Musei locali del futuro
Cominciamo da un breve inquadramento storico, necessario per capire a che punto siamo arrivati e per trarne gli insegnamenti del caso.
Il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale è stato caratterizzato da un’ accelerazione della storia e da cambiamenti culturali, sociali ed economici assai bruschi, che hanno a loro volta implicato, tanto nei Paesi sviluppati che nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, delle reazioni spontanee in gran parte indipendenti dalle politiche pubbliche.
Fra questi cambiamenti, spesso aventi carattere di rotture vere e proprie, citerò come eventi particolarmente significativi le decolonizzazioni, la conquista dei diritti civili e la resistenza alle dittature, la trasformazione e la desertificazione del mondo rurale, le crisi industriali che vi fecero seguito, le migrazioni interne ed esterne, l’urbanizzazione incontrollata, le rivolte dei giovani, la globalizzazione.
Tra le reazioni provenienti dalla società in quanto tale (soprattutto da alcune categorie di persone, in larga parte riconducibili alle nuove classi medie) segnalo le manifestazioni consce e inconsce di nostalgia e la ricerca di punti di riferimento nel passato, considerato come un insieme di valori materiali o immateriali, cioè il patrimonio nelle sue varie forme.
Allo stesso tempo si è prodotta una profonda consapevolezza dell’interdipendenza tra il culturale e il naturale, tra l’essere umano e il suo ambiente, tra le esigenze di consumo e i limiti delle risorse disponibili, che costituiscono anch’esse un patrimonio, in larga misura non rinnovabile. Questa situazione ha fatto emergere un paradosso: il legittimo desiderio di condurre una vita migliore adesso, grazie ad una crescita apparentemente (n.d.t.) perpetua, e la consapevolezza del dovere di preservare le stesse opportunità anche per i nostri discendenti, cosa che presuppone la sostenibilità delle nostre decisioni e delle nostre azioni.
L’impatto sull’istituzione-museo
L’istituzione del museo, ereditata da un mondo lento e relativamente stabile guidato dall’élite del sapere, del potere e dell’avere, è stata scelta in modo del tutto naturale quale strumento per la conoscenza, la conservazione e la valorizzazione di questi differenti patrimoni, insieme a qualche altra misura presa dalle autorità pubbliche (monumenti e siti protetti, parchi e riserve naturali, lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO). Il museo ha il vantaggio di poter essere creato facilmente da qualsiasi fondatore, sia esso un collezionista, un’associazione, un’università o un politico. Ciò ha causato un’esplosione museale a partire dagli anni Sessanta e Settanta’ del secolo scorso, una tendenza ulteriormente accelerata negli anni Ottanta e Novanta. In un Paese come la Francia ci sono oggi all’incirca tanti musei quanti se ne potevano contare in tutto il mondo 50 anni fa. Tutte le città, ma spesso anche semplici paesi, volevano avere il loro museo, mentre i musei d’arte più importanti come il Metropolitan di New York, il Louvre di Parigi, l’Ermitage di S.Pietroburgo funzionavano da grandi poli di prestigio per i grandi Paesi sviluppati. Allo stesso tempo, l’esplosione del turismo di massa faceva del museo una destinazione privilegiata dei viaggiatori e un obiettivo da perseguire per politici locali in cerca di crescita facile. In questo contesto, nel 1971 e 1972 si sono verificati una serie di eventi apparentemente scollegati che hanno cambiato il corso delle cose nel mondo dei musei, mostrando che anche dei “conservatori” o “curatori” per professione potevano comprendere che il mondo stava cambiando e che i modelli tradizionali non erano più sufficienti per rispondere alle nuove aspettative dei gruppi sociali e culturali. Nello spazio di due anni abbiamo visto:
– l’aggiunta del termine “sviluppo” alla definizione ufficiale del Museo così come stabilito da Icom (Conferenza Generale di ICOM, Grenoble, 1971);
– l’invenzione del termine “eco-museo” per indicare un nuovo rapporto del museo con la natura e l’ambiente (1971), in preparazione della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma nel 1972;
– la creazione a Le Creusot (1971-1972) di un museo senza collezioni, basato su un territorio, una popolazione e sui patrimoni locali, un’innovazione destinata a diventare un punto di riferimento internazionale;
– la Tavola Rotonda UNESCO-ICOM di Santiago del Cile, durante la quale i più importanti museologi dell’ America Latina hanno scoperto la complessità della società che li circondava e inventato il concetto di “museo integrale”.
