Nel nome del profitto
Ieri
Ieri gli abitanti del paese di Profittopoli si sono svegliati con la notizia che la carne non è più sicura, che può essere portatrice di malattie che colpiscono il cervello e i centri motori, come quella chiamata BSE, che dovranno stare attenti alla carne che usano.
Ma come ? La carne, quell’alimento ricco di proteine il cui uso, il cui crescente uso, è apparso da decenni come il segno della liberazione dalla povertà nutritiva dei cereali e dei vegetali ? Addirittura gli italiani rischiano di dover rinunciare all’adorata bistecca alla fiorentina ? Possibile?
Possibile e anzi certo. Per un qualche motivo apparentemente ancora poco chiaro, nelle proteine di alcune parti di alcune mucche si è insediata una sequenza di amminoacidi anormale, chiamata prione. Quando questo prione entra in circolo le mucche presentano una malattia che colpisce il cervello, a quanto pare trasferibile agli umani che si nutrono della carne di tali bovini. La scoperta risale alla metà degli anni ottanta e sembrava che la malattia fosse localizzata in Inghilterra dove sono state uccise decine di migliaia di mucche (portatrici o sospette portatrici) della malattia.
Ma, in epoca di globalizzazione, il canale della Manica non è una barriera sufficiente per evitare la propagazione della malattia in altri paesi. La carne che arriva sulle nostre mense è il risultato di un ciclo produttivo quasi industriale, a carattere planetario. Nei paesi in cui sono disponibili grandi estesi pascoli erbosi, i bovini sono allevati all’aria aperta, ma questa pratica è troppo lenta e troppo costosa per allevatori che hanno fretta di far crescere gli animali e di venderli: si è così sviluppata una zootecnia in cui gli animali sono tenuti in spazi ristretti, alimentati con mangimi al più basso costo possibile, tenuti più fermi possibile, perché ogni movimento fa diminuire il peso dell’animale da vendere. Pratiche da decenni oggetto di critiche non sul piano etico, del benessere degli animali, ma perché comportano l’uso di antibiotici per evitare malattie che farebbero diminuire le vendite, di ormoni che accelerano la crescita e trattengono una maggiore quantità di liquidi all’interno dell’animale. Antibiotici, ormoni e altri additivi possono passare nel corpo dei consumatori per cui, dopo lunghe lotte, ne è stato vietato l’uso che però in parte continua in modo fraudolento e clandestino.
Quando arriva l’età della macellazione, i bovini vengono uccisi e ne vengono separate le varie parti. Viene staccata la pelle che alimenta il ciclo produttivo dell’industria della concia che fornisce pelli e cuoio; viene ricuperato il sangue che viene essiccato e in parte usato come concime, ricco di azoto; vengono separati i grassi, che in parte possono essere sottoposti a trattamenti per ricavarne grassi industriali; vengono separate le ossa che possono essere trattate chimicamente per ricuperarne sostanze ricche di fosforo, anch’esse utilizzabili come concimi. Allevamento e macellazione sono tutte operazioni che comportano inquinamenti dell’aria e delle acque.
Le parti adatte alla produzione della carne sono poi trasportate nelle macellerie nelle quali avviene un’ulteriore separazione delle frazioni di “carne” destinata all’alimentazione umana e restano varie parti che in qualche modo vengono riutilizzate, per lo più sotto forma di scarti di basso valore commerciale. Eppure le frazioni dei carnicci, del sangue, delle ossa, gli scarti sono ricchi di sostanze proteiche, sali e grasse che potrebbero essere usati, se non proprio per l’alimentazione umana, almeno per l’alimentazione del bestiame, in aggiunta ai mangimi vegetali i quali forniscono, si, proteine e sostanze caloriche, usando però i costosi mais, soia, erba medica essiccata.
Perché quindi non ricuperare, come suggerisce l’ecologia, anche gli scarti della macellazione, essiccandoli, macinandoli e trasformandoli in farine, ricche di proteine, da addizionare ai mangimi vegetali? È vero che i bovini sono, a rigore, animali erbivori, ma che cosa volete che ne sappiano se nei mangimi ci sono anche residui essiccati di altri animali, dei loro babbi e figli?
Il ciclo è così molto più efficiente: i macellatori e i macellai riescono a vendere gli scarti con maggiori profitti rispetto ai destini meno nobili; gli allevatori riescono a far aumentare di peso gli animali utilizzando le meno costose farine animali e tutti sono felici.
