto dei sistemi museali non è certo soddisfacente, ma presenta segnali di cambiamento. Per i musei dell’industria la soglia dimensionale ha un peso strategico; d’altra parte, considerata la situazione di scarsa sensibilità per l’archeologia industriale e il patrimonio storico-industriale, risulta difficile il decollo di musei dell’industrializzazione di rilievo nazionale. È un problema di disponibilità di risorse ma anche di concezione del museo in rapporto alla variegata storia dell’industria nello specifico contesto italiano. In quest’ottica risulta sicuramente vincente la scelta dei sistemi museali radicati nel territorio. Il che, unito ai vantaggi economico-gestionali, dovrebbe costituire un deciso impulso per passare dagli studi di fattibilità alla loro attuazione.