Questi quattro eventi hanno causato la nascita del tutto inaspettata, e la successiva espansione, di un movimento chiamato in seguito “Nuova Museologia”, che ha suscitato la creazione di gruppi nazionali e successivamente di una organizzazione chiamata MINOM (Movimento Internazionale per la Nuova Museologia), e ha infine portato alla generalizzazione di due termini dal significato simile, l’eco-museo e il museo di comunità. Più in generale, mi pare che si possa – e dovrebbe – distinguere tra i musei tradizionali locali, centrati sulla conservazione di collezioni “morte”, e quelli che si dedicano principalmente a una gestione partecipativa del patrimonio della comunità e del territorio. Una seconda distinzione può essere fatta tra i musei a finalità turistiche e quelli che cercano di servire in primo luogo la popolazione locale. Infine, si osserva sempre più un criterio fondamentale, centrato sulla qualità della relazione tra il museo e le dinamiche territoriali di sviluppo culturale, sociale ed economico.
Oggi e domani: un contesto difficile
Da dieci anni a questa parte stiamo assistendo, per quanto riguarda i musei locali, a un triplice fenomeno:
– l’invecchiamento delle istituzioni e, spesso, dei loro fondatori;
– la rarefazione del volontariato e i crescenti costi di mantenimento;
– il graduale disimpegno, per quanto riguarda il capitolo dei finanziamenti, da parte delle amministrazioni pubbliche.
Di conseguenza, nella maggior parte dei Paesi europei e anche oltre (Svezia, Portogallo, Francia, Italia, Giappone, per parlare solo dei Paesi che mi hanno contattato al riguardo), vi sono musei chiudono, o che saranno costretti a chiudere o che, ancora, prevedono di ridurre drasticamente le loro attività. E questo mentre prosegue la creazione di nuovi musei, di centri interpretativi, di eco-musei e di centri d’arte. Ci si potrebbe chiedere se si ha a che fare con una specie di “bolla” in procinto di esplodere, in analogia con le bolle delle nuove tecnologie o del mercato immobiliare – soltanto, le conseguenze sullo sviluppo economico e sociale sono meno spettacolari!
La crisi economica mondiale, a partire dal 2008, ha aggravato questa situazione per le sue conseguenze dirette e indirette sulle finanze pubbliche e private, sulle fondazioni e sulle diverse forme di mecenatismo.
Questa tendenza alla disgregazione della rete dei musei locali in Europa occidentale parrebbe in molti territori irreversibile. Oltre alle cause interne sopra riassunte, la pressione dei settori prioritari, del welfare, della sicurezza, dell’inclusione sociale, dell’infanzia e degli anziani non indipendenti, dello sport, si fa sempre più forte su tutti gli attori, pubblici e privati, lasciando poco spazio al finanziamento di attività considerate “gratuite”: in effetti, non sono attività che rendono, né dal punto di vista economico né elettorale. Il turismo stesso, che troppo spesso giustifica le politiche pubbliche del patrimonio, privilegia i grandi musei e i monumenti e i siti più rilevanti, o gli eventi più mediatici (come le grandi mostre e i festival), a discapito delle istituzioni comunitarie, aventi più che altro il ruolo di istituzioni di prossimità.
