Nell’ex Caffaro di Brescia l’“università del disastro tecnologico”

Premessa

L’industria chimica Caffaro ha operato per oltre un secolo all’interno della città di Brescia, collocata a ridosso della preesistente scuola elementare del quartiere Fiumicello, a meno di un chilometro dal centro storico. Sorta per produrre soda caustica, negli anni Trenta ha avviato la sua trasformazione diventando prevalentemente produttrice di composti organici del cloro. In particolare, a partire dal 1938 e fino al 1984, è stato l’unico impianto a livello nazionale che ha prodotto i PCB, policlorobifenili, composti molto simili alle diossine e con proprietà tossicologiche analoghe, ritenuti dalla Iarc cancerogeni certi per l’uomo.

A partire dal 2001, con la pubblicazione di una ricerca sulla storia dell’azienda ((M. Ruzzenenti, Un secolo di cloro e… PCB. Storia delle industrie Caffaro di Brescia, Jaca Book, Milano 2001.)), si è scoperto che la Caffaro aveva inquinato una vasta porzione della città di Brescia, disperdendo in ambiente enormi quantità di PCB, diossine, mercurio, ma anche altre sostanze tossiche che rispecchiano la gamma produttiva della fabbrica nel corso del secolo. Dal 2002 l’area è diventata sito inquinato di interesse nazionale: sono state compiute numerose indagini; i terreni sono stati interdetti ad ogni uso al fine di interrompere la catena alimentare che aveva contaminato la popolazione; si è parlato di “bonifica”…((Per approfondimenti sull’intera vicenda si veda: http://www.ambientebrescia.it/Caffaro.html))

Nel 2009 la Caffaro, che nel frattempo era stata inglobata nella Snia, fallisce. Nello stabilimento di Brescia un imprenditore chimico rileva i marchi dei pochi prodotti ancora correnti (composti inorganici del cloro, soprattutto destinati alla sanificazione delle acque) e prende in affitto i relativi impianti.

A breve, uno – due anni, è prevedibile la totale dismissione della fabbrica, per diverse ragioni, non ultima per gli oneri che l’azienda attualmente attiva deve sostenere per la tenuta in sicurezza della falda (pompaggio e depurazione di ingenti quantità di acqua).

Che fare del “contenitore Caffaro”?

La città di Brescia, dunque, si ritroverà con un grande problema da gestire, sia per i complessi interventi necessari per la messa in sicurezza definitiva del sito industriale, sia per il futuro di questa area di oltre 100 mila metri quadrati collocata dentro la città.

Per alcuni mesi a Brescia si è parlato di un nuovo progetto per il sito industriale, che sarebbe stato finanziato dall’industria di prodotti biomedicali, Sorin, a suo tempo, 5 gennaio 2004, scissa dalla Snia Caffaro, con l’intento di liberarla dal peso di un settore chimico, Caffaro, in crisi e soprattutto oberato da ingenti oneri potenziali di bonifica. La stampa, a proposito di questo progetto che ad oggi non è dato di conoscere, ipotizzava l’abbattimento della fabbrica, l’asportazione del terreno inquinato ed il ripristino con la trasformazione del sito in parco pubblico ((N. Fatolahzhadeh, Loggia: giù la Caffaro, al suo posto un parco, “Giornale di Brescia”, 10 marzo 2015; P. Gorlani, L’offerta Sorin: un parco nella Caffaro, “Corriere della Sera – Brescia”, 9 aprile 2015)).

Rispetto a questa ipotesi di totale azzeramento della fabbrica, La Fondazione Luigi Micheletti ed il Museo dell’industria e del lavoro di Brescia hanno avanzato all’amministrazione comunale di Brescia alcune osservazioni critiche: pur condividendo l’urgenza e la necessità di un intervento organico di messa in sicurezza definitiva del sito, ritengono che la storia della Caffaro non può essere del tutto azzerata e men che meno negata, perché, nel bene e nel male, è una parte molto importante della storia della chimica in Italia.Una storia straordinariamente interessante, che ha a che fare con la problematicità intrinseca all’innovazione scientifica e tecnologica: da un canto importanti ed essenziali progressi nel miglioramento delle condizioni di vita, dall’altro ricadute impreviste e non desiderabili sulla qualità dell’ambiente e della salute.