Fino a quando qualcuno non ha scoperto la storia dei prioni e ha avuto il sospetto, poi la certezza, che quel ben-di-dio, dal punto di vista del profitto, di scarti animali, potesse far ammalare i bovini che se ne nutrono, rendendoli immangiabili e invendibili. Davanti al fondato pericolo che la malattia della BSE potesse passare, attraverso la carne, negli esseri umani, sono crollate le vendite di carne e sono aumentati vincoli e divieti. L’avidità privata ricadeva così non solo sulla collettività, ma sugli stessi soggetti avidi.
A questo punto le autorità governative si sono rese conto che nessuno sa esattamente chi importava farine animali per mangimi, con quali scarti di macellazione erano state fatte, in quali momenti della catena venivano trasmessi i prioni agli animali da allevamento, da dove venivano gli animali destinati alla allevamento e alla macellazione.
E non si sa neanche da dove viene la malattia, quando e come la malattia viene trasmessa agli umani e da chi. Improvvisamente è stato necessario organizzare in fretta e furia controlli per la ricerca dei prioni negli animali, nei mangimi, nella carne in commercio. Sono state emanate frettolose leggi a livello europeo e nazionale, sotto la pressione di interessi settoriali, degli allevatori che cercano generosi risarcimenti statali per i mancati guadagni, dei macellai che hanno visto diminuire le vendite, perfino dei ristoratori che temono di non poter fornire ai clienti i prelibati piatti tradizionali. E del resto gli allevatori, i macellatori, i macellai, i ristoratori hanno operato, secondo le leggi dell’economia capitalistica, del libero mercato, per assicurarsi il massimo guadagno: non era loro dovere guadagnare di meno per evitare la diffusione di malattie fra i cittadini.
Evitare la diffusione di malattie avrebbe dovuto essere compito “dello stato”, se esso operasse pro bono publico, come sarebbe il suo dovere. Ma i governi, nazionali, europei, globali, pensano a tutelare ben altri interessi, oggi come ai tempi di Marx, e le leggi mostrano ”la massima delicatezza verso ogni commerciante che cerca di guadagnare qualche meritato soldo mediante la compravendita di merci sofisticate. Il libero commercio significa commercio di materiali sofisticati, con quella specie di ”sofistica” che sa fare nero del bianco e bianco del nero, meglio di Protagora, e sa dimostrare ad oculos che ogni realtà è pura apparenza, meglio degli Eleati”.
E lo si è visto con i governanti che non sapevano quello che era noto da anni (ma ai ministri i funzionari non dicono mai niente ? e agli eurocrati che vagano da Roma a Bruxelles nessuno racconta mai niente ?); lo si è visto con le strutture di controllo chimico e biologico prese di sorpresa, incapaci di parlare e di dire la verità ai cittadini e agli stessi operatori economici – governanti che hanno scoperto, quando qualcuno ha messo gli occhi nel settore delle carni, frodi e inadeguatezze, e poi ritardi o silenzi nelle stesse strutture scientifiche nel quinto paese industriale del mondo.
Sono state smantellati e dispersi i vecchi laboratori di controllo delle attività che influenzano la salute pubblica; i controlli sulle merci e sugli alimenti sono stati dispersi fra laboratori dipendenti dalle aziende sanitarie, dalle polizie, dall’ambiente, dalle regioni, dall’agricoltura. Ma anche le università dove erano mentre si stava addensando la tempesta esplosa in questi mesi ? E uno.
L’altroieri
Ieri l’altro gli abitanti del paese di Profittopoli si sono svegliati con la notizia che alcuni loro figli, impiegati nelle guerre di pace – curiosa contraddizione in termini – in Bosnia e Kosovo sono stati esposti a polveri radioattive e tossiche dovute ai nuovi straordinari proiettili contenenti uranio impoverito usati dall’esercito americano.
Ne parlo qui perché si tratta di una storia merceologica simile a quella della mucca pazza. L’uranio è la materia di base per la fabbricazione dei “combustibili” per le centrali nucleari e dell’”esplosivo” per le bombe atomiche. L’uranio naturale, un metallo presente in natura in molte rocce, sotto forma di sali o ossidi, esiste in vari isotopi, atomi con uguale comportamento chimico, ma con una struttura diversa del nucleo; i principali isotopi sono l’uranio-238, con 92 protoni (sono loro che “governano” il comportamento chimico dell’atomo) e 146 neutroni, e l’uranio-235, con i soliti 92 protoni ma solo 143 neutroni.