Fino ad ora ogni museo si è difeso da solo, anche se alcuni incontri periodici di professionisti museali hanno dato l’allarme e lanciato appelli drammatici ai loro finanziatori tradizionali, pubblici e privati. Lo facevano, però, in nome di una giustificazione di tipo culturale: il patrimonio è importante per l’identità delle popolazioni, i musei possiedono collezioni di eccezionale valore scientifico e svolgono un ruolo educativo nei confronti della scuola pubblica, attirano i turisti, etc… Purtroppo, tutto questo non basta più a indurre finanziatori pubblici o fondazioni a scelte favorevoli o a sostegni permanenti, soprattutto quando il numero dei visitatori diminuisce e i costi operativi aumentano. Né la cosa porta a una mobilitazione delle popolazioni a beneficio del “loro” patrimonio o del “loro” museo.
Mi sembra dunque che, se crediamo alla necessità, per i politici locali, di valorizzare il patrimonio e promuovere l’istituzione museale, dobbiamo cambiare approccio e tornare all’intuizione geniale dell’incontro di Santiago, cioè rendere il patrimonio e il museo utili alla società e al suo sviluppo. E lo sviluppo qui deve essere inteso come il miglioramento (sostenibile) della qualità di vita e del contesto in cui si vive, un approccio dunque che implica la considerazione e l’utilizzo del patrimonio come risorsa del territorio e della comunità. A partire dagli anni Ottanta il Portogallo ha visto nascere un movimento locale centrato sulla “funzione sociale del museo” ed è attualmente attiva a Lisbona una formazione universitaria che si occupa di “socio-museologia”.
Che fare?
Attualmente non c’è consenso sulle risposte da dare a questa domanda. Proveremo allora a immaginare alcune piste che potrebbero essere discusse ed esplorate da reti regionali, già esistenti o da creare, per giungere a risultati collettivi concreti e solidali.
Prima di tutto, una moratoria
La misura più urgente è uno stop immediato alla creazione di nuovi musei. Inaugurare un museo significa caricarsi della responsabilità di creare un’istituzione permanente, che richiederà una sempre rinnovata mobilitazione di risorse umane e finanziarie, e che finisce sempre con l’accumulo di collezioni e documenti che devono essere gestiti e conservati. Quando l’iniziativa è presa da una persona o da un gruppo di persone (un’associazione, per esempio), verrà il giorno in cui i fondatori non saranno sostituiti e si sarà allora costretti a chiedere finanziamenti pubblici nonché il riconoscimento ufficiale di «museo», procedura subordinata a norme esigenti. Se l’iniziativa viene da un comune o un ente pubblico, l’arrivo di una nuova giunta dopo le elezioni o una diminuzione del bilancio annuale, o anche semplicemente il passaggio mal organizzato da una fase di investimenti a una limitata alla gestione del quotidiano, basteranno spesso a rendere fragile o a bloccare un museo nato tra l’entusiasmo generale.
Dobbiamo quindi fermare le iniziative irresponsabili: se i più importanti musei d’arte, di storia o di scienze, situati in città o siti importanti, saranno sempre attivi, in quanto tesori nazionali o addirittura universali e quindi destinatari di un’attenzione privilegiata a livello nazionale o regionale, i musei locali, quale che sia il loro interesse, non hanno questo vantaggio e possono facilmente essere trascurati, chiusi o distrutti.
La moratoria che propongo dovrebbe essere ampiamente pubblicizzata. Sarebbe completata dalla raccomandazione, estesa a tutti gli amanti del patrimonio, di riunirsi intorno ai musei esistenti, e a questi di aprirsi a tutte le sollecitazioni e di accogliere tutte le buone volontà.
Poi, una diagnosi
I musei non sono che la parte emergente, selezionata e sterilizzata, dell’iceberg patrimoniale. I cambiamenti o addirittura le rotture di ordine socio-economico e socio-culturale che li interessano hanno conseguenze, al contempo, sull’insieme dei patrimoni, si tratti di paesaggi, costruzioni urbane o rurali, tradizioni e saperi, dialetti. Mi sembra dunque fondamentale, e soprattutto molto urgente, lanciare in ogni territorio un’attività di valutazione, o diagnosi, della situazione del patrimonio e del, o dei, musei esistenti. Si tratta al contempo di fare un inventario, un bilancio delle azioni condotte fino ad oggi o tutt’ora in corso, e di condurre una valutazione delle opportunità e dei rischi per il futuro, vicino e lontano.