Per questo va conservato l’ archivio aziendale, che si trova all’interno del sito e che è stato sommariamente inventariato dall’Archivio storico Fiat, nel giugno 1991, anni in cui Snia Caffaro orbitava nella galassia Fiat. Nel contempo alcuni edifici, per il loro valore intrinseco e per il loro significato, possono e debbono essere sottratti al puro e semplice abbattimento, in linea con la tradizione migliore della cultura di questo Paese. In particolare va salvata tutta l’area in muratura, degli uffici, della direzione, dei laboratori, trattandosi di edifici industriali di qualche pregio architettonico, ed inoltre, va recuperato l’attiguo impianto del cloro-soda, il cuore industriale della Caffaro. L’operazione potrebbe essere facilitata dalla collocazione ravvicinata degli edifici: si manterrebbe l’ingresso storico, da anni disattivato, di via Milano, e si isolerebbe una sorta di rettangolo nell’area centro nord dell’attuale perimetro industriale, destinando il resto a parco pubblico.

L’obiezione che molti avanzeranno ad una simile ipotesi è scontata e prevedibile: facciamo l’ennesimo Museo, con faldoni e impianti destinati a riempirsi di polvere e con costi per l’erario!

Notizie dell’ultima ora, in realtà, depotenziano oggettivamente una simile obiezione: infatti, l’ipotesi di accordo con Sorin sarebbe saltata annullando la prospettiva del parco pubblico; anzi con la stessa Sorin e con gli altri attori dell’ex Snia- Caffaro si è aperto un duro contenzioso dagli esiti alquanto incerti((http://www.ambientebrescia.it/CaffaroBonifica2015MinistroGalletti.pdf)).

Il Ministro dell’ambiente Galletti suggerisce, ora, di utilizzare Fondi europei, visto che il Governo per le bonifiche dei siti inquinati non intenderebbe mettere un euro.

A Torviscosa, altro sito inquinato dell’ex Snia Caffaro, il Comune ha saputo elaborare un progetto che ha ottenuto un finanziamento europeo, La città dell’autarchia e della cellulosa, facendo leva sulla storia di quella cittadina operaia sorta negli anni Trenta del secolo scorso appunto per produrre il filato “nazionale” di qualità, la “seta artificiale” detta rayon, derivata chimicamente dalla cellulosa estratta dalla canna palustre((http://www.comune.torviscosa.ud.it/Il-progetto-Citta-dell-autarc.36465.0.html)).

Ebbene, a maggior ragione il sito Caffaro si presta per un progetto che offra uno prospettiva resiliente alla necessaria preliminare opera di messa in sicurezza definitiva ed alla successiva azione conservativa dell’archivio e delle parti più significative del contenitore industriale, così come sopra ipotizzato.

L’università del disastro

Probabilmente un museo che si limiti a conservare la memoria del passato, nel sito industriale Caffaro, di per sé non giustificherebbe l’importante investimento necessario per la bonifica.

Dunque, bisogna pensare ad una struttura che si proietti nel futuro e che produca ricerca ed innovazione.

Qual è il tratto distintivo e caratterizzante del “caso Caffaro”? Una straordinaria invenzione della ricerca chimica di inizi Novecento, i PCB, dalle portentose applicazioni tecnologiche e commerciali che si sarebbe rivelata, quando ormai la dispersione nell’intero Pianeta è stata massiccia e ubiquitaria, come un piaga pestifera per l’ambiente e la salute umana di lunghissima durata e difficilmente rimediabile. Eppure fin dall’inizio, nel 1937 prima che iniziasse la produzione in Italia, si conosceva la tossicità del prodotto.