Se si “bombardano” dei nuclei di uranio con neutroni, i due isotopi si comportano diversamente: l’uranio-238, ma solo in particolari condizioni, ingloba un neutrone e si trasforma nell’elemento nettunio che a sua volta si trasforma nell’elemento plutonio. L’uranio-235 assorbe più facilmente i neutroni e subisce una “fissione”, come si suol dire, trasformandosi in due nuclei più piccoli e in vari neutroni e liberando enormi quantità di calore. Calore che può essere ricuperato e trasformato in elettricità commerciale vendibile, come avviene nelle centrali nucleari, o che può essere fatto liberare in forma esplosiva e devastante, come avviene nelle bombe atomiche.
L’unico inconveniente sta nel fatto che l’uranio-235 è presente nell’uranio naturale in piccola quantità, solo 7 atomi rispetto a 993 atomi di uranio-238: le centrali nucleari funzionano soltanto se i neutroni bombardano dell’uranio nel quale l’isotopo-235 è in concentrazione di almeno 30 atomi per mille; le bombe nucleari richiedono uranio contenente circa 900 atomi di uranio-235 per mille.
Poiché la prima applicazione ”merceologica” dell’uranio è stata la fabbricazione delle bombe atomiche, a partire dal 1942 sono stati messi in funzione giganteschi impianti industriali per la separazione dei due isotopi. Si tratta di far passare un gas costituito da fluoruro di uranio attraverso degli enormi setacci con fori piccolissimi; attraverso tali fori passa “più facilmente” l’uranio-235, quello utile, che è “un po’ più piccolo” come dimensione, di quello 238. Dopo innumerevoli passaggi si ottiene, alla fine, una corrente di uranio “arricchito” in cui è presente una maggiore quantità di uranio-235, e un residuo di uranio “impoverito” costituito in prevalenza da uranio-238.
Nel corso di mezzo secolo si sono accumulate centinaia di migliaia di tonnellate di uranio ”impoverito” come sottoprodotto e scoria degli impianti di diffusione gassosa. Altro uranio impoverito è stato ottenuto dal trattamento del combustibile che deve essere estratto dalle centrali nucleari ogni pochi mesi di funzionamento. In tale combustibile “irraggiato” è presente uranio-238 insieme a piccole quantità residue di uranio-235, contaminato da plutonio, da altri elementi transuranici e dai prodotti di fissione, tutti altamente radioattivi. Per molti anni questo “combustibile” usato è stato sottoposto a processi di estrazione chimica per ricuperare il plutonio, utile per la costruzione di altre bombe atomiche, ma ormai di bombe atomiche nel mondo ce ne sono tante che anche il plutonio si vende poco .
È un delitto buttare via tutti questi residui di uranio-238, dopo aver fatto tanta fatica e aver speso tanti solidi per l’estrazione del minerale, la sua purificazione, l’arricchimento, eccetera: perché non riciclarlo, sempre come suggerisce l’ecologia? “Per fortuna” le fertili menti degli ingegneri militari hanno scoperto che l’uranio, anche quello “impoverito”, molto pesante (pesa quasi il doppio del piombo, quasi come il più costoso tungsteno), quando urta ad alta velocità un corpo metallico (per esempio la corazza di un carro armato), sviluppa un’altissima temperatura alla quale l’uranio si ossida e si incendia facendo fondere la corazza e bruciando i soldati dentro il carro armato. Ecco quindi un “utile” impiego per riciclare l’uranio impoverito – promosso a merce oscena, di morte, il “metallo del disonore”, secondo il titolo di un recente libro – come componente dei proiettili per cannoni e missili.
Il primo impiego dell’uranio impoverito si è avuto su larga scala, da parte degli Stati uniti, nella guerra del Golfo nel 1991 (ne sono state usate circa 500 tonnellate), poi in Bosnia nel 1995 e, nel 1999, è stato usato nella Serbia e nel Kosovo dalle forze Nato.