La diagnosi dovrà essere partecipativa e tesa a coinvolgere il maggior numero possibile di attori del patrimonio (proprietari e utenti), professionisti (museologi, direttori ed esperti scientifici) e responsabili locali (politici, militanti di associazioni, operatori economici). Ciò permetterà non solo di fare un “inventario”, ma anche di conoscere e raccogliere un primo gruppo di persone motivate ??e a vario titolo capaci di svolgere un ruolo in una futura strategia patrimoniale.
Bisognerà inoltre confrontare la diagnosi con gli obiettivi, i programmi e le esigenze di sviluppo del territorio, in modo da riconoscere le cooperazioni e i conflitti possibili.
Uno dei risultati di questa diagnosi potrà consistere nell’abbandonare certi musei e certi progetti, oggettivamente non praticabili. Si cercherà per essi una o più soluzioni, senza cadere nell’accanimento terapeutico.
Infine, un’organizzazione
Ogni livello del territorio (comune, provincia, regione etc.) dovrebbe dotarsi di un dispositivo di governance del patrimonio, comprendente non solo i monumenti e i siti, ma anche tutto il patrimonio diffuso materiale e immateriale, i paesaggi e tutte le istituzioni che su questo patrimonio intervengono (musei, biblioteche, archivi, centri culturali, parchi e riserve naturali).
Questo dispositivo deve associare strettamente, nella progettazione come nella decisione, i poteri pubblici, la società civile e le sue organizzazioni e, infine, gli attori economici del territorio, dal più piccolo al più grande. Non nascerà, come accade oggi nella maggior parte dei casi, dalla volontà di “valorizzare il patrimonio” o di rafforzare la “identità culturale”. Cercherà di individuare gli interessi e le esigenze degli stakeholder, che alla fine si riveleranno i migliori promotori del patrimonio, essendo consapevoli di averne bisogno. Solo su queste basi le strutture di gestione del patrimonio (come i musei e gli eco-musei) potranno ottenere i mezzi per la loro azione, in modo da rispondere a queste esigenze nella continuità (criterio di sostenibilità) e nel rispetto delle norme scientifiche, professionali ed etiche comuni a tutti i patrimoni.
Credo che queste strutture debbano essere ripensate, per farne delle vere e proprie imprese del “terzo settore” o dell’ “economia sociale”, abbandonando progressivamente i vecchi statuti, municipali o para-municipali (ad eccezione, naturalmente, delle grandi istituzioni), o magari associativi. A seconda dei Paesi e delle consuetudini regionali, ci si orienterà verso statuti cooperativi che faranno interagire gli stakeholder del patrimonio locale in direzione di una ibridazione delle risorse: apporti di capitali, sovvenzioni, mecenatismo, servizi, redditi da attività.
A un livello territoriale più vasto, si tratterà di preparare una mappa e un piano pluriennale di copertura dei territori per quanto riguarda il patrimonio. Esso potrà assumere la forma, per esempio:
– di reti mutualistiche di musei locali e di istituzioni patrimoniali analoghe (fino a biblioteche, archivi, centri culturali, aree naturali);
– del collegamento di questi musei locali con uno o più musei importanti, dotati di mezzi professionali;
– della fusione di musei prossimi dal punto di vista geografico e/o tematico, o della chiusura di musei con deposito delle loro collezioni in un museo regionale adatto.
Questo lavoro, che necessiterà di studi approfonditi, dell’intervento di specialisti (compresi consulenti legali e finanziari) e di trattative spesso difficili, dovrebbe essere fortemente sostenuto, se non promosso, dalle autorità provinciali e regionali, che potrebbero dedicargli risorse in sovvenzioni ed expertise, subordinate all’ottenimento di risultati tangibili.
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Quale politica patrimoniale e museale?
Una volta delineato questo approccio generale, vediamo ora le modalità e il contenuto concreti di una strategia e di una programmazione centrate sulle istituzioni responsabili della gestione del patrimonio di un territorio.