Insomma un caso esemplare di “lezioni apprese in ritardo da allarmi precoci”((AA. VV., Late lessons from early warnings: the precautionary principle 1896-2000, European Environment Agency, 2001; AA. VV., Late lessons from early warnings: science, precaution, innovation, European Environment Agency, 2013.)), ovvero un caso esemplare del fatto che l’innovazione tecnologica contiene in sé intrinsecamente e potenzialmente il “disastro”, la “catastrofe”.

Una nuova concezione della “potenza” ambivalente dell’attuale tecno-scienza

Usiamo questi termini forti , mutuandoli da due filosofi e sociologi francesi, Virilio((P. Virilio, L’università del disastro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.)) e Dupuy ((J.-P. Dupuy, Per un catastrofismo illuminato, Medusa, Milano 2011.)), che hanno a lungo ed in profondità riflettuto su questo tema cruciale della modernità, sviluppando e in certo modo andando oltre le fondamentali intuizioni di Jonas sul principio responsabilità ((H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la società tecnologica, Einaudi, Torino1990.)) da cui deriva il principio di precauzione, oggi pacificamente accolto.

Virilio pone l’accento sulla dismisura dell’attuale “big science” e sui suoi possibili esiti autodistruttivi. «Stato suicida di una scienza incosciente, giunta a uno stadio in cui l’ECOLOGIA DELLA RAGIONE e la sua filosofia cedono il posto all’ESCATOLOGIA di una filofollia come era stata auspicata nel secolo scorso, ad Auschwitz come a Hiroshima o a Nagasaki. All’inizio del terzo millennio come non comprendere, insomma, che l’esemplare riuscite delle scienze dell’umanità – queste scienze oggi così arroganti – porta fatalmente all’incoscienza dell’inumanità che non è stata sanzionata a Norimberga, ma che lo sarà domani dai suoi successi catastrofici, dall’ampia portata delle sue prestazioni “estremiste”?»((P. Virilio, op. cit., p. 27.)). A sorreggere questa corsa verso “l’accidente integrale” vi sarebbe, quello che Virilio chiama l’oscurantismo progressista, ovvero voler non sapere più ciò che è risaputo, negazionismo postmoderno ancor più radicale di quello dell’evidenza dei campi di sterminio che portò alla Shoah.

In sostanza la velocità dei “progressi” tecnico-scientifici e le sconfinate potenzialità degli stessi di modificare profondamente e persino distruggere le basi della vita sul Pianeta rendono plausibile l’accidente integrale. A maggior ragione perché questa BIG SCIENCE è proiettata in permanenza in “una fuga in avanti che non si preoccupa affatto di tener conto di ciò che si lascia dietro, del suo enorme deficit etico e filosofico”((Ivi, p. 120.)). Quindi, conclude Virilio, “l’universalità del disastro contemporaneo comporta necessariamente l’immediata rifondazione dell’Università, una sorta di ospedale generale della scienza e delle sue tecniche che dovrebbe cercare, per quanto possibile, di affrontare quell’accidente delle conoscenze che non dipende tanto dagli errori e dai fallimenti, quanto dalla spettacolare riuscita delle tecno-scienze della materia e della vita”. Dunque una sorta di ospizio della scienza “questa UNIVERSITÀ DEL DISASTRO che costituirebbe l’indispensabile MEA CULPA ormai necessario alla credibilità di un sapere che sta per diventare del tutto suicida”. E Virilo esemplifica che cosa concretamente andrebbe fatto, segnalando un’iniziativa dell’École des Mines di cui torneremo a parlare più in dettaglio: «Di fronte a tale situazione di emergenza geopolitica, e in attesa di fondare un’ Università del disastro compiuto o un Museo dell’Accidente, l’École des Mines di Parigi ha appena istituito un dottorato di “Scienze e genio delle attività a rischio”.»((Ivi, p. 125.)).