La guerra è sempre terribile e ciascun paese, per vincere, deve uccidere i soldati nemici e distruggere le armi nemiche e i beni nemici: nell’intero secolo passato le guerre hanno sterminato i nemici al di là di ogni ragionevole necessità, hanno ucciso e dilaniato i corpi di centinaia di milioni di civili inermi, hanno usato le armi più raffinate per arrecare dolore e morte. Se si escludono le contaminazioni, della durata di secoli, con scorie radioattive conseguenti le esplosioni di bombe atomiche, e quelle delle giungle del Vietnam con pesticidi persistenti inquinati da diossina, finora le armi impiegate in guerra hanno danneggiato e devastato soldati e civili senza compromettere le future condizioni ecologiche dei territori di guerra.
Le polveri di ossido di uranio che si spargono sui carri armati e sugli edifici colpiti da bombe all’uranio impoverito ricadono al suolo e lì restano per sempre. Nel territorio contaminato passano sia i soldati vincitori, sia gli abitanti quando tornano alle loro case e ciascuno assorbe dal suolo e respira una parte della polvere di uranio con danni alla salute che durano per decenni e si cominciano a riconoscere soltanto adesso.
Solo di recente è stato accertato che nella guerra del Golfo (1991) il terreno dei combattimenti è stato contaminato da 300 mila chilogrammi di finissima polvere di ossido di uranio e che da anni i reduci della guerra hanno manifestato delle misteriose malattie (la sindrome del Golfo); però fino al gennaio 1998 il ministero della difesa americano ha negato che circa 90 mila soldati americani siano stati esposti alla polvere di uranio impoverito velenosa e radioattiva. Nella ricca America i veterani possono fare causa al loro governo, e chiedere indennizzi e risarcimenti (alcuni soldati si trovavano entro carri armati che sono stati colpiti con proiettili all’uranio lanciati per errore da cannoni del loro stesso esercito). Ma chi aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad una così subdola causa, quando compaiono negli abitanti dell’Iraq meridionale, o agli abitanti della ex-Jugoslavia, tornati nelle loro terre; chi li aiuterà a guarire?
Una fotografia diffusa anche da Internet mostra dei bambini che in Kosovo giocano su un carro armato distrutto da un proiettile all’uranio impoverito e coperto dalla polvere dell’arma micidiale: chi sono quei bambini, che sarà della loro salute ? Che sarà della salute di tutte le vittime di questo altro “brillante” frutto dell’economia industriale che non pone freno, se si tratta di risparmiare nelle forniture militari, ai danni sulla salute e la vita di persone inermi?
In Italia il problema è scoppiato perché qualcuno ha denunciato le possibili malattie, dovute all’uranio impoverito, in reduci delle missioni militari in Bosnia e Kosovo. Ricordate lo sbalordimento di ministri e generali? Non sapevano, nessuno, neanche gli alleati Nato, li aveva informati, o forse si; se qualcosa sapevano non pensavano che potessero essere compromesse le vite dei soldati italiani? Ma forse le malattie dei soldati non dipendono dalla polvere di uranio impoverito. Le analisi sui campi di battaglia non riescono neanche a dire se l’uranio impoverito dei proiettili usati in battaglia veniva dai processi di arricchimento o dai processi di estrazione del combustibile irraggiato delle centrali.
Con tutte i servizi segreti nessuno ha avvertito i ministri sui pericoli delle armi usate dai loro stessi alleati, quando tali pericoli erano descritti in centinaia di articoli e pubblicazioni, accessibili da anni perfino su Internet? In una società capitalistica nessuno tocchi il complesso militare industriale. E due.
Il giorno ancora prima
Il giorno ancora prima di questi eventi, gli abitanti del solito paese di Profittopoli si sono svegliati con la notizia che gli ”scienziati” hanno scoperto il modo di modificare vegetali e animali intervenendo sul loro patrimonio genetico, sono cioè in grado di ”fabbricare” nuove “cose” – esseri viventi? Merci? – intervenendo con le “biotecnologie” sulle basi stesse della vita.
La genetica tradizionale riesce a ottenere ibridi dall’incrocio di piante e animali differenti, talvolta con grandi successi; si pensi alle selezioni che hanno permesso di ottenere ibridi di mais con una resa per ettaro doppia, o frumento che non si lascia abbattere dal vento, o agli incroci che hanno permesso di ottenere mucche ad alta produzione di latte, eccetera.