Un’offerta di servizi e di prodotti
Se consideriamo il museo locale, o una qualsiasi istituzione analoga, come un’impresa cooperativa di utilità culturale e sociale, dobbiamo essere in grado di offrire prodotti e servizi che rispondano alle aspettative dei suoi stakeholder. Per esempio:
In quest’ottica, è assolutamente evidente che ogni stakeholder deve garantire il finanziamento dei servizi che gli sono resi, sia direttamente, cioè pagandone il prezzo, sia attraverso sovvenzioni equivalenti. Ciò presuppone che l’impresa sia in grado di rispondere in modo competente alle richieste professionali di questi stakeholder divenuti clienti: stima dei costi reali, negoziazione dei contratti e delle convenzioni, controllo qualità, comunicazione.
Monitoraggio
Trattandosi di imprese di gestione collettiva/cooperativa del patrimonio, è essenziale stabilire un sistema di valutazione permanente e partecipativo, coinvolgendo non solo gli attori ma anche i beneficiari e gli utenti dei servizi, dei prodotti e delle azioni. Si tratta di definire gli indicatori e i criteri da utilizzare in tre aree principali:
– il culturale – gestione delle risorse patrimoniali (capitale culturale) del territorio, a seconda del contesto, della cultura vivente delle comunità interessate e dell’interesse generale (politiche pubbliche dei diversi livelli amministrativi), impatto sull’educazione scolastica e permanente;
– il sociale – impatto del patrimonio e delle azioni che lo utilizzano sulla coesione sociale, la trasmissione delle tradizioni e dei valori, lo sviluppo della creatività individuale, l’inclusione dei nuovi residenti, la vita associativa (capitale sociale);
– l’economico – equilibrio investimenti-funzionamento, impatto sull’occupazione, bilancio delle azioni della filiera, misura della qualità dei prodotti e delle pratiche, condizioni del patrimonio immobile (patrimonio economico).
È preferibile creare sin dall’inizio un meccanismo permanente di valutazione e di restituzione dei risultati e delle osservazioni alle comunità e agli stakeholder. Potrebbe essere utile, se non necessaria, l’assistenza esterna da parte di una personalità indipendente (esperto, accademico) per apportare uno sguardo neutro e interrogativi originali.
Carattere permanente dell’azione
Uno dei problemi principali cui vanno incontro oggi i musei e altre istituzioni locali, proprio per il loro essere originati da iniziative comunali, associative, comunitarie o individuali, mi sembra consistere nel loro invecchiamento, e ciò almeno per quanto riguarda le realtà meno recenti. Il progetto iniziale, la scelta dello statuto e della programmazione corrispondono di solito alle idee della generazione fondatrice. Il tempo è passato, l’istituzione ha proseguito per la sua strada, rispettando le linee guida iniziali, ma è subentrata una nuova generazione, poi un’altra, sono cambiate le condizioni di vita, la cultura vivente, il contesto sociale, politico ed economico. Le strutture sono invecchiate materialmente ed esigono investimenti per la loro conservazione e il loro aggiornamento. Soprattutto, i membri della comunità non si riconoscono più davvero in quanto presentato, hanno altre aspettative e altri bisogni, e non sono disposti ad accettare spese importanti, in tempo e denaro, solo per prolungare o anche migliorare l’esistente. Volontariato e filantropia languono.
Ancora più grave è il fatto che i giovani non s’interessano più a una visione passatista del patrimonio. Al di là delle visite scolastiche obbligatorie, niente li attira in un museo concepito da e per i loro nonni. Come possiamo sperare che la popolazione attiva di domani, costituita da questi stessi giovani giunti a maturità, torni a investirsi nel patrimonio?
Il monitoraggio non basterà a fornire risposte a questi problemi. La politica del patrimonio, il museo, l’eco-museo e tutte le strutture di questo genere dovranno adattarsi al ciclo delle generazioni, dunque rimanere vivi e periodicamente trasformarsi, o rassegnarsi a sparire.