La riflessione di Dupuy è forse ancor più radicale. Parte anche lui dalla constatazione che l’attuale tecno-scienza “provoca l’estensione smisurata del potere degli uomini sul mondo”((J.-P. Dupuy, op. cit., p. 11.)): in altri termini “è quello che risulta da un eccesso di potenza, più precisamente dall’impotenza a dominare la potenza”. Anche perché, di fronte alla catastrofe possibile, “si sa, ma non si crede”, per cui la stessa “non è credibile”. E qui Depuy è in linea con Virilio. Ma poi si spinge a criticare alla radice il “principio di precauzione” che da alcuni decenni si è pacificamente affermato, analogamente all’altra idea guida della postmodernità, lo “sviluppo sostenibile”((Per la critica puntuale a questo ossimoro si rinvia alla vasta produzione saggistica di Serge Latouche.)). Il principio di precauzione si fisserebbe come obiettivo il “rischio zero”, alimentando così l’illusione che vi possa essere una tecnologia assolutamente sicura. D’altro canto «imporrebbe il “rovesciamento dell’onere della prova”: vale a dire toccherebbe all’innovatore provare l’innocuità del suo prodotto, e non a quelli che potrebbero esserne le vittime, di provare la sua nocività. Ora il “rischio zero” è un ideale impossibile e paralizzante; dal momento che si è in un universo di “controversia scientifica”, non vi è uno scenario del peggio determinato in maniera univoca: questo concetto è dunque evanescente; dal momento che si è, per ipotesi, in un universo incerto, l’innocuità è impossibile da provare» ((J.-P. Dupuy, op. cit., p 73.)). Del resto la stessa legislazione ambientale più avveduta è viziata dall’incapacità di valere retroattivamente, per cui agisce solo perseguendo i danni che al momento dell’emanazione sono conoscibili e riconoscibili. Interviene, cioè, dopo che il danno è stato provocato e solo se quel danno è stato dalla stessa legislazione contemplato. Ovvero la “catastrofe” la riconosciamo solo quando è già avvenuta.

Dunque, secondo Dupuy, è più razionale affidarsi all’euristica della paura. dunque, per superare quell’ostacolo logico intrinseco al principio di precauzione, «occorre inserire la catastrofe nell’avvenire in un modo molto più radicale. Occorre renderla ineluttabile. È rigorosamente quello che si potrà dire allorquando agiamo per prevenirla nel ricordo che abbiamo di essa» ((Ivi, p. 139.)). Un ricordo in questo caso paradossale, perché deve essere il ricordo di un futuro possibile. Un’attitudine in qualche modo simile alla saudade brasiliana, che non è nostalgia di un passato, ma di un futuro possibile che non è stato.

Da qui la suggestiva proposta, che si colloca su un terreno etico e filosofico, del “catastrofismo illuminato”, come atteggiamento razionale per affrontare la potenza smisurata e distruttiva oltre ogni limite dell’attuale tecno-scienza. Dupuy, in conclusione, ne propone alcune definizioni: «ottenere un’immagine del futuro sufficientemente catastrofista perché fosse ripugnante e sufficientemente credibile per promuovere le azioni che ne avrebbero impedito la realizzazione, salvo un accidente»((Ivi, p. 179.)), perché «quello che ha delle possibilità di salvarci è ciò stesso che ci minaccia. […] Sappiamo ormai che siamo imbarcati, con a bordo, una bomba a scoppio ritardato. Non spetta che a noi che la sua esplosione, iscritta come una fatalità poco probabile, non si produca. Siamo condannati alla vigilanza permanente»((Ivi, p. 180.)). «Il catastrofismo illuminato consiste nel pensare la continuazione dell’esperienza umana come risultante della negazione di un’autodistruzione – un’autodistruzione che sarebbe come iscritta nel suo avvenire irrigidito in destino. Con la speranza, come scrive Borges, che questo avvenire, sebbene ineluttabile, non abbia luogo» ((Ivi, p. 181.))

Un progetto possibile

Ora, all’interno della cornice teorica sopra delineata, si tratta di delineare una bozza di progetto per il sito Caffaro.

Il modello, certamente inattingibile nella sua complessità e dimensione, potrebbe essere il Dasa di Dortmund, il grande museo e centro di ricerca sul lavoro, sulle sue condizioni, sui rischi professionali((https://www.dasa-dortmund.de/)).