Ma la biotecnologia va molto al di là di questo. La natura ha “fabbricato”, attraverso lenti processi evolutivi, piante e animali senza pensare che dovessero “servire” un giorno alle fabbriche e ai commerci, e quindi molti organismi vegetali e animali sono “economicamente” scadenti. Alcune piante, le leguminose, sono capaci di fissare direttamente l’azoto dell’aria trasformandolo in proteine, grazie a microrganismi presenti nelle radici; altre, commercialmente preziose, come i cereali, possono crescere soltanto portando via azoto dai sali presenti nel terreno e per questo richiedono l’apporto di costosi concimi, Un vecchio sogno, che appariva fantascientifico, immaginava di inserire nei cereali i batteri azotofissatori in modo da evitare l’impiego di concimi nella loro coltivazione. Le biotecnologie vanno in tale direzione.
Le manipolazioni genetiche sono percepite in modo molto diverso dall’opinione pubblica. L’aspetto che ha destato maggiore interesse, e anche rigetto, è l’idea che, con tali manipolazioni, sia un giorno possibile “fabbricare” esseri viventi, e quindi anche esseri umani, entro certi limiti a piacere. Così si sono lette strane estrapolazioni fantascientifiche sulla possibilità di riprodurre intere falangi di ariani nazisti tutti uguali, o magari anche di scienziati come Einstein, tutti uguali.
Un secondo aspetto riguarda l’etica: è possibile modificare artificialmente quello che dio ha predisposto nella sua infinita saggezza ? Poiché nessuno sa quale sia tale saggezza, la risposta ”si” o “no” a questa domanda resta aperta a qualsiasi opinione o credenza personale.
La “correzione” artificiale dei “difetti” delle piante e degli animali può essere ispirata anche a fini nobili: l’aumento delle rese agricole potrebbe contribuire a ridurre la fame nel mondo; la disponibilità di piante geneticamente modificate resistenti ai parassiti potrebbe far diminuire la richiesta di pesticidi e i conseguenti effetti negativi sugli ecosistemi; una maggiore resistenza dei prodotti agricoli al degrado nei processi di trasformazione e conservazione potrebbe facilitare il trasporto e la durata degli alimenti.
Alcune di queste correzioni sono possibili con delicate e costose tecniche – biotecnologiche, appunto – “inventate” negli ultimi venti anni e che consentono di “tagliare” dei pezzetti del patrimonio genetico che governa i caratteri delle cellule viventi, inserendoli nelle cellule di altre piante o animali. Queste operazioni richiedono grandi investimenti e possono essere fatte soltanto da industrie specializzate, in pratica dai grandi gruppi multinazionali dell’industria agroalimentare e chimica.
Per proteggere dai concorrenti i risultati di tali costose ricerche, le industrie che le hanno condotte li stanno brevettando: chi vuole sementi resistenti, per esempio, ad un certo parassita o ad un erbicida dannoso, deve acquistare la conoscenza delle rispettive procedure di manipolazione genetica da chi le ha realizzate per primo. E si è subito posto il problema se si può brevettare “la vita”, e se si può accettare che una impresa industriale diventi, di fatto, padrona esclusiva di conoscenze da cui potrebbe dipendere la vita di milioni di persone. C’è il rischio di un nuovo imperialismo biologico, per cui una società o uno stato potrebbero negare ad altri paesi la disponibilità di piante utili o di cure per alcune malattie ? Ancora una volta la risposta sconfina nel terreno dell’etica e comunque vengono alla mente altri tempi e altre persone, come i coniugi Curie che, un secolo fa, scoprirono l’esistenza del radio e le sue proprietà curative del cancro e si rifiutarono di brevettare questa loro scoperta. Un secolo dopo la ditta americana che ha analizzato il genoma umano “patteggia” la pubblicazione delle preziose informazioni a patto di tenerne segrete alcune, quelle “vendibili”.
Quali possono essere le conseguenze della produzione di piante transgeniche sull’ambiente, e dell’uso di organismi transgenici e dei loro derivati sulla salute umana? Cultori di etica e ambientalisti dicano pure la loro, ma il mercato risponde positivamente: si moltiplicano gli agricoltori che “comprano” sementi di piante transgeniche resistenti ai parassiti, e vendono i relativi raccolti. Le piante maggiormente coinvolte sono il mais, la soia, le patate, i pomodori, la colza, la barbabietola da zucchero, eccetera.