Patrimonio, museo e sviluppo locale
Il patrimonio, nel suo significato più ampio, è una risorsa essenziale, il capitale principale del territorio, assieme al capitale umano. Interviene in tutti i settori e in tutte le fasi dello sviluppo di questo territorio, in quello che si chiama sviluppo locale (Corsivo mio, N.d.T.).
Precisiamo anzitutto cosa si intende per sviluppo locale: non consiste nella crescita della ricchezza del territorio e dei suoi abitanti, si tratta unicamente del miglioramento sostenibile della qualità della vita e del quadro di vita degli abitanti. Ovviamente, la qualità di vita ha una componente economica, ma non è l’unica. Il patrimonio, viceversa, appare in tutti i settori e in tutti i programmi di sviluppo, si riferiscano essi al contesto culturale e naturale, all’istruzione, al divertimento, alle attività agricole, artigianali e commerciali, alle relazioni umane e all’occupazione, all’attrattività e all’immagine del territorio, ai piani regolatori e a molti altri settori. Ciò significa che gli attori sociali e le istituzioni del patrimonio hanno la loro parola da dire nei processi decisionali, nelle modalità e nelle azioni che hanno come scopo lo sviluppo locale.
Reciprocamente, gli agenti dello sviluppo locale devono investirsi fortemente nella gestione del patrimonio e cooperare con gli agenti e gli attori del patrimonio, in primo luogo con i musei.
Inoltre, l’istituzione patrimoniale, diciamo il museo per semplificare, è uno strumento per lo sviluppo, possiede le attrezzature, gli esperti, le informazioni che sono necessarie per numerosi programmi e azioni di sviluppo. Praticamente tutti i servizi indicati come esempi nella tabella sopra proposta sono utili al processo di sviluppo. Il museo deve dunque far parte, ufficialmente e nella pratica quotidiana, di tutto il dispositivo dello sviluppo locale, partecipando sia alle decisioni che alle azioni.
È per l’efficacia del suo ruolo nello sviluppo del territorio che il museo otterrà il riconoscimento della sua legittimità e le risorse di cui avrà bisogno.
(Pontebernardo, 22 maggio 2011)
Nota al testo
Rilanciamo sulla nostra rivista un testo originanariamente pubblicato sul sito SIMBDEA – Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici (http://www.simbdea.it), che ringraziamo, nella persona di Pietro Clemente, e cui rimandiamo per utili approfondimenti sul tema.
Riportiamo di seguito la nota con cui Pietro Clemente aveva accompagnato l’articolo:
«Pubblichiamo in forma non controllata dall’autore, e in traduzione nostra (Luca Mancini, revisione René Capovin della Fondazione Luigi Micheletti) la traduzione del testo di De Varine (già presidente ICOM internazionale e fondatore della nuova museologia, esperto di sviluppo, autore di Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo, a cura di Daniele Jalla, CLUEB, Bologna, 2005) presentato al convegno di Pontebernardo (Cuneo, Alta Valle Stura, sede dell’ecomuseo della pastorizia), come contributo al dibattito sui musei nel tempo della crisi. Sono note che possono essere interpretate in modi diversi, che risentono l’esperienza più francese e terzomondista di De Varine, ma che hanno avuto, in ogni caso, nella limitata circolazione finora avvenuta tra addetti ai lavori, una grande forza di sollecitazione di idee. Il testo uscirà negli atti dell’incontro di Pontebernardo, costruito e diretto da Mario Cordero e Daniele Jalla, che si proponeva di dare dimensione internazionale al tema della crisi nel campo del patrimonio. Poiché ci sembra importante leggere questo testo e farlo entrare nella riflessione comune abbiamo deciso di farlo circolare nel modo semi-informale che è proprio di molti testi influenti, ma sapendo comunque che l’autore ne è informato e gradisce, e che i curatori del convegno (che ringraziamo) lo consentono in questa forma di ‘inedito’ che circola tra le persone interessate e nell’ambito della nostra attività associativa.
Pietro Clemente»