Nel nostro caso si dovrebbero prevedere due settori:

uno museale che ruota attorno al caso del PCB della Caffaro, il cui nucleo di documentazione cartacea sarebbe costituito dall’archivio aziendale mentre quello dei reperti materiali dall’impianto del cloro-soda. Attorno a questo nucleo, si potrebbe costruire un archivio virtuale delle principali catastrofi tecnologiche avvenute sul Pianeta. Ovviamente questo settore diverrebbe una sezione del Museo dell’industria e del lavoro.

Un secondo settore si dovrebbe invece dedicare alla ricerca, studiando in particolare gli incidenti avvenuti e quelli potenziali delle diverse innovazioni, per offrire al sistema delle imprese soluzioni sempre più efficaci per prevenire l’incidente. Qualcosa di simile all’ Università del disastro perorata da Virilio. In questo caso vi sarebbero già esperienze importanti con cui confrontarsi ed interagire.

Innanzitutto il già citato Centro di recerca sui rischi e le crisi (CRC) dell’École des Mines di Parigi : esso «ha per missione di contribuire alla formalizzazione e all’unificazione dei saperi offrendoli alle organizzazioni (e più in particolare alle imprese) con l’obiettivo di ridurre le loro vulnerabilità e accrescere le loro capacità di resilienza di fronte a degli eventi particolarmente perturbatori e dannosi (incidente tecnologico maggiore, inciedente del lavoro, malattia professionale, imprevedibili fattori naturali e ambientali, rischi di progetto, rischi operativi…)((http://www.mines-paristech.fr/Rapport-activite/2013/#30; http://www.mines-paristech.fr/Ecole)).

Un riferimento a livello internazionale è inoltre il Chemical Safety Board, Comitato per la sicurezza chimica degli Stati Uniti, autorizzato dall’Emendamentio Clean Air Act del 1990 ed è diventato operativo nel gennaio 1998. “Il ruolo principale del nuovo centro di ricerca sulla sicurezza chimica è quello di indagare gli incidenti per determinare le condizioni e le circostanze che hanno portato alla loro manifestazione e per identificare la causa o le cause in modo che simili eventi possano essere prevenuti ” ((http://www.csb.gov/)).

A livello nazionale una collaborazione imprescindibile va attivata con il Liceo scientifico e istituto tecnico-chimico “Giulio Natta” di Bergamo e con lo straordinario lavoro che vi sviluppa da anni il professore Giuseppe Poeta Paccati, con il progetto di ricerca Learning By Accidents ((http://www.nattabg.gov.it/educazione-sicurezza-ambiente/)). Qui si è costituita in nuce ed è già operativa una possibile Università del disastro.

Ovviamente non si può prescindere da un rapporto con l’università di Brescia e con il sistema delle imprese, ed in particolare con quei Centri di ricerca che già sono operativi in questo campo come l’Innovhub – Stazioni Sperimentali per l’industria (SSi) di Milano Questa struttura, “nata nel 2011 a seguito dell’accorpamento di Innovhub (Azienda Speciale della Camera di Commercio di Milano per l’innovazione) con le quattro Stazioni Sperimentali per l’Industria dell’area milanese, opera come centro di promozione dell’innovazione, dello sviluppo scientifico e tecnologico a sostegno del tessuto economico e della pubblica amministrazione e si configura come centro di ricerca dedicato alle esigenze delle imprese dei settori contribuenti afferenti alle industrie tessili, cartarie, dei combustibili, degli oli e dei grassi”((http://www.innovhub-ssi.it/)).

Del resto non c’è dubbio che oggi la qualità di un prodotto è sempre più legata alla sicurezza dello stesso, alle sue caratteristiche “ecologiche” intese in senso lato (minor uso possibile di risorse, tendenzialmente rinnovabili; processi produttivi rispettosi della sicurezza e dignità del lavoratore, ma anche dell’ambiente naturale ed umano circostante; contenimento e controllo della potenziale tossicità/pericolosità del prodotto stesso sia per il consumatore che per l’ambiente…). Ed il nostro Paese ricaverebbe grande giovamento dall’innovazione e dalla ricerca in questo campo.

Brescia, 1 agosto 2015