Per quanto riguarda l’ambiente, uno dei successi dell’ingegneria genetica consiste nel produrre piante resistenti ad un potente erbicida, il glifosato. Tale erbicida distrugge sia le piante indesiderabili, sia le stesse colture agricole, il che è scomodo; la Monsanto, la società produttrice, ha così incaricato gli scienziati di preparare delle varietà di soia, mais, eccetera, resistenti al glifosato. In questo modo la massiccia applicazione di glifosato distrugge bene le piante infestanti ma non disturba le coltivazioni delle altre piante di interesse commerciale, una volta che siano geneticamente modificate, per cui la società proprietaria dei brevetti può guadagnare sia vendendo “di più” il proprio erbicida, sia vendendo le sementi transgeniche; l’ “unico” inconveniente è che il glifosato, impiegato in dosi elevate, finisce nel terreno e nelle acque e resta nei vegetali destinati all’alimentazione umana.
Un altro esempio è offerto dal mais transgenico: nelle pratiche di agricoltura “biologica” alcuni parassiti vengono combattuti con la tossina presente in un batterio, il Bacillus thuringiensis, Bt, costoso e delicato da applicare. Un’altra delle operazioni biotecnologiche ha permesso di ottenere del mais che porta “dentro” il proprio patrimonio genetico, le proprietà pesticide del Bt; i parassiti non attaccano le piante, ma c’è il rischio che la tossina passi negli ecosistemi e negli alimenti.
È possibile che i nuovi caratteri acquisiti dalle piante geneticamente modificate, per esempio la resistenza ad alcuni antibiotici, vengano trasferiti agli organismi dei consumatori, siano esseri umani o altri organismi animali, al punto da rendere inefficace l’impiego di tali antibiotici nel caso di malattie ? L’uso alimentare di piante o di animali transgenici può avere effetti nocivi sulla salute delle persone ? dopo quanto tempo possono farsi sentire gli eventuali effetti nocivi ?
È in corso uno scontro di giganti fra le grandi compagnie agroalimentari e chimiche una parte e, dall’altra parte, le organizzazioni di difesa dell’ambiente e dei consumatori, con i governi e i parlamenti, nazionale ed europei, presi fra questi due fuochi.
Come è prevedibile, sono più forti e attrezzate le strutture che “vogliono” dimostrare l’assoluta innocuità degli ingredienti derivati da organismi transgenici. E’ la stessa situazione che ha impedito, per anni, di togliere dal commercio pesticidi come il DDT o i derivati dell’acido triclorofenossiacetico o gli oli alimentari contenenti acido erucico o di vietare gli ormoni nei mangimi: sono troppo pochi i laboratori che lavorano per la difesa dei cittadini, rispetto alla gran massa di laboratori e di “scienziati” impegnati a dimostrare che non c’era allora, e non c’è oggi, nessun pericolo per la salute.
Davanti comunque ad una crescente, giusta, domanda, da parte dei consumatori, di maggiore sicurezza, alcuni governi europei, in un primo tempo, hanno considerato l’ipotesi di vietare le importazioni, dagli Stati Uniti, di sementi di piante transgeniche, una azione che avrebbe danneggiato l’agricoltura americana e che si è dimostrata non praticabile anche perché talvolta i semi di soia o di mais transgenici rappresentano una frazione di poche unità percento su enormi partite di merce. Poi è stata avanzata la proposta di vietare la coltivazione di piante transgeniche in Europa, ma anche questa strada è stata rapidamente abbandonata davanti alle proteste degli agricoltori che hanno ben presto riconosciuto i vantaggi economici delle nuove coltivazioni.
I soggetti più importanti, ma anche più trascurati, i consumatori, rivendicano almeno il diritto di conoscere che cosa i loro alimenti contengono. I governi dei vari paesi discutono la possibilità di segnalare ai consumatori, con una etichetta, gli alimenti che contengono ingredienti derivati da prodotti transgenici e in questo caso il consumatore li sceglierà o eviterà sulla base di proprie considerazioni, di prezzo, di maggiore o minore convinzione della loro innocuità.
La presenza di semi di mais o di soia o di pomodoro, geneticamente modificati, nelle partite che entrano nei vari cicli produttivi agroindustriali è, entro certi limiti, riconoscibile; è possibile riconoscere la presenza di un seme transgenico anche fra mille o anche diecimila semi normali. I problemi si fanno più complicati quando si tratta di ricostruire la “storia naturale” dei derivati, per esempio delle farine, o della lecitina, o di un grasso, estratti da mais o soia transgenici e per ora i governi pensano di imporre l’etichettatura al più agli alimenti transgenici quando sono facilmente riconoscibili per via analitica, mentre sarebbero esenti da etichettatura i derivati di organismi transgenici quando sono “sostanzialmente equivalenti” ai loro omologhi tradizionali. Una definizione generica e abbastanza equivoca che esenta dalla etichettatura molti prodotti di cui al consumatore potrebbe comunque interessare di conoscere l’origine.
Ma se un alimento non porta alcuna indicazione, o addirittura se, come si comincia a fare, per motivi pubblicitari, un alimento è presentato come “esente” da derivati di organismi geneticamente modificati, quali garanzia ha il consumatore sull’origine dei vari ingredienti ?
In questa confusione e davanti a difficoltà anche analitiche che credibilità può avere l’affermazione che una merendina o una maionese o una conserva di pomodoro non contiene derivati di piante transgeniche, quando non si è in grado di garantire l’origine delle lecitine, dei grassi, delle farine, dell’amido, dei pomodori, dello zucchero, eccetera, presenti nei vari alimenti? Chi fabbrica dolciumi, paste, pane, alimenti in scatola, eccetera, acquista materie prime da produttori che a loro volta hanno trattato altre materie prime acquistate da altri ancora, che a loro volta hanno acquistato mais o soia o pomodori da agricoltori o importatori.
Per sventare le possibili frodi per i consumatori assume ancora maggiore importanza la disponibilità di metodi analitici in grado di svelare le modificazioni genetiche e di laboratori in grado di applicare tali metodi in modo affidabile e convincente; la svolta merceologica che stiamo vivendo offre quindi anche nuove occasioni di innovazione, di ricerca scientifica e di occupazione in settori di avanguardia.
E ritorna la domanda già fatta poco fa: come possono essere organizzate strutture pubbliche di controllo, che richiedono apparecchiature sofisticate e costose per analisi che richiedono tempo, specialisti e che sono anch’esse costose, quando i laboratori esistenti non riescono a sconfiggere neanche le frodi più banali, come la sofisticazione dell’olio di oliva con olio di nocciole ? E tre.
Domani?
Le storie di Profittopoli potrebbero continuare se solo ci si voltasse indietro qualche mese, qualche anno. Piante geneticamente modificate, i cui derivati entrano nelle merendine e nella polenta; abusivismo edilizio con conseguente erosione del suolo, frane e alluvioni; montagne di rifiuti; inquinamento delle acque; frodi alimentari e industriali; scorie radioattive sparse per l’Italia; importazioni di metalli radioattivi; incidenti nelle fabbriche, morti sul lavoro; navi che affondano con i loro carichi di petrolio e di sostanze tossiche – e poi scelte industriali imprevidenti e miopi, con devastanti conseguenze economiche e ambientali: incentivi a chi distrugge le automobili o i televisori per comprarne di nuovi e aumentare la massa dei rottami; benzine che prima sono verdi e poi si rivelano tossiche; le timidezze nelle campagne contro il fumo per non disturbare le multinazionali del tabacco e lo stesso stato venditore di veleni cancerogeni – è possibile andare avanti così, solo per non intralciare le leggi del libero mercato?
È possibile continuare con la divinizzazione della pubblicità, con una società nella quale “ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, nella quale con la massa degli oggetti cresce la sfera degli oggetti estranei ai quali l’uomo è soggiogato, nella quale la potenza del denaro sta in proporzione inversa alla massa della produzione per cui la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro” ?
Nessuna soluzione tecnico-scientifica sarà efficace se non si mette in discussione il meccanismo che alimenta i pochi episodi ricordati e tutti gli altri: la legge del profitto fine a se stesso. Profitto non destinato a fabbricare merci utili agli esseri umani, non destinato a far lavorare le persone, a liberare dalla povertà e dalla miseria gli abitanti dei paesi poveri e a liberare dall’alienazione gli abitanti dei paesi ricchi. Ma profitto fino a se stesso, come vogliono le regole del capitalismo, sempre più arrogante quanto più è globale, quanto più riesce a intossicare non solo il corpo ma la mente dei suoi adoratori, nel nord, nel sud, nell’est del mondo.